A
Clookwork
Angel
Prologo
Parigi
15 Dicembre 1877
L’ombra
si stava muovendo velocemente, lungo la Senna, come se avesse avuto un
demone
alle calcagna, trascinando per un braccio una ragazza, in lacrime e
tossendo
fuliggine. Àristos,le correva al
fianco, un’ombra scura nella
notte. La ragazza sapeva che doveva sembrare una pazza agli occhi dei
Mondani
che la vedevano. Il vestito verde, infilato senza crinolina, in fretta
e furia,
si era strappato durante la fuga, lasciando strati e strati di
sottovesti
bruciacchiate sotto. La sottogonna era a brandelli, il corpetto era
liso dal
calore e gli stivali della tenuta, erano quasi consumati. I suoi
capelli erano
sfuggiti al severo chignon, e venivano scompigliati
dal vento.
Sapeva di apparire ancora più strana con la sua Eosphoros al
fianco. Era raro
che una donna portasse un’arma. Se solo i mondani avessero
saputo dei pugnali
che teneva nascosti nel corsetto e nella gonna del vestito,
probabilmente si
sarebbero spaventati.
Tenne stretta la
mano della sua compagna trascinandola lontano dal ponte, poi
giù per un
viottolo. I tacchi degli stivaletti di raso della sua compagna
battevano sui
ciottoli producendo un suono cupo nella notte, insieme ai nitriti dei
cavalli,
al fragore delle ruote delle carrozze, al vociare degli ubriachi, alle
urla che
uscivano dalle taverne e dalle bische. Attraversarono il viottolo per
arrivare
a Les Champs Elisé. Anastasia,questo il nome
della ragazza, chiamò una
carrozza. Normalmente avrebbe chiesto a Paul, il cocchiere
dell’istituto, ma
lui era morto insieme a tutti gli altri nell’incendio. Una
carrozza di piazza
s'arrestò davanti a loro. Il vetturino le
scrutò. Anastasia sapeva come
dovevano apparire; disordinate e sporche, con i capelli sfuggiti alle
forcine
nella corsa, che ricadevano scompigliati sulla schiena e i vestiti
bruciacchiati
e lisi dal calore. L’uomo stava per incitare i cavalli a
proseguire, quando
Anastasia prese il borsello di monete che portava alla vita e gli
offrì due
franchi. L’uomo spalancò gli occhi. Probabilmente
pensò la Cacciatrice quei
due franchi
sono più di quanto guadagna in una settimana.
Senza aspettare che l’uomo la
invitasse, salì nella carrozza e quando anche la sua
compagna fu salita ed ebbe
chiuso lo sportello, gridò al cocchiere
l’indirizzo di suo zio. Quello non se
lo fece ripetere due volte e partì al galoppo nella notte.
***
La
villa di suo zio si trovava lontano dai
vapori e dai fumi della città, sulla collina di Montmartre,
quartiere d’artisti
e poeti. Era il quartiere preferito di Anastasia con la gente cortese,
i caffè
eleganti, i poeti, i suonatori agli angoli delle strade, i ritrattisti
ambulanti e gli artisti che passeggiavano per le vie. Il cocchiere
aprì loro lo
sportello e le due fanciulle scesero davanti a una grande villa in
stile
neoclassico. Anastasia quasi corse al cancello in ferro battuto, di
fronte il quale
si era fermata la carrozza. Tirò fuori lo stilo dalla
cintura delle armi, disegnò
una rapida runa d’apertura sulla serratura.
Il cancello si aprì cigolando verso l’interno. La
ragazza si voltò per
fare un cenno alla sua compagna e invitarla a seguirla.
Superò i giardini di
corsa, tenendosi le gonne con entrambe le mani. Giunta a un pesante
portone di
legno, scosse un pesante batacchio d’ottone per poi gettarsi
sulla
porta e bussare con impeto, guardandosi intorno con preoccupazione,
come se
temesse di essere assalita da un momento all’altro, ma non
accade nulla, il
giardino era immobile e silenzioso. Dopo
un tempo che le parve interminabile, finalmente la governante, una
mondana di
nome Cosette, venne ad aprire e sussultò
sorpresa, vedendole.
«Madmoiselle
Anastasia... ma cosa...? » chiese stupefatta.
Anastasia
non le rispose neppure. La superò e andò verso lo
studio di suo zio. Si sedette
sul divano di broccato facendo cenno alla compagna di sedersi accanto a
lei e
chiese alla donna di svegliare il padrone di casa. Lo studio era ampio;
c’erano
ritratti arcigni alle pareti, i tappeti erano grandi e con elaborati
arabeschi
acquistati direttamente dall’india. Dalla porta
d’entrata si vedeva una
portafinestra, con ampie vetrate che davano sui giardini
all’inglese e
all’italiana, ai lati della porta d’entrata
c’erano due copie in marmo di
statue greche, il soffitto era affrescato con una riproduzione del
trionfo di
Bacco e Arianna, di fianco alla porta
finestra c’erano uno scrittoio e una comoda sedia rivestita in
velluto rosso,
sull’altro lato della stanza un enorme
libreria. Dovunque cadesse l’occhio si vedeva lo stemma di
famiglia dei
Montrose; un monte in campo nero sormontato da una rosa
rossa. A fianco alla libreria era posizionato il
divano rosso, foderato con broccato, su cui si erano sedute le due
giovani.
Madame Cosette accese le stregaluci e i candelabri, ravvivò
il fuoco nel camino
davanti al divano e andò a chiamare lo zio di Anastasia.
Jean
Montrose era un uomo non più nel fiore degli anni, ma ancora
forte e abile. Era
molto alto e ben piantato, aveva occhi azzurri color cobalto, proprio
come
quelli di Anastasia, i capelli ormai brizzolati e radi dovevano essere
stati
arricciati sulla nuca e di un biondo dorato. Il suo viso era sempre
aperto,
gioviale e cordiale, amava scherzare e ridere, specialmente dopo aver
bevuto un
paio di bicchieri, ma sapeva essere un buono stratega ed era ancora un
ottimo
shadowhunter.
«Anastasia!?
Bambina mia, che cosa ci fate qui? Come osate piombare a casa mia, nel
cuore
della notte e senza preavviso?!» chiese l’uomo
sorpreso. Anastasia si alzò con impeto dal divano
per
andare incontro allo zio.
«Mio
caro e buonissimo zio, mi scuso, vogliate perdonarmi per la mia
maleducazione
nei vostri riguardi e per il così breve preavviso con cui
sono piombata qui, ma lui
mi ha trovata»
Il
volto di Jean impallidì e si protese verso la ragazza, per
poi sprofondare
nella poltrona di fronte al divano. Si passò una mano sulla
fronte, togliendosi
il berretto da notte e stringendosi nella vestaglia scura.
Poi diede un unico ordine alla nipote:
«Raccontami». Lei obbedì con voce atona.
Narrò dell’incendio demoniaco che si
era propagato nell'istituto un’ora prima. Narrò di
come avesse scorto una
figura nel fuoco somigliante alla persona da cui fuggiva da cinque
anni. Narrò
della fuga con Joséphine per le strade di Parigi.
«Devo
fuggire» concluse. «Sa dove sono. Se mi nascondo mi
troverà. Inoltre, sa che
sono qui, verrà a cercarvi e non voglio vi faccia del male
zio.»
Lui
le sorrise. Amava quella ragazza, molto di più di quanto le
avesse fatto
capire. Le voleva davvero bene e sperava che chi la minacciava la
lasciasse in
pace.
«Sei
riuscita a sfuggirgli per cinque anni ragazza mia. Sapevamo che alla
fine ti
avrebbe trovata, ma nessuno di noi si aspettava un gesto tanto
avventato da
parte sua»
«Non
è un gesto avventato zio, è tutto calcolato.
È un avvertimento, per me, per
dirmi che non sarò mai al sicuro. Sarò sempre
braccata, sempre in fuga anche
dove i Cacciatori si sentono più al sicuro; nelle loro case,
gli istituti. Sono
come un coniglio nella sua tana; sa benissimo che il cane e il
cacciatore
arriveranno da un momento all'altro, ma non può difendersi
dalla loro furia. Sa
che potrebbero arrivare l'indomani, o quel giorno stesso, o il masse
successivo,
ma sa che, quando arriveranno, sarà la sua fine
perché è indifeso e così lo
sono io»
Jean
la guardò affranto, gli faceva male sapere che una ragazza
così giovane potesse
capire certe cose della vita e provasse una paura così folle.
«Dove
progetti di andare? In Italia? In Piemonte c'è mio fratello
che dirige
l'Istituto di Torino. Sarei ben lieto di raccomandare te e la
signorina Bellelys »
«No,
non andrò in Italia. È troppo vicina alla Francia
e lui potrebbe intuire che
sono li»
«Allora
dove andrai, cara? Ritornare verso la Svizzera o la Prussia
è fuori
discussione, anche se lui non se l'aspetterebbe»
«Andrò
in Inghilterra. È una terra che mi affascina e ho sempre
provato il desiderio di
visitarla. Inoltre la prozia Lavinia mi ha lasciato una tenuta nello
Yorkshire.
Se non mi trovassi bene a Londra potrei trasferirmi
là.»
L'uomo
prese un lungo respiro: «Così sia
allora. Scriverò ai Branwell del tuo imminente arrivo per la
settimana prossima
all'istituto di Londra. Partirai tra cinque giorni. Nel frattempo tu e
madmoiselle Bellelys sarete mie ospiti.»
«Grazie
Zio.» disse la ragazza mentre Jean usciva dalla stanza.
Londra
19 Dicembre 1877
La giovane uscì dall’ufficio del notaio delusa e
disperata. E ora come avrebbe fatto? Non poteva pagare le tasse di
successione! Era denaro che non aveva! Cento sterline! Cento sterline
erano il suo guadagno di un mese e con la crisi economica e il prezzo
del pane che aumentava di giorno in giorno… Ma se non le
avesse pagate non avrebbe avuto più un posto dove andare.
Non aveva un marito, ne un lavoro stabile, aveva solo tre fratellini di
cui prendersi cura. Il lavoro come tessitrice non rendeva
come aveva pensato quando era arrivata fin lì, con i suoi
genitori, dalle campagne dello Yorkshire. Londra non era il paradiso,
Londra era l’inferno in terra per i poveri e gli indigenti.
Si moriva lavorando, e sì mangiava poco, vivendo nella
sporcizia più totale. Quella catapecchia che osava definire
casa era stata acquistata a caro prezzo dopo dieci anni di duro lavoro
da suo padre, ed ora che era morto, lei doveva pagare per
abitarvi. Poco lontano un gruppo di persone stava intonando
un canto di natale, ma Jane non aveva voglia di festeggiare, anche
perché non ci sarebbe stato nessun felice natale a casa
Johnson quell’anno. Pestò con rabbia la
nave che era caduta quel mattino, stringendosi nel logoro scialle e
sistemandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio,
affrettandosi a tornare a casa. Un uomo stava camminando a poca
distanza da lei. A differenza di Jane Johnson, vestita di stracci,
l’uomo sembrava ben vestito; con lucidi stivali di pelle nera
ai piedi, un lungo capotto di lana e un elegante capello a cilindro sul
capo. Camminava senza fare alcun rumore e si muoveva con leggerezza e
grazia. La giovane Jane non ci fece molto caso, troppo presa dai suoi
pensieri. L’’uomo le si affiancò, mentre
svoltava verso il West End, mantenendo sempre una certa distanza da
lei. Aspettò pazientemente che la ragazza si
isolasse sempre di più, imboccando vicoli sempre
più stretti per fare la sua mossa. Con una
velocità inumana la raggiunse e la fece cadere per terra,
sulla neve. Jane urlò, o almeno ci provò, si
divincolò, pianse, chiese aiuto, supplicò, ma il
suo assassino sembrava muto alle sue preghiere.
«Niente di personale, cara, davvero, è per un fine
più grande. Credimi, il tuo sacrificio non sarà
vano.» disse con una bella voce l’uomo, parlava con
uno strano accento tedesco forse? O Francese? Jane non lo sapeva e non
le importava. Voleva solo tornare dai suoi fratelli. Pianse
più forte cercando di divincolarsi dalla presa ferrea che
l’uomo aveva su di lei.
Per l’uomo quello era solo lavoro, dietro lauto compenso
ovvio e per un fine più grande. Non che fosse davvero dedito
alla causa, lui era dedito ai soldi, come qualunque sicario. Ancora non
capiva perché doveva uccidere la ragazza inchiodata sotto di
lui, non era nessuno d’importante. Ma, dopotutto, un buon
sicario non faceva mai domande, giusto? Così fece
quello per cui veniva pagato. Un lavoro rapido, pulito ed efficiente;
estrasse la daga d’argento e tenendo ferma la ragazza le
recise la carotide, imbrattando la candida neve di scuro sangue cremisi.
Poi si alzò, si ripulì le mani con un fazzoletto
e ritornò verso le strade sicure e illuminate dai lampioni a
gas, mescolandosi alla folla che tornava a casa e lasciandosi dietro un
candido tappeto di neve mista a sangue.
Londra due giorni dopo
Era una notte fredda, senza stelle, e il profilo di Londra si stagliava
come una cupa e imponente figura contro il cielo oscurato dalla nebbia
dovuta al brumoso clima inglese e al fumo che usciva dai camini. Le
uniche luci che illuminavano le strade bagnate della capitale inglese,
erano le candele nelle abitazioni, i lampioni a gas nelle strade
più frequentate e le lanterne nei pub e nei quartieri meno
abbienti. Le nuvole scure coprivano il cielo con una cupa coperta
grigia, invisibile al buio. Da queste ultime scendeva
delicatamente la gelida, umida, e insistente pioggia che solcava i
vetri delle finestre della chiesa in Fleet Street. Le goccioline
d’acqua, quando colpivano il vetro ticchettando, rimanevano
sospese per un momento, per poi scivolare giù verso la
pietra scura dell’istituto. C’era un ragazzo seduto
su uno dei davanzali, dietro i vetri coperti di pioggia e si stringeva
le ginocchia al petto con aria pensierosa. Il suo violino, giaceva
abbandonato a pochi metri da lui, sul davanzale. La fiamma della
candela, accanto alle sue gambe, rischiarava fiocamente la stanza. La
cera che colava lentamente verso il basso, si era quasi sciolta. La
fioca luce che proveniva dal lume proiettava strani giochi di luce,
creando ombre sinistre sulla parete dietro di lui. Il giovane sorrise
tristemente. Aveva le labbra macchiate di sangue, e gli occhi persi nei
ricordi di un passato che cercava disperatamente di dimenticare. Non si
era nemmeno accorto della luce sempre più tenue nella
stanza, continuava ad osservare immobile la vita di Londra, che
scorreva sotto la sua finestra. Gli piaceva guardare la vita della
Londra notturna. Lo tranquillizzava sapere che c’erano
persone normali che vivevano al sicuro grazie a lui e agli altri
Shadowhunters. Studiò la folla sulla strada,
dall’altra parte del cortile dell’istituto con
curiosità, cercando contemporaneamente un volto conosciuto
in quel via vai frenetico di uomini e donne che si affrettavano a
raggiungere le proprie abitazioni. I gentiluomini si muovevano svelti,
con i loro cilindri, le loro tube ben calate sul capo per proteggersi
dalla pioggia, i bastoni da passeggio tintinnavano sul terreno, mentre
sostenevano i loro proprietari. Le dame si erano aggrappate al braccio
dei compagni e cercavano, inutilmente per altro, in ogni modo di non
sciupare o rovinare le costose gonne di satin. La maggior
parte delle dame in strada si era infilata la mantella con il cappuccio
o cercava di non allontanarsi dalle zone ben illuminate dalle lanterne
e dai lampioni. Contemplando quello spettacolo notturno il ragazzo,
tentava di trovare un giovanotto dagli ondulati e ribelli capelli
corvini e dagli occhi blu. Con sua grande sorpresa e con un misto di
preoccupazione e sollievo, tuttavia, il ragazzo constatò che
il giovane gentiluomo in questione non era ancora ritornato verso
l’istituto. Il giovine sospirò, non poteva fare a
meno di chiedersi con preoccupazione crescente, cosa stesse facendo
Will in giro per Londra a quell’ora tarda della sera. Sperava
solo che, quell’idiota del suo parabatai avesse il
buon senso di non mettersi nei guai. Non avrebbe avuto la forza
necessaria, quella notte, per andare a riprenderlo, sopratutto se era
andato ad ubriacarsi e giocare d’azzardo in qualche lurida
taverna dell’West End, o se era in un bordello a Whitechapel,
o peggio, a drogarsi in una fumeria d’oppio. In
quel’ultimo caso, non avrebbe risposto delle sue azioni e non
lo avrebbe mai perdonato. Continuava ad immaginarsi gli scenari
peggiori riguardanti il suo parabatai,
perché solo Raziel poteva sapere cosa avrebbe potuto fare
Will, visto lo stato in cui era quando se n’era andato. Il
ragazzo ripensò al fatto che conosceva Will da molto tempo,
e sapeva meglio di chiunque altro cosa potesse fare, quanto potesse
essere sciocco e impulsivo, quando era così arrabbiato con
il mondo e si sentiva così inutile, come in quel momento.
Lui sapeva esattamente qual era lo stato di Will, lo sentiva.
Era il loro legame parabatai
a dirglielo; Disperazione, Rabbia, Sconforto, ecco cosa sentiva. Il
sentimento dominante in Will era la disperazione, cupa e nera
disperazione. Will era disperato, si sentiva inutile, e il giovane
sapeva esattamente perché visto che era stato lui a
provocare quella rabbia e quella disperazione in Will.
«Troveremo un modo, una cura; non ti
succederà niente Jem», aveva detto Will quella
sera. Jem era a letto, appoggiato ai cuscini, con lo sguardo
annebbiato, dopo l’ennesimo attacco, ma aveva sentito
chiaramente ciò che il suo parabatai, seduto su una sedia
accanto al letto, gli aveva detto.
«Troveremo una
cura», erano state quelle parole a risvegliarlo
dal suo torpore, quella frase e il tono deciso e determinato con cui
Will l’aveva pronunciata.
«Troveremo
una cura», quelle odiose parole gli
riecheggiarono in mente, ma soprattutto li risuonò chiaro e
cristallino il moto di speranza nella voce di Will.
«Non esiste
nessuna cura, William. Devi
fartene una ragione», gli aveva risposto lui in
tono brusco. Erano passati cinque anni, e ancora non c’era
una cura, Jem dubitava che ci sarebbe mai stata in realtà.
Will al contrario sperava ancora di trovare una cura, nonostante gli
anni passati a cercarla inutilmente. Non che il giovane, non
ne avesse cercato una. Nei primi anni del suo soggiorno a
Londra aveva tentato di tutto, ma ora aveva accettato la sua condizione
e tutto ciò che questo comportava. Non si era arreso alla
morte, si era solo arreso al fatto che un giorno sarebbe morto, Avrebbe
combattuto. Oh si, avrebbe combattuto per rimanere con la sua dolce
sorellina Katie e con Will. Era per queste due persone che combatteva.
Will non era ancora tornato, e il giovane era inquieto, visto che
l’aveva praticamente cacciato lui stesso, ma ne era anche
contento, almeno Will non lo avrebbe visto in quello stato pietoso, di
nuovo. Quella notte, la tosse era stata più dolorosa del
previsto, l’aveva scosso da capo a piedi tormentandolo senza
tregua. Stava ancora davanti alla finestra, con le braccia incrociate
sopra le ginocchia, il mento delicatamente poggiato sopra di esse,
guardava il grigio e piovoso paesaggio londinese di fronte a lui.
Sedeva immobile, come una statua di marmo, perso nei suoi pensieri.
Quando all’improvviso, mosse una mano pallida in avanti,
verso la finestra, con le punte delle dita che toccavano delicatamente
il vetro, quasi a voler catturare la pioggia londinese
all’esterno. Le dita pallide e affusolate proseguirono il
loro percorso sul vetro, freddo e umido, tracciando ghirigori
immaginari e complicati disegni invisibili. Seguivano le gocce di
pioggia che, lentamente, scendevano lungo il profilo della finestra per
poi scomparire alla vista. Gli occhi argentei del ragazzo erano persi
nel vuoto. Aveva lo sguardo vacuo di chi guardava il paesaggio senza
però vederlo veramente.
Il ragazzo accoccolato sul davanzale della finestra, in quella notte
fredda e buia, pensò che, Londra stesse piangendo,
silenziosa, in quella cupa e piovosa notte per lui e le gocce di
pioggia sembravano fissarlo. Scacciò quel
pensiero. Come se avesse avuto bisogno anche della compassione della
pioggia! Come se gli altri non lo compatissero già
abbastanza! Per sei maledetti anni, e anche in quel momento, si disse
amaramente; era stato compatito da tutti. Non c’era una sola
persona che lo aveva trattato normalmente. Le persone o lo
disprezzavano, come faceva Gabriel Lightwood, o per la maggior parte,
lo compativano. Forse lo disprezzavano anche, ma erano troppo codardi e
moralisti per dirglielo apertamente. Lo commiseravano tutti, chi
più, chi meno, tutti tranne Will e Katy. Già Will
e Katy, le persone più importanti della sua vita, il suo
parabatai e la sua dolce e adorata sorellina, l’unica persona
che gli era sempre rimasta accanto dopo che lui era diventato un
relitto vivente, l’unica famiglia che gli era rimasta dopo
essere diventato orfano, uno dei motivi che gli davamo la forza di
continuare a vivere, non prendere una dose troppo alta della medicina e
uccidersi. Già sarebbe stato facile finirla lì,
smettere di soffrire in quel momento, ma non poteva. Tutte le volte che
questo pensiero gli si formava nella mente gli si sovrapponeva il dolce
volto di Katherine, che gli ricordava così tanto quello di
sua madre, divorato dal dolore. Katy aveva solo quattordici anni appena
compiuti, era a malapena una ragazza! Non aveva nessun’altra
al mondo a parte lui. Cosa avrebbe fatto senza di lui? La perdita dei
loro genitori l’aveva già segnata, senza di lui
come sarebbe finita la sua dolce sorellina? Inoltre, vedendola non
poteva non paragonarla alla madre, man a mano che sua sorella
sbocciava, lui si rendeva sempre più conto di quanto
assomigliasse alla madre. Suo padre era un topo da biblioteca studioso
e musicista mentre sua madre era quella bella, forte e pratica. Sua
sorella stava diventando come lei sia esteriormente, sembrava la sua
copia, sia caratterialmente, possedeva la stessa grinta che aveva
permesso a sua madre di aiutare suo marito nella gestione
dell’istituto e di allenarlo. Non poteva abbandonarla. Non
era giusto. E poi c’era Will... Jem aveva promesso a
sé stesso sei anni prima, che lo avrebbe salvato a qualunque
costo e da qualunque cosa Will dovesse essere salvato. Will era il suo
migliore amico, quello che era come un fratello per lui, quello che lo
aiutava, quello che c’era nei momenti più critici,
quello che sapeva ogni cosa di lui. Non poteva dimenticare il suo parabatai, il loro
legame e il loro giuramento. Non poteva lasciare le persone
che gli volevano bene. Non poteva lasciare gli unici che, gli
avessero mai dimostrato qualcosa oltre alla compassione o al disprezzo
per la sua ”condizione”. Naturalmente, anche
Charlotte gli aveva dato qualcosa oltre alla pietà. Sarebbe
sempre stato grato a Charlotte Branwell, per come l’aveva
accolto, e per come aveva trattato lui e sua sorella. Ma, malgrado lei
e Henry gli volessero bene, malgrado tutto quello che facevano per lui,
malgrado avessero dato una nuova famiglia a Katy, non avrebbero mai
potuto sostituire i suoi genitori. Staccò la mano
pallida dal vetro e si sedette più comodamente, diede le
spalle alla finestra, poggiò la schiena contro il vetro
freddo e umido, afferrò con la mano destra il davanzale per
reggersi nel caso avesse rischiato di cadere per colpa di uno spasmo di
tosse troppo forte, facendo penzolare le lunghe gambe oltre il
davanzale, le punte dei piedi nudi che quasi sfioravano la trapunta
rossa del letto. Un altro spasmo di tosse piuttosto violento, scosse il
suo corpo ancora provato e febbricitante, dall’attacco di
tosse di poche ore prima. James Carstairs, questo era il suo nome, non
se ne curò, mentre le sue labbra si tingevano nuovamente di
rosso e lui si chinava leggermente per tossire e vomitare il suo stesso
sangue. Di solito, avrebbe chiamato il suo parabatai, ma non
quella notte, non dopo aver cacciato via Will in modo così
brusco. Aveva mandato via Will, a forza, dicendogli la
verità che si rifiutava di ascoltare,
perché faceva troppo male. Ma anche, mentendoli di nuovo,
dicendogli di stare bene, e presto sarebbe stato meglio. James odiava
mentire, sopratutto a Will. Illuderlo di avere una speranza, era
l’unico modo per non farlo impazzire. James sapeva che era
sbagliato, ma non poteva far altrimenti. Anche se entrambi sapevano
perfettamente che non era vero. Entrambi sapevamo che, le precarie
condizioni di James non avrebbero fatto altro che peggiorare. La
differenza stava nelle loro reazioni a queste due verità. Il
primo, James, si era rassegnato, voleva vivere il tempo che gli
rimaneva, cercando di non far vedere a Will e a sua sorella quanto
fosse prossimo alla fine. Il secondo William, invece non lo accettava,
non accettava il corso della malattia del suo parabatai e
s’illudeva di poterlo salvare. James fu scosso da un altro
spasmo, talmente violento da fargli quasi perdere la presa sul
davanzale, ma lui lo ignorò, perché era stanco.
Era stanco di dover nascondere gli attacchi di tosse sempre
più frequenti.
Era stanco degli incubi, che lo tormentavano ogni notte da quel
disgraziato giorno a Shangai, cinque maledetti anni prima.
Era stanco di dover mentire di continuo: a Will, a Charlotte, a Henry,
a Katy sulla sua “condizione”. Era stanco di dover
fingere di stare bene, di stare migliorando, quando in
realtà sapeva meglio di chiunque altro che non esisteva una
cura. Era consapevole, in quei momenti più che mai, che il
suo tempo stava per scadere, lento e inesorabile.
Era stanco di dover attendere la morte, che sarebbe arrivata a
reclamarlo.
Era stanco di dover sopportare da solo quel peso.
Era stanco di essere un peso per Will.
Era stanco di essere costantemente preso in giro da Gabriel Lightwood,
quando tornava a Londra dalla scuola a Idris.
Era stanco di essere così debole.
Era stanco di farsi vedere in questo stato dagli altri, così
fragile e indifeso fisicamente. Lui era un Nephilim, uno
Shadowhunter, avrebbe dovuto essere forte e preparato. Invece, quel
maledetto Demone gli aveva tolto anche quello, oltre ad avergli
rovinato la vita, per sempre. Si sentiva così inutile!
Jem sentì gli occhi farsi lucidi e serrò i pugni
lungo i fianchi, conficcandosi le unghie nei palmi fino a farseli
sanguinare, per non piangere. Non poteva piangersi addosso, non in quel
momento, non lo faceva da anni, da quando aveva accettato la cosa. Non
poteva iniziare ora...
Quella notte la tosse era stata crudele, l’aveva piegato in
due, non l’aveva fatto dormire. Si sentiva stanco e
affaticato come non gli capitava da mesi. Non era stato facile placare
l’attacco di tosse, questa volta era durato più a
lungo e ne sentiva ancora i rimasugli. Sentiva ancora il corpo spossato
e squassato dalla tosse. Sapeva che avrebbe dovuto stendersi, riposare,
ma come poteva? Era preoccupato; per una rara volta nella sua giovane
vita, per sé stesso e non per gli altri. Era preoccupato
perché, era sempre più difficile placare gli
attacchi, gli occorreva prendere la sua
“medicina”in quantità sempre maggiore e
questo lo terrorizzava. Spostò lo sguardo dalla finestra
alla scatola argentea sul suo comodino. Quella scatola conteneva la sua
“medicina” e la odiava, la odiava con tutto
sé stesso, se mai aveva odiato qualcosa in vita sua James
Carstairs, era quella scatola, la sua rovina. Odiava quella scatola la
cosa che era al suo interno e il demone che l’aveva costretto
a vivere la mezza vita che era costretto a vivere ogni giorno, senza
l’amore che aveva unito i suoi genitori. Perché
James Carstairs, nonostante fosse pienamente consapevole del fatto che
sarebbe morto presto, aveva paura di morire. Quella cosa l’avrebbe
portato, presto o tardi, alla morte, l’avrebbe ucciso,
consumato, eppure ne sentiva anche un richiamo irrefrenabile, ne
sentiva l’inebriante dipendenza che ogni volta lo conduceva
un passo pio vicino alla dama con la falce. Si sentiva come un orologio
destinato a rompersi da un momento all’altro. La sua vita,
come il tempo scandito da un orologio, scivolava via sempre
più velocemente. James aveva capito che il tempo fuggiva via
e non tornava mai indietro. Perciò si era aggrappato alla
vita disperatamente, per tenere fede a una promessa fatta tempo
addietro, all’unico uomo, oltre a suo padre, che aveva mai
considerato come un secondo genitore. La fine però si stava
avvicinando sempre di più, inesorabile e definitiva. Presto
il suo orologio avrebbe smesso di ticchettare, n’era sicuro,
mancava poco, ne sentiva i segni come marchiati a fuoco sulla pelle,
anche se aveva cercato di ignorarli. Sentiva il suo corpo lasciarsi
andare lentamente. Il peggio però era dover sopportare
quell’agonia da solo, siccome non voleva gravare sugli altri.
Stava per riprendere a disegnare sulla finestra, quando
sentì un rumore, un rumore che non sentiva da sei maledetti
anni, un rumore che allora gli aveva dato speranza e che in quel
momento gli fece battere il cuore all’impazzata.
Guardò tra i vetri rigati di pioggia e la vide, la scatola
blu era nel cortile dell’istituto di Londra. Quella scatola,
quella strana scatola blu, James Carstairs se la ricordava bene. Rivide
come in un flash, accanto ai cadaveri dei suoi genitori materializzarsi
la scatola. Dalla scatola blu era uscito un uomo; portava un
lungo capotto marrone e la sua espressione emanava pura furia. Appena
il Demone l’aveva visto era fuggito. Jem ancora bambino, era
strisciato terrorizzato verso i suoi genitori, piangendo disperato.
L’uomo gli si era avvicinato, si era inginocchiato di fronte
a lui, l’aveva preso per le spalle guardandolo con grandi e
caldi occhi nocciola e l’aveva rassicurato dicendogli che era
al sicuro, che sarebbe andato tutto bene. Poi stremato dalle torture e
dalla stanchezza, Jem aveva perso conoscenza e il mondo si era fatto
nero, o almeno così credeva, non n’era
sicurissimo. Ebbe un altro flash, non sapeva se era un sogno o un
ricordo. Ricordava, infatti, come in uno strano sogno, l’uomo
che si chinava, lo prendeva in braccio e lo portava fuori
dall’istituto di Shangai. L’istituto di Shangai...
una lacrima solitaria scese lungo la sua guancia pallida al pensiero di
quel luogo dov’era nato, cresciuto e a cui era stato
brutalmente strappato. Anche il suo nome era diverso ora. Si chiese se
i suoi genitori, vedendolo in quel momento l’avrebbero
riconosciuto. Ritornò per un attimo al secondo giorno di
supplizio; ricordava sua madre che ripeteva il suo nome in cinese,
cercando di tenerlo sveglio, cosciente, gridando al demone di lasciarlo
stare, di prendere lei e continuando a ripetere il suo nome. Risentiva
ancora sua madre gridargli nelle orecchie Jian, Jian. James era il suo
nome inglese, il nome che aveva adottato dato che il suo nome cinese
era impronunciabile per i britannici. Quando il suo salvatore era
venuto a prenderlo nella Città Silente, insieme alla sua
sorellina e l’aveva portato li, a Londra, con la sua scatola
blu, da Charlotte e Will, gli aveva detto che doveva adottare un nome
anglosassone, magari il corrispettivo di Jian in inglese: James
appunto. Solo sua sorella lo chiamava ancora Jian, anche se
l’aveva fatto sempre più raramente, mentre
crescevano. Quel giorno, quando l’uomo venne a prenderlo,
nacque James Carstairs, e mori, per sempre, Jian Carstairs. Quel
giorno, James diventò un’altra persona: da bambino
spaventato, a giovane consapevole delle tragedie del mondo. Crebbe in
poche settimane, crebbe e diventò un ragazzo, realizzando di
colpo che la sua infanzia era finita da tempo e che non sarebbe tornata
mai più. A dodici anni, James Carstairs era già
un uomo, per colpa della vita, che era stata molto crudele con lui.
L’uomo che lo aveva salvato, si era presentato come il
Dottore. James, con una fitta al cuore, si era ricordato di tutte le
storie che sua madre gli raccontava su di lui; un uomo folle, geniale,
immortale quanto gli angeli, gli stregoni, le fate e i vampiri. Moriva
e cambiava aspetto, ed era venerato come un dio dagli Shadowhunters.
Quando era bambino, non aveva creduto a quelle che reputava fossero
sciocche leggende, ma dopo quello che era successo, non aveva avuto
alcun dubbio sull’esistenza del Signore del Tempo. Il Dottore
l’aveva salvato, aveva fatto tutto quello che poteva per lui
e sopratutto per Katy. Jem gliene sarebbe stato grato in eterno. Il
Dottore era stato l’unico ad avere il coraggio per spiegargli
cosa doveva fare per sopravvivere. Era stato l’unico a dirgli
da che cosa la sua giovane e breve vita sarebbe dipesa da lì
in avanti. Gli altri avevano paura di ferirlo e declinavano le sue
domande, tutti tranne il Dottore. Lui era stato l’unico a
confortarlo, a mostrargli affetto in quei giorni. Era stato come avere
un parente che si prendeva cura di lui. Alla fine era stato il Signore
del Tempo a decidere si portare lui e Katy a Londra. Conosceva
Charlotte e suo marito Henry Branwell, aveva conosciuto il padre di
Charlotte, Granville Fairchild, il precedente direttore
dell’istituto e l’aveva affidato a loro. James
ricordava ancora quello che il Dottore gli aveva detto prima di uscire
dalla cabina e presentarlo a Charlotte.
***
Londra,
maggio 1873,
«Jian so che è difficile, so che quello
che ti è successo è orribile, sei un
bambino.»
Il Dottore si era interrotto perché lui l’aveva
guardato male. «Sono uno Shadowhunter e Jian Carstairs
è morto, Dottore, una settimana fa. Ora sono James Carstairs.
Non sono più quel bambino spaventato che avete portato via
da Shanghai,» aveva replicato asciutto.
«Come vuoi tu James. Sei uno Shadowhunter, ma sei un anche un
bambino e quello che ti è successo è orribile. Mi
dispiace davvero tanto Jem.»
«Jem?»
aveva chiesto perplesso. Il Dottore era stato il primo a chiamarlo
così.
«Sì, Jem. Ora ti chiameranno James no? Beh ho
pensato che Jem è un bel sopranome»
«Credimi Jem, so cosa vuol dire essere soli al mondo, anche
la mia famiglia è stata uccisa tanto tempo fa. Devo
continuare a vivere, da solo. So cosa si prova e so che le persone
fuori da questa porta non significano nulla per te. So che non potranno
mai sostituire i tuoi genitori, ma ti vorranno bene. Sono brave
persone»
Jem aveva sollevato la testa e aveva guardato
l’uomo inginocchiato di fronte a lui. Al’epoca
aveva ancora gli occhi neri dati dalla sua origine orientale e gli
aveva puntati in quelli grandi e nocciola dell’uomo. Ed era
stato allora che il Dottore gli aveva detto le parole che sarebbero
diventate il suo scopo di vita da li in avanti e che lo erano anche in
quel momento.
«Ricordati una cosa James: per quanto possa essere difficile,
per quanto possa essere doloroso, goditi ogni istante della tua vita.
Perché James, ehi, voglio che tu lo sappia; loro non sono
morti a causa tua, non pensarlo nemmeno. Non c’era niente che
avresti potuto fare per impedire che quel demone entrasse
nell’istituto e facesse quello che ha fatto. I tuoi genitori
vorrebbero che tu vada avanti, anche se è difficile e sei
senza di loro. Ricorda che non puoi arrenderti, sei l’unica
famiglia che immane a Katy. Perciò, James Carstairs, afferra
la vita che ti rimane e vivila, vivi per loro. Voglio che tu ora vada
lì fuori, ti faccia degli amici, conosca nuovi cacciatori e
una nuova città. Voglio che tu ti attacchi spasmodicamente
alla tua breve vita e cerchi di viverla al meglio. Voglio che tu sia
felice James Carstairs, anche se per un breve periodo di tempo, voglio
che tu sia felice, te lo meriti. È vero, come ti ho spiegato
nella Città Silente; potresti morire domani, o tra una
settimana, o tra un mese, o un anno, o anche di più, dipende
da che effetto ha quella sostanza sul tuo corpo. Non permettere a
Yanluo di vincere Jem. Ti ha portato via tutto, ma non è
riuscito a portarti via la vita, anche se avrebbe voluto non permettere
al suo veleno di portarti via tutto ciò che ti rimane Jem;
la tua vita. Mi hai detto di essere uno Shadowhunter. Gli Shadowhunters
sono guerrieri; combattono i demoni. Quindi tu devi fare una cosa, se
sei uno Shadowhunter e un guerriero; combatti quella cosa, combatti con
le unghie e con i denti per vivere Jem, non dimenticarlo mai. So che
sei forte ragazzo. Combatti per vivere una vita felice. Mi hai
capito?»
«Lo farò Dottore. Lo farò. Ve lo
prometto. Lo giuro sull’Angelo.»
***
Jem ritornò alla realtà,
nella sua stanza, seduto sul davanzale. Guardò fuori,
quattro figure, di cui una riluceva alla luce della luna si
avvicinavano al portone dell’istituto. Vide la prima figura
alzare una mano per bussare al portone dell’istituto.
Sentì il famigliare scampanio cupo che provocavano le
campane. Jem ignorò nuovamente l’attacco di tosse
e il dolore alle ossa, saltò giù dal davanzale,
prese il bastone col pomo di giada e il violino, gli unici ricordi di
suo padre e uscì dalla stanza.
***
Nello stesso momento, in quella notte buia per le
oscure e malfamate strade di Limehouse zona dei bassifondi di Londra, a
pochi metri da Whitechapel un ragazzo moro stava camminando sotto la
pioggia battente. Camminava svelto, non aveva una meta precisa, voleva
solo andare il più lontano possibile
dall’istituto. Non poteva sopportare di rimanere
lì un minuto di più, non dopo gli avvenimenti di
quel giorno. Sapeva di essere un imprudente ad uscire a caccia da solo,
ma non ci poteva fare nulla. Jem non era nelle condizioni di
accompagnarlo e lui non voleva che nessun altro a parte James Carstairs
lo accompagnasse. In verità voleva solo uccidere qualche
demone, e poi affogare i propri dispiaceri
nell’alcool. Non necessariamente in quest’ordine.
Non aveva ancora deciso cosa fare per primo, ma una cosa la sapeva;
voleva fare tutto rigorosamente da solo. Jem era stato di nuovo male.
Il ragazzo si chiese quanto ancora sarebbe durata l’agonia
del suo parabatai.
Quella notte James era stato male, come non gli capitava da mesi. Will
aveva notato con orrore crescente in quei giorni, nonostante Jem
continuasse a spergiurare di stare bene e a nascondergli, quasi
disperatamente, gli attacchi di tosse sempre più frequenti,
il pallore sempre più spettrale sul suo volto, il corpo
sempre più magro e deperito, il respiro sempre
più affannoso, l’affidarsi sempre più
pesantemente al bastone da passeggio per camminare. Vederlo in quelle
condizioni gli faceva male. Vederlo così gli faceva pensare
sempre di più alla sua morte, a quella cosa inevitabile, e
ingiusta. La morte di
Jem. L’inevitabile, dolorosissimo momento, in
cui James sarebbe morto, in cui il loro legame si sarebbe spezzato, per sempre. Sapeva
che Jem sarebbe morto, era un dato di fatto, l’aveva tenuto
in conto fin dal’inizio, quando aveva chiesto a quel bambino
pallido, appena arrivato dalla Cina di fargli da parabatai.
Cercava di non pensarci, di posticipare in tutti i modi il momento del “cosa”
avrebbe fatto “dopo”
la morte di James. Ma il problema era proprio quello, non sapeva cosa
ci sarebbe stato dopo,
perché non esisteva, nella sua mente, un lasso di tempo che
non comprendesse James. Aveva pensato, quand’era bambino, che
non ci sarebbe mai arrivato, che James non sarebbe mai morto, che
avrebbero trovato una cura; ma James era peggiorato, doveva prenderne
atto. Come James gli aveva fatto notare quella notte con il suo tono
pacato:
«Non esiste nessuna
cura, William. Devi
fartene una ragione e prima lo farai, meglio
sarà per entrambi. Non puoi più negarlo William, io sto morendo, non
esiste cura. Mettitelo in testa. Non puoi fare sempre come vuoi Will,
non questa volta. Rassegnati per favore. Non illuderti ti prego».
Aveva concluso Jem rivolgendogli uno sguardo supplicante,
abbandonandosi contro i cuscini e chiudendo gli occhi, il viso magro
cerchiato da ombre scure.
La malattia, si era reso conto Will quella notte, stava prendendo il
sopravvento. Jem si stava arrendendo lentamente a lei. William
Herondale sapeva che era colpa sua, n’era certo. Il suo
errore era stato affezionarsi. Non avrebbe dovuto attaccarsi a Jem,
avrebbe dovuto scostarlo come faceva con tutti gli altri, invece non
l’aveva fatto. Aveva ceduto ai modi gentili e pacati di Jem e
adesso stava per perderlo. Il ragazzo si passò
distrattamente una mano tra i folti e ricci capelli corvini, che si
erano arricciati sulla nuca e incollati al collo a causa di quel tempo
piovigginoso. Will continuò a camminare con le mani serrate
a pugno, affondate nelle tasche del cappotto fradicio. Si era
allontanato quasi correndo dall’imponente figura
dell’istituto di Londra. Doveva stare lontano da
tutti, era la cosa migliore per le persone che, standogli intorno,
rischiavano solo di farsi male. Era un pericolo per gli altri. Non
voleva più fare male a nessuno, eppure involontariamente lo
stava facendo a Jem, l’unico amico che avesse, quello che si
era dimostrato come un fratello per lui. Non voleva fare del
male alle persone che amava, ed era per questa ragione che, cinque anni
prima, aveva lasciato la sua famiglia e le verdi campagne del Galles,
per la sporca, umida, piovosa e grigia Londra. Non voleva far del male
a Cecy, non voleva perdere anche lei, come aveva perduto Ella. Will
sorrise, suo malgrado, raffigurandosi quel viso, così simile
al suo che non vedeva da cinque lunghi anni. Si chiese quanto fosse
cambiata quella piccolina in cinque anni. Si chiese se
l’avrebbe mai rivista e se lei ogni tanto gli pensasse.
Ripensò alle lettere che ogni compleanno scriveva e poi
stracciava e non spediva mai. In quei momenti gli mancavano
più che mai. Represse le lacrime. La verità era
che aveva paura di perdere Jem, a causa sua, come aveva perduto Ella
cinque anni prima, per colpa sua, sua e di nessun altro. Se solo non
gli fosse venuta l’idea di curiosare in giro, niente di tutto
quello che era successo sarebbe mai accaduto e, in qualche modo, anche
questa volta sentiva che il peggiorare delle condizioni di salute di
James era colpa sua. É colpa mia, tutta colpa mia,
pensò. William sapeva che James gli stava mentendo. Erano
parabatai dopotutto; c’era un legame tra loro. Sapeva che
James stava morendo e si sentiva ancora più frustrato
perché non poteva far nulla per aiutarlo, ed era colpa sua.
William si fermò, si guardò attorno, era nella
zona di Limehouse, vicino al porto. Vedeva le navi attraccate al molo.
Era abbastanza lontano dall’istituto. Nessuno gli avrebbe
detto niente, se avesse preso a pugni qualcosa, o anche qualcuno, non
faceva alcuna differenza. Si guardò intorno, aveva una gran
voglia di menare le mani e di sfogarsi su qualche povero mondano. Vide
una vecchia catapecchia abbandonata alla sua destra, il posto
perfetto. Si avvicinò lentamente alla vecchia casa
e diede un pugno contro il muro di fronte a lui, di fianco alla strada,
e poi continuò finché le nocche non iniziarono a
sanguinare e diventare bianche. Solo allora permise alle lacrime,
lacrime di disperazione, di sgorgare. Si sentiva come se
l’avessero pugnalato e poi tagliato in tanti piccoli
pezzettini. Si sentiva come un bicchiere rotto. Non sapeva se sarebbe
mai riuscito a rimettere insieme i frammenti della sua anima, affilati
come vetro. Annientato era la parola adatta, era e si sentiva
annientato dentro. Si sentiva inutile, incapace persino di aiutare
l’unica persona che testardamente era voluta diventare sua
amica ed esporsi al pericolo rappresentato da lui, inconsapevolmente
certo, ma Jem l’aveva fatto. Mentre prendeva a pugni una
vecchia catapecchia, nei bassifondi di Londra e le lacrime sgorgavano
copiose dai suoi occhi, Will non poté impedirsi di
ricordare, cosa aveva pensato a dodici anni, quando Jem era diventato
suo amico. A dodici anni Will aveva pensato, visto che non sapeva per
quanto Jem sarebbe potuto sopravvivere, che quello che gli era successo
non avesse effetto su di lui, si sbagliava ed era tutta colpa sua. Wiliam tu non potrai mia voler
bene ad una persona, pensò, mentre si puliva le
mani insanguinate, piene di graffi e schegge, causati dal legno marcio
e pieno di spine della baracca, sui calzoni. William si girò
e riprese a camminare nella direzione da cui era venuto, ma non voleva
tornare all’istituto, voleva andare al The Rose and Crown.
Gli piaceva quella lussuosa taverna mondana. E poi aveva
bisogno delle parole di Lilian e di un bicchiere di Whisky, anzi
più di uno. Voleva ubriacarsi per dimenticare. Mentre
percorreva la strada a ritroso, sotto la pioggia battente, i vestiti
zuppi, i suoi pensieri tornarono al suo chiodo fisso in quei giorni:
Jem Carstairs. Aveva pensato che Jem forse sarebbe rimasto con lui.
Aveva pensato di poterlo salvare. Si sbagliava. Si sbagliava su tutto,
e di grosso anche. Continuò a camminare rapidamente sempre
più sconfortato. I vestiti gli s’incollavano al
corpo già bagnato e infreddolito dalla prima passeggiata che
aveva fatto quella sera. Aveva già passeggiato per le strade
di Londra quella notte, un’ombra scura nel buio. Era tornato
però, sentendo che c’era qualcosa che non andava.
Jem, infatti, si era sentito male. Jem, successivamente,
l’aveva scacciato a forza di scuse e sproloqui della sua
stanza. Quando era uscito Will non aveva pensato, nemmeno per un
momento, a cambiarsi la camicia di lino, umida dalla prima passeggiata
sotto la pioggia, o i calzoni ormai zuppi d’acqua. Si era
infilato frettolosamente il lungo cappotto fradicio e il cappello a
cilindro, di velluto nero, ed era uscito, senza pensare, volendo solo
fuggire da li; incurante del tempo e della tempesta di pioggia che
fuori infuriava e spazzava Londra fin nelle fondamenta. In strada non
c’era nessuno, persino i mendicanti avevano trovato un riparo
dal temporale, solo Will camminava per le strade malfamate di Londra
quella sera. Camminare lo aiutava a sfogarsi, a non pensare, ad
estraniarsi, ma non quella notte. Quella notte non riusciva proprio ad
estraniarsi, anzi pensieri e ricordi continuavano a vorticargli
fastidiosamente in testa, anche se cercava di ignorarli. Per spiegare
la sua assenza, avrebbe inventato un racconto licenzioso su una
fantomatica prostituta che poi avrebbe menzionato dettagliatamente a
Jem e Charlotte la mattina dopo. Will inventava racconti per
giustificare le sue assenze che lo facevano sempre apparire in una luce
peggiore. Tutti ci credevano e sostenevano che fosse un villano, tutti
tranne Jem, certo lui capiva che Will mentiva, ma non gli faceva mai
domande. Di questo Will gliene era grato, era anche fortunato che Jem
fosse troppo riservato e rispettoso dei fatti altrui per fargliene.
Stava passando davanti all’istituto per andare al The Rose
and Crown, quando sentii un rumore, lo stesso rumore che aveva sentito
il giorno in cui Jem era arrivato all’Istituto. Sentendolo,
si voltò istintivamente verso il cortile
dell’Istituto. In mezzo al prato coperto di pioggia,
c’era una scatola blu, di legno, quadrata, con delle
finestre. Will, la trovò strana, non l’aveva mia
vista prima. Scrollò le spalle; era troppo stanco per
preoccuparsi di strane scatole blu nel cortile dell’Istituto
di Londra. Magari era solo un’allucinazione dovuta alla
stanchezza e alla frustrazione. Quello che gli ci voleva era una bella
sbronza, pensò. Sì, l’alcool era il
miglior amico del’uomo depresso. Con questo
pensiero, William Owen Herondale voltò le spalle
all’Istituto e alla strana scatola e, grondante
d’acqua, si diresse a grandi passi verso la sua osteria
preferita e la sua cameriera preferita. Fu quindi, per questo motivo,
che Wiliam Herondale, non notò cinque figure uscire dalla
“scatola” e dirigersi verso il portone
dell’Istituto.
****
In un’altra stanza
dell’istituto di Londra un ragazzo dai capelli scuri si
rigirava nel letto senza riuscire a prendere sonno. Al contrario di
Wiliam Herondale e James Carstairs, lui non era preoccupato per le
condizioni di James. Non che non volesse bene a Jem, come si poteva non
voler bene a quel dolcissimo e bellissimo ragazzo? Che si,
doveva ammetterlo, un po’ lo rispecchiava. La preoccupazione
di Jesse così si chiamava lo Shadowhunter era ciò
che era successo a Idris quando era tornato per parlare con la sua
famiglia e sua madre Sarah si era approfittata di lui per
l’ennesima volta. Come se Jesse non avesse ancora imparato la
lezione. La verità era che non ce la faceva a non voler bene
alla sua famiglia e a non aiutare gli altri era nella sua natura. Era
troppo buono glielo dicevano sempre tutti. Se solo non si fosse fatto
ingannare. E fosse stato meno ingenuo. Si rigirò ancora una
volta nel letto e poi decise di alzarsi. Sapeva per esperienza che non
sarebbe più stato in grado di dormire. Si sentiva in colpa.
Si alzò e quasi cadde, era debole. Non aveva mangiato nulla
a cena, di nuovo. Si guardò nello specchio, alla tenue luce
delle streghe luci somigliava a un fantasma: in quella camicia da notte
lunga e bianca, con gli occhi pesti, le occhiaie violacee e il viso
pallido e smagrito. Si sentì stringere il cuore a quella
vista. Grazie a sua madre c’era di nuovo ricaduto. Era quello
che temeva, sapeva di stare male ma non sapeva come tirarsene fuori. Ad
interrompere i suoi pensieri sconfortati e le sue tristi riflessioni fu
uno strano suono acuto, il campanello dell’istituto che
suonava. Poteva significare solo una cosa: avevano ospiti.
NOTE
DELL'AUTRICE
Hola!
Approdo su questo fandom che amo da impazzire, e lo faccio con una
storia sulla mia trilogia preferita.
Questa
storia che programmo da ben cinque anni è un
AU, dove
non esiste Tessa e gli eventi di TID saranno molto diversi, diciamo che è una mia versione della storia. Si ci sono acuni acenni a Doctor Who tututavia non influiranno sulla storia di per sé. Spero
vi
sia piaciuto questo prologo.
Al
prossimo capitolo
Baci
Marty Evans
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