La coscienza avversa

di LawrenceTwosomeTime
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La discesa fu lenta, e prolungata oltre misura.
Qualche brivido mi attraversava la spina dorsale di tanto in tanto.
Iniziai a tremare, scosso da una risatina isterica: in realtà, non mi ero mai mosso dalla stanza del secondo piano. Era bastato fare violenza sullo specchio per disciogliere le sfumature di quell'incanto. E nemmeno io sapevo quello che stavo facendo: era il mio istinto a muovere per me, a correggere errori che non sapevo di aver commesso. Come giocare bendati una partita a scacchi.

Una campanella logora e un po' stridula, ma accogliente, annunciò il primo piano.

Una camera. Non era la mia suite, e nemmeno una stanza qualunque.
Era la mia cameretta.
Appesa ad una gruccia, vidi una piccola vestaglia giallo limone. Mi affrettai ad indossarla: mi andava un po' stretta, ma era pur sempre meglio che viaggiare nudi.
Fuori era notte. La luce della luna si adagiava in rigagnoli squadrati sulla trapunta, sui poster sparsi a terra…fin quasi agli scaffali colmi di libri. Enciclopedie traboccanti di piante e animali, probabilmente. Di insetti, forse.
Proprio allora, iniziai a domandarmi se fosse veramente notte. Di cosa fosse fatta quella notte. "Fuori era notte" è un modo molto semplice e insieme molto esaustivo per descrivere un momento della giornata; ma laggiù che senso aveva?
Dalla porta semichiusa della stanza filtrava un bagliore dorato. Dal piano di sotto giungeva addirittura il rumore ovattato della televisione. L'odore stagnante della cena (lasagne e fagioli in umido) aleggiava a tre spanne da terra.
Da qualche parte, una civetta mandò il suo richiamo acuto.

E se avessi aperto la finestra? Avrei trovato un cosmo vivo e pulsante oltre l'oscurità programmatica del cielo e quel cerchio bianco lassù, quell'affare che sembrava la luna?
Cosa mi attendeva, una volta scese le scale? Sagome di cartone? Un registratore a simulare sbrigativamente peti e canzoni, rutti e litigate? A imitare la vita?
Oppure non mi era concesso neanche di essere caduto nell'alveo rassicurante della finzione? Forse, oltre quelle quattro mura di ricordi estranei, c'era soltanto il vuoto nero dell'amnesia, l'ottundimento infinito della zona oscura del subconscio?

Dal pianterreno giunse una voce:
"Davide? Sei sveglio?".
Mio padre.
Rumore di passi.
Ricordavo esattamente cosa mi aspettava.
Quel pomeriggio, mentre tornavo a casa da scuola, i miei compagni mi avevano picchiato. Ero uno sporco ebreo, me lo meritavo.
Secondo me, papà non se l'era presa abbastanza a cuore. Aveva borbottato qualche parola di conforto, frasi di routine, e mi aveva promesso che l'indomani sarebbe andato a parlare con i padri di quei ragazzi.
Ero andato a letto con un occhio talmente pesto che a momenti non ci vedevo più.
E ora lui sarebbe salito in camera mia, mi avrebbe fatto un discorso serio, "da uomo a uomo", per "calmare le acque"…Senza minimamente sospettare che io avevo già preso una decisione, una decisione più grande di me e di lui. Quando fossi diventato grande, io…

Non volevo rivederlo. Non volevo rivedere neanche mia madre, che ci avrebbe raggiunti poco dopo, stordita dai tranquillanti; barcollava come una mummia. Si sarebbero trasformati in dei mostri, avrebbero cercato di stritolarmi, di affogarmi nelle coperte, perché io ero una vergogna per la famiglia, mi ero coperto di ridicolo e non sarei mai più potuto tornare a casa!

Nell'istante in cui la porta della camera si aprì, le porte dell'ascensore si richiusero. Lasciai che quel ricordo continuasse senza di me.

Il piano terra si fece pregare, dovetti prendere a pugni il pannello perché l'ascensore si decidesse a partire. Le nocche palpitavano ancora per i cocci dello specchio.







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