Parte
II - Terremoto
IX.
La
Fanciulla
impossibile
in cima al vulcano
L’irrequietezza delle bestie è palpabile quanto lo zolfo che
appesantisce l’aria e penetra nelle froge allargate sui lunghi musi neri,
lucidi di sudore.
Con la mano libera, Ade passa il palmo lungo un collo
possente, sulla corta criniera dal pelo setoso e ritto per l’agitazione; per l’ennesima
volta controlla che le redini d’oro siano saldamente assicurate al ramo di un giovane
leccio – poi, si calca bene l’elmo sul capo, celando al disotto il viso
incupito da un cipiglio che gli scava la fronte.
La kuné [1] lo scherma da sguardi
indiscreti, ma nulla può contro lo spiacevole calore che si insinua sotto il
chitone – il pesante soffio della fornace di Efesto [2]
che ammorba quella prigione a cielo aperto ribollente di odio.
Non varca volentieri i confini del suo regno, Ade.
La sua mente è silente mentre prende a inerpicarsi su per la
schiena inarcata del vecchio nemico – sotto i calzari, l’erba si fa sempre più
rada e spinosa, la terra scura, sabbiosa; nuvole impalpabili si alzano a ogni
passo, e la polvere si aggrappa ostinata alla pelle nuda.
Il brontolio come di uno stomaco di enormi proporzioni romba
nella quiete innaturale, più simile alle sterminate Pianure [3] che al caotico
reame che i suoi fratelli si dividono di malavoglia, scambiandosi sorrisi da
lupi che nel ghigno mostrano i denti.
Sciocchi bisticci di cui non si cura. Mentre sale, conficcando
il bastone d’oro coronato d’uccello [4] nel terreno sdrucciolevole per far
perno, la vista della desolazione circostante gli si insinua tra le palpebre
socchiuse.
Il profilo aguzzo della gabbia di Tifeo si staglia contro il volto troppo azzurro del padre di suo padre; il bastone
si impiglia negli aculei dello spinosanto; il nero
della sabbia ne è macchiato come certune anime che si presentano a lui coi
segni della pestilenza sui visi incavati dalla fame.
Dall’alto, il respiro mefitico del titano incombe su di lui;
gli ricorda quell’aria pesante che si accumulava nelle viscere di suo padre,
quasi solida e nauseabonda; il pensiero gli solletica lo stomaco, e antica bile
gli risale in gola.
Stringe i denti, distrattamente, ma prosegue imperterrito.
Il fumo lo soffoca, si insinua nelle fessure della kuné; gli occhi pizzicano lievi ma Ade non vi bada.
Un piede dopo l’altro.
Sotto le suole dei calzari, il terreno si fa incandescente.
Lo sente consumare il cuoio, venire a contatto con la carne.
Ritto immobile, lo scettro piantato accanto a sé, Ade guarda in basso. Con gli
occhi segue la crepa frastagliata che spacca in due la terra.
Si china, una goccia di sudore che rotola dalla fronte sino
alla punta del naso. Cade verso il basso, inghiottita nel crepaccio. La ruga si
fa più profonda, scava un solco d’aratro sulla pelle pallida.
La preoccupazione dello Psicopompo non è dunque tanto
infondata. Si posa sulle ginocchia.
Neppure stringendo gli occhi gli riesce di arrivare alle
profondità della terra con lo sguardo – scorgere uno scorcio di casa da quel
regno estraneo, o un tentacolo di Tifeo, una testa di
drago che strisci sotto la superficie in cerca di una via di fuga; le Anime,
tuttavia, sono creature leggere, più del soffio dei venti – e i Mortali hanno
il cervello aguzzo, se si tratta di creare scompiglio nell’Ordine, da morti o
da vivi.
I palmi bruciano lentamente e attorno a lui vapori si levano
al cielo. Sopra di lui, l’occhio implacabile di Helios
gli frusta la schiena. Gli manca il respiro.
Ade allarga le narici come le froge del suoi cavalli,
ispirando l’odore pesante – e allora, qualcosa lo disturba.
Leva il capo, lentamente.
Annusa ancora, come Cerbero a caccia.
Una fragranza diversa.
Dolcissima.
Nauseante e familiare.
Stringe gli occhi e cerca, il bastone che si sdraia a terra vicino a lui.
Nel petto si muove qualcosa – nella gabbia delle costole, dove
credeva che tutto fosse ormai muto.
Il pericolo è dietro di lui – accanto.
Il primo istinto è quello di voltarsi si scatto – dimentico della
kuné, invisibile scudo. Una figura gli si ferma al fianco, si china vicino a lui e guarda in basso, imitando il percorso del proprio stesso sguardo, pochi attimi prima.
Immobile, l’Invisibile [5] la osserva. Osserva la carne
macchiata di scuro, i capelli pallidi come luce di Emera sulla soglia di Erebo.
Sul viso tondo, gli occhi sono dischi incolori attorno alla nera pupilla – e conosciuti, pure se mai ha incontrato quella fanciulla prima d'ora.
Gli è così accostata che riesce a vedere l’aria greve insinuarlesi tra le labbra dischiuse, nelle narici tese.
Quando si volta verso di lui, gli pare che lo fissi, conficcandogli addosso quegli occhi temporaleschi.
« Ti sento. »
Il rombo del ventre di Tifeo
assorda, ma le sue parole gli arrivano senza sforzo alcuno.
« Cosa sei? », domanda la Fanciulla
impossibile in cima al vulcano.
NOTE:
[1]: L’elmo di Ade che gli permetteva di diventare invisibile
una volta indossato.
[2]: Si diceva che Efesto abitasse
sotto l’Etna, che gli fungeva da fornace.
[3]: Le vaste Pianure di Asfodeli, dove dimoravano le anime
mediocri.
[4]: Lo scettro che permetteva ad Ade di accedere nell’Erebo.
[5]: Attributo di Ade.