Le
linee di John, a dispetto del suo portamento militare, sono molto
aggraziate.
Ha occhi chiari e intensi, diretti, specchio della sua schiettezza,
della sua
moralità, del suo esistere limpido. Sono difficili da
rendere con questa penna
tanto nera. Orecchie appena sporgenti, proporzionate rispetto alle
dimensioni
del volto. Labbra sottili, semplici da disegnare, naso che credo si
definisca
“a patata”, nel linguaggio comune –
perché poi si chiama così? John. Ti ho
raffigurato con un’espressione seria, corrucciata,
– ecco, aggiungo due segni tra
le sopracciglia – la stessa che hai quando sei concentrato
sul tuo blog, su un
passaggio particolarmente difficile di un caso, o quando ripensi al
passato,
all’Afghanistan, seduto nella poltrona di fronte alla mia,
mentre io muovo con
rabbia l’archetto del violino, e sono saturo, sporco di
accidia. Tu mi guardi
ma non mi vedi, io lo so e taccio, o fingo di non saperlo e continuo a
riempirti di parole sciocche, vuote, indispensabili per sopravvivere. Come puoi saperlo, Sherlock? Lo so e
basta, John, l’ho sempre saputo.
Quando
distendi la bocca ti compaiono delle fossette agli angoli delle labbra,
incantevolmente puerili. Non ci ho fatto spesso caso, ma quando me ne
sono reso
conto sono rimasto folgorato: le linee del volto si spianano, i tuoi
occhi si
ingrandiscono, sembri più sereno, più forte, come
se i demoni fossero silenti e
tu fossi soltanto tu. Ridi in maniera aperta, spontanea, contagiosa,
irresistibile.
John,
nonostante mi piaccia il tuo sorriso, la cordialità della
tua espressione
quando il tuo tono dell’umore è maggiormente
elevato, quando accogli un cliente
o la tua nuova ragazza, quando dormi per otto ore di fila e ti
sgranchisci
scrutando divertito il mio patetico, frenetico arrancare dietro i mille
pensieri che affollano la mia mente dopo una notte insonne trascorsa
dietro il
microscopio, nonostante mi intenerisca il delicato rispetto con cui ti
rivolgi
a Mrs. Hudson, è nel tormento del tuo volto segnato che
ritrovo il vero John,
il John primordiale, vulnerabile, il John simile a me, pronto a saltare
giù
dalla poltrona e a seguirmi ovunque. Devo confessartelo, anche se sto
parlando
ad un foglio, devo dirtelo, in qualche modo, fartelo sapere.
Il
tuo collo è semplice da disegnare. Forse ogni collo lo
è: due linee morbide,
snelle, uno spazio solcato dalle pieghe del muscolo
sternocleidomastoideo. Una
zona vulnerabile, esposta a qualsiasi pericolo. Il tuo collo mi
spaventa, John,
mi spaventa e mi attrae, perché è sul collo che
affiora con maggiore chiarezza
il polso carotideo, segno vitale indispensabile, l’ultimo a
scomparire in condizioni
di gravità tali da avvicinare il paziente alla morte.
Ho
immaginato di toccare il tuo collo, John, premere la pelle delicata,
sentire la
vita parlarmi, rispondermi attraverso i tessuti e le cellule. Questo
pensiero
diffonde una tranquillità benefica nelle mie vene esauste.
Altre volte,
suggestionato dal mio stesso orrore, ho temuto di accompagnare il tuo
battito
con le mie dita, prigioniero della mia stessa aura di impotenza, sino a
sentirlo affievolirsi, sino a sentirlo dileguarsi… mentre mi
comprimevi il
polso con una forza bruta, disperata, sconosciuta, oggi, e supplicavi
che non stesse
accadendo davvero, ho rivisto con lucida chiarezza quella scena dipinta
dalle
pennellate del mio masochismo, immaginando il tuo dolore, immaginando
il dolore
che avrei provato io, e ho lottato per
non gridare. John, potrai mai perdonarmi?
Ma
ecco le spalle… le tue clavicole sottili e affusolate. Sai,
John, pur
possedendo una fioritura di muscoli tonificati
dall’attività fisica, le tue
braccia appaiono esili. Sono sicuro abbiano ingannato molte donne. La
mia penna
corre, corre, insegue delle linee proporzionate, gradevoli, come se
stesse
ritraendo il frutto di qualche fantasia recondita, inestimabile, e
invece sei
tu, John, reale come il polso carotideo, come il sangue che palpita
nelle vene,
come le tue dita armoniose, curate, dalle chiare unghie
rotonde…
Il
tuo petto, John, è ampio, oltremodo rassicurante. Il tuo
torso sembra una
dichiarazione intima, troppo imponente perché si possa
celare sotto gli abiti:
lì dove emergono i grandi muscoli pettorali, ciascuno orlato
da un capezzolo
rosato, dove si fa strada l’addome liscio, interrotto solo in
un punto dalla
cavità ombelicale, è lì che si annida
il tuo vero io, l’io di ognuno di noi. Non
siamo che una continuità di tessuti, di pori, di bulbi e
fibre, ma la tua
continuità, John, per qualche impensabile
ragione, è per me più amabile, più
armoniosa, più meritevole e degna di quella
di molti altri.
Devo
fermarmi. Raccogliere le tempie tra le mani. Ti osservo, per un attimo,
sbozzato dalla mia mediocrità, come un pulcino senza piume,
rassomigliante alla
categoria, ma non del tutto al vero se stesso: sono un pessimo
disegnatore.
Ciononostante, John, rincorrere i tuoi dettagli, fermarli sulla
carta… come se
ti avessi scattato più fotografie, come se avessi
estrapolato le mie immagini
mentali di te che cammini, che riposi, che esci dalla doccia, che giaci
sulla
poltrona con il computer in grembo… riconoscere la trama
della tua pelle, della
peluria chiara che fiorisce sulle braccia, sulle gambe, ripercorrere il
passaggio delle tue linee, delle scanalature… è
stato come incarnarti in me,
incarnarmi in te. Un atto talmente remoto e impensabile da
sorprendermi, da
appagarmi, eppure da non lasciarmi ancora saziato, contorto e
rattrappito come
sono nella mia miserabile solitudine.
Ancora,
come sempre e per
sempre, la mia più profonda gratitudine va a chi legge e a
chi recensisce, in
particolar modo a emerenziano, che riesce sempre a cogliere il
significato più
profondo (e che a volte sfugge persino a me stessa) di quanto scrivo, a
Paranoicasociale e a Ayreon: mi inorgoglisce sapere che le follie generate dal mio cervellino instabile riescano a fare breccia nel cuore di qualcuno. Spero di non deludervi, alla prossima!
Denirose
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