iNFERNO
“
Garcin:
Sono morto
troppo presto. Non mi hanno dato
il tempo di compiere le mie azioni.
Ines: Sempre
si muore troppo presto - o troppo
tardi. Pure la vita eccola la. Finita; la partita è chiusa,
bisogna fare i
conti. Tu non sei niente altro che la tua vita.
(Jean-Paul
Sartre - Huis clos)
”
INFERNO
‹‹
Quando
finalmente stava per liberarsi dall’inferno di questo mondo,
noi abbiamo
tentato di riportarlo dentro.
Volevamo
fare
la stessa cosa che volevi tu. Ma adesso basta, dobbiamo farlo
riposare››
L’inferno.
Che
posto è l’inferno?
È
l’ipocrisia, l’ingiustizia che ricopre la terra?
O è
il sangue misto a polvere che ricopre i cadaveri delle battaglie che
abbiamo perduto?
Stava
dentro o fuori quelle mura? Tra i giganti o tra gli uomini?
Eravamo
noi – quell’inferno – noi con le nostre
paure, le nostre incertezze, le nostre
debolezze, o il nostro coraggio con cui abbiamo sfidato il mondo e
superato
ogni limite? Valicando barriere, infrangendo le regole, sradicando i
sistemi
che ci tenevano imbrigliati, imprigionati come schiavi.
O
erano gli altri, forse, con le loro sentenze, le loro aspettative, il
loro giudizi?
Giudizio per cui viviamo e infine moriamo senza sapere mai veramente
chi siamo.
Cos’è
l’inferno e cosa non lo è?
È
forse fuoco? È forse ghiaccio? È terra,
è guerra? È trambusto, è silenzio?
È la
città da cui scappi o il porto in cui approdi?
Oppure
è quel nulla. Semplicemente
il nulla.
Spazio
vuoto da riempire con l’inferno che meritiamo
perché non esiste punizione
peggiore di quella che infliggiamo a noi stessi.
Il
nulla.
Il
bianco che acceca. Il muto silenzio di una stanza senza confini, una
prigione
senza sbarre, una libertà di cui non sappiamo che farcene.
Spazio
dove l’occhio vaga senza sapere cosa
guardare
o cosa cercare.
Infinita
libertà di guardare un eterno nulla.
E
in mezzo a quel nulla, egli è solo un puntino, niente di
più di una macchia che
sporca la tela. Chino su quella fontana ad osservare il suo silenzioso
mutare dell’acqua
nelle scelte che non si è mai perdonato. Cambiare scenari,
sotto i suoi occhi,
di quella vita che ha lasciato troppo presto. Imperdonabile sensazione
di non
aver fatto abbastanza, di non essere stato abbastanza; e rabbia
– troppa rabbia
– per l’abbandono, il tradimento,
l’umiliazione di essere stato nient’altro che
un corpo vecchio e stanco.
‹‹Erwin…››
Il
richiamo è vicino, eppure è lì che
vuole stare. Sul bordo di quella fontana, ad
aspettare, forse, che qualcosa accada. Svegliarsi da
quell’incubo e tornare su
quel tetto: è questo ciò che vuole.
Non sono
pronto. Non adesso. Non ancora.
Stringe
gli occhi e serra i denti.
Il
pugno spacca l’acqua.
Perché?
Perché? Perché?
Lo
specchio d’acqua si ricompone in fretta, indifferente e sordo
alle sue grida, a
quella personale ingiustizia, a quel torto subito.
‹‹Erwin…››
Non
si volta. Non la vuole quella verità.
La
verità quella per cui sarebbe morto – cento e
mille volte ancora su quel campo
e non sul tetto- è oltre quello specchio d’acqua,
dove galleggiano ancora gli
occhi grigi di Levi.
E
sempre c’è una barriera tra lui e quella
verità: una fontana, un muro, un falso
re, la porta di una cantina, un sogno più meritevole del suo
– un sogno immenso
e sconfinato come l’oceano - .
Perché?
Perché
proprio tu?
Liberato
da un inferno per incatenarlo ad un altro. Condannato a fare da
spettatore ad un
epilogo che non è più il suo.
Non è così
che
sarei dovuto…
Morire non come uomo ma
come scelta scartata, una
possibilità troppo vecchia, un desiderio troppo stanco per
andare avanti e
scoprire quella verità.
Che ne sanno loro di come
si giunge alla verità? Del
sangue che si versa, delle scelte obbligate, dei sacrifici - utili,
inutili - per
andare sempre avanti e mai voltarsi, dei
brandelli d’anima lacerati, sporcati che penzolano come
lenzuola al vento sul
filo di un’esistenza così piena eppure
così immensamente vuota.
La verità si
trova al fondo di un sentiero che passa
per l’inferno. E lui per quella verità si
è sporcato, imbrattato di sangue e
lacrime, condotto battaglie, sacrificato compagni, e ancora sangue,
fiumi di
sangue. Fino ad averne la nausea di tutto quel sangue eppure mai
abbastanza.
Insaziabile ingordigia di un pasto avariato solo per giungere a quella
verità e
morire per essa – altre cento e mille volte ancora
– su quel campo e non sul
tetto.
Lui, il più
meritevole, lui che ci ha creduto più di
tutti, più di suo padre, più
dell’umanità… lui meritava di scoprire
la verità.
Per quel sangue versato, per quelle lacrime mai piante, per gli amori
sacrificati, per una vita di negazioni…
Lui che fra tutti aveva
più diritto di essere lì – nel
seminterrato e non sul letto – ora è altrove.
Ancora una volta troppo lontano,
troppo distante eppure così vicino da poterla sfiorare.
Invece sfiora gli occhi
grigi di Levi, prima che
l’acqua li inghiotta e sentirsi ancora una volta troppo
lontano, troppo
distante.
Svegliati,
dannazione.
Svegliati!
Un
incubo. Una gabbia senza sbarre. È il nulla. È
tempo o forse nemmeno quello.
Non
c’è niente e lui non è fatto per vivere
nel niente. Lui ha combattuto contro
quel niente in cui si era affossata l’umanità.
L’ha raschiato via, ha sputato
sangue e versato quello di molti soldati per sradicare quel
niente.
‹‹Erwin…››
‹‹No!››
Non ancora.
Non adesso.
‹‹Come
vorrei che avesse avuto più tempo››
‹‹Sempre
si muore troppo presto o troppo tardi››
‹‹Ma
così…›› Silenzio
‹‹è così
sbagliato…››
‹‹E
chi lo sa, Signor Smith. Il mondo è pieno di cose
sbagliate››
‹‹Anche
la morte…››
‹‹Soprattutto
la morte, eppure si muore: su un campo di battaglia, nel letto, per una
malattia, per amore, per semplice volere di qualcuno. Si muore e basta,
ma mai
come vorremo››
‹‹E
ora?››
‹‹Possiamo
solo aspettare. Aspettare che accetti o aspettare che finisca. Che
finisca
presto, mi auguro, perché nessuno merita di vivere
l’inferno due volte.
Aspettiamo e basta che qualcosa accada o che qualcuno venga a dirci
com’è andata
a finire: se l’umanità ce
l’avrà fatta anche senza di lui o se
avrà fallito nel
tentativo. Perché per quelli come lui non esiste pace
nemmeno da morti.
Aspetterà la verità e noi con lui. Non siamo
altro che l’ombra di ciò che non
si è ancora perdonato e aspetteremo con lui per sapere se
non siamo morti in
vano››
Il
Signor Smith esita. Fa ancora un passo verso quel figlio che ha
finalmente
ritrovato. Poi torna indietro.
Mike
ha ragione.
Non
esiste inferno peggiore di quello che creiamo per noi stessi.
Angolo
dell’autrice
Non
mi perderò in lagne, isterismi vari o piagnucoli sulla morte
di Erwin Smith.
Prendete questa One Shot per quello che è: il mio personale
punto di vista.
Forse molti di voi non lo condivideranno, altri nemmeno lo capiranno e
forse
solo qualcuno mi darà ragione, ma rimane il mio punto di
vista, quello che ho
metabolizzato per un mese intero cercando di capire prima di giudicare.
Avevo
intenzione di scrivere un bel monologo sulle mie impressioni e
ciò che il
capitolo 84 mi ha suscitato, ma poi ci ho ripensato.
Ma
non nascondo la mia delusione, la mia amarezza… Per chiunque
volesse intavolare
una discussione in merito, sono sempre pronta a confrontarmi con
chiunque la
pensi in maniera diversa. Magari riesco a trovare una spiegazione
logica per
quanto è successo o magari crogiolarmi nella sensazione di
non essere la sola
ad aver imprecato contro Isayama.
Spero
che, al di là del mio giudizio sulla questione, la mia one
shot sia piaciuta,
come anche la mia interpretazione dell’inferno. Ci sono molti
riferimenti
all’opera teatrale di Jean-Paul Sartre Huis
clos (A porte chiuse) che rimane per me la migliore
rappresentazione di
cosa sia l’inferno sia su terra che in altre dimensioni.
Ringrazio
moltissimo Auriga, Ellery e RedLolly per i consigli, le revisioni, i
commenti
positivi e il supporto morale. Perché se non fosse stato per
loro, forse non
avrei nemmeno pubblicato.
Grazie
a tutti voi che leggete i miei racconti, che mi seguite e apprezzate
l’impegno
e la passione che vi metto.
Un
abbraccio
Shige
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