Gli occhi grandi di Cappuccetto Rosso
Each man kills the
thing he loves.
(Oscar Wilde, La ballata del carcere di
Reading)
C’era una volta una giovane ragazza dagli
occhi grigi come il cielo di Londra, la pelle rosea come i fiori di pesco e
lunghi capelli color del legno. Ella viveva da tanto, tantissimo tempo - tanto
da non ricordare neanche quanto - in una villa nera al di là del lago più
cristallino d’Inghilterra.
Le persone con cui abitava non erano
affatto gentili con lei: dicevano che fosse strana, diversa, che la troppa
cultura le avesse fuso il cervello. La ragazza era dunque spesso lasciata a sé,
con la sola compagnia dei grandi autori del passato, che pur non avendola mai
conosciuta sembravano capirla meglio di quelli che ogni giorno evitavano i suoi
occhi; Alfred Tennyson, Lord Byron, Jane Austen e, colui che più amava, Thomas
S. Eliot.
“Quali sono le radici che s’afferrano,
quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio
dell’uomo,
tu non puoi dire o immaginare, perché
tutto ciò che conosci
è solo un coacervo d’immagini spezzate,
dove il sole batte
e l’albero morto non dà riparo e il
grillo non rallegra col suo cantare,
e l’arida pietra non risona d’acqua.
C’è ombra solo al riparo di questa roccia
rossa.
Vieni all’ombra di questa roccia rossa.
Ed io ti mostrerò qualcosa di diverso
Dalla tua ombra che al mattino ti segue a
lunghi passi
E dalla tua ombra che la sera s’innalza
per incontrarti;
In una manciata di polvere, ti mostrerò
la paura.”
La sua anima era ormai rarefatta come
l’ombra della Terra Desolata di Eliot.
Ma qualcosa, un giorno, avrebbe cambiato
per sempre la sua vita.
***
La pioggia era caduta insistentemente fino al
primo pomeriggio, quando il cielo si era infine rischiarato, mostrando la luce
pallida al di là delle nubi; solo dopo una buona mezz’ora gli uccelli avevano
ripreso a cantare note discordanti, che rimbalzavano da una parte all’altra del
bosco come un’eco alla ricerca di qualcuno.
Gli alti cancelli in ferro nero, attorno ai
quali si avvoltolavano rampicanti nodosi, così come ogni pianta del vasto
giardino verdeggiante, il ciottolato rosso d’ingresso e la finestra, il cui
vetro veniva ritmicamente appannato da un respiro annoiato, erano bagnati.
Il freddo era intenso e nell’aria forte
l’odore della pioggia, tanto forte da penetrare anche le imposte chiuse.
Il davanzale della finestra della biblioteca,
al secondo piano dell’austera villa, era abbastanza grande da potercisi
accomodare. Difatti, non senza indispettire gli altri abitanti della casa, che
avrebbero voluto vederla più partecipe della vita domestica, lì stava spesso
una ragazza, accoccolata tra il muro e il vetro, con lo sguardo perso ora su
uno dei mille tomi dalle antiche rilegature, ora sulle fronde degli alberi,
nella speranza di scorgere un pettirosso o un’allodola spiccare il volo.
Quest’oggi, forse per merito dell’atmosfera
tetra e un po’ gotica, ciondolava tra il richiamo del mondo onirico e
l’esaltazione che provocava al suo animo ogni fulmine che attraversava l’etere,
abbattendosi su qualche albero in mezzo alla selva. Se chiudeva gli occhi, poteva
fantasticare di trovarsi quanto più vicina possibile al luogo in cui il tuono
sconquassava i timpani e faceva tremare il cuore.
Da quando però il tempo era migliorato si era
dedicata a un’attività, a detta della cuoca di casa, più redditizia:
sonnecchiare.
“Niente rende il corpo più felice di una sana
dormita! Se solo i miei nervi fossero quelli di un tempo, quand’ero anch’io
giovane e bella, e non mi svegliavo per ogni rumore, anche il più consueto!”
Glielo ripeteva abbastanza volte alla
settimana da aver lei imparato a memoria il ritornello.
La ragazza sospirò, creando un nuovo ovale di
condensa sulla finestra. Pensò che faceva davvero freddo per essere solo metà
settembre, che forse avrebbe fatto meglio a sollevarsi – languidamente come al
solito, tutti le rimproveravano di avere una certa mollezza nei gesti – e
recuperare uno scialle dalla sua stanza, magari quello rosa pesca che le
avevano regalato l’inverno prima.
Qualcosa, tuttavia, le suggeriva di non
allontanarsi. Non quel giorno. Chiamiamolo istinto femminile, un sesto senso
che va sempre di moda e di cui le donne amano vantarsi.
Le mani della giovane, intirizzite e
screpolate dal freddo, raschiavano con le lunghe unghie un angolo ricoperto di
ruggine dell’infisso, poco sopra il cardine, producendo un rumore sgradevole. Al
di là di ciò regnava il silenzio assoluto tipico del dopo pranzo, momento
consacrato al riposo pomeridiano.
Nessuno gironzolava, nessuno poteva
distoglierla dal suo perdere tempo ad osservare niente in particolare, coi
lunghi capelli bruni che le carezzavano morbidamente il collo – alcune ciocche
s’infiltravano nel colletto della camicia bianca, infastidendola, ma lei non
sembrava intenzionata a liberarsene.
Seppe che era giunto il momento che aspettava
da tutta la vita quando, tornando a vagabondare con lo sguardo sulle inferriate
del cancello, vide qualcosa di anomalo: un estraneo aggirarsi apparentemente
senza motivo nei dintorni, scrutando la
casa.
Lo mise a fuoco, socchiudendo gli occhi
grigi, con le sottili sopracciglia chiare che incorniciavano la sua espressione
corrucciata e concentrata.
Tutto ciò che vide fu un giovane uomo dalla
pelle di pesca, una zazzera scompigliata dal vento, della più intensa tonalità
di rosso – come se indossasse una criniera di fiamme dell’araba fenice -, e
poi, quando per scherzo del destino egli si accorse di essere osservato e la
individuò, occhi azzurri vivaci e furbi come quelli di un animale.
“La mia nemesi” pensò la ragazza, schiudendo
le labbra in un accenno di sorriso.
Avrebbe voluto essere libera e viva come lui.
Prima che però potesse far altro, la libertà però
reclamò il ragazzo e se lo portò via, nel folto del bosco.
«È passato
nessuno questo pomeriggio?»
Occhi grigi fece col capo un cenno di
diniego, affondando nella zuppa di verdure un cucchiaio così lucido da potervisi
specchiare; dopo aver mandato giù, abbastanza attenta all’etichetta da non
produrre alcun rumore, domandò «Perché questa domanda proprio a me, che tra
tutti sono quella che esce di meno?»
«Hai di nuovo
bighellonato in biblioteca fino all’ora del bagno, ti ho vista.» sembrava quasi un’accusa, ed
implicitamente lo era «Immagino tu abbia passato le ore a scervellarti sui
libri.»
«Oh, ho letto.» sorrise, infondendo in
quella semplice espressione un’innocenza che stonava col suo volto che indicava
un’età vicina, se non addirittura superiore, ai vent’anni «Ho letto un
magnifico saggio di Virginia Woolf.»
Una vocina di bambino, al suo fianco,
borbottò sottovoce «Studiare è inutile e noioso. Disegnare è più divertente.»
«Disegnare non ti porterà a nulla nella
vita.» lo redarguì acidamente il vecchio a capotavola «A meno che tu non voglia
unirti a una di quelle stupide scuole surrealiste. Come si chiamavano, mia
cara?»
«Futurismo, postimpressionismo,
vorticismo, imagismo… sono talmente tante, e tutte ugualmente dimenticabili.»
sospirò una ragazza dai lunghi boccoli biondi, che molto più di Occhi grigi
aveva un’aria intellettuale, o per lo meno intelligente.
Il ragazzino lentigginoso accanto a Occhi
grigi digrignò i denti «Tanto i tedeschi arriveranno fin qui e ci ammazzeranno
tutti. Ci butteranno le bombe addosso, come hanno fatto a Londra.»
Calò il silenzio. Qualcuno iniziò a
piangere sommessamente.
***
Occhi grigi passeggiava nel giardino,
come sempre da sola. L’erba alta strofinava contro le gambe avvolte dalle calze
di lana nere del body, mentre la gonna a balze veniva sollevata ogni tanto dal
vento.
Aveva appena terminato la noiosa lezione
di pianoforte del martedì pomeriggio e, almeno per una volta, si era lasciata
convincere a prendere un po’ d’aria prima che il buio giungesse a mettere fine
alla giornata.
Mentre però gli altri giovani giocavano o
leggevano sul retro, dove i fiori erano così odorosi da infastidirla e le corde
dell’altalena lamentavano la loro età, lei aveva preferito gironzolare da sola
nei pressi del cancello, con la speranza di incrociare una di quelle rane
gonfie e verdi che durante l’estate giungevano saltellando dal lago poco
distante.
Solo una volta percorso l’intero
giardino, mentre in cielo ricominciavano a rimbombare tuoni ancora lontani e
Occhi grigi divagava col pensiero su come la corrente elettrica sarebbe
sicuramente saltata quella notte, il rumore di passi presso il cancello
riattivò in lei quella sottile connessione che aveva con il mondo reale.
Si voltò rapida e lo vide: era lui.
Immobile presso il portone d’ingresso, al
riparo dalla brezza sotto il colonnato, Occhi grigi non s’interrogò su se
chiamare i padroni di casa o correre dentro, come sarebbe stato appropriato ad
una signorina del suo rango. Aveva un solo pensiero per la testa:
quell’incontro avrebbe rimesso in moto la sua vita, stantia da troppo tempo.
Forse era solo il favoleggiare della mente di una sciocca ragazzina che non era
mai stata sfiorata da un uomo, rimaneva comunque il fatto che il suo cuore le
sembrava battere per la prima volta solo ora da quando era nata.
Per Occhi grigi, lui era il mistero.
Senza che lei se ne rendesse conto, era
intercorso troppo silenzio fra loro, sicché il ragazzo dai capelli di fuoco
distese le labbra in un sorriso aperto e cordiale, parlandole con tono moderato
«Buonasera. Sono giunto di nuovo fin qui per chiederti scusa.»
Occhi grigi batté le palpebre e portò le
mani al petto, strette sopra la spilla che recava il vessillo di quella casa;
non un passo indietro però, perché anche se il coraggio le mancava, il
desiderio di scoprire di più la pervadeva.
«Chiedermi scusa?» ripeté, la sua voce
cristallina raggiunse a stento lui al di là del ferro del cancello, ma la
risposta ai suoi dubbi sovvenne autonomamente «Oh. Per essere andato via senza
salutarmi.»
Lo vide annuire e in quel momento seppe
che era una persona gentile. Si permise di ricambiare solo allora il sorriso,
addirittura muovendo qualche ardito passo sul ciottolato fino a ridurre la
distanza effettiva tra loro a neanche due metri. La distanza interiore,
tuttavia, era tanto immensa da non poter essere calcolata.
Si guardarono come si guarda per la prima
volta la persona del destino, occhi grigi in occhi turchesi.
La ragazza si lasciò sorprendere dalla
durezza dei lineamenti squadrati che mai aveva visto su un uomo della sua età,
lui al contempo fece scorrere lo sguardo sulle dolci curve del suo viso e,
d’improvviso, s’addolcì ancor più nell’espressione.
“Mi pensa bella” rimuginò Occhi grigi, un
po’ frivola, immedesimandosi nelle eroine romantiche dei romanzi femminili che
un secolo prima avevano invaso le biblioteche.
«Mi chiamo Rangetsu.»
Occhi grigi sbatté di nuovo le palpebre,
dischiudendo le labbra in un’espressione fortemente confusa; non aveva mai
sentito un nome simile, né lo aveva scorto tra le esotiche descrizioni di
Southey. Doveva essere un nome falso, ispirato a qualcosa di prezioso e
sconosciuto, oppure di una parola inventata. S’ingegnò sul da farsi, giacché il
sorriso di sfida di Rangetsu era quanto di più intrigante avesse mai visto, per
tal motivo non si sarebbe permessa di essere da meno, a costo di diventare una femme
fatale.
«Mi chiamano Ill.»
«Ill?» strabuzzò per un attimo gli occhi
lui, marcando le due elle con un accento straniero.
Sembrava avere qualche problema nel
pronunciare correttamente il suo nome, e Occhi grigi fu soddisfatta di essersi
dimostrata alla sua altezza, poiché neanche lei riusciva a sillabare Rangetsu
come faceva lui.
«Ill.»
Dopo qualche tentativo, Rangetsu riuscì
infine ad articolare le due elle senza ottenere in cambio un risolino, ma un
cenno d’assenso. Ill lo vide cercare con lo sguardo qualcosa sull’esterno del
muro che li separava, ma non avendo mai messo piede fuori dalla villa ella non
aveva idea di cosa ci fosse in quel punto.
Lui tornò a guardarla e chiese «Che cosa
ci fai qui?»
Oh. Quella era una domanda così
difficile…
Subito Ill sollevò la mano destra fino a tangersi
il mento, sentendosi un po’ filosofa «Ci vivo.»
Risposta sbagliata.
L’espressione stranita di Rangetsu la
fece sentire in colpa per quel magro tentativo di umorismo, dunque cacciò le
mani dietro la schiena e, dondolando a mo’ di bambina sui talloni, aggiunse
«Vivo qui da molti anni. Non mi è permesso uscire per nessun motivo.»
«Sei prigioniera?»
Quella deduzione la stupì non poco; sì,
era effettivamente prigioniera della grande villa nera. Non ci aveva mai
pensato, ma ora che Rangetsu lo aveva sottolineato con tanta naturalezza
l’amara verità si era svelata ai suoi occhi come uno specchio che viene
spogliato del drappeggio che lo copre. Sulla superficie riflettente dei suoi
pensieri vide se stessa come mai si era vista: non più la solita giovane
aspirante intellettuale un po’ sfrontata, saccente e frivola, ma qualcuno a cui
era stata negata la libertà. Qualcuno che aveva diritto ad un unico, breve e
selezionato perimetro di luce del sole.
La consapevolezza ora l’avrebbe divorata
nelle lunghissime notti che sarebbero seguite: perché Rangetsu le aveva fatto
realizzare la verità? Sarebbe stato così doloroso d’ora in poi…
«Mi dispiace, Ill…»
I demoni che le annebbiavano la mente
dovevano essere chiari nei suoi occhi, pensò Ill.
Da quel giorno apprese che Rangetsu era
per lei la salvezza.
Ill non aveva mai riflettuto sul perché
nella casa la chiamassero in quel modo crudele, negandole persino il piacere di
un nome elegante; la schernivano, di questo ne era sicura, tuttavia il suo
cuore era persino più sigillato della sua libertà, motivo per cui essere
trattata così non l’aveva mai infastidita particolarmente.
Fu Rangetsu ad aprirle lentamente gli
occhi, non solo sul mondo esterno ma anche su quello interno, radicato nelle
quattro mura che era abituata a pensare come ‘il luogo in cui abito’ –
ma non casa, una casa ormai non l’aveva da così tanto da averla convinta
che non si trattasse di un luogo, ma di una sensazione speciale, che forse mai
avrebbe trovato.
Fu così che cominciò a rendersi conto
davvero di come nella sua vita mancasse il calore umano. Fu allora che gli
intensi rapporti d’amicizia e affetto dei suoi romanzi iniziarono a
coinvolgerla veramente. E fu in quel preciso periodo che maturò una sconfinata
curiosità verso ciò che al di là della nera cancellata di casa si muoveva e
contorceva, assumendo forme a lei sconosciute: il mondo.
Aveva finalmente cominciato a vivere. Si
era risvegliata da una accomodante fase durante cui si era limitata ad
osservare senza lasciarsi coinvolgere, come le divinità dell’Iperuranio di
Platone.
Tutto ciò però si era rivelato
inaspettatamente doloroso.
La notte si aggirava come un’anima priva di
pace per le silenziose e buie stanze del palazzo, soffocata dall’opprimente
impossibilità di fuggire. Le sue corse notturne avevano convinto buona parte
degli abitanti della presenza di uno spettro arrabbiato e vendicativo, tanto
che i più piccoli avevano preso l’abitudine di sbarrare le porte fino all’alba,
mentre gli adulti, ogni tanto, s’avventuravano coraggiosamente alla ricerca di
una soluzione a quell’enigma.
Ill era però furba e conosceva la casa
assai meglio degli altri proprio per via della sua incontentabile curiosità;
aveva esplorato ogni anfratto, da ogni finestra s’era affacciata per calcolare
sommariamente la distanza da terra e dalle nodose fronde degli alberi.
Non era una brava arrampicatrice, ma in
quei mesi molte volte le sue mani si coprirono di tagli e sangue nel disperato
tentativo di scalare il cancello o il muro perimetrale. Rangetsu l’aveva
aiutata con magici rimedi portati dalla città, massaggiandole le dita
indolenzite e soffiandovi sopra per riscaldarle.
Era una valchiria, una valchiria
scatenata.
Anche caratterialmente era cambiata.
«Sembri esserti risvegliata da un sonno
profondo.» aveva commentato il ragazzo un giorno «Ma ho paura che questo possa
più ferirti che altro.»
Ciondolava, Ill, per i corridoi della
casa, incapace di sostare troppo a lungo alla luce del sole proiettata sui
pavimenti impolverati; la vista della natura le dava sofferenza, perché sapeva
che mai avrebbe potuto correre per i campi e bearsi della sua bellezza,
l’avrebbe invece sempre scorta solo attraverso finestre dall’aspetto pesante e
antico, mangiate dalle tarme.
Anche lei si sentiva mangiata dalle
tarme, da dentro, come quella vecchia casa scricchiolante anche lei cadeva a
pezzi ogni giorno di più.
Era prigioniera.
Ogni uccello che si levava in volo
accresceva nel suo animo un odio spropositato per la sua condizione, che si convertiva
in lacrime amare durante la notte, quando diventava il fantasma della magione
per farla pagare cara a chi non la considerava abbastanza umana da meritare
qualche diritto.
I suoi incontri con Rangetsu si fecero
più frequenti, abbastanza tra trasformare due conoscenti in qualcosa di simile
ad amici; Rangetsu era un ragazzo dolce, premuroso, con la paura di vederla
andare a pezzi.
Ill non sapeva per quale motivo tra tutti
gli esseri umani del pianeta avesse scelto proprio la reietta della casa nera –
così amava definirsi, rifacendosi ai poeti romantici -, ma ogni volta che
sfiorava le sue dure e calde mani metteva da parte i dubbi, lasciandosi
travolgere da sentimenti tanto profondi da inebriarla.
La stava letteralmente richiamando alla
vita: in ogni gesto di lui, anche nel solleticarle con la punta del dito la
guancia arrossata dal freddo, Ill leggeva quella componente umana che
sconosceva.
L’inverno passò così, abbellito da
incontri segreti nelle ore più sicure. Rangetsu le fece vedere per la prima
volta in vita sua cose meravigliose: bacche rosse dal sapore dolciastro, fiori
di indubbia bellezza e dal profumo delizioso, soffici fiocchi utilizzati per
decorare i capelli e fotografie di volti sconosciuti. Ma tra tutti, il regalo
sicuramente più apprezzato da Ill fu un velo rosso come il sangue: un mantello
provvisto di cappuccio, che tanto le ricordò la fiaba di Cappuccetto Rosso.
«E tu saresti il mio lupo?» rise lei,
cristallina e felice mentre lo indossava, scoprendone la calda lana che per un
attimo le trapassò con una fitta il cuore: era come venir abbracciati.
Non ricordava d’esser mai stata
abbracciata in tutta la sua vita.
«Se ricordo bene quella favola… al di là
dell’allegoria delle due strade, lui aveva il compito di mostrare alla bambina
un mondo diverso dal suo. In tal caso potremmo dire di sì.» rispose lui,
inclinando verso l’alto gli angoli della bocca.
Ill amava quando sorrideva: i suoi occhi
celesti diventavano più sottili e limpidi, trasmettendole una sensazione di
benessere. Cominciava a scoprire dentro di sé uno sconfinato amore, che voleva
donare a Rangetsu.
Il sopraggiungere della primavera rese il
giardino un crogiolo di forti fragranze di fiori e pesche; Ill non aveva mai
prestato troppa attenzione alla natura artificiale della serra, dove gli altri
abitanti della casa si dilettavano a ricreare ambienti floreali non tipici
dell’Inghilterra, ma adesso quei boccioli colorati esercitavano su di lei un
certo interesse.
La signora poi aveva una strana passione
per le rose, il cui rosso però agli occhi di Ill impallidiva se messo a
confronto con quello degli higanbana, che Rangetsu le presentò come tipici
della terra dei suoi antenati, nel profondo oriente. Quelli erano in breve
diventati i fiori preferiti della ragazza.
Un giorno, infine, arrivò quella
proposta.
«Scappiamo insieme.»
***
Ill fissava il suo riflesso nello
specchio, stentando a riconoscersi. Aveva raccolto i lunghi capelli castani in
una lunga treccia, a sua volta arrotolata sulla nuca, in modo che quelle poche
ciocche che sfuggivano al suo controllo non fossero d’impiccio alla visuale.
Con indosso il mantello regalatole da
Rangetsu sembrava lei stessa un higanbana.
Aveva rubato tutto ciò che era stata in
grado di rubare dai risparmi del padrone di casa, atteso poi che tutti si
ritirassero nelle loro stanze prima di abbandonare la propria, lanciando un
ultimo sguardo, timoroso e nostalgico ma al contempo emozionato, alle sue poche
cose: una spazzola di legno sulla sedia, una Bibbia rilegata in nero sul
comodino, dei fiori sulla via della morte in un vaso di vetro, che proiettavano
la propria ombra sul pavimento come lunghe dita adunche.
Voltò le spalle e abbandonò tutto ciò che
aveva in favore dell’ignoto.
Come ogni principessa che si rispetti,
aveva fissato l’appuntamento col suo principe presso il cancello allo scoccare
della mezzanotte. Scese le scale del secondo piano ed attraversò i corridoi
della casa percorsa da una strana euforia che le solleticava la pelle; ogni
passo le sembrava troppo rumoroso, tanto da farla procedere nascosta nelle
tenebre e temendo che la luce della luna potesse tradirla ad ogni finestra in
cui si imbatteva.
Nessuno però sembrò notarla, nessuno
forse l’aveva mai notata veramente.
Giunta nelle cucine raggiunse l’uscita di
servizio, che aprì con un sonoro girare di vecchie chiavi arrugginite nella
toppa della porta. L’aria fredda della notte la investì come uno schiaffo,
facendola per un momento tentennare; non aveva rivolto neanche un pensiero a
cosa sarebbe stato di lei dopo la fuga, se significava però vedere anche solo
per un attimo il mondo su cui aveva solo fantasticato per tutta la vita, le
andava bene essere riacciuffata subito.
Ripercorse con la mente i calvari
dolorosi di quei poeti e scrittori che erano interiormente morti dopo essere
stati privati della bellezza della natura. La prospettiva di fare la loro
stessa fine aveva qualcosa di affascinante agli occhi di quella scervellata
incosciente, tuttavia continuò a ripetersi con ostinazione che Rangetsu
l’avrebbe protetta.
E così abbandonò per sempre quella casa.
Stretta nella sua mantella scarlatta,
Cappuccetto Rosso giunse presso il cancello, al di là del quale il lupo le
sorrise coi suoi occhi celesti.
«Hai la chiave?»
«Sì.»
«Fai piano…»
Il cancello scricchiolò così forte che il
cuore di Ill per un momento si fermò: era impossibile che non l’avessero
sentito, e a conferma di ciò una luce al secondo piano illuminò la notte.
«Scappiamo!» esclamò Rangetsu,
stringendole la mano e strattonandola verso di sé.
Ill avrebbe voluto stringerlo in un
abbraccio ora che finalmente ne aveva l’occasione, ma la fretta e la paura la spinsero
ad attraversare il tappeto di foglie sul terreno ed avventurarsi assieme a lui
nel bosco nero.
Alcune urla straziarono l’aria dietro di
loro, ma Rangetsu non lasciò mai andare la sua mano. Quella di lui era calda,
grande e molto forte.
«Londra non è lontana, saremo lì in
un’ora!» le disse, con un sorriso luminoso sul viso.
La ragazza si abbandonò a una risata
felice: non si era mai sentita tanto libera! La selva intorno a lei sembrava
viva, sentiva la linfa scorrere in ogni ciuffo d’erba, in ogni tronco e in ogni
animale notturno che si muoveva rapido al loro passaggio.
Gridi di gufi e civette si levavano dalle
fronde scosse dal vento; quei movimenti improvvisi acceleravano di qualche
passo la loro corsa sfrenata, aggiungendo altra paura a quella generata dalla
fuga verso il nulla e dal buio.
L’euforia cominciò rapidamente a
sfiorire, assieme all’aggravarsi della respirazione, che diventava più faticosa
di minuto in minuto. Erano ormai distanti dalla casa sul lago, quest’ultimo
poteva ancora essere scorto in lontananza attraverso l’intreccio di alberi, e
solo ora la natura iniziava ad assumere quelle tetre e inquietanti forme che richiamarono
alla mente di Ill innumerevoli descrizioni dei suoi romanzi preferiti.
“Quali sono le radici che s’afferrano,
quali i rami che crescono da queste macerie di pietra?” ecco Eliot e la sua terra deserta che
tanto aveva amato, che nell’insicurezza della notte faceva apparire tutto come
ostile e pronto a saltarle addosso, aggredirla, morderla, sbranarla.
I suoi occhi grigi si riempirono di
paura.
Stava cedendo alla suggestione. Ogni
singolo passo nel buio era come essere avvolti da gelide mani di spettri che si
allungavano dai tronchi, dalla terra stessa, dal cielo addirittura; neanche
alla luna era permesso penetrare in quel luogo con la sua pallida luce bianca.
Ill le sentiva attorno a loro, presenze meschine e pericolose: li guardavano
attraverso la vegetazione, li seguivano coi loro occhi rossi come il suo
mantello. Aspettavano solo il momento giusto per assalirli.
Il mondo iniziò a girare.
Lei si fermò, tremando dalla testa ai
piedi «Rangetsu!» chiamò il ragazzo, che nel buio assumeva contorni allungati,
una forma selvatica che la faceva fremere: non aveva mai visto il suo vero
volto fino ad allora. Ne era sicura.
«Che succede, Ill?» le chiese lui con un
sorriso a mezzaluna «Non avrai paura?»
«Sì che ne ho!» ribatté lei, la voce così
bassa da non sembrare neanche la sua «Dove mi stai portando?»
Per un attimo lo vide metter su
un’espressione basita, poi si rilassò «Come sarebbe a dire? A Londra, te l’ho
già detto. Capisco che tu abbia paura, ma ci sono io, d’accordo? Fidati di me.»
Fidati di me, fidati di me…
Perché non riusciva più a fidarsi di lui?
Perché proprio ora? Socchiuse le labbra per ribattere, ma alle sue spalle le
grida di chi abitava con lei la fecero sobbalzare.
«Ci stanno braccando?!» mormorò, prima
che Rangetsu la prendesse di nuovo per un polso e la trascinasse via con sé.
Ill non seppe ribellarsi, per quanto il giovane le sembrasse improvvisamente
estraneo, infatti, lo reputava ancora il suo unico alleato, l’unico disposto a
farla fuggire dalla sua prigione.
Pregò solo di non dover fuggire anche da
lui successivamente.
Vagarono nel bosco ancora a lungo, fin
quando le gambe non iniziarono a far male, i respiri ad essere rochi e la pelle
gelida. Ill aveva smesso di ragionare, si lasciava guidare e rassicurare da
lui, che di tanto in tanto si voltava per assicurarsi che stesse bene o
ripeterle che ce l’avrebbero fatta.
Mezz’ora più tardi, quando furono certi
di aver seminato i loro inseguitori, Rangetsu le concesse qualche minuto di
riposo in una radura da cui potevano vedere il cielo stellato.
Entrambi crollarono a terra stremati, Ill
con le piccole mani ghiacciate strette sull’erba coperta di brina cristallina.
Non aveva più emesso un solo suono e Rangetsu cominciava a preoccuparsi.
Quando si voltò a controllarla, Ill aveva
il viso rigato di lacrime e rivolto verso la luna.
Le si avvicinò immediatamente, posandole
una mano sulla spalla «Ill.» la chiamò, senza però ricevere risposta, al che la
strattonò con delicatezza «Ill.»
Ill si riscosse in quel momento,
sbattendo le lunghe ciglia ed incurvando le strette spalle; quando Rangetsu
fece per prendere la parola, lei lo precedette chiedendo «Qual è il tuo vero
nome?»
«Hm?» non aveva dunque mai creduto che si
chiamasse davvero così? L’idea stranamente fece sorridere il giovane dai
capelli rossi, che ribadì «Rangetsu, davvero. Rangetsu River. Mio padre è
inglese e mia madre giapponese, perciò ho un nome così strano.»
La spiegazione sembrò convincerla
finalmente, dopo un momento di insicurezza i suoi occhi si rasserenarono.
Rangetsu le asciugò con il lembo della manica le lacrime e il sudore che le
imperlava la fronte, poi, premuroso, le riscaldò le mani soffiandoci sopra.
«E tu? Non mi hai ancora detto il tuo
nome.»
«L’unico nome che ho è Ill.» rispose lei
prontamente «Non ho mai avuto cose come una famiglia o un nome. Loro mi hanno
sempre chiamata così, quindi io…»
«Ho capito.»
“Ill” era una delle poche cose veramente
sue, ma che al contempo non le appartenevano. Ciò diede a Rangetsu un’idea «In
questo caso, che ne dici se decidessimo insieme il tuo nome?»
Probabilmente neanche facendole una
proposta di matrimonio l’avrebbe resa altrettanto felice; dare un nome a
qualcosa era un gesto con troppi significati intrinsechi per elencarli tutti,
Ill lo aveva imparato dai libri. Abbandonò così per sempre quel triste
nomignolo dato con inaudita crudeltà, attendendo pazientemente di sapere chi da
quel momento sarebbe stata.
«Qualcosa che non si allontani troppo da
Ill.» chiese, non volendo comunque chiudere in un cassetto ogni parte di sé.
Rangetsu si chiuse in un silenzio
concentrato che durò diversi minuti, durante i quali la giovane si abbandonò al
piacere dell’attesa. La pelle formicolava, il respiro era istintivamente
diventato basso e sottile, fremeva dalla testa ai piedi.
Ma che ne era stato della paura della
notte?
Rangetsu non se ne rendeva ancora conto,
ma qualcosa in lei era cambiato durante quella corsa. Le sue iridi erano più
spente di prima, lo sguardo più vuoto e i gesti stranamente fluidi: si muoveva
come l’acqua.
Quando lui sollevò di nuovo la testa e
sibilò il nome che aveva scelto, lei gli accarezzò la guancia con le mani
fredde, poi annuì: quello sarebbe stato il suo nuovo nome, era perfetto.
«Staremo insieme per sempre?» domandò
allora la nuova lei, improvvisamente dolce.
Quella domanda era strana, se avesse
avuto il tempo di notarlo forse Rangetsu avrebbe capito l’enorme errore che stava
per commettere e quelli che aveva già commesso.
«Sì, se lo vuoi.»
Portarla via da quella casa in cui era
segregata.
«Lo voglio, sì.»
Fidarsi di una giovane sconosciuta
dall’aspetto di Cappuccetto Rosso, che nel sorridergli mostrò una luce
inquietante negli occhi. Ella strinse la presa su di lui, ora forte come Rangetsu
non avrebbe mai sospettato.
Qualcosa in Rangetsu traballò: la
sicurezza di aver fatto un’opera buona a liberare quella povera prigioniera
dalla sua detenzione.
Quando le unghie della bruna penetrarono
la sua carne, capì d’aver liberato il vero lupo dalla sua gabbia.
«Insieme, per sempre.»
***
Pochi giorni più tardi…
Lo strillone agitava i suoi giornali al
vento, quasi sbattendoli in faccia a chi aveva la sfortuna di passargli vicino.
Le strade di Londra erano incredibilmente caotiche in quelle fresche mattine
primaverili.
«La paura continua a dilagare!» si sgolò
il giovanotto dal volto coperto di lentiggini, finché qualcuno finalmente non
si fermò a chiedergli una copia di uno dei quotidiani locali.
Strizzò gli occhi per un momento,
chiedendosi come mai una fanciulla dall’aspetto tanto gentile girasse da sola;
ebbe l’accortezza di non fare domande, vendendole con un piccolo sconto la
copia richiesta. Con un sorriso dolce, la giovane ringraziò e si allontanò in
direzione del porto.
Tenne sottobraccio il giornale fin quando
non superò la folla brulicante e salì sulla poderosa nave pronta a solcare le
acque: quel giorno avrebbe detto addio all’Inghilterra, destinazione New York.
Scese nella piccola cabina di terza
classe che si era potuta permettere. Il suo sacchetto di monete era ancora
gonfio, abbastanza da farla sperare nel futuro. E poi si era scoperta
eccezionalmente fortunata nel gioco d’azzardo, per la sfortuna di quei
poveracci che avevano finito per pagarle il viaggio.
Appoggiò il cappello bianco sul letto e
finalmente si sedette a leggere, andando dritta all’articolo che le
interessava.
“Londra. Ancora nessuna traccia del
colpevole dell’orribile delitto verificatosi quattro giorni fa nella campagna a
nord della capitale inglese.
I proprietari della poco distante casa di
cura St. Agatha hanno denunciato la scomparsa di una dei pazienti. La ragazza,
rispondente al nome di Ill, era stata internata ancora in tenera età a causa di
gravi problemi di schizofrenia. Si sospetta possa essere proprio ella la
vittima dello spaventoso caso di cannibalismo avvenuto quella stessa notte: i
resti della vittima, tuttavia, sono risultati troppo danneggiati dal successivo
incendio appiccato al corpo per decretarne le generalità.
I responsabili delle investigazioni
affermano che non divulgheranno i particolari fin quando non ci saranno
ulteriori progressi. Nel frattempo, la sicurezza nella città di Londra è stata
raddoppiata nelle ore notturne.”
Terminata la lettura, la ragazza sorrise
e si carezzò il ventre, ripetendo teneramente «Per sempre insieme.»
Un’ora più tardi, la nave salpò alla
volta del nuovo mondo, lasciandosi alle spalle una Londra impaurita. Quando
l’Europa e gli orrori della seconda guerra mondiale furono solo un ricordo e la
caotica New York fu davanti ai suoi occhi, la giovane sollevò una mano dal
ponte della nave per salutare la città.
Un mozzo più giovane di lei rise,
divertito da quel gesto, e commentò «È una cosa che fanno in tanti, sai?
Salutare la città.»
Lei abbassò sulla testa il cappuccio
scarlatto del suo mantello ed annuì «È l’inizio di una nuova vita! Perché non
dovrei essere felice?»
Quella brunetta doveva avere qualche
rotella fuori posto, si disse il giovane, ma non seppe resistere alla curiosità
di sapere chi fosse «Come ti chiami?»
Un momento di silenzio intercorse, prima
che ella pronunciasse quel fatidico nome, che si perse nel vento e nei rumori
del porto «River. Jillian River.»