edera
Insomma, un breve racconto molto gioioso…
Edera
Ero seduta per terra,
le gambe distese sopra un letto di foglie rossastre e la schiena
appoggiata contro il tronco di un grande albero.
La ricreazione era iniziata ormai
da cinque o dieci minuti e gli altri bambini stavano giocando a
“strega acchiappa colori” al centro del cortile, potevo
sentire il loro schiamazzo dal mio angoletto ombroso e isolato. Le loro
urla e il rumore della ghiaia spostata dai loro piedi mi infastidiva.
Mi distraevano dai miei pensieri.
Tra l’indice e il pollice
della mano destra tenevo un grosso fungo bianco che avevo raccolto
lì vicino, lo facevo ruotare sul gambo con dei piccoli movimenti
dei polpastrelli.
Lo osservavo e mi chiedevo se fosse velenoso. Se lo avessi mangiato, sarei morta?
Avevo otto anni.
È stato allora che compresi che sarei morta suicida.
A sedici anni la mia aspirazione per il futuro era quella di scappare.
Andare lontano dalla famiglia e
dagli amici e rifugiarmi in un luogo sperduto dove nessuno mi potesse
trovare. Isolarmi da tutto e da tutti e morire in pace, possibilmente
senza che qualcuno si accorgesse della mia dipartita e ne avesse a
male.
Volevo andarmene ma non volevo far soffrire nessuno.
Non volevo far soffrire nessuno ma non volevo aspettare di diventare vecchia prima di morire.
La soluzione sarebbe stata quella di farmi odiare da tutti.
A volte ci provavo ma poi ferire le persone mi faceva sentire troppo in colpa.
Quando un giorno mi capitò
di rivelare il mio desiderio di morire giovane a un’amica, lei mi
disse che l’amore mi avrebbe fatto cambiare idea.
Ai quei tempi io non sapevo che cosa fosse davvero l’amore e non le credetti. Niente e nessuno avrebbe saputo guarirmi.
Poi l’amore arrivò, inatteso, come una dolce corrente tiepida in inverno.
Lui entrò nella mia vita
all’improvviso, senza curarsi di bussare o chiedere permesso. In
un qualche modo la mia insignificante persona aveva attirato la sua
attenzione, mi si avvicinò e mi chiese di uscire. Io, titubante,
accettai.
Seguirono giorni felici che, senza rendermene conto, diventarono mesi spensierati.
Lui mi dava la serenità e la
pace di cui avevo disperatamente bisogno, senza chiedere nulla in
cambio, vedermi felice gli bastava. Io ne approfittavo e, senza fare
tanti complimenti, mi nutrivo del suo affetto. Come un parassita.
Mi avvinghiavo a lui per trarne
tutto il calore possibile. Cercavo di riscaldare quel mio cuore gelido
così poco abituato a essere amato e ad amare.
Per anni credetti di esserci riuscita, di essere guarita e di aver imparato ad amare.
Lui, con pazienza e dolcezza, aveva
saturato le profonde ferite del mio animo. Le cicatrici erano grosse e
vistose ma avevano smesso di sanguinare.
Pensai davvero che non si sarebbero riaperte mai più.
Ma la mia gioia era proporzionale alla mia cecità.
Io non potevo amare, almeno non nel
modo convenzionale, perché io non ero più umana. Ero una
pianta, un rampicante, un’edera.
Lui era diventato il sole che mi riscaldava, l’albero a cui aggrapparmi, il terreno che mi nutriva.
Ma, se si tolgono tutti i sali
minerali al suolo, esso si degrada e desertifica. Ero troppo
ottusamente felice per rendermene conto. Se non lo avessi curato, come
lui curava me, avrei corrotto la mia unica risorsa vitale.
Purtroppo non sono mai stata in grado di prendermene cura.
L’amore aveva saputo lenire le mie ferite ma non era stato capace di aggiustare il congegno rotto che avevo dentro.
Sono sicura che non sia stata sua la colpa, lui ce l’aveva messa tutta ma io ero e sono un caso irrecuperabile.
Però questo all’epoca non lo sapevo. Tutto era perfetto e io ero convinta di ricambiare a pieno il suo amore.
Lui era il mio mondo e questo mi bastava.
A ventiquattro anni il mio ecosistema iniziò a collassare.
Dopo anni di relazione, lui
intuì che il mio cuore non funzionava ancora correttamente e
questo lo sconfortò. Non deve essere facile amare chi non
ricambia le tue carezze e le tue parole dolci.
La stabilità in cui mi ero beata per così tanto tempo diventò un miraggio.
Il sole si nascondeva spesso dietro
a spesse nuvole grigie che però non producevano la pioggia che mi
avrebbe dissetata. Cercai di sostituirla con le mie stesse lacrime ma
non riuscivano ad allontanare il dolore.
Il vento soffiava e sentivo il mio
albero tremare, minacciando di crollare da un momento all’altro.
Io non avrei saputo sostenerlo, ero troppo debole, sarei crollata
insieme a lui.
Certe volte la paura che provavo mi impediva di respirare.
Poi, ad un tratto, le nuvole si
diradavano e il sole tornava a risplendere nel cielo. Un unico
abbraccio e le lacrime si fermavano, il suo corpo tornava a riscaldarmi
e il cuore ricominciava a battere nel petto.
Ma le mie paure, quegli orribili
pensieri, quelli non mi abbandonavano. Si facevano più
silenziosi e si rintanavano in un angolo oscuro della mia testa, per
poi riaffiorare subdolamente durante la notte, impedendomi di
rilassare. Ormai sapevo che tutto quello che mi circondava, tutto
quello che avevo, poteva essere spazzato via. Non potevo più
vivere serena.
L’idea di essere così dipendente era agghiacciante.
Cercai di non pensarci, dovevo restare stabile e tutto sarebbe andato bene.
Con il passare del tempo e delle
litigate, le paure crescevano insieme alla rabbia. Mi detestavo, non
sopportavo di non essere autosufficiente. E detestavo anche lui, lui
che mi faceva vivere.
La rabbia iniziò a scorrermi silenziosamente nelle vene, ribollendo come magma.
È strano come un’emozione tanto ardente non abbia fatto altro che tornare a raffreddarmi il cuore.
Adesso ho trentadue anni e del mio ameno angolo di bosco non è rimasto più niente.
L’ho incenerito.
È notte fonda e io sono scalza sulla terrazza del mio piccolo appartamento. Devo sbrigarmi, inizio ad avere freddo.
Mi ero svegliata nel mio comodo
letto meno di dieci minuti fa, avevo un pensiero ben chiaro in testa:
che cosa ci faccio ancora qui?
Al mio fianco c’era lui, come sempre. Del resto, non potevo vivere senza.
Lui era ancora il mio mondo, ma non mi bastava più.
Dormiva tranquillo, ignaro di quello che sarebbe successo.
Nemmeno io lo sapevo, le mie mani si erano mosse da sole.
In quindici anni, il suo viso non
era cambiato. Continuava a mostrare quell’espressione serena che
una volta sapeva calmarmi.
Avrei voluto posare le mie labbra sulle sue e baciarlo dolcemente.
Avrei voluto conficcare le mie unghie nelle sue guance e graffiarlo brutalmente.
Ormai i sentimenti d’odio e amore si confondevano nella mia testa.
Mi sentivo lacerata.
Che cosa ci facevo ancora qui?
Io continuavo a vivere perché lui continuava a farmi vivere. Quindi la soluzione era una sola.
Non ho provato niente mentre le mie
mani spingevano il cuscino contro quel bel viso che aveva portato un
po’ di luce nella mia esistenza fatta di tenebre.
Non ho provato né odio né amore, stavo soffocando entrambi quei sentimenti con lui.
Uccidevo la gioia, il dolore, la rabbia. Uccidevo la mia dipendenza e la mia salvezza.
Tutto ciò che avevo e che ero è morto insieme a lui.
Di me non è rimasto più niente se non questo corpo vuoto che sta tremando proprio come una foglia.
È il momento di sradicare questa inutile pianta d’edera.
Visto che non si sa mai chi possa leggere questo racconto, metto le mani avanti e lo scrivo per esplicito: NON è autobiografico e non c'entra un tubo con la mia vita sentimentale. Avevo giusto voglia di scrivere qualcosa di tragico ^^
|