high end of hell [wincest]
High End of Hell
- 958 words -
L’Inferno non è uno strusciare di catene su un pavimento sporco.
Dean suona Hey Jude, quella
che gli canticchiava mamma, la fronte piegata sull’avambraccio e
lì accanto un bicchiere di scotch. Sente distrattamente un
fracasso di colpi a una parete di distanza, poi il silenzio, poi i
passi di suo fratello, il respiro
di suo fratello, come se gli stesse soffiando direttamente sulla pelle
del collo. Sente persino il suo sguardo, senza bisogno di incrociargli
gli occhi – quel misto di gravità e terrore e sospiri
affranti da buon samaritano che rendono Sam Sam e Dio (Dio, poi…), come deve scoppiargli nel petto quel suo piccolo cuore perbene…a Dean viene quasi da ridere.
Sammy, Sammy, pensa, e forse
lo dice davvero. Alla fine si decide a guardarlo, quel fratello grande
e grosso come un alce, con le spalle ben piazzate e gli insulsi
capelli, un accenno di barba sulla linea della mascella, stretta
– come la sua -, e si ricorda di quando era solo un moccioso
troppo alto, sproporzionato, le gambe pallide e infinite come quelle di
una ragazza che gli si arrotolavano attorno ai fianchi, gli Stavolta vinco io
e poi lui che gli piombava sul bacino; non era più piccolo
Sammy, adesso, non era più piccolo da un pezzo, dagli addominali
a petto nudo nella squallida anticamera dei motel, da quei muscoli che
guizzavano e si flettevano e avrebbero potuto stritolare il topo come
un pitone, avvolgergli le mani attorno alla gola e sbatterlo più
a fondo, senza alcuna pietà…forse qualcosa gli si
è incupito agli angoli degli occhi mentre lo fissa e macina quei
pensieri, perché Sam ha un fremito, e Dean divarica le gambe per
un istante e si liscia le pieghe dei pantaloni lungo le cosce. Aspetta,
ma lo sa che quel suo stupido fratello non si muoverà, non gli
farà certo del male più del necessario, e nonostante
ciò ci spera un poco, solo un poco, un brevissimo istante, fra
le labbra, prima che Sam si avvicini, che inizino le belle parole e
quelle meno belle, le cose scontate da dirsi e quelle da tacere, prima
del bruciore dell’ago sopra e dentro la pelle,
dell’affluire del sangue nelle vene e della vampata di calore che
lo investe, bruciante e terribile.
Dopo si risveglia nel bunker
che è tutto pronto e impacchettato e legato a quella sedia a cui
gli altri li avevano legati loro,
in passato, il torpore di quella droga fastidiosa ancora un po’
in circolo, ancora attorno alle tempie, la rabbia da demone che gli
ingolfa le viscere e gli ruggisce in gola. Dà uno scossone agli
armeggi di corda, si dimena, guarda Sam: lui è sempre lì,
sopra di lui, severo e addolorato nemmeno fosse suo padre,
a soprintendere alla punizione del bambino cattivo, e gli scappa da
ridere di nuovo, perché tutta quella situazione è
assurda, è una pantomima farsesca e lui vorrebbe vederlo
crollare, guardami, ascoltami,
la sua attenzione su di lui è peggio che assuefazione; non era
questo quello che aveva sempre desiderato, essere il centro del mondo
di quel bastardo che a vent’anni li pianta in asso per
“costruirsi un futuro”, con le labbra ancora sporche del
latte che Dean
gli versava? Oh, ora va bene, tenuto insieme da quei legacci
ruvidi come la meno esigente delle puttane, una bestia nel cuore che si
arrovella sulla giugulare di Sam impazzita, neanche fosse un vampiro;
devono solo provarci
a piazzargli davanti agli occhi le alternative più allettanti,
quello che potrebbe essere e che potrebbe fare, devono solo
offrirgliene uno squarcio di
quella perdizione che disse qualcuno perché lui ci si tuffi di
testa, perché, davvero, gli occhi non ti si tingono di nero se
un po’ non te lo sei meritato, l’abisso non si apre se la
soglia non è già dischiusa, l’Inferno, in fin dei
conti, non è uno strusciare di catene su un pavimento sporco, ma
la schiena troppo pallida di un ragazzo di quindici anni, Hey Jude;
ma che dice, loro nemmeno l’hanno avuta, una madre, e se
l’hanno avuta se la ricordano a malapena e comunque non importa,
perché Dean il male ce l’ha nel sangue, lo ha sempre
represso e lo ha sempre saputo, e ora ride e si sganascia come un pazzo
su quella sedia delle torture e sì, torturami, ché i freni inibitori sono prerogativa degli idioti e dei vigliacchi; che ti farei,
mentre si sporge verso di lui e gli inietta un’altra dose di
sangue nelle vene, mentre lui ride e grida, ride e soffre, ma non della
sofferenza preconfezionata che ti aspetti, perché ogni affondo
dell’ago è lontananza, bisogno e disperazione, e Dean
potrebbe impazzire e morirne, se solo non fosse già morto. Sam
gli prende il viso fra le mani e stringe, gli inerpica le falangi nei
capelli e cerca l’eroe che lui non è mai stato;
“sono questo, sono questo Sammy” vorrebbe gridargli Dean,
il Dean che ha pianto come un idiota tutta la notte e tutte le notti
dopo Stanford e sulla propria dialettica affettiva ha lasciato calare
un velo pietoso, perché non sono le morti che gli pesano sulla
coscienza, giuste o sbagliate, evitabili o necessarie, ma quel fottuto
bisogno di averlo e averlo e sempre e sempre suo,
con le mani bloccate preme con la fronte su quella dell’altro e
sente che o è così o tutto svanisce, che deve averlo
lì, fisico, a portata di tocco, che vorrebbe strattonarlo per la
camicia e incidergli sulla pelle quanto lo vuole e vuole essere voluto,
a pugni, a graffi, a morsi, che non è nient’altri se non
il demone-ombra di se stesso e che non esiste, se non esiste prima Sam.
Questo è l’Inferno. Questo è l’Inferno e lo è sempre stato.
Note
Chi mi conosce sa che ormai sono
entrata nel periodo Supernatural e che, dunque, ogni speranza è
perduta. Ci tenevo a scrivere qualcosa su questa meravigliosa epopea
che ritengo essere tutto fuorché una 'semplice' serie TV, ricca
di spunti di riflessione, emotività, ispirazioni più o
meno conturbanti. I germi del sopraccitato qualcosa
si aggiravano per la mia testa da molto tempo, anche se mai avrei
pensato che avrei cominciato (sì, perchè spero sia solo
l'inizio) dalla Wincest (perchè questo è Wincest)
: piuttosto fantasticavo su ipotetici scenari Destiel, ma, si sa,
quando finalmente arriva il momento giusto per mettere nero su bianco i
pensieri - e che momento magico, soprattutto quando se ne sente
enormemente la mancanza - ,poco reggono i piani, e dunque eccomi qui.
Ieri sera parlavo con una gentile donzella di ciò che pensavo
del Deanmon - con buona licenza poetica/da fan, ma tant'è - ,
cioè della repressione di impulsi pre-esistenti che la mia mente
un po' contorta vedeva nel suo atteggiamento nei confronti del
fratello, e, riallacciandomi in qualche modo ad un discorso affine a
questo e che sempre sugli 'impulsi' era centrato (per il quale
ringrazio sempre la stessa persona, cui immagino, a questo punto, di
dover dedicare questa piccola cosa) , la mia mente ha alquanto poco
elegantemente - giudicate voi - partorito questo stralcio. Lo stile
è voluto, spero riusciate a seguirlo con lo stesso ritmo
incalzante con cui io l'ho concepito, non sono convintissima del finale
ma in qualche modo dovevo stoppare, o sarei andata avanti per millenni
senza concludere nulla. Non preoccupatevi, poi, se l'incontro fra Sam e
Dean non è accuratissimo: è voluto anche quello. Ora
scappo, prima che le note diventino più lunghe della fic.
Parzialmente ancora persa nei suoi deliri (che stavolta però si tiene per sé),
Maeve.
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