Buongiorno
a tutti. Molto tempo è passato dall'ultima volta in cui ho
scritto e
pubblicato e mi auguro di essere migliorata almeno un po' da allora.
Torno a postare qualcosa di mio nella speranza di poter combattere il
famoso e fastidioso "blocco" che mi afflige da un po' e che
mi porta a cadere quotidianamente vittima della procrastinazione.
Ogni vostro eventuale commento, positivo o negativo, potrebbe essere
fondamentale per farmi capire dove posso migliorare, poiché
so che
di strada da fare ne ho ancora moltissima. Dunque, se per caso vi
capita di leggere, lasciate qualche commentino per dare nutrimento
alla mia piccola e a volte sopita anima di scrittrice. Ve ne
sarò
grata. Per ora, buona lettura a tutti coloro che vorranno seguirmi.
:)
L’OTTAVO
GIORNO
Osservate
le mie leggi e
mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Chiunque
maledirà suo padre e sua madre sia messo a morte: ha
maledetto suo
padre e sua madre; il suo sangue ricada sopra di lui.
Levitico,
20, 8-9.
1.
Sedevo
al tavolo della cucina, masticando malvolentieri un insipido biscotto
ai cereali e accompagnandolo di tanto in tanto con del succo
d’arancia, giusto per dargli un po’ di vita. Il
risultato fu
addirittura peggiore, ma se non altro più facile da
deglutire.
Mi
focalizzai sui suoni
abituali della casa per ignorare quelli estranei e molesti che
stavano riuscendo a rovinarmi l’umore. Il ticchettio
incessante
dell’orologio affisso al muro scandiva la rapida corsa dei
secondi,
mentre da qualche parte all’esterno di casa mia,
già da qualche
ora gli uccellini facevano a gara a chi cantava più forte.
Buttai
giù in fretta il
resto della colazione e guardai mia madre di sfuggita da sopra la
spalla, seduta al lungo tavolo di legno lucido e scuro che riempiva
la sala da pranzo. A gambe strette, con le sole punte dei piedi che
toccavano terra e adagiata sul bordo esterno della sedia, sembrava
non aspettasse altro che qualcuno desse il via ad una gara di
velocità. Persino il suo corpo parlava, involontario
dispensatore di
utili indizi sul suo stile di vita. L’impulso di spezzarle
davanti
al naso la penna che picchiettava senza sosta sull’agenda mi
fece
prudere le mani.
In casa mia
l’importanza
della comunicazione non verbale era enorme, se si trattava di dover
interpretare ciò che passava nella strana mente di mia
madre. Non
accadeva spesso che avesse molto tempo libero da passare in casa,
esclusa la notte, ma quando mi ronzava intorno era difficile che se
ne stesse buona senza produrre un qualche tipo di rumore capace di
logorare i nervi. Sembrava volesse assicurarsi che avessi notato la
sua presenza. Aveva una capacità di irritarmi che poteva
essere
definita talentuosa, con i suoi sguardi, i sospiri e i movimenti del
volto, sempre carichi di una forza espressiva che avevo imparato a
cogliere con il passare degli anni.
In quel
momento il suo viso
era teso, lievemente contratto in una smorfia di disapprovazione per
qualcosa che non conoscevo e che non volevo sapere. Le labbra erano
strette in una linea rosa, la fronte pallida e priva di imperfezioni
era solcata da una ruga quasi impercettibile, ma molto eloquente. Era
visibilmente in pensiero per qualcosa che, senza alcun dubbio,
riguardava il suo lavoro.
Sfogliò
l’agenda,
muovendo rumorosamente i fogli e riprese a picchiettare la penna,
senza cogliere minimamente l’ostilità del mio
sguardo. Passandole
accanto gettai un’occhiata fuggevole ai fitti appunti che
stava
consultando con aria preoccupata. Da quella distanza non riuscii a
comprendere nemmeno una parola, sebbene la sua grafia fosse molto
curata, non era tuttavia difficile immaginare che stesse cercando di
far quadrare i suoi appuntamenti di lavoro. Con tutte le cose che si
ostinava a fare in una giornata, mi chiedevo come trovasse il tempo
per nutrirsi, andare al bagno, o anche solo respirare con un
po’
più d’intensità rispetto al solito.
Mi gettai di
peso sul
divano e accesi la TV, sebbene non fossi particolarmente interessata
a ciò che il palinsesto delle sette e mezza di mattina
potesse
offrirmi. Anche volendo avrei fatto fatica a concentrarmi su qualcosa
di serio, con lei che faceva casino con quella dannata penna.
Era proprio
quello il suo
metodo infallibile per far capire a chi le stava accanto che qualcosa
non procedeva nel modo giusto, o meglio, che non stava andando tutto
secondo i suoi calcoli. Qualcosa di estremamente raro,
perché lei
otteneva sempre
ciò che voleva. Le manifestazioni della sua ansia erano
molteplici,
ma tutte altrettanto efficaci: se era in cucina, spostava pentole
(totalmente a casaccio, dato che era parecchio tempo che non cucinava
qualcosa di più impegnativo del pane tostato), oppure
schiaffava
qualcuna delle sue assurde riviste di economia o legge sul tavolo,
come se pensasse di dover riempire i silenzi degli altri o il vuoto
della casa con il chiasso della sua inquietudine.
Passai di
canale in canale
senza davvero prestare molta attenzione a nessuno dei programmi, e
gettai un grido mentale di liberazione quando dalle mie spalle non
giunsero più fastidiosi picchiettii. Senza voltarmi ascoltai
mia
madre alzarsi dalla sedia e percorrere a passi rapidi la casa,
diretta verso l’armadio accanto alla porta
d’ingresso. Ero sicura
che stesse per indossare il soprabito panna e l’elegante
borsetta
in pelle dello stesso colore, in tinta con la maglia e in preciso
contrasto con i pantaloni neri dal taglio morbido e le costose scarpe
col tacco alto.
Distolsi lo
sguardo dallo
schermo, giusto per controllare se le mie intuizioni fossero
azzeccate e sorrisi nel pensare a quanto fosse prevedibile quella
donna. Mal interpretando il gesto, lei sorrise di rimando, sfilandosi
i capelli biondi da sotto il colletto del soprabito.
Assomigliò più
a una smorfia che a qualcosa di gentile.
«Sarò
fuori città, oggi.
Ho
un volo fra poco ed è possibile
che stasera faccia tardi. Te la cavi?»
Possibile
per lei significava sicuramente,
così come te
la cavi,
voleva dire arrangiati,
nutriti, intrattieniti da sola e non combinare guai.
«Posso
farcela».
«Non
lasciarmi nulla per
cena, mangerò un boccone al volo».
Mi sentii in
dovere di
puntualizzare. «Esco anche io stasera, perciò
potrei fare più
tardi di te».
Poco ma
sicuro. Io e i miei
migliori amici lo avevamo pianificato almeno un mese prima e, come
loro, anche io non stavo più nella pelle.
Mamma non
disse nulla per
parecchi secondi, tanto che dopo qualche istante cominciai a
sospettare che non mi avesse nemmeno sentita. Mi sporsi oltre lo
schienale del divano, un braccio appoggiato alla stoffa scura, per
assicurarmi che lei fosse ancora presente, ma il suo viso era assorto
in qualcosa che non riguardava sua figlia. Le dita sottili e pallide
si muovevano rapidamente sulla tastiera del cellulare e subito dopo,
notando il mio sguardo interrogativo, mi fece segno di tacere e si
portò all’orecchio il ricevitore.
«Catherine,
buongiorno»
esordì con voce ferma, rivolgendosi a Catherine Dobson, la
sua
segretaria. Alla mente mi tornò il viso della giovane donna,
dai
lineamenti marcatamente orientali che mi avevano inizialmente messo
in soggezione quando mamma ci aveva presentate. Quando però
mi aveva
regalato un sorriso dolce mi ero sentita in colpa per essermi fermata
alla prima impressione e mi ero chiesta come fosse possibile che lei
e mia madre respirassero la stessa aria.
«Confermi
l’appuntamento
con Seymour per questo pomeriggio?»
Durante la
pausa che seguii
mi parve quasi di sentire il rumore del cervello di mia madre muovere
i suoi ingranaggi in un lavorio incessante, come se agissero ad una
velocità maggiore rispetto agli altri esseri umani, e le
risposte
pronte di Catherine, la sua voce calma ma decisa, così
distaccata
quando si trattava di lavoro e così piacevolmente tinta di
emotività
nei rapporti personali.
Con orgoglio
mi aveva
raccontato che suo padre era californiano e sua madre giapponese e
che lei si sentiva americana tanto quanto asiatica. Questo di lei mi
era piaciuto molto, il perfetto connubio tra due culture
apparentemente così diverse. Tutto in lei era armonia ed
equilibrio,
non solo ingannevole vanità, che invece ero solita leggere
negli
atteggiamenti di mia madre.
Mamma
mormorò qualche
parola di ringraziamento dopo una breve conversazione, poi mi rivolse
uno sguardo indifferente.
«Hai
detto qualcosa?»
Fece, come se si fosse resa conto solo in quell’istante di
non
essere sola in casa, o come se si stesse lamentando di avere una
mosca fastidiosa che le ronzava intorno.
«Ho
detto che sarò fuori
questa sera» mormorai, resistendo all’impulso di
alzare gli occhi
al cielo. Lei non disse nulla per qualche secondo, impegnata a
riporre nella borsetta l’agenda e la penna, sapevo
però che ci
stava pensando su. Aveva certamente capito che non cera bisogno di
chiedermi chi mi avrebbe accompagnata. Se gli esseri umani avessero
potuto avere due ombre, i miei migliori amici, Louis e Jennifer,
sarebbero state le mie. Dopo due interminabili secondi di riflessione
e silenzio, alzò nuovamente lo sguardo su di me, con
un’espressione
severa.
«Non
me ne hai parlato.
Dove andate?»
«In
un locale nuovo a
qualche chilometro da qui. Niente di speciale» mentii.
Era vero che
non era
lontano, ma dire che non
era
niente di speciale
era una sorta di bestemmia. Avevamo trovato i volantini con
l’annuncio dell’apertura del Mephisto
in un posticino dove andavamo spesso a farci un trancio di pizza, e
la promessa di un posto a tema infernale
ci aveva elettrizzato, scatenando la nostra fantasia. Non potendo
chiedere in giro di che si trattava, dato che l’inaugurazione
sarebbe stata solo quella sera, Louis aveva passato giorni e giorni
fantasticando su ciò che avremmo trovato, facendoci venire
il mal di
testa.
«Che
significa a pochi
chilometri da qui? È un posto che conosco?»
insistette mia madre.
«Non
è un sofisticato
ristorantino che dispensa caviale a prezzi esorbitanti a ricchi snob.
Quindi no, direi di no. E poi, come ho detto, apre questa sera per la
prima volta». Sperai notasse la frecciatina, ma il suo viso
non fece
una piega.
«Dove?»
«Perché
tutte queste
domande, ti ho già detto che è vicino.
È a SoMa, comunque»
mormorai, esasperata dalla sua intrusione illegittima. Passava la
maggior parte del tempo fuori casa, perciò avrei gradito che
si
limitasse a dirmi Certo
cara, vai pure e divertiti,
senza questionare. Il mio obbiettivo per quella sera era di passare
al meglio i miei primi giorni da persona libera. Completamente libera
e diplomata da pochi giorni, e con nessuna preoccupazione se non
quella di decidere come vivere il mio immediato futuro.
Le mie
speranze furono
infrante quando notai la piccola contrazione all’angolo della
sua
bocca non appena pronunciai il nome del distretto.
Idealmente
San Francisco
poteva essere divisa in un reticolo di tante piccole aree, dette
distretti, ognuno con il proprio nome e per la maggior parte dei casi
ognuna con la propria caratteristica o cultura. Parlando di San
Francisco era impossibile ignorare il suo carattere multi etnico e di
conseguenza era anche difficile tralasciare le sue stranezze.
SoMa era una
di quelle. Il
suo nome contratto stava per South of Market, ricalcato sulla forma
abbreviata SoHo di South of Huston a New York City.
Sia alla
luce del sole che
verso sera, SoMa brulicava di attività di ogni sorta, un
punto di
incontro per turisti e abitanti del luogo. Non erano pochi gli svaghi
culturali che poteva offrire, uno tra tanti, il San Francisco Museum
of Modern Art, oppure il Cartoon Art Museum, dedicato ai cartoni
animati e ai personaggi di animazione famosi. C’ero stata
tante di
quelle volte con papà che lo conoscevo quanto conoscevo casa
mia.
Di notte non
perdeva il suo
fascino, ma la cultura lasciava maggior respiro al divertimenti, con
locali di diverso genere, ristoranti, e nightclub.
«In
tutta franchezza,
Amber, non mi sembra una buona idea che tu frequenti quei
posti».
Finalmente mia madre mi espresse direttamente i suoi pensieri, anche
se dall’espressione perplessa che aveva assunto appena
nominatogli
il distretto non mi era stato difficile prevederli.
«Perché
no?»
«Perché
non è una zona
adatta a te e credo che i genitori di Jennifer e Louis sarebbero
della mia stessa opinione. Sempre che i loro figli non si siano
comportati come hai fatto tu con me, tenendomi all’oscuro di
questa
tua decisione».
«Loro
lo sanno e non hanno
nulla in contrario se stiamo tutti e tre assieme. Siamo in compagnia,
non correremo alcun rischio! E come sarebbe a dire che non è
una
zona adatta a me? Mi credi così ingenua?» La mia
voce era già
tinta di irritazione, sebbene non fosse l’atteggiamento
giusto da
tenere con una persona come mia madre. Più mi dimostravo
toccata sul
vivo, più lei si convinceva del fatto che ero dalla parte
del torto.
Scosse la
testa con un
sospiro esasperato che mi parve fuori luogo visto che stavamo
affrontando quella conversazione solo da pochi minuti.
«Non
fraintendere
qualsiasi cosa ti dico, Amber, per favore. Sei una ragazza giovane e
attraente e quelle sono zone della città in cui verso sera
si
trovano in giro persone poco raccomandabili».
Serrai i
denti per
combattere l’impulso di alzare la voce, cosa che avrebbe
solamente
peggiorato la situazione. «Te l’ho detto, siamo in
tre».
«Non
è una grande
garanzia se la tua scorta è formata da Louis e Jennifer. Non
sono
esattamente due persone dall’aria minacciosa. Louis non
farebbe
paura a nessuno nemmeno sforzandosi e quella ragazza, non sa nemmeno
da che parte giri la terra. Senza offesa».
Non
l’avrei ammesso a
voce alta, ma le sue parole avevano un fondo di verità.
Nemmeno io,
con il mio metro e cinquantatré d’altezza e il
fisico gracile davo
l’impressione di sapermi difendere.
«Siamo
in una grande
città, le persone sbagliate si possono incontrare ovunque,
anche in
un parco per bambini. Basta solo fare attenzione, dovresti fidarti un
po’ più di tua figlia, non credi?»
tentai di ribattere, con la
rabbia che mi gettava fastidiose vampate al viso. Mamma si
sistemò
la borsetta sulla spalla con l’aria di una che aveva deciso
di
punto in bianco di troncare a metà la conversazione. Sapevo
che
stava per regalarmi una delle sue tante frasi fatte.
«Non
è che non mi fido di
te, non mi fido della gente che si trova per strada. Drogati, barboni
e delinquenti d’ogni sorta» caricò ogni
parola con una dose di
disprezzo che mi parve eccessiva. Resistetti all’impulso di
insultarla, nonostante le parole premessero sulla lingua per uscire e
fare male. Detestavo il modo in cui metteva sullo stesso piano
individui che lei riteneva inferiori ai suoi standard. Era probabile
che nella categoria fossi inclusa anche io.
Lottai per
mantenere la
calma e ragionare lucidamente su come aggirare il discorso e volgerlo
a mio favore, senza dover litigare. Tirai in ballo il diploma, le mie
esigenze di svago e il desiderio di non deludere i miei amici, che
contavano su di me per poter avere un’ottima serata, ma ogni
mio
tentativo di difesa a nulla valse contro il suo viso di marmo. Si
spostò all’ingresso, accompagnata dal rumore dei
tacchi di tanto
in tanto attutiti dal tappeto e intenta, come faceva sempre, a
osservare la sua immagine riflessa nello specchio appeso sulla parete
accanto alla porta. Con le dita si sistemò alcuni ciuffi
biondi che
già erano perfetti così.
«Per
favore» aggiunsi,
sperando ardentemente di fare breccia nel suo cuore, sempre che ne
avesse uno, sperduto da qualche parte nel petto.
«Niente
discussioni,
Amber. Ho già detto quello che penso e non amo ripetermi,
perciò
trova un’alternativa per passare la serata. E la prossima
volta
gradirei essere informata in anticipo sulle tue intenzioni, visto che
fino a prova contraria sono tua madre. Di queste cose devi discutere
prima con me».
Aveva detto
bene, fino
a prova contraria.
Ne avevo a bizzeffe di prove che confutavano le sue convinzioni di
essere la madre dell’anno, che altri avrebbero potuto
confermare.
Conosceva meglio il suo ufficio che casa sua e pretendeva di
governare la mia vita?
Capii che
andare avanti con
quel discorso era autodistruttivo, perché difficilmente
avrei
resistito alla voglia di dirle in faccia molte cose che pensavo di
lei e della sua maniacale fissa di controllare tutto e tutti. Strinsi
i pugni e dalle labbra mi uscii un sospiro strozzato, mentre lei
impugnava le chiavi della sua auto e nel mio animo si faceva strada
la terribile ipotesi di mollare e dargliela vinta anche stavolta.
Il tappeto
all’entrata fu
tagliato da una lama di luce che penetrava dall’esterno,
piccolo
indizio di ciò che poteva offrire quella magnifica giornata
di fine
giugno. Mi salutò, promettendomi che mi avrebbe chiamata non
appena
avesse avuto un minuto di tempo libero, poi si chiuse la porta alle
spalle, soffocando la luce del sole.
Con tutta
probabilità non
si sarebbe fatta sentire.
Rimasi in
piedi, lottando
contro la collera, contro il fallimento e l’impotenza dei
miei
diciotto anni rispetto alla sua autorità e al suo titolo
immeritato
di madre e tutrice.
Merda!
Mi passai le mani sul viso, accalorato per la frustrazione. Non era
nemmeno la prima volta che bazzicavo per South of Market dopo il
tramonto e non mi era mai successo nulla. La cosa più
tremenda che
era capitata era stata quella volta che mi ero seduta su una gomma da
masticare su un muretto e non ne voleva più sapere di
togliersi dai
miei pantaloni, perciò perché preoccuparsi tanto?
Ero abituata a
cavarmela da sola, proprio come lei voleva che facessi. Gestivo la
casa e mi occupavo delle faccende domestiche anche senza di lei.
Con un moto
di rabbia mi
chinai, afferrai una delle mie ciabatte e la gettai con violenza
contro la porta, immaginando di non avere ostacoli davanti a me e di
colpire mia madre dritta sul quel faccino perfetto e glaciale. Mancai
il bersaglio di quasi un metro e la mia umiliazione crebbe, facendomi
sentire una vera idiota per quel gesto infantile. Di certo quella non
era una vera dimostrazione di maturità.
Il rumore
dell’apertura
del garage interruppe i miei pensieri e insinuò nella mia
mente
un’idea. Tesi l’orecchio e rimasi in ascolto
dell’auto di mamma
che faceva manovra e si immetteva in 5th Avenue. La speranza rinacque
in me mentre un proposito prendeva forma più definita nel
mio
cervello, dal lieve ed eccitante retrogusto di sfida.
Mi avvicinai
all’entrata
e tuffai le dita nel posacenere posto sul mobiletto accanto allo
specchio. Nessuno in casa era fumatore o lo era mai stato,
perciò da
quando era stato acquistato quell’oggetto non aveva mai
svolto il
suo vero compito, un po’ come era accaduto per il maestoso
tavolo
nella sala da pranzo.
Con una
stretta d’emozione
allo stomaco, strinsi nella mano l’oggetto che avevo sperato
di
trovare, e come debole giustificazione, mi dissi che avrei preferito
disobbedire a mia madre piuttosto che deludere le mie aspettative e
quelle dei miei amici. Con qualche piccolo accorgimento lei non
sarebbe venuta a saperlo e ad ogni modo, se proprio avesse voluto che
facessi la brava, avrebbe dovuto almeno premurarsi di portare con se
anche le chiavi dell’altra
macchina.
|