Molto non, poco sense.
Post Civil War, una scemenza.
Rebus
Quindi, Tony si
guarda discretamente intorno e si versa due dita di whisky,
perché sono già passate le sei del pomeriggio e
ha il permesso, per quello. Potrebbe averne già bevuto un
goccio dopo pranzo, ma era giusto per inumidirsi le labbra; potrebbe
anche non avere il diritto di toccare quella roba, che non è
sua, ma insomma. Diamine, un uomo deve avere qualche piacere, nella
vita, oltre a sforacchiare i cattivi. Rotea il bicchiere per farne
muovere il contenuto e ritorna svagatamente verso l'altro lato del
corridoio, così da ricongiungersi con gli altri,
tamburellando le dita sul vetro. Gettando lo sguardo a lato, oltre la
porta semiaperta di un ufficio ancora non attribuito, intravede un
sagoma piegata su un tavolo, una mano intenta a scrivere furiosamente.
Si trattiene per qualche secondo, osservando la scena con fare
distaccato.
Non gli piace. E
allora, un sacco di gente non gli piace, tipo Oprah Winfrey, Donald
Trump – pessimo uomo d'affari, tra l'altro -, l'agente di
sicurezza del Triskelion con la testa pelata, quello di cui rifiuta di
imparare il nome, Kim Kardashian, al-Baghdadi e Barnes. Questi ultimi
due a pari merito, in cima al podio. Forse giusto il tizio delle
consegne pony-espress, quello con la coda che ammicca sempre
all'indirizzo di Pepper, potrebbe riuscire a batterli, ma dovrebbe
almeno metterle una mano sul culo.
Barnes ha
un'aria molto assorta e in un qualche modo tormentata – mai
visto un emo del genere, parola d'onore – e si strofina una
mano sulla tempia. L'idea di scrivere quello che ricorda per fissarlo
nella memoria è stata di Steve, anche se a Tony pare un po'
una stronzata, e forse anche per Barnes sarebbe meglio non ricordarsi
poi quel granché. Comunque, adesso se ne va in giro per la
struttura con questa specie di quaderno sotto il braccio, tipo un
diario – Clint cerca sempre disperatamente di non ridere,
quando lo vede – e ci annota sopra delle cose da psicopatico,
presumibilmente, quanti gattini ha strangolato nell'ultima settimana e
dove tiene nascosti i corpi di quegli studenti messicani desaparecidos,
informazioni di questo tipo.
Non gli
dispiacerebbe metterci su le mani.
Barnes solleva
lo sguardo, intuendosi osservato, e stringe le labbra nel vederlo, con
l'espressione diffidente che tributa a tutti quelli che non sono Steve
e Sam Wilson, e che dà l'idea di qualcuno che si aspetti un
proiettile in testa da un momento all'altro, e dovrebbe smettere di
suggerirglielo con quell'atteggiamento, anche se non ha tutti i
torti: nemmeno Tony ha capito bene perché gli permettano di
circolare liberamente in buona parte della struttura anziché
chiuderlo per sempre nella cella lontanissima di cui lui, Tony, si
premurerebbe personalmente di gettare la chiave d'apertura nelle
più remote fosse marine.
Però
Steve gli ha chiesto di non essere troppo
ostile, in quei tre minuti alla settimana in cui capita che si parlino
anziché fissarsi in cagnesco – Steve sembra
più che altro un cucciolo di labrador che ha pisciato sul
pavimento, ma comunque – dai due capi di un tavolo di
riunione. Non è che siano proprio tre minuti soltanto,
insomma, magari arrivano anche a cinque. Ci stanno lavorando.
Sicuramente, Steve lo sta facendo, e comunque è lui, Capitan
America.
“Devi
dirmi qualcosa?” chiede Barnes a bassa voce, con una
posizione del corpo sulla difensiva e la fronte corrugata.
“Io?”
chiede Tony, svagato. “No. Guardavo cosa fai. Sono uno
scienziato,” puntualizza, per mettere in chiaro, qualora ce
ne fosse necessità, la sua posizione riguardo la presenza di
un uomo bionico difficilmente controllabile nella zona di pertinenza
dello SHIELD.
Barnes continua
a osservarlo con cautela per qualche secondo, poi scuote la testa.
“Ho
un'immagine in mente, ma non riesco a renderla chiara,” dice
piano, con quello che sembra genuino rammarico.
“A me
succede con la tequila,” ribatte Tony, generosamente.
Barnes,
dimostrandosi un'altra volta poco collaborativo, non sembra quasi
ascoltarlo.
Tony butta lo
sguardo verso il fondo del corridoio, da dove la voce di Steve si
è appena levata un pochino più forte, con tono
risoluto e quasi solenne. Sicuramente sta decidendo di fare una
stronzata.
“Sono
bravo, coi rebus.”
Barnes torna a
guardarlo, un'occhiata che sembra soppesarlo e, sul serio, non
è lui il killer del KGB, di HYDRA e di chissà chi
altri.
“Okay,”
dice poi, appoggiandosi indietro, contro lo schienale della sedia, lo
sguardo fisso sulla pagina e gli occhi un po' socchiusi di chi pensa
intensamente. Tony fa un paio di passi avanti, abbassa il braccio che
regge il bicchiere lungo il fianco.
“Sono
in cima a un palazzo,” inizia Barnes.
“Sul
tetto?”
“No...
Uno...degli ultimi piani.”
Tony si passa la
mano sulla bocca e sul mento, pensoso.
“Okay.
Cosa stai facendo, nel ricordo?”
“Sto
puntando un fucile di precisione.”
“Sembra
promettente,” commenta Tony, stirando un sorriso senza
allegria. “Cosa vedi?”
“La
strada... C'è molta gente. Una folla di persone intorno al
perimetro della corsia.” Barnes strizza gli occhi, appoggia
le dita all'attaccatura del naso.
“Ehi,
sai cosa mi ricorda? Una di quelle storie in cui un ex-marine impazzisce
e si mette a sparare alla gente da una finestra,” osserva Tony,
divagando, e Barnes lo guarda in silenzio. “Stavi
dicendo?”
Barnes prende un
respiro profondo.
“Dall'altro
lato della strada c'è... Erba, un'aiuola. Ci sono
persone anche lì.”
“Stai
per sparare a loro?”
Barnes muove
lentamente la testa a destra e sinistra, il volto corrugato. Tace per
qualche secondo.
“No.
Ci sono delle macchine. Una colonna.”
“Mh.
L'obiettivo?”
“L'uomo
nella macchina centrale, quella col tettuccio abbassato. Ci sono altre
persone, a bordo.”
Tony annuisce
lentamente, assorto.
“C'è
sicuramente una donna. Porta un cappello. Ma non...” Barnes
espira profondamente, appoggiando indietro la testa. “Non
riesco a mettere a fuoco le facce.”
Tony alza la
mano e beve un sorso di whisky.
“Fa
niente. Quello sarebbe Dallas, 1963,” dice, piatto, prima di
voltargli le spalle, ignorando deliberatamente la sua espressione
sorpresa e lo sguardo interrogativo che gli rivolge.
“Ragazzi!
Ehi, ragazzi,” chiama a voce alta, ritornando in corridoio,
perché via, soltanto un genio poteva risolvere il mistero di
Dallas. “Indovinate chi ha assassinato Kennedy, che Oswald
riposi in pace,” esclama, levando il bicchiere in un brindisi
al condannato.
“Chi?”
chiede Barnes, alzandosi senza capire e dimostrando brillantemente che
gli uomini congelati dovrebbero rimanere tali. In contemporanea,
Steve si affaccia dalla porta in fondo, con la testa di Natasha che
spunta accanto al suo bicipite.
“Cosa?”
chiede, con aria sorpresa. In quel momento Barnes raggiunge la soglia e quindi lui, Tony; Steve lo guarda sgranando gli occhi, le braccia gli
precipitano lungo il corpo.
“Oh,
no,” dice. “Oh, no.”
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