Se queste ali
È
un giorno come tanti altri, quello (d’altronde i giorni si
accavallano in monotona successione da quando il Dottore non
è più con lei): una serie di vagiti incessanti
destano Rose Tyler prima ancora che sia la sveglia ad occuparsene, poi
l’aroma penetrante del caffè giunge a solleticarle
le narici simultaneamente al saluto di sua madre.
«Si è svegliato senza trovarmi lì con
lui» spiega Jackie, cullando il piccolo Tony tra le braccia.
Pare calmarsi istantaneamente, come avvertisse il calore di quello
sguardo materno che veglia su di lui.
Rose inarca appena le labbra. È contenta che finalmente non
sia più sola; Pete non sarà il suo vero padre, ma
ha provato a più riprese di amarle immensamente. Ora lei
gode di un lavoro ben pagato, una famiglia unita, buoni amici,
l’affetto del suo caro Mickey, una vita ordinaria. Si
potrebbe forse desiderare di meglio?
Sì,
risponde il cuore di Rose, nonostante il cervello le comandi di non
disprezzare la fortuna toccatale in sorte.
Eppure, non sa accontentarsi. Non è in grado di placare la
sete di conoscenza che serba in animo, il bisogno quasi fisico di
viaggiare con il misterioso uomo nella cabina blu che le
salvò la vita in un grande magazzino a Londra, molto tempo
prima. A volte pensa egoisticamente che darebbe indietro tutta questa
nuova vita per trascorrere un solo altro giorno con lui. Poi si maledice
in silenzio e seppellisce questo desiderio in un angolo inaccessibile
di cuore, là
in fondo, dove a nessuno sia concesso di scorgerlo.
«Il caffè è pronto, se vuoi fare
colazione con noi» sussurra sua madre che, ormai avvezza ai
suoi sbalzi d’umore repentini, ha imparato a rispettare i
suoi tempi.
«Scendo subito, mamma. Grazie».
Gli abiti giacciono abbandonati sulla spalliera di ferro del letto: un
grazioso tailleur nero, una camicia bianca. Solleva da terra un paio di
décolleté scure, le detesta: le soffocano i piedi e le
impediscono di correre. Ha dovuto adeguarsi a quel genere di
abbigliamento da quando lavora per Torchwood, però ha
conservato le Converse logore, reduci da tutte le loro scorribande.
Ogni tanto le guarda.
*
Mentre
sorseggia la sua dose giornaliera di caffeina e i fiumi di parole di
Pete e sua madre le scivolano sulle spalle senza far rumore, Rose non
smette di pensare a come si prospetta il suo futuro di lì a
qualche anno e a come, invece, avrebbe voluto che fosse.
E se…
Macina pensieri, Rose, e, come una piuma in balia di un refolo
d’aria, si libra alta la sua mente. Una mente libera, viva,
costretta in un corpo imprigionato in uno spazio, un tempo che non le
appartengono. Non desidera altro che scioglierle, quelle catene
invisibili che la imbrigliano e volare via, come un uccello.
Quando l’ultima goccia di caffè sfiora la punta
della sua lingua, ha già preso la sua decisione.
*
Sunlight comes
creeping in
Illuminates our skin
We watched the day go
by
Stories of what we did
It made me think of you
Quando, diverse ore dopo, scorge la baia scintillante
all’orizzonte, improvvisamente non le importa più
di aver acquistato un biglietto dell’ultimo minuto non
proprio economico, di aver marinato il lavoro e di aver speso istanti
eterni tra l’aeroporto e la macchina. Tutto sembra acquistare
un senso che forse nemmeno c’è, che nessun altro
oltre a lei potrebbe afferrare.
La spiaggia è completamente deserta, proprio come
l’ultima volta, e il vento soffia forte scompigliandole la
chioma bionda e sollevando i granelli di sabbia da terra. Essi si
aggirano in piccoli turbini, qua e là, e finiscono
coll’impregnarle i vestiti; sa già che scuoterli
via è controproducente e, a dirla tutta, neppure le
interessa.
Si aggira per Dårlig Ulv Stranden come un’anima in
pena, finché non è convinta di aver scovato
l’esatto punto in cui sei mesi prima la proiezione del
Dottore si è materializzata. Si ferma in quel posto preciso
ed ancora per bene i piedi nella sabbia, che penetra a poco a poco
nelle Converse oramai consunte. Solleva la mano destra e con dita
tremanti carezza l’aria, quasi lui fosse rimasto
lì per tutto quel tempo, ad attendere fedelmente il suo
ritorno.
Spera forse che lui compaia da un istante all’altro?
In piedi dinnanzi al nulla, in un luogo distante chilometri da casa, si
sente improvvisamente così sciocca per averlo solo
fantasticato. Gliel’ha spiegato, con voce incrinata e pupille
luccicanti, che non si potranno più rincontrare, che la
connessione tra i loro due mondi è stata definitivamente
chiusa e non c’è più alcuna
possibilità di abbattere quel muro che li divide.
E chissà dov’è adesso, in quale nuova
avventura è stato coinvolto, se qualcun altro ha incrociato
la sua strada. Chissà se la pensa di tanto in tanto.
Rose Tyler si lascia cadere sulla sabbia umida; il vento si
è placato. Osserva i flutti del mare infrangersi a riva e
sembrano rincorrersi, fare a gara per scoprire chi sfiorerà
per primo con le sue labbra spumose la battigia.
Un grosso uccello dal piumaggio bianco e marrone si esibisce in una
serie di piroette in cielo, poi plana nell’acqua e ne
riemerge con un pesce che si agita invano nella morsa del suo becco.
Poi l’aquila – Rose la riconosce dal portamento
fiero ed elegante – riprende quota e svanisce
all’orizzonte.
A volte desidera avere ali d’uccello con le quali spingersi
oltre i confini di questo mondo, con le quali raggiungere il Dottore,
l’altra
Terra dove da mesi è considerata morta.
Allora le giunge alla mente uno dei moniti del Signore del Tempo: «Ti sei mai chiesta
perché sia comune pensiero credere che gli uccelli siano
creature libere? Anche se possono volare liberamente nel cielo, senza
una terra da raggiungere, senza un posto in cui fermare le loro stanche
ali, potrebbero anche pentirsi di possederle. L’essere
davvero libero forse consiste nell’avere un luogo in cui
poter tornare». Lo aveva detto un pomeriggio del
1886 con i piedi a penzoloni sopra la baia di Galway, osservando i
gabbiani trascinare le zampe palmate sulla superficie
dell’acqua, disegnando cerchi in continua espansione, come
l’universo.
Inizialmente si era sorpresa che qualcuno potesse dubitare che gli
uccelli fossero liberi, con quelle ali vigorose in grado di condurli in
luoghi inesplorati, di varcare confini sconosciuti. Ma poi aveva
riflettuto a lungo e realizzato, infine, che la vita degli uccelli era
in tutto parallela a quella del Dottore, libero di spostarsi nel tempo
e nello spazio a piacimento, eppure perennemente condannato a separarsi
da chi lo ama: il suo popolo annientato dalla Guerra del Tempo, Sarah
Jane Smith, lei stessa. La
sua maledizione, l’ha chiamata, essere strappato
per l’eternità agli affetti che l’hanno
fatto illudere di avere una casa a cui poter tornare.
*
Under a trillion stars
We danced on top of
cars
Took pictures of the
state
So far from where we
are
They made me think of
you
Rose
ha montato la tenda preventivamente infilata nel borsone da viaggio,
poi ha steso un telo sulla sabbia ed è rimasta a contemplare
il paesaggio che si estende di fronte ai suoi occhi. Le piace, ha un
fascino ombroso e malinconico con i suoi colori algidi, la terra brulla
e arida, il mare color dell’ardesia.
Non fa in tempo a spiluccare un po’ della pizza acquistata
strada facendo, che la sera con il suo manto stellato avvolge la baia
del “Lupo Cattivo”. Quando Rose alza gli occhi al
cielo, la volta celeste è punteggiata di migliaia di astri
fulgidi, tanti quanti non ne ha visti spesso nel suo presente in questa
Terra (Londra non regala facilmente scenari di questo calibro, lo smog
e la spessa cortina di nuvole impediscono la libera visione del
firmamento).
Allora le torna in mente la vastità dell’universo,
lo spettacolo delle supernove e le emissioni di radiazione che causano,
tutto ciò a cui il Dottore l’ha iniziata. Se ora
fosse lì con lei, sa che le racconterebbe con solerzia
aneddoti sulle miriadi di pianeti e le popolazioni che li abitano, le
indicherebbe le costellazioni ed elencherebbe ad una ad una i nomi delle
stelle. E lei, Rose, penderebbe dalle sue labbra, come ha sempre fatto.
Quelle labbra, che ancora brama di assaporare, si è
continuamente domandata che gusto potessero avere, quanto soffici
fossero al tatto.
«Rose».
È niente più che un mormorio sommesso quello che
raggiunge il suo orecchio sinistro, alla stregua dei segnali che le ha
inviato mesi prima. Esce dalla tenda e si inerpica sulla roccia
più alta che riesce ad individuare (da lì la
vivida bellezza della distesa astrale è ancor più
facilmente apprezzabile). È come una voce che la chiama,
quello che percepisce, è come la voce chiara ed estrosa del
suo Dottore che la attrae a sé.
«Rose».
Sbatte velocemente le palpebre per ricacciare le lacrime che avverte
affiorare negli occhi. Le pare di vedere l’aria vibrare
vicino alla riva. Forse s’illude.
«Dottore?»
Non ha neppure avuto il tempo di confessarle che l’ama, non
udrà mai la sua bocca pronunciare quelle due semplici
sillabe. E ora il suo animo esacerbato rimpiange di non aver avuto
l’ardire di ammetterlo prima, prima che il loro tempo insieme
volgesse al termine.
Nemmeno un bacio di addio né una carezza con dita pallide e
tremanti, solo parole pronunciate a metà e lacrime dal
sapore acre. Nemmeno un
bacio.
Aveva creduto davvero che sarebbe durato per sempre.
«Oh, Rose. Mi
dispiace così tanto, così
tanto…»
È la sua voce quella che sente? Continua a percepirlo quel
tacito sussurro, ma di lui non v’è più
traccia. È solo la sua mente a giocarle brutti scherzi.
«Dottore, non lasciarmi…»
Rose è scossa dai tremiti, non sa se di freddo o di dolore.
Si trascina fino alla tenda, barcollando sulla terra silicea, e
desidera nuovamente di possedere delle ali in grado di raggiungere le
stelle, il TARDIS e il Dottore. Quelle ali che la porterebbero a casa,
se fossero in grado di volare.
Forse possedere ali non determina alcun grado di libertà,
però se queste ali, ripiegate a forza sulle scapole dolenti,
potessero dispiegarsi e prendere quota, abbatterebbero i confini del
tempo e varcherebbero i limiti dello spazio, per raggiungere
l’unico che abbia conquistato il cuore della giovane Rose
Tyler.
Appena prima di abbassare le palpebre e cadere in uno stato
d’incoscienza, le sembra che i bagliori cangianti delle
stelle riproducano vividamente il sorriso dell’uomo che ama.
*
Oh lights go down
In the moment we're
lost and found
I just wanna be by
your side
If these wings could
fly
«Stai bene, tesoro?»
Rose avverte solo la pressione di una mano sulla spalla, prima di
riemergere dal sonno.
No, non sta bene. Finché la sua mente si prende gioco di
lei, potrà mai avere pace?
La voce di sua madre, pur suonando dolce, non nasconde un velo di
preoccupazione, che emerge anche tra le rughe della fronte.
Si è accasciata sul letto sfatto ancor prima di infilarsi e
vestiti e scendere a colazione, e si è appisolata. Le
succede con una frequenza piuttosto imprevedibile che immagini tanto
nitide le balenino nella mente stanca. Per quante infinite volte abbia
avvertito l’istinto atavico di rivedere ancora i toni cinerei
della baia norvegese, l’aveva sopito, respinto.
«Sì, mamma. Sto bene» mormora Rose,
mentre impallidisce notando l’ora impressa sulla sveglia
elettrica: farà tardi al lavoro. Jackie le posa un bacio
sulla tempia pulsante e abbandona la stanza.
Rose lascia vagare lo sguardo fuori dalla finestra. È un
giorno come tanti altri, un giorno mediocre di un’esistenza
mediocre. Non è stato altro che un sogno.
Ogni tanto si domanda se il Dottore non sia stato anch’egli
un frutto della sua immaginazione.
Oh damn these walls
In the moment we're
ten feet tall
And how you told me
after it all
We'd remember tonight
For the rest of our
lives
Note: mi odierete, anch’io mi odio, quindi non
vi biasimo. Volevo dipingere uno giorno qualunque della vita di Rose
sull’altra Terra, dopo la separazione dal Dottore e questo
è stato il risultato: l’illusione di averlo
rincontrato che si dissolve in nulla, trasformando un sogno in un
incubo già vissuto. Ho cercato di analizzare il dolore e la
frustrazione di Rose, ma anche la profondità del legame che
li lega.
Quando
ho ascoltato la canzone (Wings
di Birdy), ho pensato calzasse a pennello e la citazione mi
è parsa appropriata per descrivere l’esistenza del
Dottore.
Spero
di non aver combinato un macello, comunque vi prego di farmelo sapere.
Grazie <3
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