Ricordi di un grande futuro
Ricordi di un grande futuro
Di MaxT
La vecchia Moskovich nera arranca sulla stradina in mezzo ad una campagna
candida, immobile sotto una coltre di neve.
Alla guida dell’automobile, un uomo asciutto getta una rapida occhiata
interrogativa alla donna minuta seduta accanto, che rilegge l’ultima riga
di un foglietto di appunti.
“Ecco, Lev, credo che siamo arrivati”, dice allegramente Valentina.
“Quella dev’essere la nuova dacia di Anastasiya ed Evgeniy”.
Mentre si avvicinano, il puntino scuro in fondo alla via si delinea
sempre più come una bella casetta isolata, con il suo filo di fumo
che screzia il cielo terso.
A Leonid la casa sembra bella e grande, quasi lussuosa, come
quelle che, fino a pochi anni prima, lo Stato metteva a disposizione dei
membri influenti del partito. Gli fa male pensare che un privato abbia
potuto comprarsi una dacia così in tempi in cui la paga di un colonnello
dell’aeronautica non basta per un cappotto nuovo, e lo stipendio di ingegnere
aerospaziale di sua moglie, altrettanto inadeguato, è anche in ritardo
di due mesi. “Tua sorella Anastasiya ha sposato un individuo che sa cavarsela
bene. E pensare che, fino a pochi anni fa, era un impiegatuccio chiacchierone
senza prospettive”.
Lei lo riguarda con i suoi occhi azzurro ghiaccio: non le sono sfuggiti
certi sottintesi. “Lev, sai che la penso come te. Ma ricorda che giorno
è oggi: il sei gennaio. Perciò, cerca di non scambiare frecciatine
con Evgeniy proprio alla vigilia di Natale”.
“Ci proverò”, esala. “Ma sappi che lo faccio per te e tua sorella”.
“E per i nipoti, non è vero? Lo sai che ti adorano”.
“Mmh… Marija ha la lingua tagliente”.
“E’ l’età, brontolone! Avere diciassette anni, in un mondo che
cambia così velocemente, non è facile”.
“Averne cinquantasei lo è ancora meno”.
Il soggiorno è riscaldato dalla fiamma scoppiettante di un caminetto
acceso; il canticchiare allegro di una donna si mescola ai rumori della
cucina.
Nel soggiorno, una tavola è già apparecchiata per sette,
mentre, sull’altro lato della stanza, un divano a fiori e due poltrone
sono raccolti attorno ad un tavolino basso di legno, sul quale troneggia
un grande samovar di rame. Un albero di Natale addobbato e un televisore
su un mobiletto riempiono due angoli della stanza.
La ragazza arriva dal corridoio delle camere, speranzosa. “Mamma, ne
abbiamo altre così?”, e mostra tre batterie a stilo.
Anastasiya esce dalla cucina. E’ una donna bionda sui quarantacinque
anni, con i lineamenti delicati e gli occhi azzurri di famiglia su un viso
roseo e florido. “Forse nel tuo walkman nuovo”.
“Ma sono queste! Già esaurite!”, protesta Marija, “Dovrò
passare il Natale in campagna senza un filo di musica?!?”.
“Astinenza da rock? Prova a telefonare a tuo papà. E’ in ufficio,
anche stamattina”.
“Già provato. Non prende la linea”. Lo sguardo imbronciato di
Marija cade poi sulla tavola apparecchiata. “Mamma, dovevi proprio mettere
quella tovaglia? Sembra una schifosissima bandiera rossa!”.
“Marija, il rosso è bello!”, la rimprovera la madre, “E poi,
attenta a come parli: lo sai che gli zii ci resterebbero male”.
La ragazza sbuffa. “Quelli sono restati con la testa all’era di Breznev.
Scommetto che lo zio arriverà col padellone in testa e le medaglie…”.
“Ma non dicevi anche tu che sta benissimo in divisa?”.
“Ma non quando comincia a sbottare che qualcuno dovrebbe salvare la
Patria dal baratro in cui sta precipitando, e lo sai cosa intende!”.
“Lev è un po’ burbero su certe cose, ma cerca di capirlo! E
poi, Valentina è la tua zietta preferita”.
“Già”, continua Marija di malumore, “Finché non ti propina
le sue boiate da gioventù comunista sui bei tempi e il sole
dell’avvenire, o non ti parla di come funzionano i gabinetti della Mir
proprio prima di pranzo”.
Richiamato dal discorso, anche il fratello Anatoli giunge dalle camere.
È un ragazzino sui dodici anni, castano, un’isola scura nel luccicante
mare di biondaggine delle donne di casa. “Ma era interessantissimo!”, obietta
convinto, “Chi altri ti saprebbe spiegare cosa succede su una stazione
spaziale in orbita, in assenza di gravità, in situazioni che noi
diamo così per scontate?”.
Alle loro spalle, una voce di bambina commenta: “Bleah! Era schifoso”,
ma lo dice con un tono divertito che lascia intendere tutto il contrario.
Ivana, un angioletto biondo di nove anni nutrita a bambole e cartoni animati,
accende il televisore.
“…Mentre il Pope celebrerà…”. Zap. “…Ripristinare l’ordine in
Cecenia…”. Zap. “…Nella nuova casa da gioco, splendide ragazze…”. Zap.
“… Alla ricerca di investitori stranieri…”.
Deve arrendersi all’evidenza: niente cartoni animati, conclude delusa,
rimettendosi a giocare con la sua Barbie.
Appena posteggiata l’automobile, Leonid scambia un sorriso d’intesa
con Valentina. La osserva che si infila il colbacco di pelliccia sui capelli
corti. E’ sempre una bella donna, dolce e sicura, nonostante l’età
ed i capelli imbiancati prima del tempo, già venticinque anni prima.
Molto meglio di Valeria, la sua prima moglie.
Si concedono un attimo per ammirare la facciata della casa, le finestre
addobbate e illuminate che riscaldano il cuore.
Si apre l’ingresso principale; Marija, stretta in un cappotto sopra
il pigiama, si sporge fuori con un sorrisone. “Ciao zii. Avete trovato
subito la strada?”.
“Ciao Marija! Buon Natale!”, cinguetta Valentina allargando le braccia.
“Ehi Marija! Sempre splendida!”, la saluta Leonid, ammirando i capelli
lunghi e biondi e gli occhi azzurro chiaro della famiglia. Baci e abbracci.
Ecco la parte che gli piace.
“Neanche tu sei tanto male, zio Lev”. Appena entrati, chiede, un po’
delusa: “Niente uniforme, questa volta?”.
Lui scuote il viso. “Che vuoi, con tutte le mie medaglie, temevo di
essere scambiato per un albero di Natale”. ‘L’ho prevenuta, questa volta’,
si compiace mentre la vede sorridere. Eppure qualcosa gli dice che la sua
ironia pungente non tarderà a farsi sentire.
Ecco Anastasiya, accompagnata da una folata di profumi culinari. “Valentina!
Lev! Benvenuti!”. Un po’ più giovane e tonda della sorella, ha i
capelli ancora biondi naturali. Dà l’idea di non aver mai chiesto
altro alla vita che essere una mamma felice.
Ben diversa della sorella, pensa Leonid.
Lasciati i cappotti nel piccolo disimpegno, Anastasiya fa strada nell’ampio
soggiorno illuminato.
Appena entrati, gli zii stanno un attimo a rimirare il caminetto, il
tavolo imbandito, i divani e… perfino un televisore a colori!
La porta del corridoio si apre, e Anatoli e Ivana vengono loro incontro.
“Ciaoo!”. “Ehilà!”. “Buon Natale!”. “Ma che grandi che siete
diventati!”.
Dopo una serie di abbracci, bacetti e convenevoli, Anatoli esclama,
euforico: “Zio Lev, devi vedere il regalo di Nonno Gelo! Un missile!”.
“Ma certo. Vediamo!”.
Mentre il bambino torna a passo veloce verso le camere, Leonid si compiace:
‘Bravo ragazzo. Appassionato di cose sane: scienza, missili, aerei. Chissà
se questi tempi di decadenza riusciranno a corrompere anche lui...’ .
Poi ascolta distrattamente la conversazione che fiorisce tra le donne.
“Una casa stupenda, Anastasiya! Ce la fai vedere tutta?”.
“Ma certo, cara. Marija, le camere sono in ordine?”.
Poco dopo, Leonid sta mollemente collaudando il divano. ‘In fondo sono
un pilota collaudatore’, pensa tra sé, ‘ma di nuovi aerei da testare
non se ne vedono molti, di questi tempi’.
“Gradite del tè? Succo di lamponi? Vodka?”.
“Vodka, grazie”, risponde prima che la moglie possa scegliere per lui.
Fa lo gnorri, mentre lei gli scocca una impercettibile occhiata di rimprovero.
La televisione nell’angolo trasmette a basso volume un notiziario.
“…mentre il presidente Eltsin ha garantito che la ribellione in Cecenia…”.
Eltsin! Non dice niente, ma alla vista di quel faccione rubizzo tutto
il suo buon umore va a nascondersi sotto le suole. ‘Quell’ubriacone corrotto
e abbarbicato alla sedia! E’ colpa anche sua se la nazione sta scivolando
nel caos!’.
Indovinando i pensieri del cognato, Anastasiya cambia canale con un
sorrisino di scusa.
Il borbottio impaziente di qualche pentola la richiama dalla cucina.
“Vogliate scusarmi, ma ora devo controllare il pranzo, o mangeremo carbone.
Marija, fai tu gli onori?”.
“Ma certo”. La ragazza si siede sul bracciolo della poltrona vicino
a loro. Esauriti i convenevoli, però, non sa bene cosa può
chiedere senza rischiare di cadere sui soliti argomenti che creano scintille.
Anatoli arriva, portando orgogliosamente un grosso scatolone piatto,
ornato dai disegni a colori di un missile che sale maestosamente in cielo
in cima ad una colonna di fuoco arancione.
“Zio Lev, zia Valentina…ecco il regalo di Nonno Gelo: un modellino
dell’Apollo!”.
“L’Apollo!”, trasale Leonid.
“E il razzo Saturn V”, fa eco Valentina. “Lev, ti ricordi quei giorni?”.
“E come potrei dimenticarli?”, risponde, lo sguardo perso in quelle
fiamme lontane.
“Ma… di cosa state parlando?”, chiede Anatoli stupito. Si aspettava
un ‘che bello, ma quanti pezzi ha?’, non questo smarrimento.
“Parliamo del luglio 1969”, risponde la zia con aria sognante, senza
staccare gli occhi dall’illustrazione. “Il mese in cui si decise chi avrebbe
vinto la corsa alla Luna”.
Quelle parole sembrano far suonare un campanello d'allarme all’orecchio
di Leonid, che si schiarisce la voce con intenzione. “Ehm… vi ricordo che
su tutti i libri di storia è scritto chiaramente che l’Unione Sovietica
non è mai entrata in competizione con gli Americani per sbarcare
astronauti sulla Luna”.
“E’ vero”, annuisce Valentina. “E’ scritto così…”.
Dalla camera arriva Ivana, stringendo tra le braccia una bambola e
una vagonata di accessori: scarpine, vestiti, borsette. “Zia, guarda la
mia Barbie”.
“Splendida”, risponde Valentina senza però degnarla di un’occhiata,
persa in ricordi lontanissimi.
Il viso deluso della bambina commuove lo zio. “Me la fai vedere, Ivana?”.
In un attimo, le sue ginocchia sono sommerse da ninnoletti. Mentre le accarezza
una guancia, però, tutta la sua attenzione è rivolta alle
parole di Valentina.
“Anatoli… Ivana… quest’anno vorrei raccontarvi di quando si guardava
al futuro con occhi diversi. La conquista dello spazio, l’unità
tra i popoli…”.
Marija, ancora seduta sul bracciolo, rotea appena gli occhi. Ancora
la solita tiritera sui bei tempi andati!
Valentina brandisce lo scatolone, da cui provengono suoni poco rassicuranti
di pezzetti di plastica sballottati. “Vi racconterò una bella storia,
una storia che avrebbe potuto avverarsi. Per poco non fummo noi, a vincere
quella corsa”.
“Interessante”, commenta Ivana voltandosi verso il televisore, un po’
offesa per la scarsa attenzione.
Gli occhi di Anatoli, invece, sono tutti per la zia. “Davvero?”.
“No, per finta”, smentisce Leonid, un po’ preoccupato per la piega
che sta prendendo il discorso.
Valentina continua a guardare il disegno con occhi luccicanti. “Voi
sapete che fu la nostra Patria a mettere in orbita il primo satellite artificiale,
lo Sputnik, nel 1957. Un mese dopo, mandammo nello spazio la cagnetta Lajka”.
“Che vi morì”, puntualizza Marija, “Non tutti i libri lo scrivono”.
“Noo! Poverina!”, si dispiace Ivana, “Cattivi! Perché non ci
hanno mandato un uomo, invece?”.
Valentina continua, senza manifestare fastidio per l’interruzione.
“Infatti, il 12 dicembre 1961 il nostro cosmonauta Yuri Gagarin fu il primo
ad orbitare attorno alla Terra. Poi, arrivò il momento della prima
foto del lato nascosto della Luna, della prima passeggiata spaziale… insomma,
fino alla metà degli anni ’60 eravamo all’avanguardia in campo cosmonautico.
Questo grazie ad un geniale progettista. Costui era talmente importante
che la sua identità fu tenuta segreta fino a quando morì,
nel gennaio 1966. Solo quel giorno il suo nome venne rivelato e passò
alla leggenda: Sergej Pavlovich Korolev”.
Mentre scandisce le parole, sembra quasi di vedere un luccichio nei
suoi occhi.
“Il massimo della gloria!”, conviene Marija con ironia non richiesta,
“Nessuno sa il tuo nome, finché non muori!”.
“Era per proteggerlo dalle spie straniere”, la riprende Leonid. Per
un attimo, scintille elettriche sembrano scoccare tra i due. “Gli venne
tributato un funerale da eroe, sulla Piazza Rossa, e fu sepolto al Cremlino,
insieme ai personaggi più importanti e agli eroi”.
“Anche la cagnetta Lajka?”, chiede seria Ivana.
Valentina le fa un sorriso triste, annuisce e riprende: “Dopo questo,
la nostra storia spaziale fu funestata da molte disgrazie. La morte
di Komarov, schiantatosi al suolo con la Soyuz 1. La morte di Gagarin,
nel 1968…”, e suoi occhi si inumidiscono.
Leonid, un po’ di malumore, sorseggia il suo bicchierino di vodka e
ricorda.
Erano stati in centosessanta a superare il secondo turno della selezione,
a Città delle Stelle. Quel pomeriggio lui ed altri venti erano appena
ritornati da una massacrante prova con una centrifuga, che li aveva fatti
girare in una cabinetta fino a schiacciarli contro il sedile con una forza
pari a otto volte il loro peso, finché la vista non era stata come
velata di nero. Dopo tre minuti di prova, molti di loro erano rimasti venti
minuti stesi su un lettino a boccheggiare per le vertigini.
Appena arrivati nella sala della TV, trovarono facce allibite, sguardi
costernati, catturati dallo schermo su cui campeggiava una foto di Yuri
Gagarin, subito seguita dall’immagine di ciò che restava del suo
aereo da addestramento. Una coda con una stella rossa si innalzava dal
terreno, facendo riconoscere che quel cumulo di rottami bruciati e contorti
era stato un MiG-15 UTI fino a poco prima.
Ricorda lo sguardo di quella allieva cosmonauta di cui non sapeva
ancora il nome: prima incredulo, poi sconvolto dal pianto. Lui le offrì
una spalla, per consolarla, e lei gli si strinse addosso, bagnando la sua
uniforme di lacrime per un altro uomo.
Valentina scuote il viso, scacciando il momento di tristezza. “Per contro,
per gli americani le cose cominciarono ad andare a gonfie vele. Dopo i
fallimenti iniziali, collaudarono le capsule Mercury, poi Gemini, e infine
Apollo… Era chiaro che sarebbero presto arrivati a sbarcare un uomo sulla
Luna”.
Torna a mostrare il disegno dell’enorme razzo. “Consoliamoci fantasticando
un po’. Anche la nostra patria aveva un progetto per portare un cosmonauta
sulla Luna…”. Nota un’occhiata di Leonid, poi rettifica: “… ma rimase sulla
carta. Si chiamava N1-L3. A differenza dell’Apollo, era segretissimo. Noi
non strombazzavamo i nostri progetti alla stampa, almeno finché
non era il momento”.
Marija annuisce con un ghignetto che sembra voler dire: ‘neanche gli
incidenti alle centrali nucleari’, ma sua madre l’ha catechizzata bene,
stamattina.
Leonid annuisce, continuando a centellinare il carburante alcolico.
Quel giorno, nella sala tutte le voci tacquero quando il colonnello
Nikolai Petrovich Kamanin entrò e prese posto, da solo, al leggio.
Si guardò attorno con soddisfazione: dopo l’ultima selezione, il
gruppo riusciva a malapena a riempire le prime due file di sedie.
“Compagni, vi informo che siete stati scelti per un programma segretissimo,
che aprirà al nostro paese e all’intera umanità nuovi orizzonti.
Un programma che vuole rinforzare i successi ottenuti dalla nostra patria
socialista in campo spaziale. Inizierete subito ad addestrarvi per la vostra
missione: l’atterraggio di un astronauta sulla Luna”.
Pausa ad effetto. “Sì, avete capito bene. Alcuni di voi metteranno
piede sulla Luna, e prima degli Americani”. Non si sente volare una mosca.
“Sarete divisi in dodici equipaggi di due persone”. Leggendo da un elenco:
“Equipaggio uno: comandante Alexei Archipovich Leonov, ingegnere
di bordo Oleg Grigoryevich Makarov”.
Leonid guardò il primo chiamato, che stava seduto in prima
fila con la sicurezza del veterano in mezzo a tanti novellini, e solo allora
lo riconobbe: Leonov, il primo astronauta al mondo ad avere fatto una passeggiata
nello spazio!
“…Equipaggio quattro: comandante, capitano Leonid Mikhailovic Kutelnikov;
ingegnere di volo, Valentina Yakovna Semionova”.
Leonid si guardò in giro: c’erano ormai solo tre donne nel
gruppo. Chi era? Forse… quella biondina minuta in prima fila che
si stava voltando. Quella che aveva pianto per Gagarin, e che da allora
non aveva più osato incrociare di nuovo il suo sguardo.
Anatoli sta ascoltando il racconto, affascinato. “La nostra astronave
assomigliava all’Apollo?”, chiede, aprendo lo scatolone e estraendone orgogliosamente
un oggetto cilindro-conico di plastica bianca, un po’ sbavato di colla.
Valentina scuote il capo. “Non molto”. Con una matita, apparsa per
magia dalla sua borsetta, traccia con mano sicura uno schizzo sul cartoncino
grezzo dietro il coperchio. “La capsula è fatta così: questo
cerchio, diametro tre metri, è il modulo orbitale; questo sotto,
a forma di campana, è il modulo di rientro per i due cosmonauti,
e questo cilindro ancora dietro è il modulo di servizio, con un
motore a razzo e i serbatoi”.
La punta della matita torna sul piccolo tondo, e vi aggiunge, sul muso,
una specie di testa di mosca. “Questi sono motori di manovra: possono proiettare
piccoli getti di idrazina per orientare l’astronave”.
“Somiglia ad una Soyuz”, dice Anatoli, “Mancano solo i pannelli solari”.
Appropriatosi della matita. traccia due grandi rettangoli, come ali, ai
lati del modulo di servizio.
Ivana butta un’occhiata svogliata allo schizzo, “Sembra una vespa di
quelle che disegnavo all’asilo”, poi torna a guardare il cartone animato.
“Bravo, Anatoli”, si compiace Valentina, “Infatti era una Soyuz modificata.
Però questo tipo di cosmonave aveva celle a combustibile per produrre
elettricità, non pannelli fotovoltaici”. Cancella le due grandi
ali rettangolari. “Si chiamava LOK, che sta per Lunniy Orbital’niy
Korabl, Modulo Orbitale Lunare. Da non confondersi con LK, che sta per
Lunniy Korabl, Modulo Lunare. E’ quest’ultimo che sarebbe sceso sulla Luna”.
Anatoli annuisce interessato. “E questo LK assomigliava al LEM americano?”.
Indica, sul fianco dello scatolone, la fotografia di un oggetto simile
ad un mascherone sfaccettato, felicemente appoggiato con quattro zampe
di ragno su un deserto di pietre grigie, sul cui cielo nero spicca
una Terra piena azzurra e luminosa.
“Più o meno”, risponde Valentina, “Ma la sua cabina è
sferica, e avrebbe potuto portare sulla Luna un solo astronauta, anziché
due come il LEM americano”. Picchietta sul cerchietto del LOK: “L’altro
lo avrebbe aspettato qui, in orbita attorno alla Luna”. Si guarda attorno.
“E poi, ci sarebbe stata un’altra differenza”. Afferra la bottiglia di
vodka, e la tiene sollevata sopra il grosso samovar al centro del tavolino.
“Nella capsula Apollo americana, il passaggio degli astronauti avveniva
così…”, e inclina lentamente la bottiglia.
Leonid capisce troppo tardi cosa vuole fare. “Attenta, la ho…”.
Infatti il tappo cade, lasciando versare un fiotto di liquore sul tavolino.
“Oh, scusate…”, balbetta confusa.
“Niente, niente”, la assolve Marija, alzandosi per recuperare uno straccio
, mentre il profumo pungente della vodka si diffonde nella stanza.
Fissato il tappo, Valentina torna a illustrare la sua impresa spaziale.
“Ecco, l’Apollo si voltava…”, dice girando la bottiglia, questa volta senza
disastri, “… si agganciava con il muso alla testa del LEM e lo tirava fuori
dall’involucro del missile”, conclude vittoriosamente, sollevando assieme
la bottiglia ed il coperchio del samovar, “Poi, due astronauti passavano
dalla Apollo al LEM tramite un passaggio interno”.
Riprende in mano lo schizzo sul cartoncino. “Invece, nel nostro progetto,
gli astronauti indossavano le tute spaziali, che erano contenute qui…”,
indica la prima sfera, “… e poi l’ingegnere di volo usciva nello spazio,
trascinandosi fino ad un portello posto qui”. Schizza rapidamente una sfera
con zampe di ragno ripiegate e un unico finestrino simile ad un occhio
di ciclope, accucciata dietro al LOK. “Ecco l’LK. Ah, sì, a questo
punto c’era il quinto stadio, il cosiddetto blocco D, attaccato con un
telaio dietro l’LK, e il tutto era racchiuso in un involucro aerodinamico
cilindrico, che al momento opportuno si sarebbe aperto in due”. Completa
il suo schizzo con alcune linee, e l’astronave prende sempre più
forma sul cartoncino grigio.
Leonid annuisce, lo sguardo assorto e perso nei ricordi.
Sul fondo nero della piscina, illuminata da un enorme faro, l’illusione
di muoversi nello spazio senza peso era perfetta, se non fosse stato
per le bollicine che uscivano dalle tute spaziali accuratamente contrappesate.
Nascosti nell’ombra a lato di quel sole fasullo, due sommozzatori sorvegliavano
i loro movimenti, pronti ad intervenire in caso di emergenza.
Sul fondo della vasca c’era un perfetto simulacro del LK, ancora
avvolto in un grande cilindro bianco, e del LOK, dal tipico colore grigioverde,
agganciato alla sua testa.
All’inizio della prova, loro entrarono nel modulo orbitale
sferico, poi chiusero il portello.
La voce del colonnello Kamanin risuonò negli auricolari.
“Equipaggio quattro, iniziate la simulazione”. Leonid portò la mano
ad un pulsante. “Abitacolo depressurizzato”, disse mentre la lancetta del
finto manometro raggiungeva lo zero. “In bocca al lupo, Valentina
Yakovna”, le augurò mentre lei si assicurava ad una cima. Non erano
ancora abbastanza in confidenza da permettersi di chiamarla con un
vezzeggiativo.
Lei armeggiò con il portello circolare, poi uscì dall’abitacolo
muovendosi prudentemente lungo i fianchi irregolari dell’astronave fino
ad aprire un portello nel grande cilindro bianco.
Anatoli le prende gentilmente la bottiglia ed il coperchio del samovar,
facendoli veleggiare lentamente verso il lampadario. “E così sarebbero
arrivati alla Luna”.
“Ehm, non proprio così”. Valentina si riappropria dei due oggetti,
li rivolta a testa in giù con prudenza infinita, poi li fa
procedere lentamente verso la sospirata meta appesa al soffitto.
“Quando l’astronauta si trasferiva nell’LK, il treno si era già
girato e dava le spalle alla Luna”.
“E perché?”, chiede Ivana sorpresa: lei non ha mai visto un’astronave
dare le spalle alla meta, nei cartoni animati.
“Perché il quinto stadio, ancora attaccato qui dietro, serve
a rallentare, altrimenti la gravità lunare non riuscirebbe a far
entrare il tutto in orbita”, risponde Valentina, facendo girare lentamente
l’improvvisata carovana attorno al samovar, promosso a Luna per l’occasione.
Marija osserva ansiosamente, lo straccio pronto per far fronte ad una
possibile emergenza cosmonautica.
“E allora, che cosa ha spinto il tutto verso la Luna?”, chiede Ivana.
“Il quarto stadio, ovviamente”, risponde Anatoli.
“Il quarto stadio di cosa?”.
“Il quarto stadio del missile N1!”, risponde seria la zia, buttando
l’occhio verso un boccale di ceramica appoggiato sul tavolone. “Il cosiddetto
blocco G”.
“No… non mostrarmelo!”, interviene Marija, “Ti credo sulla parola!”.
“Grazie”. Valentina appoggia la cosmonave sul tavolino. “Per spingere
l’astronave L3 fin alla Luna, fu messo a punto l’N1. N sta per Nositel,
vettore. Era un missile gigantesco, grande quanto il Saturn americano”,
racconta mostrando la coloratissima illustrazione della scatola.
“Centocinque metri in tutto, dagli ugelli alla torre di salvataggio”,
aggiunge Leonid con voce assorta.
Cosmodromo di Bajkonur, Kazakistan. Il giorno…quando era? Forse il
21 febbraio 1969? Non ne è sicuro. Erano arrivati in aereo
da Città delle Stelle, vicino a Mosca, per assistere al primo collaudo
del missile N1, senza equipaggio umano. Il carico utile era una sonda L1
destinata ad orbitare attorno alla Luna per trasmettere fotografie di possibili
siti di atterraggio.
Il pulmino li lasciò nell’enorme edificio posto tra le due
torri di lancio simmetriche, e percorsero a piedi gli ultimi duecento metri.
Il missile, gigantesco e bianco, era leggermente conico, più largo
alla base, e ciò, dal basso, lo faceva sembrare ancora più
imponente.
Ciascun equipaggio salì, a turno, su un ascensore simile
ad una gabbia per polli, che li portò fino all’altezza della capsula,
per poi farli camminare sulla passerella telescopica verso la sonda. I
novantacinque metri sotto di loro non facevano impressione, in fondo Leonid
era stato un pilota da caccia, e Valentina aveva il brevetto di paracadutista.
Da lì si vedeva bene il grande edificio di servizio e, al
di là, la seconda torre di lancio, a mezzo chilometro, ancora in
attesa di un missile tutto suo.
Dall’alto, anche la forma a Y del cosmodromo era evidente, con rampe
per vettori più piccoli, R-7 o Proton, allineate per chilometri.
In un’altra direzione, c’erano enormi capannoni dove i missili venivano
assemblati in orizzontale, per poi essere portati presso la rampa da mastodontici
carrelli ferroviari, che infine li erigevano in verticale con un titanico
braccio a traliccio giallo.
Valentina, accanto a lui, tremava per l’eccitazione. “Non possiamo
fallire, Leonid Mikhailovic”. E’ strano ricordare che all’epoca non erano
molto in confidenza e si chiamavano ancora con il patronimico. “Il futuro
è nostro!”, aggiunse tendendo il pugno. Lei la citava spesso,
questa frase: l’aveva detta il premier Kruscev subito dopo il volo di Yuri
Gagarin.
A Leonid piaceva questo entusiasmo da Komsomol, da gioventù
comunista. Era ingenuo, e in qualche momento lo faceva sentire come un
fratellone grande e saggio, anche se aveva solo quattro anni più
di Valentina. All’inizio aveva temuto che troppo ottimismo potesse portare
il suo ingegnere di volo a valutazioni imprudenti, ma durante l’addestramento
il suo operato era sempre stato ineccepibile.
Il il ricordo finisce e Leonid torna al presente: vigilia di Natale,
zia che racconta, nipotino che ascolta rapito, nipotina e Barbie che ascoltano
un po’ lei, un po’ un cartone animato forse già visto e rivisto;
Marija si è leggermente rilassata dopo il pacifico atterraggio della
bottiglia sul tavolo.
“L’N1 era diviso in più stadi, proprio come il Saturn V.
Questo perché il grosso del peso di un razzo è costituito
dal combustibile, in questo caso cherosene, e del comburente per farlo
bruciare, cioè ossigeno liquido. Questi sono stipati in due enormi
serbatoi sferici, nascosti dal rivestimento che dà una forma tronco-conica
ai primi tre stadi. Per non tirarsi dietro del peso morto, ogni stadio
viene abbandonato appena ha finito il suo carburante”. Sottolinea il concetto
allontanando, con una mano, un bicchiere vuoto dalla avventurosa bottiglia
di vodka.
Poi, come cambiando idea, riprende il bicchiere, e ne indica l’apertura:
“Il primo stadio pesava, a pieno, 1800 tonnellate, ed aveva trenta motori
a razzo”.
Anatoli resta sbigottito. “Trenta….?”. Si rigira tra le mani il suo
modellino ancora incompleto. “Il Saturn V americano ne aveva solo cinque!”,
dice indicando gli ugelli simili a tazzine per bambole.
“Sì”, conferma Valentina con un po’ di rammarico, “Gli americani
avevano motori più grandi”.
Leonid conosce il motivo di quel rammarico: trenta motori sono troppi,
se basta un guasto per far fallire una missione...
Bajkonur, 21 febbraio 1969. Dentro il bunker, alle spalle dei controllori,
il gruppo di astronauti assisteva agli ultimi istanti del conto alla rovescia.
“Meno cinque.. quattro… tre… due… uno…zero!”. Fu lo stesso
Vasiliy Pavlovich Mishin, il progettista capo che aveva preso il posto
del leggendario Korolev, a premere il bottone.
Subito dopo, gli schermi in bianco e nero mostrarono una luce, ed
il grande missile si sollevò lentamente, accelerando gradualmente
in cima ad una colonna di fuoco.
Le esclamazioni di soddisfazione dei tecnici durarono forse trenta
secondi, poi capì, da alcune frasi concitate, che non tutto stava
andando come avrebbe dovuto. Uno dei trenta endoreattori si era incendiato,
disse qualcuno.
Pochi istanti dopo, tutti i motori vennero spenti da un sistema
automatico, e la torre di salvataggio, quel puntale che svetta sempre in
cima ad ogni missile spaziale, fece il suo lavoro: sullo schermo apparvero
dei getti di fiamma come petali di un fiore rovesciato, che avvolsero la
parte anteriore del missile e la staccarono dal resto, portandola in salvo.
Tra maledizioni e gemiti di delusione, i loro sguardi si spostavano
tra gli schermi che mostravano la discesa della sonda, appesa ad un paracadute,
e quelli che mostravano l’addio del primo vettore N1, deviato verso una
zona deserta e fatto esplodere in volo in una palla di fuoco.
Valentina, impietrita, guardava quelle fiamme in bianco e nero senza
una parola. Quando Leonid le chiese un commento, molto più tardi,
lei si scosse, e rispose: “Per qualcosa bisogna vivere, e per qualcosa
bisogna morire”.
Valentina continua: “La data prevista per la missione lunare sarebbe
stata il 3 luglio 1969, all’una di notte. Circa due settimane prima della
partenza dell’Apollo 11”.
“Perché all’una di notte?”, chiede incredula Ivana, scambiando
un’occhiata sbigottita con la Barbie.
“Già”, rincalza Marija, “Non si sarebbero fatti baciare in fronte
dal sole dell’avvenire?”.
Dalla cucina, Anastasiya la chiama: “Marija cara, vieni a darmi una
mano?”.
Anatoli sorride compiaciuto. ‘Così impara a interrompere col
suo arguto sarcasmo, la sorellona’. “Allora, zia?”.
Valentina risponde: “Era la finestra di lancio, cioè il momento
buono per lanciare, così, al momento dell’arrivo, la Luna si sarebbe
trovata sullo stesso piano su cui l’astronave era stata immessa in orbita
attorno alla Terra”.
“Capito tutto”, sbotta Ivana.
Leonid inarca un sopracciglio con disappunto. La sua nipotina sta già
imparando il sarcasmo da Marija?
“E chi sarebbero stati gli astronauti?” chiede Anatoli affascinato.
Prima di rispondere, Valentina nota un’occhiata severa di Leonid, e
lo rassicura con un sorrisino. Poi si stringe nelle spalle. “I loro nomi
non vi direbbero niente”.
Leonid, rassicurato, torna a centellinare la sua vodka e a perdere
gli occhi nel passato.
Ricorda quel giorno. Loro due erano stati convocati nell’ufficio
del progettista capo Mishin, che troneggiava dietro un’enorme scrivania
invasa da pile di cianografie sommariamente ripiegate. Era un’impressione
diffusa che fosse un ottimo tecnico, ma che non fosse né carismatico
né abile a trattare con gli altri.
Accanto a lui, su un lato, era seduto il colonnello Kamanin.
Il capo progettista buttò l’occhio su un elenco scritto.
“Leonid Mikhailovic Kutelnikov… Valentina Yakovna Semionova… gli Americani
hanno annunciato che l’Apollo 11 porterà due uomini sulla Luna attorno
al 20 luglio. Noi vogliamo tentare di precederli. La data di lancio dell’N1-L3
è stata fissata per la notte del 3 luglio, e, se tutto andrà
come deve, un cosmonauta sovietico metterà piede sulla Luna, per
primo, il 7 luglio. Ora, noi riteniamo di avere corretto tutte le cause
del fallimento del primo N1, ma non possiamo esserne sicuri. Per ridurre
al minimo il rischio per la vita dei cosmonauti, lanceremo il missile senza
equipaggio. Se l’astronave entrerà in orbita terrestre senza incidenti,
l’equipaggio la raggiungerà con una normale Soyuz, spinta da un
collaudatissimo vettore R-7 e pilotata da un terzo cosmonauta. L’equipaggio
trasborderà e proseguirà la sua missione verso la Luna, mentre
la Soyuz e il suo pilota rientreranno a terra”.
Dopo Mishin, prende la parola il colonnello Kamanin. “Non possiamo
nascondere che i rischi della missione sono alti. Per questa ragione, vi
dico fin d’ora che anche se doveste rifiutarvi, non sareste esclusi dal
programma lunare. Se accetterete, farete qualcosa che nessuno ha mai tentato
prima di voi”.
Leonid guardò Valentina, e capì subito cosa lei stava
per rispondere.
“Ma certo! Compagno progettista capo, compagno colonnello, io accetto!
Per qualcosa bisogna vivere, e per qualcosa bisogna morire!”. Poi si voltò
speranzosa verso di lui. “E tu, Leonid Mikhailovich?”.
Lui esitò un attimo, ma un attimo soltanto. Non sa ancora
se fossero stati quegli occhi azzurri supplichevoli, o la prospettiva di
coronare il sogno di una vita, o cos’altro. “Accetto anch’io, compagni”,
si sentì dire.
Quel giorno stesso, nel pomeriggio, il colonnello Mishin presentò
l’astronauta tassista, Grigoriy Markovich Timinenko, un veterano con già
un lancio alle spalle.
Il capo spiegò la procedura: sulla Soyuz sarebbe stato
montato un sistema Kontakt passivo, una specie di arnia uguale a quello
presente sulla testa dell’LK. L’attracco, muso a muso, sarebbe stato identico,
ma manovrato dalla Soyuz.
Una volta agganciate le navicelle, loro avrebbero indossato le tute
spaziali, depressurizzato il modulo orbitale e lei sarebbe uscita assicurata
con una fune. A questo punto, avrebbe aperto il portello del LOK,
e lui la avrebbe seguita.
Leonid emerge dai suoi ricordi in tempo per sentir Valentina raccontare:
“L’appellativo radio della missione sarebbe stato Ikarus. Sapete chi era
Icaro?”.
I due bambini annuiscono. “Icaro…il primo uomo che ha volato?”.
“Quello con le ali di cera?”.
“E che si è spiaccicato a terra quando il sole gliele ha sciolte?”,
completa Marija, di ritorno dalla corvé diplomatica in cucina. “Zia,
se volevi scegliere un nome evocativo, ci sei riuscita benissimo”.
“Vabbè, chiamiamolo Ikarus lo stesso”, risponde Valentina un
po’ piccata. “E comunque, quei due astronauti sapevano già quanto
fosse rischiosa la missione. Ma, come bisogna vivere per qualcosa, bisogna
pure morire per qualcosa”.
Leonid annuisce. Le ha sentito spesso dire quella frase, e c’è
stato un tempo in cui lo faceva rabbrividire.
Pian piano, Leonid si pentì di quell’assenso affrettato, ma
non poteva più ritirarlo. Valentina, invece, era euforica, e si
impegnò ancora più a fondo nell’addestramento.
A lui pesava sempre di più l’idea che i due equipaggi prima
di loro in graduatoria, compreso il veterano Leonov, potessero avere rifiutato
la missione.
Quella sera, nella sala del televisore, lui era seduto un po’ in
disparte, guardando distrattamente un film già visto, quando lei
gli venne vicino. Fino a quel momento, non avevano avuto molta confidenza
tra loro, anzi, da quell’episodio il giorno della morte di Yuri Gagarin
c'era sempre stato un po’ di imbarazzo tra loro, così fu sorpreso
quando lei cercò di romperlo.
“Leonid Mikhailovich, posso chiederti cosa facevi, prima di diventare
cosmonauta?”.
“Certo. Ero un capitano pilota della Difesa Aerea di Mosca. Avevo
pilotato un intercettore Sukhoi Su-9. Poi, tre anni fa, diventai pilota
collaudatore all’Istituto Scientifico dell’Aeronautica Militare”.
“Pilota collaudatore?”. Gli occhi di Valentina si illuminarono.
“Proprio come mio padre! Forse lo hai…”. Scuote il viso, come delusa. “No,
ormai sono sei anni che non c’è più”.
“Posso sapere come mai?”.
“Certo. Stava collaudando un prototipo, che manifestò dei
malfunzionamenti in volo. Doveva essere ben prezioso, perché lui
rinunciò a lanciarsi, e cercò comunque di portarlo a terra”.
Nel suo sorriso, tristezza ed orgoglio si fusero assieme. “Fu dichiarato
Eroe dell’Unione sovietica, per questo”.
Leonid, annuì, con inquietudine. “E poi… chi altro ammiri?
Fammi indovinare: Gagarin”.
Lei confermò arrossendo. “Certo. E poi Komarov. E la Litvyak”.
Vladimir Mikhailovich Komarov, l’astronauta della Soyuz 1. Lidiya
Vladimirovna Litvyak, l’eroina pilota da caccia della Grande Guerra Patriottica…
“Ti hanno mai detto che le assomigli?”.
Lei arrossì di nuovo. “Sì. E poi, ho sempre avuto
passione per il volo. Ho il brevetto di paracadutista e di pilota di alianti”.
Lui annuì ancora, sempre più inquieto. “E poi?”.
“E poi…Poi, Leonid Mikhailovich, io ammiro te!”.
In qualche modo, se l’aspettava. “Valentina Yakovna… perché
tu lo sappia, io sono già sposato. Mia moglie Valeria mi aspetta
nella nostra casa di Mosca… o almeno, così spero”.
“Non fraintendermi”, rispose lei imbarazzata, “Io ti ammiro come
pilota, come astronauta, come comandante!”.
Leonid non riuscì a sentirsi lusingato: tutti quelli che
Valentina ammirava erano eroicamente morti schiantandosi al suolo.
I suoi ricordi vengono interrotti da una domanda di Anatoli: “Zia, ma
come avrebbero fatto i cosmonauti a non sbagliare niente, con tutte quelle
lucette, quei bottoni, quelle cose da ricordare?”.
La zia risponde, sorridendo dolce: “Oh, sì, vengono addestrati
molto bene. Ci sono, per esempio, dei simulatori dell’interno della cabina,
in cui si allenano a comunicare con il centro di controllo del lancio,
che si trova a Bajkonur, e poi con il centro di controllo della missione,
che si trova a Kaliningrad, e in questa missione avrebbe avuto l’appellativo
radio di Dom, nido. In realtà, se tutto va bene, per la maggior
parte della missione un astronauta sovietico non ha da fare molto più
della cagnetta Lajka”. Ignora l’occhiata costernata di Ivana, e continua:
“In genere, quasi tutte le operazioni vengono radiocomandate da terra,
o svolte da sistemi automatici. Solo poche erano comandate manualmente
dagli astronauti, come l’allunaggio o l’attracco finale del modulo lunare
al modulo orbitale, risalendo dalla Luna,”.
“E allora, venivano addestrati solo per queste fasi?”, chiede Anatoli,
un po’ deluso da tanta passività.
“No”, risponde la zia, “Purtroppo i sistemi automatici non sempre mantengono
ciò che promettono. L’equipaggio è addestrato a intervenire
quando si manifestano situazioni inaspettate o guasti. E’ addestrato a
tutti… consentitemi l’espressione… gli imprevisti prevedibili”.
Marija inarca un sopracciglio: “Ma allora, spedire un astronauta sulla
Luna aveva lo scopo principale di fargli fare la riserva in caso di malfunzionamento
di un computer a valvole?”.
Dalla cucina, Anastasiya la richiama prontamente: “Marija, potresti
venire a controllare la zuppa?”.
“Quella volta, il computer più modesto era grande come un armadio,
e pesava in proporzione”, risponde gelidamente la zia.
“E poi?”, insiste Anatoli. “Come venivano addestrati gli astronauti?”.
“Un classico era l’allenamento alla centrifuga: si veniva schiacciati
contro il sedile, sballottati, rigirati, e nonostante ciò si doveva
conservare la lucidità nel rispondere alla radio e nel premere una
serie di tasti”.
“Tipo Luna Park”, ridacchia Ivana. Poi, come illuminata: “Chissà
se è per questo che lo chiamano Luna Park?”.
“Forse”, conviene Valentina. “Poi c’era il simulatore dell’allunaggio:
un elicottero Mi-8 adattato con una cabina come l’LK che avrebbe dovuto
abbassarsi su una pietraia allestita nel campo sportivo di Città
delle Stelle”. Scuote il viso. “Non dava molto l’idea”.
Poi riprende: “C’era anche la simulazione di attracco tra LOK e LK,
alla risalita dalla superficie lunare. In realtà, ciò che
si vedeva dal finestrino e sullo schermo del simulatore era un simulacro
di LK con sulla testa il sistema Kontakt: una specie di arnia di cento
otto cellette esagonali in alluminio. Il comandante del LOK avrebbe dovuto
far infilare una specie di pungiglione in una qualunque delle cellette,
per ancorare assieme le due capsule e far tornare l’altro astronauta a
bordo del LOK”.
“Perché cento otto cellette?”, chiede Anatoli.
“Perché il sistema non era molto preciso, altrimenti ne sarebbe
bastata una”. Guarda verso Leonid, perso nei ricordi, e continua: “Quindi,
per provare il passaggio tra le astronavi, era allestito un altro simulatore
in un vascone, in cui il galleggiamento dava l’idea della mancanza di peso.
Però, ciò che rendeva meglio il senso dell’imponderabilità
era lo stare a bordo di un aereo lanciato su una traiettoria parabolica”.
“Lanciato… Come funziona?”, incalza Anatoli interessato.
“Un grosso aereo prende velocità e quota, poi cabra, cioè
punta verso l’alto. Ovviamente, tutti gli occupanti seduti dentro seguono
il suo movimento, quindi a loro sembra di essere fermi. Poi, però,
si sganciano dai seggiolini, mentre l’aereo inizia ad andare sempre meno
su, e poi sempre più giù; in questi momenti, si staccano
dai sedili, ed è come se galleggiassero senza peso per una ventina
di secondi. Nella realtà, loro sono lanciati verso l’alto: salgono
alla sommità di una traiettoria parabolica come se non ci fosse
l’aereo attorno a loro, e poi ricadono. Però l’aereo è pilotato
in modo da accompagnarli nella caduta”.
“Non capisco”, sbotta Ivana scambiando occhiate perplesse con la Barbie.
“L’aereo vola, o cade?”.
“Adesso ti spiego”. La zia cerca la bottiglia di vodka sul tavolo…
ma non c’è più, e nota Marija, tornata nella stanza, che
guarda innocentemente il lampadario.
“Ivana, te lo spiego con la bambola. Me la dai un minuto?”.
“Non si farà male come la cagnetta Lajka?”, chiede lei preoccupata.
“Ma no, si farà uno splendido voletto”.
La bambina, un po’ in apprensione, le porge la fedele Barbie.
“Bene”, riprende Valentina, “Se un astronauta viene lanciato verso
l’alto, ricade così”. La bambola, riluttante, viene mossa su una
lenta parabola che si conclude sul tavolino.
“Splaff”, commenta Marija, strappando un gemito alla sorellina.
“Ora, cosa succede se attorno all’astronauta lanciato verso l’alto
c’è un aereo?”. Prende il coperchio dello scatolone, già
molto vissuto, e lo sostiene mentre fa da cornice alla bambola astronauta
nella sua traiettoria. “In primo luogo, a lei non sembra di cadere, ma
di galleggiare nell’aereo”.
“In secondo luogo: niente splaff”, aggiunge Marija, facendo sospirare
di sollievo la bambina.
“Già…”, conferma la zia, “…perché l’aereo riprende il
volo livellato molto prima di toccare terra”.
Ivana si riappropria della sua Barbie. “Povera cara… hai avuto paura?”.
“E poi?”, la sollecita Anatoli, attentissimo.
“Secondo il progetto, l’N1-L3 ed i suoi astronauti sarebbero stati
pronti a partire per la notte del 3 luglio 1969. Sarebbero stati accompagnati
alla rampa, prendendo posto sui sedili del modulo di rientro, poi avrebbero
svolto una serie di test dei sistemi di bordo, intanto che il conto alla
rovescia si fosse avvicinato alla sua conclusione”.
Leonid annuisce, cercando di spremere dal suo bicchierino l’ultima
goccia di vodka.
Lo spettacolo dalla passerella fu bellissimo.
La vampata arancione in distanza illuminò il cosmodromo,
creando riflessi sulle rampe di lancio allineate tra quella dell’N1 in
partenza e quella del loro R-7 Semyorka, Piccolo Sette, che avrebbe spinto
in orbita la loro Soyuz appena arrivata la conferma dal centro di controllo
missione, Dom.
Il missile gigantesco salì lentamente nel cielo. Appena uscito
dalla portata dei fari, la sagoma bianca e sottile sparì al disopra
della coda abbagliante che saliva verso il cielo. A vederlo così,
sembrava impossibile che qualunque cosa potesse fermarlo.
“Splendido!”, gioì Valentina,“Compagni, il futuro è
nostro!”.
“Speriamo”, annuì Leonid, “Ci vorrà un quarto d’ora
perché entri in orbita, e poi dovranno fare un test dei sistemi
di bordo”.
Accanto a loro, l’astronauta Timinenko fa un cenno col capo. “Compagni,
entriamo nella Podsadka”. Questo era l’appellativo radio della Soyuz che
li avrebbe accompagnati in orbita. “Se tutto va bene, ci arriverà
l’ordine di partire alla prossima orbita di Ikarus, tra un’ora e mezzo”.
“Entriamo subito, Grigoriy Markovich”, gli rispose Leonid. Si infilarono
le sottocuffie bianche con gli auricolari ed i microfoni, e subito sopra
delle sottili cuffie di cuoio nero. Erano tutti vestiti con leggere sottotute
di tessuto grigio scuro, mentre due vere tute spaziali li aspettavano dentro
la capsula.
Mentre un tecnico teneva aperto il portello, Leonid guardò
in alto, verso la rassicurante torre di salvataggio in cima al missile.
Valentina fraintese la sua occhiata, e si schermò con la
mano gli occhi abbagliati dalle luci della passerella. “Guarda, Lev. Si
vede ancora la luce dei motori, lassù”.
Appena entrati nell’astronave e richiusi i portelli, una voce risuonò
nelle cuffie. “Podsadka, qui controllo lancio. Mi ricevete?”.
“Forte e chiaro”, rispose Grigoriy. “Come sta andando Ikarus?”.
“Finora tutto bene”.
Valentina si guarda in giro, e posa gli occhi sul tavolo. “Ecco ciò
che mi serviva!”. Si alza sicura e impila tutti e sette i bicchieri di
vetro, rovesciati, in un’unica traballante torre. Per un attimo sembra
incerta, poi si decide e la porta al tavolino.
Marija, sulle spine, segue l’operazione con sguardo preoccupato. “Zia,
se la tua missione dovesse fallire, a pranzo saremo costretti a bere tutti
dalle brocche”.
“Vai tranquilla, bellezza”; poi, rivolta a Anatoli: “Questo è
il missile N1 al lancio. Dopo l’accensione, il primo stadio avrebbe funzionato
per centoquindici secondi, prima di spegnersi ed essere sganciato”.
Solleva i primi sei bicchieri, ma l’ultimo resta incastrato. “Anatoli,
me lo sfili?”.
Completata l’operazione, Valentina appoggia il missile improvvisato
sul tavolo, e vi tiene in cima la matita, come una punta. “A centoventi
secondi sarebbe stata sganciata la torre di salvataggio”. La matita parte
via, e ricade lentamente sul tavolo. “A centosessanta secondi, sarebbe
stata espulsa la parte superiore del rivestimento aerodinamico”. Pone le
mani attorno al bicchiere più in alto, e le fa aprire in due. “Ecco.
Il LOK è scoperto”. Torna ad alzare il missile, lasciando giù
un altro bicchiere. “A trecentocinquantacinque secondi dal lancio si sarebbe
esaurito il secondo stadio, e a settecentocinquantacinque anche il terzo.
A questo punto, tutto il complesso restante sarebbe stato in orbita
terrestre bassa, a duecentonovanta chilometri di altezza, alla velocità
orbitale di settemilanovecento metri al secondo. Circa un’ora e mezzo per
ogni orbita attorno alla Terra”.
La voce nell’auricolare era inesorabile. “Meno cinque… meno quattro…
meno tre… meno due… meno uno… zero! Accensione!”.
Una vibrazione si propagò lungo la capsula e le ossa, quando
i quattro razzi booster del Semyorka si accesero assieme, con un rumore
simile ad una cascata. Poi l’accelerazione li schiacciò contro gli
schienali, mentre l’altimetro sul cruscotto del pilota cominciò
a salire, dapprima lentamente, poi sempre più veloce, quasi vertiginoso.
Leonid guardò il cronometro sul suo pannello. Lento, lentissimo.
Ogni secondo sembrava eterno, mentre la lancetta arrancava faticosamente
sul quadrante.
Dopo centodiciotto secondi, la sensazione di schiacciamento ed il
rumore diminuirono.
La voce di Grigoriy risuonò negli auricolari: “Dite addio
ai quattro booster, compagni”. Uno schiocco risuonò nella
struttura. “Dom, qui Podsadka. Razzi booster espulsi”, comunicò.
Poi, con tono più confidenziale: “Al centosessanta, toccherà
alla torre di salvataggio e al rivestimento esterno”.
Puntuale, un altro schiocco di bulloni esplosivi fu seguito da un
breve sibilo, poi risuonò un gemito metallico, mentre videro allontanarsi
la cortina grigioverde che impediva la visuale dall’oblò, lasciando
il posto al nero dello spazio.
Leonid sbirciò il viso di Valentina, e lei lo ricambiò
con un sorriso felice. “Lev, tra poco saremo su”.
A trecento secondi dal lancio, la spinta diminuì di nuovo.
“Addio allo stadio principale”, disse allegramente il loro nocchiero. Le
sue parole furono ancora seguite da uno schiocco, uno scricchiolio, e poi
un rumore di cascata molto più vicino risuonò nello stretto
abitacolo, mentre venivano nuovamente schiacciati contro i sedili. “Questo
è lo stadio superiore”, commentò Timinenko.
A nove minuti esatti dal lancio la spinta ed il rumore cessarono,
e l’ultimo schiocco dei bulloni esplosivi, sempre più vicino, non
aveva più bisogno di essere commentato.
Avvertendo una leggera vibrazione, il pilota commentò soddisfatto:
“Bene. Dom, anche i pannelli solari si sono dispiegati regolarmente”.
“Podsadka, qui Dom. Ikarus è in orbita a soli sei chilometri
dietro di voi. Vi guideremo da terra fino al contatto”.
Un sibilo ed una sensazione di imbardata marcarono l’azionamento
dei motori di manovra. Spinta da getti gelidi di idrazina, l’astronave
si impennò lentamente per girarsi, poi una breve spinta la avviò
in direzione dell’appuntamento. Grigoriy si alzò dal suo sedile,
aprendo il boccaporto per il modulo orbitale che stava davanti a loro.
“Prego, i passeggeri possono restare in poltrona”, scherzò.
Attraverso il portello, lo videro sedersi al posto di manovra, e
osservare l'esterno attraverso un oblò.
Valentina si alzò. “Voglio vedere”. “Anche io”, disse Leonid.
Galleggiando senza peso, si portarono alle spalle del pilota, dividendo
l’attenzione tra lo stretto oblò e lo schermo catodico del sistema
di inseguimento e attracco.
Era ancora notte, e tutto ciò che potevano riconoscere erano
delle luci di posizione lampeggianti, minuscole ma nitide sul cielo nero.
Valentina continua a raccontare con entusiasmo: “Dopo alcune orbite
terrestri per provare i sistemi di bordo, avrebbero azionato il quarto
stadio, il cosiddetto blocco G, e l’astronave sarebbe stata spinta a velocità
di fuga, undici chilometri al secondo”. Stacca un altro bicchierino dalla
pila. Anche il blocco G ha raggiunto i primi, giganteschi stadi, nella
loro tomba nel vuoto.
“Il viaggio di andata sarebbe durato tre giorni e mezzo, per una distanza
di quattrocentomila chilometri. Nel frattempo l’astronave si sarebbe
girata…”, dice facendo fare un prudente testacoda ai tre bicchierini rimasti,
“Avrebbe frenato con il quinto stadio, il blocco D, e un astronauta sarebbe
uscito…”.
“Come ci hai già raccontato, zia”, le ricorda Marija con un
sorriso diplomatico mettendo in salvo i bicchieri ormai di troppo, “Non
serve ripeterlo”.
“Va bene. Passiamo al punto in cui tutto è in orbita lunare.
Il modulo lunare si stacca dal LOK, assieme al blocco D, che lo rallenta
prima di esaurirsi ed essere abbandonato a schiantarsi sulla superficie
lunare”.
Sentendo la parola ‘schiantarsi’, Marija trasale. “Aspetta, zia, arrivo!”.
Recuperato il terzultimo bicchiere, si accovaccia a guardare la lenta
discesa dell’improvvisato modulo lunare sulla superficie del tavolino.
“L’LK avrebbe fatto un atterraggio morbido, sostenuto dal suo motore:
l’astronauta sarebbe sceso per lasciare la prima impronta umana sulla polvere
della Luna”. Lo sguardo di Valentina si fa sognante. “Avrebbe pronunciato
parole che sarebbero passate alla storia, piantato la bandiera dell’Unione,
e trasmesso a terra immagini straordinarie, assieme ad una registrazione
dell’Internazionale. In quel momento, la missione sarebbe stata rivelata
al mondo intero”.
Marija accenna un sogghigno divertito: qui ci starebbe bene piantarsi
sull’attenti salutando col pugno teso, o canticchiare l’Internazionale
sventolando un rosso tovagliolo natalizio. Però ha già scorto
l’occhiata minacciosa che sua madre le ha scoccato dalla porta della cucina.
Dopo dieci minuti di avvicinamento lento, dal finestrino si intravedeva
un oggetto sferico grigioverde che sfoggiava una specie di testa a forma
di fiore, con sei semisfere simili a occhi di mosca nel ruolo di petali,
e un minuscolo oblò frontale speculare a quello da cui stavano guardando.
Dal muso dell’altra astronave, qualche sbuffo mostrò che stava manovrando,
telecomandata da terra, per allinearsi esattamente con la loro navicella.
Poi, a mano a mano che si avvicinavano da qualche centinaio a qualche decina
di metri, il lentissimo movimento di Ikarus sembrò farsi sempre
meno lento, anzi, alla fine sembrò minacciosamente veloce.
I motori di manovra di Podsadka si azionarono al massimo, rallentando
quell’incombere minaccioso. Anche i motori dell’Ikarus emisero vaghi sbuffi
bianchi.
“Ci siamo. Tenetevi!”, avvisò Grigoriy.
Il contatto fu un po’ energico, e il sistema Kontakt scattò
come una serratura.
“Compagni, abbiamo attraccato, e siamo ancora interi!”, disse soddisfatto
Timinenko.
“Signori, vi lascio la camera nuziale”, scherzò, ritirandosi
nel modulo di rientro.
Le due ingombranti tute spaziali erano agganciate alle pareti sferiche,
fissate da cinghie. Le liberarono, poi aprirono i loro zaini-portelli posteriori,
ruotandoli sulla sinistra e scoprendo gli accessi rettangolari, nei quali
si infilarono a partire dalle gambe.
Appena le tute furono sigillate, comunicarono: “Dom, qui Ikarus
uno. Siamo pronti all’attività extraveicolare”.
“Qui Dom. Procedete con una ricognizione visuale di eventuali danni”.
“Ehi, un attimo, per piacere, io non ho la tuta spaziale”; il pilota
salutò con la mano, poi sigillò il portello del modulo di
rientro.
“Dom, qui Ikarus uno. Procedo alla depressurizzazione del modulo
orbitale”. Premette una serie di bottoni. Accompagnato da un lampeggiare
di lucette rosse e azzurre, un sibilo, dapprima forte, poi sempre più
debole, segnò l'uscita dell'aria dall’abitacolo.
“Pressione a zero. Valentina, apri il portello!”.
“Eseguo”. Lei sbloccò il portello laterale e assicurò
una fune ad un gancio nell’abitacolo con un moschettone. L’altro capo venne
fissato alla sua vita. “Vado”. Si avventurò fuori con agilità,
afferrandosi ad alcuni appigli esterni, e girò dietro il breve orizzonte
della sfera, dove le due astronavi avevano attraccato muso a muso.
Leonid si sporse dall’abitacolo, tenendo tesa la fune di Valentina.
“Come va?”
“Si vede la Luna all’orizzonte. E’ bellissima, sembra che ci guardi”.
“Voglio dire: vedi danni di qualche tipo?”.
“C’è qualche piccola deformazione sul sistema Kontakt passivo
di Podsadka, ma per il resto è a posto”.
“L’importante è che non sia danneggiato il sistema attivo
del LOK, se no addio attracco del modulo lunare”.
“Ripeto, mi sembra tutto a posto”.
“Allora entra nel LOK”.
Valentina riapparve alla sua vista, arrampicandosi sul fianco dell’altro
modulo sferico. Armeggiò qualche secondo con una chiusura, poi sparì
un attimo alla vista, infine si affacciò fuori col solo tronco.
“Tutto a posto. Ho agganciato la fune. Vieni pure”.
Leonid si assicurò il moschettone alla vita, poi uscì,
chiudendo con cura il portello della Soyuz. Era scuro, lì fuori,
rischiarato solo dalla luna piena, ancora piuttosto alta, che si muoveva
visibilmente. La Terra scorreva piano sotto di lui, dormendo nella notte;
pochissime luci di città erano distinguibili, e solo un vago chiarore
si vedeva lungo l’orizzonte a est. Le stelle, per contro, erano nitidissime,
numerosissime, impossibili da contare.
Aggrappandosi a piccoli appigli, passò sopra la prima sfera,
diede un’occhiata vaga al sistema Kontakt, poi, a disagio nel vuoto, si
arrampicò sulla testa curva del LOK, dove lo aspettava Valentina,
pronta ad aiutarlo a entrare.
Riavvolta la fune, chiusero il portello.
“Dom, qui Ikarus. Siamo a bordo”.
“Ikarus, aspettate a pressurizzare l’abitacolo. Vedete danni?”.
“No”. Si guardarono attorno, inquieti.
“Solo un po’ deformato il Kontakt di Podsadka”, aggiunse Valentina.
“Ikarus, aspettate, non pressurizzate ancora l’abitacolo. Adesso
facciamo staccare Podsadka, poi procedete ad un controllo visuale dell’aggancio
su Ikarus”.
Uno scatto metallico segnò il disimpegno dell’arpione dall’arnia
di alluminio dell’altra cosmonave. Dal piccolo oblò anteriore, la
luna illuminò due piccoli sbuffi di idrazina dai motori di manovra
della Soyuz, che iniziò a retrocedere lentissima, per poi fermarsi
a dieci metri da loro.
Valentina tornò a legarsi e ad aprire il portello, sparendo
subito alla vista. Qualche secondo dopo, batté sull’oblò
frontale, salutando con la mano. “Lev, qui è tutto a posto. Non
c’è un graffio”.
Poco dopo, i due astronauti ripressurizzarono l’abitacolo, mentre
l’altra astronave, dopo essersi allontanata retrocedendo lentamente ed
essersi girata leggermente verso la Terra, riaccese il motore principale
e sembrò accelerare nel senso opposto al loro, mentre in realtà
stava frenando per uscire dall’orbita.
“Qui Ikarus. Grazie di tutto, Podsadka”.
“Qui Podsadka. Buona fortuna a voi”.
A quell’augurio, seguì da presso l’accensione di una spia
sul cruscotto.
Leonid si avvicinò ed osservò il manometro. “C’è
un calo di pressione”.
“Cosa?”, fece Valentina, che si era appena sfilata il casco.
La voce del controllore risuonò negli auricolari: “Ikarus,
qui Dom. Ci risulta una perdita di pressione nell’abitacolo. Confermate?”.
“Qui Ikarus. Confermo. Meno quindici millibar… diciassette. Continua
a diminuire”.
Valentina si avvicinò al portello, scrutandolo. “Se la perdita
è qui, potremmo tentare di sigillarla”. Estrasse, da una cassetta,
un rotolo di nastro telato argenteo, e tagliò alcuni pezzi che dispose
lungo il bordo circolare del portello.
Leonid guardò il lavoro con aria scettica, mentre un sibilo
da una bombola di aria compressa rimarcava che un pressostato stava compensando
la perdita.
Quando Valentina ebbe finito di contornare il portello, Leonid riguardò
il manometro: “La perdita sta continuando”.
“Cerchiamo di capire dov’è”, disse lei, con i primi segni
di agitazione nella voce. “Vediamo… se è stata provocata dall’attracco,
forse è alla giunzione con il blocco motori di manovra”. Cominciò
affannosamente a nastrare attorno alla giunzione, una calotta che si protrudeva
nella parte anteriore dell’abitacolo. “Miseria… alcune parti non sono accessibili!”.
Si alzò in piedi, le labbra contratte, mentre un altro sibilo
di aria compressa ripristinava la pressione.
Leonid non aveva mai perso d’occhio il manometro. “Dom, qui Ikarus.
La perdita sta continuando. Non riusciamo a individuarla”.
“Qui Dom”. La voce nella cuffia era cambiata. Gli sembrava quella
del progettista capo, Mishin. “Comandante, anche lei ha esaminato lo stato
del sistema Kontakt dopo l’attracco?”.
“Veramente… no. Solo l’ingegnere di bordo. Però il Podsadka
si è sganciato senza difficoltà”.
Osservò lo sguardo supplichevole di Valentina, poi l’abitacolo
rappezzato di nastro argenteo, quindi l’ago del manometro che continuava
a scendere lentamente. “Dom, cosa dobbiamo fare?”.
Dopo una lunga pausa, all’auricolare arrivò la risposta:
“Ikarus, non si può continuare in queste condizioni; vi porteremo
a terra alla prossima finestra di rientro, tra un’ora”.
Il tono stanco e deluso di quelle parole traspariva anche a distanza,
ma lo sguardo pietrificato di Valentina era ancora peggio. Dopo un attimo,
lei balbettò: “Dom… pos.. possiamo ritirarci nel modulo di rientro,
pressurizzare solo quello e proseguire verso la Luna senza…”.
“Ikarus, taci!”, la apostrofò l’auricolare, “Le nostre trasmissioni
potrebbero essere ascoltate!”, poi, più dolcemente: “Il vostro coraggio
non è in discussione, compagni, ma le premesse sono troppo cattive.
Ora rimettetevi i caschi, poi aprite il portello del modulo di rientro.
La perdita potrebbe anche essere nella giunzione tra i due moduli. Quindi,
ritiratevi nel modulo di rientro e chiudete il boccaporto.
“Qui Ikarus. Eseguiamo”, rispose lui, deluso ma anche sollevato.
Se qualcosa doveva andare storto, il fatto che fosse successo ancora in
orbita terrestre, prima di avventurarsi in un viaggio di una settimana
verso la Luna, poteva essere il minore dei mali.
Anatoli volge lo sguardo al bicchiere ancora sollevato, nella mano sinistra
della zia. “Cosa avrebbe fatto l’altro astronauta, mentre uno allunava?”.
“Sarebbe rimasto ad orbitare attorno alla Luna. Nel girarle dietro,
sarebbe rimasto dapprima senza vedere il sole, e poi neanche la Terra,
nel buio e senza contatti radio. La superficie della Luna sarebbe apparsa
scura, ma in cielo avrebbe potuto scorgere milioni di stelle, anche le
più minuscole. Poi, dopo questa solitudine, avrebbe visto il sorgere
del Sole sulla Luna, e poi anche una falce di Terra, luminosa ed azzurra,
sarebbe apparsa all’orizzonte”.
Valentina fa fare un giro completo al solitario bicchiere orbitale,
e poi lo ripresenta sopra il tavolino. “Dopo alcune ore sulla Luna, l’astronauta
sarebbe ripartito con l’LK, lasciando sul suolo il telaio con le zampe
di ragno”. Si guarda in giro.
“Non abbiamo nessun ragno disponibile”, la previene Marija.
Con una lieve scrollata di spalle, Valentina continua: “Sarebbe salito
fino a incontrare il LOK in orbita lunare, e si sarebbero agganciati testa
a testa”. Accosta i bicchieri fondo contro fondo. “L’astronauta sarebbe
rientrato nel LOK, portando un sacchetto di polvere lunare e pellicole
fotografiche e riunendosi al suo compagno, poi avrebbero abbandonato l’LK
in orbita, come un monumento, e avrebbero accelerato fino a tornare a Terra
dopo tre giorni e mezzo”.
Nel modulo di rientro, con il casco serrato, Leonid osserva gli strumenti
sul suo cruscotto color turchese, mentre Valentina, chiusa in sé
stessa, guarda dall’oblò. L’ingombrante zaino della tuta gli impediva
di sedersi sui seggiolini Kazbek.
“Ikarus, qui Dom. Vi sganciamo dal resto della cosmonave”.
Uno schiocco di bulloni esplosivi, molto vicini, cancellò
ogni possibilità di ripensamenti.
“Ikarus, ora vi orienteremo in posizione di rientro”.
Il sibilo dei motori di manovra fece lentamente cabrare la navicella
verso l’alto, come se stesse per partire per lo spazio infinito, ma sapevano
che, mantenendo quell’orientamento, completata l’orbita, la navicella sarebbe
stata disposta per frenare.
Dall’oblò, un vivido raggio di sole illuminò il viso
di Valentina, che alzò la mano a proteggersi gli occhi. “Guarda,
Lev”, disse malinconica, senza voltarsi, “La nostra astronave ci dà
l’addio”.
Indicò il candido corpo fusiforme che orbitava alla deriva,
allontanandosi lentamente da loro. Con il sole negli occhi, non era possibile
vedere molti dettagli, come il modulo lunare rintanato dentro il rivestimento.
Un sibilo di aria compressa sottolineò le sue parole.
Si spostò ancora nel modulo orbitale, godendosi l’ultima
occasione di galleggiare senza peso, e guardò dal suo oblò.
“La Luna è già tramontata dietro l’orizzonte. Sembrava così
vicina, neanche un’ora fa…”.
“La vedremo sorgere dall’altra parte dell’orizzonte, prima di atterrare”,
disse Leonid, spostandosi per guardare a sua volta.
L’ombra della notte veniva loro incontro, sulla Terra. La luce radente
del tramonto giocò sulle Ande, creando un gioco di rilievi illuminati
di arancio e ombre azzurre sempre più lunghe, finché l’oscurità
avanzante ingoiò tutta la Patagonia proprio mentre la stavano sorvolando.
Qualche debole luccichio evidenziava piccole città di cui non conoscevano
il nome, poi passarono sopra l’immenso deserto buio screziato di nuvole
bianche dell’Atlantico australe, diretti sempre più verso l’equatore.
Dopo venti minuti interrotti solo da qualche sibilo di aria compressa
e qualche banale trasmissione da Dom, all’orizzonte riapparve la Luna,
rischiarando l’oceano con riflessi bianco panna.
Poco dopo, contro i riflessi all’orizzonte cominciò a stagliarsi
una terra nera, con la linea di costa punteggiata da poche, fievolissime
lucine.
“Ecco il golfo di Guinea”, disse Valentina con un filo di voce.
L’auricolare interruppe quell’attesa surreale: “Ikarus, preparatevi
all’accensione del motore tra seicento secondi”.
“Ricevuto. Valentina, torna nel modulo di rientro, togliti la tuta
e assicurati al sedile”.
“Ikarus, cinque secondi. Quattro… Tre… Due… Uno…accensione!”.
Quando il motore si accese, sentirono nuovamente lo scroscio sordo,
le vibrazioni, la sensazione di essere schiacciati contro gli schienali,
ma ciò che ora provavano dentro era molto diverso.
Valentina riguarda, insoddisfatta, il bicchiere che tiene in mano, poi
adocchia il bicchierino di vodka ormai piangente che aiuta Leonid a tenere
occupate le mani. “Lev, me lo dai? Grazie… adesso qualcosa di tondeggiante”.
“Ecco, zia”. Anatoli le porge rapidamente un fazzoletto appallottolato.
“E’ pulito”, rassicura vedendola storcere il naso.
Valentina tiene assieme con le mani i tre oggetti. “Ecco, immaginate
che questo sia il LOK. E’ costituito da: un modulo di servizio con motore-
batte il dito sul bicchiere- un modulo di rientro a forma di campana, con
l’equipaggio durante il lancio e il rientro – agita il bicchierino in mezzo-
e il modulo orbitale”. Solleva il trio improvvisato a pallottola in su.
“Arrivando dalla luna alla Terra, prima rallentavano per quanto possibile
usando il motore del modulo volto in avanti, poi mollavano sia il modulo
di servizio che il modulo orbitale. Mi tieni il bicchiere, Marija?”, chiede
alla ragazza ansiosamente inginocchiata al suo fianco, che lo mette rapidamente
in salvo. “Grazie. Poi il modulo di rientro, protetto dal suo scudo
termico in resine speciali, avrebbe affrontato di schiena il rientro nell’atmosfera
terrestre, con l’angolo di rientro esatto per rimbalzare due volte e perdere
un po’ di velocità”. Fa vedere il bicchierino rimbalzare due volte,
di striscio, contro un ostacolo immaginario. “Sbagliando l’angolo, sarebbe
stati rimbalzati a perdersi nello spazio, oppure bruciati come stelle cadenti
a causa dell’attrito con l’atmosfera”. Ora il bicchierino rovesciato scende
obliquamente. “Invece va giù, avvolta da una coda di fiamme dovute
allo scudo termico che si volatilizza assorbendo il calore d’attrito. L’aria,
ionizzata dal calore, avrebbero reso impossibili le trasmissioni radio
per i cinque minuti più caldi. In quegli istanti, gli astronauti
sarebbero schiacciati contro i sedili da una decelerazione di sei g”.
Ivana sta dividendo la sua attenzione tra un cartone animato e la dimostrazione
della zia, cercando di non perdersi il momento più emozionante,
lo schianto del bicchierino.“Sei g? Cosa vuol dire?”.
“Come se gli astronauti pesassero sei volte il loro peso normale”,
risponde Anatoli.
“Come?”, spalanca gli occhioni azzurri, “Sono ingrassati così
tanto?”.
Il ragazzo la guarda con compassione. “Non sono discorsi da f…”, poi
si corregge, “... da bambine”. Poi sollecita Valentina: “Vai avanti, zia”.
“Ventisei minuti dopo il distacco, il modulo di rientro si sarebbe
trovato a sette chilometri di altezza; allora si sarebbe aperto il paracadute
principale, che lo avrebbe portato a terra in tredici minuti, in tutta
sicurezza”. Mentre Valentina sorride rassicurante, il bicchierino le sfugge
tra le dita. “Att…”.
Marija, che non aspettava altro, lo afferra a pochi centimetri dal
pavimento. “Salvo!!!”, grida sollevata.
“Ikarus, adesso sganciamo i pesi morti”, li avvisarono dall’auricolare.
Un attimo più tardi, i cosmonauti sentirono lo schiocco vicinissimo
dei bulloni esplosivi tutt'intorno.
Dagli oblò non si vide niente, ma sapevano che, oltre il
boccaporto davanti a loro, ora c’era solo il vuoto, e dietro…
Delle luci si accesero sul cruscotto. “Il modulo…”, sussurrò
Leonid con gli occhi sbarrati.
“Ikarus, qui Dom”, la voce era allarmata, “Ci risulta che il vostro
modulo di servizio non si sia staccato”.
“Qui Ikarus. Temo che sia così”.
“Provate ad azionare voi il pulsante”.
“Eseguo”. Leonid sollevò una sicura e premette un bottone
rosso, più e più volte. “Niente!”.
Guardò Valentina. La vide con gli occhi sbarrati.
“Posso tentare di uscire…”, disse lei poco convinta. No, era assurdo.
Quando l’attrito con l’aria cominciò a farsi sentire, la
loro capsula si dispose ad affrontare la discesa di lato. Sinistri guizzi
rossastri cominciarono a balenare dagli oblò, mentre l’abitacolo
iniziava a surriscaldarsi. La capsula non avrebbe resistito a lungo: sui
fianchi, il suo spessore era solo un sesto di quello dell’ormai inutile
scudo termico che avevano alle spalle. Il sibilo dell’aria sull’involucro
si fece sempre più forte.
“Dom, provo a raddrizzarlo con i motori di manovra posteriori”.
Leonid passò al comando manuale, mentre cercava di comunicare:
“Ikarus a Dom . Rispondete! Stiamo scendendo di lato! Rispondete, Dom.
Maledizione, rispondete!”.
Dopo qualche tentativo senza risultato, si arrese. “Inutile”, disse
a sé stesso. “Moriremo come Komarov”.
D’un tratto, udirono uno schiocco, e la sonda ruotò su se
stessa per più volte, come impazzita, prima di stabilizzarsi.
“Si è staccato!”. Leonid diede un’occhiata agli strumenti.
“Ora stiamo scendendo di spalle! Siii!”, si concesse di esultare.
“Allora ce la caveremo”, disse Valentina, ma non riuscirono a voltarsi
per scambiarsi un’occhiata: la decelerazione, sempre più forte,
li schiacciava contro gli schienali.
“Forse”, rispose lui, osservando le vampate al di fuori dell’oblò.
Qualche minuto dopo, il rumore e la sensazione di schiacciamento
si attenuarono.
“Ikarus a Dom. Assetto normale. Dom, rispondete!”.
Nelle cuffie si sentì solo la statica.
Valentina si voltò verso di lui. “Forse si è danneggiata
l’antenna”.
“Speriamo solo quella. Comunque io insisto, forse loro ci possono
sentire”. Guardò l’altimetro che scendeva velocemente. “Dom, sono
a ottomila metri… settemilacinquecento…. Settemila… dovrebbe aprirsi il
paracadute”.
Niente. Leonid era sgomento.
“Dom, il paracadute non si è aperto. Passo a procedura manuale”.
Disarmò una sicura e premette un pulsante.
Ancora niente.
“Non si è aperto. A cinquemila, passo al paracadute di emergenza.
Cinquemilacinquecento… cinquemila… ora!”.
Tirò la manopola. Fece seguito un debole rumore, uno scossone,
niente di più. Nessuna sensazione di frenata.
“Dom! Cadiamo come sassi! Dom, maledizione, ci senti?”. Batté
inutilmente un pugno contro l’involucro curvo dello scafo.
“Valentina… stiamo per morire!”.
Nell’auricolare sentì una litania, come una specie di preghiera:
“Per qualche cosa bisogna vivere, per qualche cosa bisogna morire. Per
qualche cosa bisogna vivere…”.
Tremilacinquecento metri. L’altezza scendeva vertiginosamente. Leonid
restò impietrito, impotente, a guardare la lancetta, mentre davanti
agli occhi cominciarono a scorrergli scene della sua vita che credeva di
avere dimenticato da decenni.
L’altimetro era ormai a millesettecento metri, quando, ormai inaspettato,
un fortissimo strappo li incollò agli schienali.
“Il… paracadute!”.
“… Per qualche cosa bisogna vivere…”.
Valentina, rassicurante, continua il suo racconto: “Dopo l’atterraggio
sulla steppa kazaka, il radiosegnale della sonda avrebbe permesso ai soccorsi
di localizzarla. Dopo una breve attesa, forse festeggiati dai contadini
del posto, i due astronauti sarebbero stati raggiunti da un elicottero”.
Si fa sognante: “In breve sarebbero stati portati a Mosca, al Cremlino,
dove avrebbero stretto la mano ai personaggi più importanti: il
presidente del soviet supremo Podgorny, il premier Kosygin, il segretario
del Partito Breznev…”.
“…La mummia di Lenin, il fantasma di Stalin…”, continua Marija, con
lo stesso tono sognante della zia.
La voce pronta di Anastasiya chiama dalla cucina: “Marija, vieni ad
aiutarmi!”.
Mentre la ragazza se ne va borbottando qualcosa su una congiura neobolscevica,
Valentina riprende: “Quei cosmonauti sarebbero stati insigniti dell’ambita
onorificenza di Eroi dell’Unione Sovietica, come Gagarin, per aver rischiato
le loro vite per dimostrare qualcosa di importante”.
La prima cosa di cui ha trovato ricordo, dopo una lunga nebbia, era
di essere a letto in una candida camera d’ospedale. Probabilmente era già
sveglio da prima, ma senza essersene reso conto.
Qualcuno bussò alla porta. Dopo un lungo intervallo, lui
si sentì rispondere un “Avanti” stentato, che quasi non riconobbe
come suo.
Quando si aprì la porta, vi apparve il colonnello Kamanin
in alta uniforme, con il berrettone da ufficiale educatamente in una mano
e un quotidiano nell’altra. Si richiuse accuratamente il battente alle
spalle, poi parlò. “Cosmonauta Leonid Mikhailovich, sono felice
di vederti finalmente sveglio”. Gli sorrise, ma tutto il suo modo di fare
lasciava trasparire un’ombra.
“Colonnello Kamanin… come sta Valentina Yakovna?”.
“Non male. Più o meno, come te… a parte i capelli. L’hanno
rasata per una ferita, e ho avuto l’impressione che le stiano ricrescendo
bianchi. Mi ha chiesto e richiesto di te, come se non ricordasse le mie
risposte, ma i medici mi assicurano che è temporaneo. Avete picchiato
duro”.
Leonid cercò di raccogliere i ricordi, ma mancava qualcosa
di importante. “Il paracadute…”.
“Si è aperto in ritardo, ma in tempo per salvarvi la vita”.
Fece un passo avanti. “Leonid Mikhailovich, voglio complimentarmi con te,
a nome dell’Unione Sovietica e di tutto il team della missione”. Poi, con
rammarico, gli porse il giornale. “La Pravda del 21 luglio 1969”.
Leonid si tirò su, sfidando un capogiro, e tentò di
metterlo a fuoco. In prima pagina, una piccola fotografia mostrava un astronauta
bianco in posa davanti a un qualcosa di simile ad un mascherone con delle
zampe di ragno, sullo sfondo di un cielo nero.
“Gli americani ci sono riusciti prima di noi”, commentò amaramente
Kamanin. “Abbiamo giocato il tutto per tutto per batterli, ma non è
bastato. Comunque, il bilancio non è del tutto negativo. Voi siete
salvi, e il missile N1 ha funzionato al di là delle nostre aspettative.
Le esperienze raccolte ci serviranno per la prossima missione”.
“Ce ne saranno?”.
“Sono allo studio. Non possiamo più battere sul tempo gli
Americani, ma possiamo fare meglio di loro, anche se arriveremo soltanto
per secondi”. Tacque a lungo, mentre Leonid tentava di mettere a fuoco
almeno i sottotitoli del giornale, senza successo.
“Leonid Mikhailovich, devo ricordarti una cosa importante: questa
missione è tuttora segreta. Ufficialmente il programma N1-L3 non
esiste, e il nostro governo continua a sostenere pubblicamente che sarebbe
sciocco mettere in pericolo la vita di cittadini sovietici per qualcosa
che può benissimo essere svolto da sonde automatiche senza equipaggio”.
Si interruppe con una smorfia di amarezza. “So che meritereste una medaglia
per i vostri sacrifici, però non dovrete raccontare niente, almeno
finché non sarete ufficialmente autorizzati. Il vostro ricovero
sarà attribuito ad un incidente con un elicottero. Abbiamo già
detto questo, a tua moglie. Ah… presto la autorizzeremo a venire qui a
trovarti”.
“Un incidente con un elicottero…”, ripeté incredulo Leonid.
“So cosa stai pensando, compagno cosmonauta. Purtroppo questa decisione
è stata presa molto in alto. Per ora è necessario così,
perché ogni ammissione di un vostro volo spaziale potrebbe aprire
la strada a domande che, per ora, sono considerate imbarazzanti”. Facendo
un passo indietro, il colonnello aggiunse: “Sono sicuro che il futuro renderà
giustizia alla vostra impresa, compagno cosmonauta”.
Mentre Kamanin stava per andarsene, Leonid lo fermò: “Compagno
colonnello, ancora una domanda…”.
“Si?”.
“Come sta Valentina Yakovna?”.
Ivana drizza le orecchie. “La macchina di papà!”, e si precipita
verso la porta.
“Il cappotto! Non prendere freddo!”, le grida dietro la mamma, ancora
impegnata ai fornelli.
Poco dopo, il padrone di casa sorridente fa il suo ingresso. “Ciao,
Valentina. Ehilà, Leonid, niente divisa quest’anno?”.
Baci e abbracci. “Ma che bene che stai!”. “E il tuo lavoro?”. “Non
ci si vedeva da un anno!”.
Anastasiya si sporge dalla cucina. “Evgeniy, arrivi puntualissimo per
il pranzo. La zuppa è pronta, potete sedervi tutti a tavola!”.
Alla fine, la pentola alluna felicemente sul tavolone, e la donna comincia
orgogliosamente a riempire le zuppiere con un mestolo di rame, mentre Marija
riposiziona i bicchieri faticosamente salvati dalla missione spaziale.
Ivana ha negli occhi la luce dei buoni propositi, e dice con voce squillante:
“Prima di mangiare, facciamo tutti un augurio per l’anno che sta per iniziare”.
“Brava figliola”, si compiace Anastasiya. “Chi vuole iniziare?”.
“Io!”. Ivana si siede compunta, come per pregare. “Io auguro che tutti
gli uomini diventino buoni, e torni la pace nel mondo”. Poi guarda il fratello,
seduto accanto.
Anatoli proclama solenne: “Io spero che la Russia riprenda a costruire
grandi astronavi, per portare i nostri cosmonauti sulla Luna e su Marte”.
Evgeniy, seduto a capotavola, lo guarda con preoccupazione: non diventerà
mica un illuso nostalgico morto di fame come gli zii? Poi prende la parola:
“Io auguro che la crisi economica finisca, e che la Russia torni a prosperare”.
Anastasiya, sedendosi accanto al marito, alza il bicchiere ancora vuoto.
“Io auguro fortuna, felicità e salute per tutti noi. Quando ci sono
queste cose, il resto è un di più”. Poi si rivolge al cognato
con un sorriso. “Lev…”.
Leonid ci pensa un attimo. Lo scorso anno aveva augurato che qualcuno
salvasse la Patria dal baratro in cui stava cadendo, col risultato di bisticciare;
ma soprattutto, in un anno, nessuno aveva salvato un bel niente.
“Mi auguro che la Russia possa tornare efficiente, ordinata e rispettata
nel mondo”.
Marija si rilassa e ritira gli artigli. “Io auguro un futuro migliore
sia del passato sia del presente”. Alla fine si volta, con un sorrisino,
verso la zia.
Valentina riflette: “Io auguro che il futuro non sia com’era il passato,
ma piuttosto come quel passato ci sembrava. Auguro che si possa trovare
ancora un ideale in cui credere, per cui valga la pena di vivere e, se
necessario, anche di morire”.
Note dell’autore:
Questo racconto è stato scritto per partecipare alla disfida
di True Colors.
I temi sono: il futuro e, scelta tra quelli del set Astral, la Luna.
Ho deciso di interpretarli come il ricordo di una missione lunare fallita.
Non insisterò sull’attinenza del tema con la Luna, ma mi pare
giusto chiarire cosa c’entra il futuro, visto che la storia è ambientata
in un passato, circa il 1994, nel quale si ricordano avvenimenti ancora
più passati, del 1968-69.
A quell’epoca, la conquista della Luna faceva parte di un immaginario
futuristico, sia in Unione Sovietica che in Occidente.
Inoltre, ho cercato di rendere un continuo paragone tra il futuro che
sembrava attendere l’Unione Sovietica negli anni 60 e quello che si è
effettivamente realizzato venticinque anni dopo.
I personaggi di Valentina, Leonid, Anastasiya, Marija, Anatoli, Ivana
ed Evgeniy sono di mia fantasia, come pure l’astronauta Grigoriy.
Viceversa, i capi progettisti Korolev e Mishin, il colonnello Kamanin,
gli astronauti Gagarin, Komarov e Leonov, la pilota Litvyak, come
pure i politici Eltsin, Krushev, Breznev, Kosygin e Podgorny sono personaggi
storici.
Gli Ortodossi festeggiano il Natale il 7 Gennaio, mentre i regali, portati
da Nonno Gelo, si trovano sotto l’albero il 1 gennaio.
E’ realtà che i Sovietici seguissero due programmi spaziali lunari
concorrenti tra loro: L’ L1-Proton del capo progettista Chelomei, che non
prevedeva un allunaggio di astronauti, e il più ambizioso N1-L3,
simile all’Apollo americano, iniziato da Korolev e proseguito da Mishin.
I sovietici erano partiti in ritardo rispetto agli Americani, con meno
fondi e divisi da rivalità tra i progettisti. Consapevoli delle
loro scarse possibilità di successo, tennero segreti questi programmi,
che vennero divulgati solo alla fine degli anni ‘90.
Il primo lancio senza equipaggio del grande missile N1, il 21 febbraio
1969, fallì a causa di un guasto del primo stadio, come descritto
anche nel racconto.
Il secondo lancio senza equipaggio avvenne proprio il 3 luglio 1969,
ma in realtà andò molto peggio: i motori si spensero a soli
duecento metri d’altezza; il grande missile ricadde ed esplose, distruggendo
la sua rampa e danneggiando anche la gemella a mezzo chilometro di distanza.
Due lanci successivi avvennero nel 1971 e nel 1972, ma entrambi fallirono
a causa di malfunzionamenti nel primo stadio, finché il programma
fu abbandonato.
Per quanto riguarda il metodo Podsadka di trasporto separato degli astronauti
in orbita, esso fu studiato nell’ambito del programma L1 per sopperire
ai rischi e all’insufficiente carico utile dei vettori Proton; qui è
stato immaginato adattato alla missione N1-L3, attribuendo il nome Podsadka
(colui che aiuta qualcun altro a salire a cavallo) all’appellativo radio
della Soyuz-taxi, mentre l’appellativo radio dell’N1-L3 è stato
supposto Ikarus, che non ha bisogno di essere tradotto.
Dopo indecisioni e rifacimenti, ho immaginato che il sistema di attracco
utilizzato per il trasbordo dell’equipaggio fosse lo stesso che tra LOK
e LK, cosa che mi ha consentito di ipotizzare che un attracco duro avesse
creato leggeri ma fatali danni all’astronave, facendo fallire la missione.
Per quanto riguarda la parte finale della missione, il loro rientro
fortunoso a Terra, mi sono ispirato all’analogo rientro della Soyuz 5 del
cosmonauta Boris Volynov nel gennaio 1969.
Questo incidente è capitato diverse volte nel programma Soyuz.
Pur non essendo catastrofico, conduce ad un rientro più violento,
a 9 g, con punto di atterraggio anticipato, rispetto al rientro semi-portante
a 6 g.
Ringrazio Silen Arpia per il suo costante incoraggiamento, per il betaggio
e per la sua consulenza sulla Russia, intesa come usi, nomi e lingua.
Ringrazio Giuseppe De Chiara per i suoi suggerimenti astronautici; assieme
a Luigi Petrucci, Giuseppe ha scritto il romanzo “Luna rossa”, in cui si
immagina che il capo progettista Korolev, anziché morire nel 1966,
fosse sopravvissuto fino a portare i Sovietici al successo nella corsa
alla Luna.
Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, ho cercato di descrivere accuratamente
il profilo di missione, ma non escludo di aver commesso errori, anche a
causa del tempo limitato rispetto alla complessità del lavoro.
E’ stato supposto che sia stato possibile mantenere segreta la missione,
nonostante che gli Americani avrebbero potuto osservare il lancio con satelliti
da ricognizione, o captarne le trasmissioni radio. Se le loro informazioni
erano frammentarie, potrebbero comunque averla fraintesa.
Chiunque abbia osservazioni e correzioni è pregato di farmele
conoscere, in vista di una possibile riedizione migliorata di questo lavoro.
Per chi volesse saperne di più, aggiungo qualche link, scelto
tra i molti siti che ho consultato:
Una storia dettagliata, in inglese, del programma lunare sovietico:
http://www.ryp.umu.se/~96ml/moon1.htm
mentre in Italiano una versione più semplice si trova al
http://www.bo.astro.it/universo/sputnik50/CSC/ASTRO/PAG72D9.HTM?sec=scheda_unavolta&id=21
oltrechè sulla Wikipedia, dove si possono anche vedere le bibliografie
dei personaggi.
Una descrizione storica e tecnica, in inglese, della missione, delle
installazioni e delle astronavi, completa di molte illustrazioni e dati
tecnici, si trova su
http://www.russianspaceweb.com/index.html
Una descrizione dettagliata in italiano, ricca di immagini, si trova
al
http://www.forumastronautico.it/index.php?topic=1290.0
Molte illustrazioni si trovano anche a
http://www.myspacemuseum.com/sovspac1.htm
Una descrizione del metodo Podsadka, in inglese, si trova al
http://www.astronautix.com/articles/theoblem.htm
e al
http://www.astronautix.com/articles/theghoax.htm
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