Rating:
NSFW
Prompt:
ONE PIECE, Nami/Zoro, Au!Noir Zoro investigatore/Nami femme fatale
Note:
questa storia è stata scritta per il porn fest 9
di Fanfic
Italia. Non è betata quindi potrebbero essere presenti
errori.
Noir
Come
sempre, in questa fetida città, piove.
L'acqua
è fredda e scivola rapida sul mio impermeabile chiaro,
oramai zuppo,
anche il cappello serve a poco, se non a nascondere il mio volto
seccato nella penombra della sera; fa un freddo fottuto e comincio a
pentirmi di avere accettato questo maledetto incarico, ma, come al
solito, mi servono soldi.
La
luce fioca del lampione accanto a cui aspetto con impazienza illumina
a malapena il tratto di strada davanti a me, siano maledette la
pioggia e la nebbia. Persino il refolo di fumo della sigaretta che
sto fumando si confonde tra gli spessi banchi grigi che mi occludono
la visuale.
Avrei
dovuto rifiutare nel momento stesso in cui quel tizio è
entrato nel
mio ufficio; capelli rossi che sembravano non avere mai visto un
pettine in vita loro e tre cicatrici su occhio (un animale durante
una battuta di caccia, aveva detto, ma oramai sono in grado di
percepire quando la gente mi sta mentendo), avrei dovuto riconoscerlo
subito, avrei dovuto capire che non era un tipo raccomandabile, ma
quell'assegno a quattro zeri era un'occasione troppo ghiotta per
lasciarsela sfuggire, troppo invitante.
«Devi
solo trovare la donna».
E
io l'ho fatto, l'ho cercata in ogni bettola di questa città
puzzolente, ogni locale, da quelli più eleganti, avvolti in
una
patina di lusso e ipocrisia, a quelli più schifosi, dove non
entreresti nemmeno per usare il cesso. Alla fine l'ho trovata, anche
se la foto in bianco e nero che mi è stata consegnata non le
rende
giustizia. Non è stato facile, si era nascosta bene, sapeva
che la
stanno cercando, lo sa ancora, e non sembra tipo da cedere
facilmente.
Si
muove tra i tavoli di uno squallido locale, anche se locale non
è il
termine adatto, l'ho riconosciuto quel posto e non è di
sicuro un
luogo raccomandabile, anche se è perfetto per nascondersi;
in fondo
nessuno andrebbe a cercare una donna come lei in un bordello,
sicuramente non uno squallido come quello.
La
donna che lo gestisce si chiama Shakuyaku e a Rouge Town la conoscono
tutti, perfino io; non che possa dire di conoscerla davvero, le
nostre strade si sono incontrate una sola volta, molti anni fa,
quando ancora in questo schifo di città si riusciva a vedere
il
cielo, prima che le nubi tossiche dei gas di scarico avvolgessero
ogni cosa.
Spengo
il mozzicone di sigaretta con il tacco della scarpa e mi decido ad
entrare, questo gelo del cazzo mi è penetrato fin dentro le
ossa e
non ha più senso che io rimanga qui ad aspettare, non ora
che sono
sicuro che sia lei.
La
porta si apre con un cigolio sinistro e il calore dell'interno mi
avvolge come un abbraccio, seguito poco dopo dal lezzo maleodorante
di sesso misto ad alcool, il fetore caratteristico di questa
città.
Lo
ignoro, ci sono abituato.
Al
momento tutto quello che mi interessa è la ragazza e lei
pare averlo
intuito. Ovviamente non è la sola.
«Roronoa
Zoro, se questo non è un fortunato scherzo del
destino».
«Shakky»
maledetta strega, detesto quando usa quel tono di voce. Sa qualcosa
che io non so e sa anche che non vedo l'ora di scoprire di cosa si
tratti.
La
rossa mi guarda da dietro le sue lunghe ciglia scure e riesco a
intravedere un sorriso di soddisfazione piegarle le labbra, diamine,
non sono stupito che quel tizio stia smuovendo mari e monti pur di
ritrovarla. Improvvisamente non mi sento più così
sicuro di me,
forse chiamare Shanks per rivelargli dove si trova la ragazza non
è
un'idea così brillante: Shakky sembra capirlo.
«Seguimi».
Sono
trascorsi più di dieci anni dall'ultima volta che ho messo
piede nel
suo ufficio, il legno è marcio e la tappezzeria alle pareti
è
sempre la stessa, macchiata in più punti, con
quell'insopportabile
decorazione floreale. Shakuyaku fuma una sigaretta sottile, posta
all'estremità di un bocchino nero che deve avere aver visto
tempi
migliori, mi osserva, seduta su una sedia di pelle sbrindellata e se
non la conoscessi penserei che mi stia studiando. Malauguratamente
per me la conosco fin troppo bene e sono sicuro che lo stia facendo,
sta valutando cosa dirmi, in che misura e quali parole usare; ho
sempre odiato queste situazioni, non sono un uomo paziente e
preferisco i modi spicci a quelli calcolati di gente come lei.
«Sei
qui per Nami, non è così?»
Mi
tolgo il cappello, appoggiandolo davanti a lei, e con gesti lenti mi
accendo una sigaretta, la guardo appena oltre la fiammella tremolante
dell'accendino.
«È
così che si chiama la ragazza?»
«Non
ti hanno nemmeno detto il suo nome?»
«Il
rosso non è uno di molte parole, dovresti saperlo, in
compenso paga
bene».
«E
quindi tu non hai esitato ad accettare il lavoro, come biasimarti,
Roronoa, sanno tutti che non navighi nell'oro».
«Quindi
saprai che non potevo certo rifiutare».
«So
che avresti potuto chiedere più informazioni».
Scuoto
la testa, so che ha ragione, ma so anche che è perfettamente
consapevole del perché non abbia fatto domande al Rosso.
Nessuno fa
domande al Rosso.
«Vuoi
saperla la sua storia? O pensi ancora che non fare domande sia
meglio?»
Non
rispondo, non ho intenzione di farlo, di chiacchiere ne ho
già
sentite troppe.
«Lui
lo avrebbe fatto, avrebbe ascoltato e avrebbe deciso di fare la cosa
giusta».
Questo
è un colpo basso, lo sappiamo entrambi; nominarlo davanti a
me è un
modo quasi sicuro per ottenere un favore, o una pallottola in mezzo
agli occhi. A Shakky però non posso sparare, quindi mi
limito a
sedermi, in silenzio, mentre al piano di sotto qualcuno infila una
moneta nel juke box e fa partire un jazz malinconico.
La
cosa giusta.
Quando
ho iniziato a fare questo lavoro ero davvero convinto che fosse
quello l'importante: fare la cosa giusta, aiutare la gente, essere il
braccio della giustizia là dove la giustizia ufficiale
(quella col
distintivo, quella corrotta vestita di blu) non poteva arrivare.
Non
so bene quando sia stato che ho perso la speranza; il mio nuovo
collega sostiene che sono morto dentro, che ho perso fiducia in
qualsiasi cosa nel momento in cui mi sono ritrovato a stringere il
corpo senza vita del mio migliore amico, del mio partner, in un
vicolo buio di questa città marcia, tra pozze di pioggia e
puzza di
piscio.
Forse
è vero, ma non ha importanza.
Shakuyaku
è riuscita a fare leva sulla mia coscienza e ora
già penso con
rimpianto ai soldi che non incasserò. Al diavolo la cosa
giusta.
Sono
seduto su un divano foderato in quello che sembra velluto verde,
forse una volta il colore era più chiaro, ma ora ha la
stessa
tonalità di una divisa militare; mi chiedo chi possa volersi
sedere
su un oggetto simile in un bordello, oltre me, ben inteso.
Non
la sento arrivare e quando si siede accanto a me trattengo a malapena
una bestemmia.
È
fasciata in un vestito scuro e mi fissa con occhi da cerbiatto,
capisco sempre di più perché il Rosso abbia perso
la testa per
questa donna; mi sorride appena, e allunga un braccio fino a sfiorare
il mio. Non devo essere un grande spettacolo, i miei abiti sono
vecchi, leggermente consunti e sporchi, non è un lavoro
piacevole il
mio, e di riflesso non lo è niente di ciò che mi
circonda. Nemmeno
io sono una persona piacevole, almeno ne sono consapevole.
«Vorrei
ringraziarti» dice con voce suadente e, dannazione, quando mi
tira
in piedi non riesco a opporre resistenza.
In
fondo, chi opporrebbe resistenza a una donna del genere?
La
camera in cui mi trascina è troppo bella per un posto come
quello,
ma anche Nami lo è e quindi non mi stupisco più
di tanto.
Il
suo vestito cade con un fruscio di seta e lei rimane nuda davanti a
me, il sorriso non è ancora sparito dal suo volto, ma vedo
brillare
nei suoi occhi una traccia di quella che potrebbe essere irritazione;
con che diritto, poi, dovrei essere io quello irritato!
«Credo
che tu sia troppo vestito, signor investigatore».
Non
faccio a tempo a replicare che le sue mani sono già sulla
cintura
dei miei pantaloni, più veloci di quanto non avrei potuto
immaginare; cadono ai miei piedi e sento le sue mani morbide
infilarsi sotto l'elastico delle mutande e accarezzare leggermente il
mio membro.
«Cosa
stai facendo?»
«Mi
sembra chiaro, sto cercando di ringraziarti, non capita tutti i
giorni, sai?»
Deglutisco,
cercando di non bestemmiare: non mi sembra fine.
Quando
la sua bocca si chiude sulla punta del mio pene sento la gola
seccarsi e non riesco ad evitare che la mia mano scivoli tra i suoi
capelli; probabilmente se il rosso sapesse cosa sto facendo in questo
momento con quella che considera la “sua” donna mi
ucciderebbe.
Decido
che non mi importa.
«Alzati»
borbotto, la mia voce è appena udibile, ma lei capisce lo
stesso e
si tira in piedi, fissandomi con aria divertita.
Le
mie mani non sono delicate come le sue; la sollevo senza cerimonie e
la butto sul letto, facendomi scivolare alle spalle i vestiti che mi
sono solo di impiccio.
«Quindi
non sei poi così lento come pensavo» sussurra,
attirandomi verso di
sé e mordendomi il lobo dell'orecchio.
Non
rispondo, ma affondo il viso tra i suoi seni, sono sodi e morbidi,
non sono mai stato con una donna così bella e non sono
sicuro che
ricapiterà mai. Quando affondo dentro di lei è il
suo turno di
trattenere il respiro; mi chiede il mio nome, e inarca la schiena
cercando di seguire il ritmo dei miei fianchi.
Quando
raggiunge l'orgasmo mi affonda le unghie nelle spalle a getta il capo
all'indietro, i suoi capelli si trasformano in una cascata arancione
e per un secondo perdo la concentrazione, fissando i suoi occhi
appannati e perdendomi anche io nel piacere.
Vengo
dentro di lei e ne emergo subito dopo, rialzandomi senza girarmi.
«Grazie»
borbotto rivestendomi.
«Oh
no, grazie a te» risponde allungandosi come una gatta sulle
lenzuola.
Mi
allontano e raggiungo la porta, pronto a ributtarmi nel mondo, pronto
a tornare alla realtà e a dimenticarmi di lei.
Dovrò pensare a come
gestire il mio cliente, dovrò ammettere di non averla
trovata o
peggio, passerò un brutto quarto d'ora.
Lo
sa anche lei cosa sto rischiando, ma forse per una volta fare la cosa
giusta mi farà sentire meglio.
«Addio»
borbotto, aprendo la porta della stanza. Quindi mi blocco
«Non l'ho
fatto per te».
«Forse
no» risponde piano «Ma l'hai fatto e lo
rifarai».
Trattengo
una bestemmia, ancora una volta.
Dopotutto
questa donna non sa niente di me, non ha idea di cosa voglia dire per
me rinunciare a tutti quei fottuti soldi.
La
porta si chiude alle mie spalle, cigolando piano e io faccio in tempo
a sentirla sussurrare un timido “Arrivederci”.
Questa
volta bestemmio davvero.
Esco
da quel fetido posto, la notte fredda mi attende, la pioggia continua
a cadere, mentre mi allontano a passi veloci, fiancheggiando il muro,
tornando a bagnarmi.
Mi
allontano più che posso, ma dentro di me so già
che tornerò.
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