That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Hogwarts - II.014
- Festa di Natale
Sirius
Black
Castello di Hogwarts, Highlands - ven. 17 dicembre
1971
Guardai fuori dalla finestra, sbuffando di noia, come succedeva spesso
durante le lezioni di Storia. Mancavano ancora pochi minuti, poi quella
tediosa giornata di scuola sarebbe finita. Ormai le ombre erano
scivolate da est, annunciando l’avvicinarsi della notte, il
buio delle colline si specchiava tetro sulle acque placide del Lago
Oscuro e dava una nota più cupa del solito anche alla
Foresta Proibita. Il cielo era stato tenebroso per tutto il
giorno, il sole da settimane era solo un pallido ricordo, non
c’era stato più nemmeno il classico vento del
nord: tutto era immobile, cristallizzato, sotto una morbida coltre di
neve che ammantava colline, alberi, costruzioni e sentieri. Mancava
meno di una settimana al Solstizio d’Inverno. Ancora poche
ore e sarei tornato a casa. Sospirai. James mi diede una gomitata e
tornai a fingere di seguire la lezione, il professor Binns svolazzava
nell’aula raccontando una non meglio specificata battaglia di
Folletti. Avevo solo voglia di dormire. Avevo
voglia… nemmeno io sapevo di cosa… Sapevo solo
che non volevo tornare a casa. Non appena la lezione finì,
la maggior parte di noi fuggì via dai banchi, pronta ad
allontanarsi da quella stanza, per ritornare nei propri dormitori,
sistemare le ultime cose e prepararsi per la grande cena e la festa di
Natale. Io svogliato raccattai le mie cose e ancor
più lentamente le misi in ordine per poi uscire. I
miei amici mi aspettavano sulla porta, l’espressione in parte
scocciata, in parte preoccupata: in quegli ultimi giorni spesso
diventavo di colpo taciturno, me ne rendevo conto da solo.
“Si può sapere che
cos’hai? Non sei contento delle vacanze? Del Natale? Dei
regali… ”
Quando faceva così, odiavo James Potter fin nel profondo
della mia anima: era così esasperante, con quella sua
vocetta acuta che dava ai nervi; l’avrei volentieri
trasformato in qualcosa, qualsiasi cosa che stesse ferma e soprattutto
zitta, per non vedermelo zampettare attorno, con le sue battute da
"so-tutto-io".
“… Di non vedere il
brutto muso di Snivellus per qualche giorno?”
Ma James era James. E gli volevo bene per questo: per la sua
capacità di farmi ridere, anche quando non ne avevo voglia.
Finii col ridere anche in quell’occasione. Perché,
in effetti, non vedere Snivellus per qualche giorno era una buona cosa.
L’unica buona cosa. Nelle ultime settimane la sua
prosopopea era diventata ancora più fastidiosa: ora era
apprezzato tra i suoi compagni di Casa, perché aveva reso
una testimonianza in tutto identica a quella di Meissa, contribuendo a
impedire che Rigel fosse espulso e che i Serpeverde perdessero il
più forte cercatore di Quidditch dai tempi leggendari di
Alshain Sherton. Alcuni dicevano che avesse anche salvato le chiappe a
Malfoy e a mia cugina, anche se non avevo capito né in che
modo, né per quale motivo: era impossibile che Narcissa si
fosse messa nei guai. Sarebbe stato interessante cercare di
scoprire cosa c’era sotto.
“Miss Perfezione” nei guai.
Sì, era il tipo di situazione su cui avrei volentieri
indagato, se non avessi avuto i miei guai a cui pensare.
“Ti stupirò,
Potter: resterei volentieri qui, se solo potessi scegliere!”
Mi guardarono storto. Non potevano capire, non avevo mai
parlato in maniera seria ed esauriente della mia vita a Grimmauld
Place, né tantomeno della mia famiglia. I miei amici
sapevano che i miei rapporti con loro erano rimasti condizionati
pesantemente dal risultato del mio smistamento, ma avevano il tatto di
non fare domande, aspettando che prima o poi trovassi la voglia o il
coraggio di parlarne spontaneamente. Avevano scoperto
casualmente persino l’esistenza di mio fratello, ma solo
perché avevano sentito Meissa pronunciare più
volte il suo nome, chiedendomi se erano arrivate altre sue
lettere. Regulus, zio Alphard e Andromeda erano, in effetti,
gli unici parenti che mi avessero scritto alcune righe in quei
primi mesi. Le loro lettere e un pacco di vestiti da mio
padre. E gli insulti di mia madre. Ecco tutto quello che avevo
ricevuto dai Black da quando ero finito a Grifondoro. Sospirai di
nuovo. La verità era che, appena fossi tornato a casa, mia
madre mi avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora, mi
avrebbe messo in punizione nella camera del sottotetto, da cui sarei
uscito solo per ritornare a Hogwarts: mi avrebbero lasciato a Londra,
da solo, per non farsi umiliare dalla mia presenza presso amici e
parenti durante le feste, impedendomi di assistere al matrimonio di
Mirzam e quindi di stare con Meissa. Non potevo dire nulla di tutto
questo ai miei amici, non avrei sopportato la loro faccia piena di
compassione per me: io ero pur sempre un Black, e un Black non si
mostra mai debole. Mai. Dovevo continuare a sbandierare la mia faccia
sprezzante, e recitare irriverente le mie imitazioni di Walburga Black,
che sveniva di fronte al mio cravattino da Grifondoro, facendoli ridere
tutti. Prima di tutto, però, dovevo vedere Meissa e
parlarle. Dopo la cena di Natale difficilmente ci sarebbe stato il modo
di stare insieme, da soli: il mattino dopo saremmo partiti per
King’s Cross e, ammesso che fossi riuscito a stare nello
scompartimento con lei, non mi andava di trattare l’argomento
“casa” davanti ai miei amici. Lei era
l’unica che capisse, senza bisogno che dicessi più
del necessario. Lei sapeva, lei la pensava come me riguardo a
mia madre.
Il mio orgoglio Black m’impediva di rivelare agli altri
quanto mi turbasse e spaventasse la reazione dei miei genitori, ma con
lei non c’era bisogno di parole: su certe cose ci bastava uno
sguardo per dirci tutto. Tornare nei dormitori di Grifondoro, alla
fine, mi fece bene: ritrovarmi tra quelle mura, ormai familiari e
accoglienti, allontanò da me l’agitazione e
alleviò la paura che m’incuteva il pensiero di
cosa mi aspettasse a Londra. Amavo quella stanza: non avevo
mai sentito un posto più mio di quello, nemmeno a Herrengton
mi ero sentito altrettanto bene. La differenza… la
differenza la facevano i miei amici. Quelle ultime settimane erano
trascorse lentamente, tra lezioni più o meno noiose,
interrogazioni e serate passate a fare a cuscinate invece di studiare.
Remus aveva cercato spesso di contenerci, ma di solito lo mettevamo in
minoranza: avevamo scoperto che, dopo le perplessità
iniziali, si adattava ed entusiasmava rapidamente per i nostri modi di
fare e spesso, quando ci battevamo alla guerra del solletico e dei
cuscini, era un avversario persino più temibile di James.
Peccato fosse tanto cagionevole di salute: nelle ultime sei settimane,
dopo la festa di Halloween, era finito in infermeria altre due volte,
per fortuna nulla di grave, solo febbre e tanta debolezza. Eppure
mangiava voracemente almeno quanto me e James. Nessuno di noi,
però, arrivava ai livelli di voracità di Peter:
Pettigrew si era confermato il più interessato tra noi al
cibo, al punto che, spesso, a metà pomeriggio, prima di
andare in biblioteca, mi faceva da spalla presso gli elfi cucinieri,
aiutandomi a mettere in atto la “commedia del malandrino
affamato”. In questo modo riuscivamo a ottenere le
abbondanti scorte alimentari necessarie a rifocillarci al termine delle
nostre battaglie notturne. E infine, James: Potter, tra noi, era il
più poliedrico e inventivo, capace di organizzare
all’ultimo minuto uno dei suoi esperimenti che miravano ad
alleviare la noia di un pomeriggio di studio o a organizzare avventure
di più ampio respiro. Il suo piano
d’attacco ai segreti di Hogwarts procedeva in maniera
metodica e rigorosa, sotto i suggerimenti inaspettati e razionali di
Remus: i due avevano finito con il suddividere il castello in almeno
una decina di aree di possibile interesse e Lupin aveva stilato un
calendario provvisorio delle escursioni, con la prima data fissata il
sabato successivo alle vacanze di Natale. James cercava di
alterare il calendario a suo piacimento, inserendo ulteriori escursioni
soprattutto al settimo piano e ai sotterranei, suscitando le proteste
di Remus: lo scopo evidente di Potter era riempire quante
più “caselle” possibili, fino a maggio
inoltrato, per impedire a Remus di coinvolgerci nelle sue serate di
ripasso generale, che vanamente cercava di introdurre
nell’“agenda del malandrino”. Di
solito i ragionamenti tra i due finivano in zuffe, molto piacevoli da
vedere perché, inaspettatamente, Remus riusciva a ridurre
alla ragione James in poche battute: all’inizio avevo
scommesso contro Peter sui risultati di quegli incontri di
“pugilato”, riducendo di molto le sue scorte di
Cioccorane, ma presto fu palese a tutti
l’inferiorità fisica di James e Peter non volle
più saperne di scommettere su d lui. Per quello che
mi riguardava, avevo anch’io un certo interesse per quelle
escursioni, volevo verificare l’attendibilità dei
racconti rubati a mio padre e ad Alshain: se avessi avuto una conferma
di quelle storie, era possibile che Alshain dicesse la
verità anche sul vero carattere di mio padre, che non
riuscivo proprio a immaginarmi come il ragazzo vitale e scapestrato che
a volte filtrava da certe frasi e alcune
battute. C’era però una cosa che non mi
ritornava nel magistrale piano di Potter: non capivo come pensasse di
eludere la sorveglianza di Gazza e dei prefetti. Ogni volta
che esprimevo i miei dubbi, mi osservava con un ghignetto molto
malandrino che non prometteva nulla di buono. Doveva avere un asso
nella manica, ma per quanto mi spremessi le meningi e lo spiassi, in
quei quasi quattro mesi non ero venuto a capo di nulla. Ed ero
troppo orgoglioso per fare domande, non volevo capisse che mi stavo
macerando nella curiosità. Stavo persino pensando di frugare
tra le sue cose, in cerca d’indizi, in fondo ero un vero
segugio: con mio fratello mi ero divertito innumerevoli volte a
scoprirgli gli altarini. L’unica differenza era che,
per la prima volta, mi vergognavo di quei pensieri e sentivo che non
era quella la strada giusta da seguire, non quando si trattava dei
segreti dei miei amici.
Mentre pensavo a quanto fossi diventato onesto e Grifondoro, recuperai
tra le mie cose uno degli oggettini di Magia Oscura, che mi aveva
regalato mio padre dicendo che poteva tornarmi utile a Hogwarts contro
i Grifoni. Rimasi stupito e imbarazzato, soprattutto quando percepii lo
sguardo perplesso di Remus: non doveva essergli capitato molto spesso
di trovarsi davanti qualcuno che possedeva una vera “Mano
della Gloria” funzionante. Vergognandomi come un ladro per le
mie origini “oscure”, mi affrettai a gettare quella
porcheria nel marasma delle mie cianfrusaglie e misi a posto gli ultimi
libri e la divisa. Il grosso baule sarebbe rimasto a Hogwars, sarei
partito leggero, con un paio di libri, qualche vestito e i regali che
avevo fatto acquistare per mio fratello a Rigel, prima che finisse in
punizione e non potesse più andare a Hogsmeade. Per i mesi
successivi avrei dovuto cercare una soluzione diversa:
l’unica logica, Narcissa, mi sembrava anche la meno
probabile. Vedere il mio bagaglio così leggero mi faceva
bene: sarei stato a casa per un breve periodo e nel giro di pochi
giorni sarei tornato tra i miei amici. Quest’idea mi
risollevava, mi dovevo aggrappare a essa o il pensiero di affrontare
mia madre e mio padre mi avrebbe tolto il sonno e la fame. E non mi
avrebbe fatto apprezzare per niente la cena di Natale.
“Dai, Black, basta con quella
faccia scura, è ora che ti prepari per la tua
bella!”
James ghignò, mi aveva preso a lungo in giro col fatto che
lui, non io, era riuscito a ballare alla festa di Halloween con Meissa
e per farmi arrabbiare tendeva a ricordarmelo fin troppo spesso.
Sospirai. Mei, dopo Halloween era stata male, una settimana con la
febbre alta, primo sintomo del “Morbillo dei
Maghi”: era stata una delle prime di un folto numero di
studenti, soprattutto del primo e del secondo anno. Io e mio
fratello avevamo avuto il morbillo quando avevo sei anni, e
così anche James e Remus; Peter andò in giro per
un paio di giorni con una specie di fazzoletto avvolto attorno alla
bocca per evitare il contagio, diceva lui, noi lo deridevamo,
perché tutti sapevano che non c’erano contromisure
per chi non aveva avuto quella malattia: nel giro di nemmeno tre
giorni, infatti, anche Peter era finito in infermeria con tutti gli
altri. Alshain Sherton tornò a Hogwarts per assicurarsi
delle condizioni di Mei, portandosi dietro una squadra di Medimaghi
che, stando a Peter che l’aveva visto, non doveva avere nulla
da invidiare allo squadrone che metteva in campo nostro padre quando io
o Regulus ci ammalavamo. Con notevole dispiacere non ebbi modo di
parlargli nemmeno in quell’occasione: avrei voluto
raccontargli della strana allucinazione di Meissa, magari mi avrebbe
rassicurato, dicendomi che il delirio della febbre dava allucinazioni
piuttosto vivide… Quando Mei si era rimessa, io avevo
lasciato correre e non ne avevamo parlato più, era rimasta
troppo turbata da quello strano fenomeno ed io volevo solo che tutto
tornasse come prima. Il più presto possibile.
Le cose, però, dopo la malattia, non erano tornate
esattamente come prima. Mei a volte diventava strana, spesso taciturna
e un pò irascibile: non sapevo perché, non me ne
aveva voluto parlare, ma aveva bisticciato con almeno due delle sue
compagne di stanza e ora volavano scintille ogni volta che vedeva la
Parkinson. Inoltre quando eravamo insieme in biblioteca o a
chiacchierare per i corridoi, sembrava che si vergognasse se la
guardavo, si sottraeva quando le davo la mano, si teneva a distanza:
tutte cose che non aveva mai fatto da quando la conoscevo. Se la
osservavo da lontano, poi, mi accorgevo che non era solo una mia
sensazione: Meissa a volte camminava in modo strano, come se si volesse
nascondere per qualche motivo. Ero preoccupato per lei anche se in
parte sollevato dal fatto che il suo comportamento non sembrava
dipendere solo da me; ma non riuscivo a venire a capo di cosa stesse
accadendo, perché se le dicevo qualcosa, si offendeva,
metteva il muso e non mi parlava per giorni. Alla fine avevo capito che
la cosa migliore era fingere che non stesse accadendo niente, e Meissa
sembrò apprezzare la mia decisione.
“Ancora problemi con la
principessa delle Serpi?”
“Non sono affari tuoi,
porcospino…”
James ghignava, il senso di amarezza se ne andò, sostituito
dalla voglia di dare una lezione a quel ragazzino: avrei approfittato
della notte per non fargli più dimenticare chi fosse Sirius
Black. No, non se lo sarebbe scordato per tutte le vacanze: ero
più che intenzionato a rapargli quel cespuglio che aveva in
testa, con un po’ di fortuna mi avrebbero pure punito e
magari non sarei dovuto tornare a casa. Remus sghignazzava: anche lui
era sicuro che stavolta Potter avrebbe pagato, e visto che aveva un
paio di conti in sospeso anche con lui, la sua occhiata stava a
suggerire che era pronto a darmi una mano qualsiasi cosa avessi in
mente. Alla fine, in un clima strano e surreale, eravamo pronti per
scendere a cena. Mi ammirai allo specchio: avevo un classico abito da
cerimonia, giacca e pantaloni neri, camicia di seta, tutto scelto con
cura da mia madre. Tutto tranne il cravattino con i colori del
Grifondoro. Dopo tanti mesi non mettevo la divisa ma
l’abito da sera fatto preparare pochi giorni prima della
partenza e che gli elfi di Hogwarts mi avevano sistemato allungandolo
un po’: ero cresciuto in altezza di diversi centimetri, in
quei pochi mesi. Scansai le chiome corvine dalla faccia, riconoscendo
immediatamente nei miei, i gesti con cui mio padre eseguiva sempre
quell’operazione. Guardando James al mio fianco, ghignai: il
mio amico per quanto si sforzasse, non riusciva a domare i suoi, per
cui, anche se vestito in maniera una volta tanto dignitosa, aveva
sempre lo stesso aspetto trasandato. Peter si era fatto
sistemare all’ultimo la giacca, perché gli tirava
sulla pancia: era appurato che i suoi spuntini notturni andavano in
qualche modo limitati. Remus, infine, seppur vestito con un
abito modesto, aveva un aspetto ordinato e dignitoso, quasi pari al
mio. Con una strana sensazione di oppressione al petto, scesi con James
al mio fianco e Remus e Peter dietro di me, diretto in Sala Grande. Non
prestai attenzione ai loro discorsi per quasi tutto il tempo, solo a un
tratto, poco prima di entrare, mi colpì la vocetta stridula
e preoccupata di Peter, che si agitava non sapevo per che cosa.
“Dite davvero? Davvero
dobbiamo ballare? Merlino… Voi come pensate di trovare una
dama? O c’è qualcuno cui avete
già chiesto? Io non lo sapevo, non ci ho pensato e
poi… mi vergogno…”
Pettigrew stava per andare in iperventilazione, Remus e James lo
canzonavano, ma parvero per la prima volta porsi anche loro il
problema: io appena entrai nella Sala mi diressi ai nostri soliti posti
e vagai con lo sguardo in cerca di Mei, che non era ancora
arrivata. Non c’era nemmeno Rigel, presto sarebbero
apparsi insieme. Al tavolo di Serpeverde la mia stupenda
cugina catalizzava su di sé lo sguardo ammirato di tutta
Hogwarts: se già con la divisa era bellissima, negli abiti a
lei più adatti, come quel meraviglioso abito lungo e
semplice, color pervinca, che risaltava le sue forme e il colore dei
suoi occhi, sembrava un’apparizione
celestiale. Accanto a lei, Lucius Malfoy incarnava la
controparte maschile della perfezione purosangue, attirando a sua volta
su di sé, lo sguardo adorante di tutte le ragazze presenti
in sala. Dopo la storia di Meda e il controverso matrimonio di
Bellatrix, zia Druella avrebbe fatto un monumento a sua figlia se fosse
riuscita ad accalappiare Malfoy. Quel giovane era e rappresentava
prestigio, denaro, potere. Dal mio punto di vista, però,
dopo quanto era successo un anno prima ad Amesbury, possedeva anche un
animo infernale. Presi il mio bicchiere di succo di zucca e scuotendo
la testa, ragionai sull’infelicità insita
nell’essere un purosangue Serpeverde.
Peggio ancora se Black.
All’improvviso la porta si aprì e vidi entrare
Rigel con i suoi inseparabili compagni di Quidditch, Beckett e Cox,
disposti in una strana forma triangolare con una figurina decisamente
più piccola in mezzo. Non capivo il perché di
quella messinscena, ma Meissa riuscì a entrare in Sala
Grande in pratica resa invisibile dai colossi amici di suo fratello,
per cui riuscii a vederla bene solo quando si sedette al suo posto:
indossava qualcosa di deliziosamente rosso e aveva i capelli raccolti,
ma avrei dovuto aspettare il momento del ballo per capire qualcosa di
più.
“I soliti sbruffoni di
Serpeverde!”
Guardai all’indirizzo di James, offeso, lui mi
rimandò il solito ghignetto che mi suscitava i migliori
istinti omicidi. Presto, però, la nostra attenzione fu
attratta dalla figura di Dumbledore che prese la parola per parlarci
della festa, augurarci buon Natale e infine diede il via alla cena.
***
Meissa
Sherton
Castello di Hogwarts, Highlands - ven. 17 dicembre
1971
“No!”
“Meissa, per favore, non fare
la bambina!”
“Io non lo faccio,
scordatelo!”
Rigel mi aveva intercettato sulla via della biblioteca, con la scusa di
un argomento di vitale importanza da trattare prima di cena. Sapeva che
non sarebbe stata un’impresa facile convincermi e prima
d’iniziare a parlare mi aveva dato la lettera di nostro padre
che era arrivata già da alcuni giorni, a dimostrazione che
non avevo scelta. Per non avere brutte sorprese e per non passare tutto
il tempo a litigare con me, però, aveva avuto la brillante
idea di non dirmi nulla fino all’ultimo minuto.
“Meissa… devi
farlo, anche a me toccherà la figlia di Stenton, lo
sai?”
“Io con
“quello”, qui a scuola, non ci ballo. Puoi
dirglielo fin da subito!”
“Smettila! Offendi lui e
offendi papà se ti comporti
così…”
“Affari tuoi! Dovevi dirmelo
quando è arrivata la lettera, così avrei avuto
tutto il tempo per fingermi malata… io con William Emerson
non ci ballo…”
“Qual è il
problema? Non c’è una ragazza a Hogwarts, che non
sarebbe felice di ballare con lui! Perché solo tu devi fare
tante storie per uno stupidissimo ballo?”
“Lo guardano tutti, e
guarderebbero anche me, ed io… io non voglio!”
Mi prese per un polso e mi strattonò, lo odiavo e lui lo
sapeva e non faceva mai niente per migliorare le cose tra noi. Due
ragazzi di Tassorosso avevano osservato la scena e sembravano pronti a
intervenire poi, quando si accorsero che eravamo entrambi Serpeverde,
lasciarono correre.
Vigliacchi!
“Ti guarderebbero tutti anche
senza Emerson, sorellina… lo vuoi capire? Anzi, ti
guarderebbero pure di più se facessi di testa tua, piccola
stupida! William sarà il tuo cavaliere alla festa di Mirzam
e la tradizione vuole che stasera, almeno un ballo lo facciate
insieme… Quindi basta… quando la cena
sarà finita e inizieranno le danze, lui verrà da
te e tu accetterai il suo invito… non mi farai fare una
figuraccia, chiaro?”
“Stupido pallone gonfiato! Ti
odio! Ti odio!”
“Smettila di fare scene,
Mei… Non ci vorranno più di dieci minuti! Meno
farai la difficile, prima potrai stare con il tuo
Black…”
Divenni rosso porpora come accennò a Sirius e mi calmai
all’istante, smettendo di rispondergli male e di provare a
divincolarmi, Rigel ghignò divertito: non accennava a
lasciarmi il polso e continuava a tenermi bloccata, sapeva che, non
appena avesse mostrato un attimo di esitazione, mi sarei rifugiata in
camera e a quel punto ci sarebbe voluto un miracolo per tirarmi fuori
da là dentro. Io volevo andarmene il più presto
possibile, volevo fuggire prima che non riuscissi più a
trattenere le lacrime. All’improvviso mi abbracciò
e mi diede il tempo di calmarmi e riprendere un po’ di
contegno, mi accarezzò la testa: di solito mio fratello non
si comportava così con me, mi staccai per guardarlo, la sua
espressione però era come sempre impassibile. Riprendemmo a
camminare, lentamente e in silenzio, diretti ai sotterranei. Sfruttammo
un paio di scorciatoie, poi, poco prima di entrare nel corridoio che
immetteva alla Sala Comune, si fermò, deciso ad andare a
fondo della storia, prima di tornare in mezzo agli altri.
“Qual è il vero
problema, Mei? Perché non vuoi goderti questa dannata festa
come tutti?"
“Fatti gli affari tuoi,
Rigel... ”
“Perché? Spiegami
perché non vuoi venire alla cena di stasera…
L’altra volta ti sei divertita e devi ancora un ballo a
Sirius, mi pare… Quindi ... che cos'è cambiato?
Hai litigato con Black? Ti ha offeso? Ci penso io, se è
così…”
“No! Sirius non
c’entra niente!”
Stavolta non mi guardava con la sua solita aria odiosa, sembrava
davvero preoccupato.
“Allora che cosa
c’è che non va?”
“Tu lo sapevi che non possiamo
metterci la divisa stasera?”
“Che domande fai, Meissa?
Certo! A cosa pensavi servissero quei bei vestiti che ti ha fatto
preparare la mamma ad agosto?"
“Io li odio quei
vestiti!”
“Ma… Hai fatto i
salti di gioia per giorni quando la mamma ti ha comprato quello rosso.
Ti sta benissimo!”
“Mi stava bene
allora…”
Ero diventata rosso fuoco, e mi guardavo la punta delle scarpe, quando
alzai lo sguardo, Rigel mi stava soppesando ed io
m’imbarazzai ancora di più.
“Tutto qui il problema? Guarda
che anch’io mi sono alzato in questi mesi e ho dovuto farmi
aggiustare i vestiti… Gli elfi stanno qui apposta, e sono
bravi come quelli di casa nostra, quindi non farti problemi
assurdi…”
“Tu non capisci!”
“Cosa diavolo
c’è da capire? I vestiti si allungano, si
stringono, si allargano, si sistemano… Senti… Io
non saprei dirti come aggiustare il tuo vestito, non so niente delle
robe che vi mettete addosso voi femmine, ma… Non puoi
parlare con una ragazza più grande? Di sicuro Narcissa Black
saprebbe indicarti l’elfa più adatta a correggerti
il vestito, lei è sempre perfetta! Ora te la
cerco!”
“No!”
Non c’era più niente da fare: mio fratello era
partito in quarta senza più guardare in faccia niente e
nessuno. Lo odiavo! Quando mi trattava così, poi…
“Lo odiavo” non rendeva bene quello che pensavo di
lui in quel momento. Sapevo che Rigel era talmente perso per quella
ragazza che avrebbe colto qualsiasi occasione per poterle parlare, ma
non avrei mai immaginato che avrebbe approfittato pure della mia
debolezza. Quando entrammo in Sala Comune, Narcissa e due sue compagne
del sesto anno stavano chiacchierando con il solito modo di fare
civettuolo sul divano centrale, occhieggiando i ragazzi
dell’ultimo anno e facendosi ammirare da tutta la popolazione
maschile dei sotterranei. Rigel si fiondò volando verso di
loro, mostrando la migliore faccia galante e tipicamente Sherton. Io
avrei voluto sotterrarmi in quel preciso istante, soprattutto quando
vidi Alecto Carrow seguire con interesse il discorso di mio fratello e
rivolgermi un ghigno sardonico. Rigel spiegò la situazione a
Narcissa, la quale, gentile come sapeva essere solo con la gente sua
pari, si rivolse a me, disponibile: sentivo i loro occhi addosso e
sapevo che, grazie all’imbecillità di mio
fratello, da quel momento sarei stata oggetto dei pettegolezzi di mezza
scuola per i successivi sei anni. L’avrei volentieri ucciso
sul posto.
“Scusa, Narcissa,
ma… non c’è bisogno che ti
disturbi… io … Mio fratello…
è un idiota, lo sai…”
Vidi Rigel gettarmi uno sguardo carico d’odio, mentre
Narcissa non sembrava per niente infastidita, Alecto, al suo fianco,
come immaginavo, era pronta a cogliere un ghiotto pettegolezzo: divenni
di nuovo rosso fuoco.
“Sento parlare zia Walburga di
questo famigerato vestito rosso da agosto, l’ha talmente
colpita che per la prima volta l’ho sentita lamentarsi di non
avere una figlia femmina anche lei... ”
Risero, di quella classica risata leggera e un po’
civettuola, quella risata che rendeva Narcissa deliziosa a tutti. Vidi
Lucius Malfoy alzare lo sguardo dalla sua
“Gazzetta” e indugiare a lungo su di lei,
immediatamente la ragazza prese colore sulle guance. Per fortuna,
dovevamo tutti prepararci così, in breve, Alecto e le altre
andarono nelle loro stanze, io rimasi in silenzio ancora pochi minuti
con Rigel e Narcissa, che sembrava volermi aiutare davvero.
“Se nell’abito
c’è qualcosa che non va, chiama Wallya: tra tutte
le elfe di Hogwarts, è quella più abile, da
quando l’abbiamo scoperta, io e le mie amiche ci facciamo
sistemare i vestiti solo da lei. Farà un lavoro perfetto in
pochi minuti, fidati!”
Rigel ringraziò e ci lasciò scendere nei
dormitori, io mi avviai con Cissa per le scale a chiocciola che
smistavano ai vari appartamenti delle ragazze: ero convinta che non
vedesse l’ora di lasciarmi per potersi preparare, quella sera
probabilmente sarebbe stata in compagnia di Lucius Malfoy per tutto il
tempo, invece si fermò concedendomi ancora un po’
della sua attenzione.
“Non è per il
vestito che sei preoccupata, vero? C’è qualcosa di
più serio a turbarti…”
La guardai: i suoi occhi azzurri così penetranti sembravano
capaci di leggermi fino in fondo al cuore. Avevo già capito
da tempo, osservandola, che la sua aria frivola era una semplice
maschera, Narcissa Black l’indossava per rassicurare il
prossimo, fingendo di essere come gli altri si aspettavano: una ragazza
bellissima, egoista e superficiale, che non si faceva troppe domande
sul mondo che aveva intorno. Chi non si fosse fermato alla superficie,
però, avrebbe scoperto quanto fosse diversa.
“Non è
nulla… E’ solo che… Non voglio essere
obbligata a ballare con chi non conosco e preferirei non dovermi
mettere in ghingheri per….”
Narcissa rise, una risata molto più vera di quelle che le
sentivo spesso con le sue amiche. E anche molto più triste.
“Tutto questo turbamento solo
per un ballo? Salazar! Che cosa ne sarà di te in seguito?
Questo è il destino di quelle come noi, Meissa
Sherton… E’ il tributo che dobbiamo alle nostre
famiglie, al loro prestigio, e al loro futuro. C’è
chi dice che gli Sherton siano diversi dagli altri, ma io non ci
credo… fossi in te… io imparerei la lezione in
fretta… Noi veniamo al mondo solo per far concludere un
ottimo affare alle nostre famiglie… Cerca di far coincidere
il loro interesse con il tuo, è l’unica cosa che
puoi fare per te stessa e per la tua felicità.”
Mi salutò senza aggiungere altro, lasciandomi da sola,
basita, davanti alla stanza in cui avrei passato i successivi sei anni
della mia vita. Presi di nuovo fuoco, mentre entravo: Zelda, Georgina e
Penny stavano rimirandosi già pronte allo specchio, Maela
Dickens stava finendo di sistemarsi i capelli. Quando posai gli occhi
su di lei, il mio senso d’inadeguatezza peggiorò
ulteriormente: con quei suoi lunghi capelli biondi, sembrava una Veela
in miniatura, aveva l’incarnato da bambola, gli occhioni
azzurri, dolci, e il corpo di una quattordicenne, alta e già
formosa. Io non potevo uscire con quel dannato vestito addosso
e subire il confronto con Maela o altre ragazze come lei. Non
potevo. Il bell’abito rosso che mia madre mi aveva
fatto realizzare apposta stava sul letto, invitante e spaventevole. No,
non l’avrei mai indossato e ancor meno avrei ballato con
William Emerson, cercatore dei Corvonero, uno dei ragazzi
più ambiti di Hogwarts. Avrei voluto piangere…
Già odiavo dover andare a quella festa, figurarsi poi essere
esposta così sotto gli occhi di tutti. Mi ero messa quel
vestito circa una settimana prima, per assicurarmi che non ci fossero
lavori da fare, mi calzava perfettamente, con la bella gonna lunga e
liscia, leggermente svasata, il corpetto intrecciato che terminava con
l’alto collo, le maniche lisce che finivano a becco e la
schiena parzialmente scoperta, esaltata dai capelli che avrei
intrecciato in alto. Era un bell’abito, sontuoso ma non
eccessivo, e mi stava pure bene… A parte per un
particolare… Si vedeva bene, troppo bene, che stavo
iniziando a crescere: con la divisa non si vedeva, ma con
quell’abito, anche incurvandomi, non potevo nascondermi ed io
non volevo affrontare gli occhi di tutti, non ce l’avrei mai
fatta. Wallya si materializzò nella stanza: appena la vidi
temetti che mi dicesse di indossarlo lì, davanti a Maela e
alle altre, così andai a nascondermi in bagno col vestito e
poco dopo riemersi, osservai di sbieco la mia figura riflessa allo
specchio, notai gli sguardi invidiosi di Maela e quelli competenti di
Wallya. La piccola elfa iniziò a muoversi attorno a me, con
il suo occhio efficiente aveva capito subito come ottenere il meglio,
ma nonostante le rassicurazioni e il lavoro perfetto, continuavo a
essere terrorizzata all’idea di presentarmi così
di fronte a tutta la scuola.
“Perfetto e anche signorina
perfetta…”
“Grazie,
Wallya…”
Era la prima volta che ringraziavo un elfo in vita mia… Lei
sparì con un inchino, lasciandomi sola, le mie compagne
erano già pronte da un pezzo e forse mi attendevano in Sala
Comune. Di sicuro stavano facendo le smorfiose con i ragazzini
più grandi. Con la faccia degna di un funerale, mi avviai in
Sala Comune.
***
William
Emerson
Castello di Hogwarts, Highlands - ven. 17 dicembre
1971
Mi specchiai per la ventesima volta, ero sempre stato soddisfatto del
mio aspetto, ma quella sera non riuscivo a far pace con la mia
immagine. Nervoso mi aggiustai il cravattino di nuovo e sospirando
decisi che meglio di così non potevo fare. In
realtà, quella sera, volevo apparire al peggio delle mie
possibilità, avevo voglia di far scappare tutti, presentarmi
come un pazzo cavernicolo, un troll e, al diavolo la mia reputazione di
bravo ragazzo e studente modello, cambiare totalmente
l’opinione che di me avevano gli altri. Mathias
Ferguson sulla porta sghignazzava, aveva assistito a tutto il mio
cerimoniale sbellicandosi dalle risate e prendendomi in giro senza
pietà. Non sapevo cosa ci fosse da ridere, visto che quello
che dovevo fare non volevo farlo e che probabilmente stavo per rovinare
tutto il mio futuro con quella serata odiosa. Quando mi videro prendere
il mio mantello, anche Thomas Chapman capì che finalmente
ero pronto a scendere e poteva iniziare la seconda fase della loro
tortura nei miei confronti: qualsiasi bella ragazza avessimo
incontrato, mi avrebbero fatto di “no” con la
testa, ricordandomi che da quella sera, probabilmente potevo
considerarmi ufficialmente accasato.
“Ma perché non ti
cuci quella boccaccia, Tom?”
“Dai Will, non fare la
Serpe….”
Lo fulminai con lo sguardo. Quei due, i miei ormai ex-amici, risero
ancora più sguaiatamente, sembravano due stupidi Grifondoro,
non più due diligenti studenti di Corvonero.
“Basta con quella faccia da
funerale, Will… dicono sia davvero molto bella….
E non dicono solo quello…”
Ghignò, facendo un gesto che mi pareva davvero fuori luogo,
visto che stavamo parlando di una ragazzina di undici anni.
“Idiota! Poi l’ho
già vista altre volte, sia a scuola sia a Inverness:
è una normalissima bambina di undici anni, per di
più disgustosamente Serpeverde e viziata!”
“Su, su… tutte le
grandi storie d’amore iniziano con una folle
antipatia!”
“Ma vai al diavolo!”
Aprii in malo modo la porta della Sala Grande, rimanendo affascinato
dalla bellezza e spettacolarità dell’allestimento,
per un momento tutta la mia tristezza e il malumore lasciarono il posto
al solito senso di meraviglia che spesso mi coglieva nel magico
castello di Hogwarts. Dumbledore, checché ne dicesse quella
Serpe razzista di mia madre, era un genio nell’organizzare
feste spettacolari: dodici meravigliosi e imponenti alberi, abbelliti
con i più straordinari decori natalizi che avessi mai visto,
erano distribuiti in Sala Grande, le tavole erano ancor più
ricolme della sera di Halloween, il fuoco nei caminetti danzava
scoppiettanti, ovunque c’era l’odore fresco di
resina e i segnaposti a forma di piccoli babbi natali di neve cantavano
i tipici canti natalizi. Il soffitto incantato riversava su di noi una
neve leggera, che si materializzava sulle tavole sotto forma di
farfalle di cioccolato bianco, le luci ondeggiavano a
mezz’aria, il colore oro fuso al rosso riluceva su ogni cosa,
persino sugli stendardi delle Case. In poche parole, era tutto
bellissimo. Vagai con lo sguardo tra i tavoli fino a raggiungere quello
in cui riconobbi il viso familiare di uno dei miei più cari
amici. Conoscevo Rigel Sherton da quando eravamo bambini, le nostre
famiglie celebravano sempre insieme i riti canonici del Nord, a parte
l’ultimo Yule, perché mi ero ammalato. Avevamo
persino preso le Rune insieme a Inverness, due anni prima e questo ci
univa nel destino e nel sangue: a parte il legame ufficiale che la
tradizione ci imponeva, e nonostante stessimo crescendo a Hogwarts in
due Case rivali, io lo consideravo il fratello che la sorte non mi
aveva dato. Mio padre, Donavan Kenneth Emerson, di Inverness, dalla
morte del nonno era il massimo esponente dei Corvonero tra i maghi del
Nord e il suo voto era importante presso la Confraternita, quanto
quello del padre di Rigel; mia madre invece, Mahira Pucey, era una
brillante e straricca strega di Manchester, che era riuscita a
convincere la sua famiglia rigorosamente Serpeverde a farla sposare con
un Corvonero, giocando d’astuzia e ricordando loro che gli
Emerson non erano dei Corvi qualsiasi, ma abbracciavano le teorie sulla
superiorità dei Purosangue, come tutti gli altri Maghi del
Nord. Il loro matrimonio, in realtà, non era stato fortunato
come i due si aspettavano all’inizio, perché la
natura Serpeverde di mia madre era venuta fuori prepotentemente subito
dopo la mia nascita:
“Ti
ho dato un primogenito maschio e purosangue, ora devi darmi anche tu
qualcosa in cambio!”
Di fatto i miei genitori da quasi un decennio non vivevano
più insieme, presentandosi come una coppia solo nelle
occasioni ufficiali. Questo però non voleva dire che mia
madre fosse fuori dalla nostra vita, e soprattutto che non
condizionasse pesantemente il mio futuro con le sue serpentesche
macchinazioni: la sua influenza su mio padre era ancora fortissima e
sfruttare al massimo l’amicizia che lo legava ad Alshain
Sherton era uno dei suoi principali obiettivi. Questo faceva
sì che, da quando era iniziato il mio terzo anno a Hogwarts
e la figlia di Sherton era stata miracolosamente smistata a Serpeverde,
andando a rompere una sciagurata tradizione millenaria di figlie
Corvonero oltre a un patto siglato con i Malfoy, la mia vita era
scivolata nell’incubo. Non riuscivo più a godermi
i miei tredici anni, né la mia nomina a cercatore di
Corvonero e il mio aspetto piacevole stava diventando un motivo di odio
verso me stesso, invece che un dono da cui trarre vantaggio. Non mi
godetti neppure la cena di Natale e quando alla fine il vegliardo
annunciò che potevamo finalmente scatenarci nel ballo, la
mia fu la reazione del condannato al patibolo. Scorsi con gli occhi
fino a intercettare quelli di Meissa: era senza dubbio una ragazzina
carina, ma io vedevo in lei e nel ballo di quella sciagurata sera, solo
la prima tappa verso una vita infelice come quella di mio padre.
Odiavo le ragazze di Serpeverde, tutte, nessuna esclusa,
perché avevo vissuto sulla pelle, con mia madre, cosa si
celava dietro la loro finta maschera affascinante e meravigliosa.
Mentre la magia trasformava la Sala Grande in una magnifica sala in cui
ballare, tra sculture di ghiaccio, decori natalizi, strani coriandoli
di neve e farfalle che scendevano dal cielo gelido e stellato, mi alzai
come un automa e percorsi i pochi passi che mi separavano dal tavolo
delle Serpi. Con il mio pedigree, il mio nome e le mie forti amicizie,
ero uno dei pochi Corvonero che potevano arrischiarsi ad avvicinare le
Serpi senza temere insulti o attacchi più concreti. Tra
l’altro, per quell’anno, non c’era
più nemmeno il Quidditch, per loro, a infiammare gli animi.
“Posso ballare con te, Meissa
Sherton?”
Alla fine eravamo arrivati al momento della verità. Avevo
detto a Rigel cosa ne pensavo di tutta quella faccenda, trovandolo
piuttosto comprensivo, e l’avevo pregato di dire a sua
sorella che volevo togliermi il pensiero il prima possibile: vista da
lontano, dovevo ammettere che non sembrava una di quelle sciocche
ochette che ti mettono in imbarazzo di fronte a tutti, ma non la
conoscevo tanto bene, quindi non potevo sapere cosa avrebbe combinato.
Probabilmente avrebbe sghignazzato tutto il tempo pavoneggiandosi con
le amiche e finto di scivolare solo per farsi raccogliere: non era la
prima stupida che avevo visto comportarsi così. Guardai
Rigel, osservava a turno me e sua sorella con cipiglio teso e severo,
probabilmente doveva svolgere anche lui controvoglia il ruolo del
fratello maggiore preoccupato, sentii il brusio eccitato di un paio di
ragazzine, di sicuro non avevano idea che lo stessi facendo per solo
per dovere. Sospirai, sapevo che sarebbe finita così e mi
preparai al peggio. Meissa, però, non si lanciò
entusiasta verso di me, anzi, pareva esitare, alla fine si
alzò, la vidi sfuggire il mio sguardo e spaziare tutto
intorno. Seguii i suoi occhi e mi resi conto che stava guardando verso
un gruppetto di piccoli Grifoni: ci misi poco a riconoscere tra gli
altri il giovane Black, quello strano, quello che aveva gettato nello
scandalo l’antica casata dei “Toujours
Pur” facendosi smistare tra mezzosangue e babbanofili. Mi
veniva quasi da ridere, ma cercai di rimanere composto e di comportarmi
come pretendeva l’etichetta. Perplesso e in parte sollevato
le diedi la mano, era diventata molto più alta dal Solstizio
d’estate, e portava con grazia un abito che la mostrava meno
bambina di quanto ricordassi. Ma era soprattutto il suo atteggiamento
misurato a colpirmi: stava facendo di tutto per non farsi notare,
né da me né da chi ci stava intorno, anche se
sapevamo entrambi che non era possibile. Le sorrisi incoraggiandola, si
muoveva con grazia, ma questo lo sapevo già, tutti sapevano
che Deidra Sherton curava personalmente certi aspetti
dell’educazione dei suoi figli perché fossero
impeccabili nelle occasioni mondane come nella preparazione nello
studio. Forse non era male nemmeno parlare con lei, ma dubitavo che mi
avrebbe detto una parola di più di quanto dovuto
dall’etichetta. Per la prima vola da quando avevo ricevuto la
lettera di mia madre che mi obbligava a invitarla, ebbi dapprima il
sospetto poi la certezza che nemmeno lei apprezzasse le macchinazioni
dei miei genitori: era sufficiente osservare con quanta apprensione
cercava di non perdere di vista il piccolo Black che ballava
con cipiglio severo con la figlia dei Dickens. Quando la musica
finì, mi sorrise e con l’assoluta fredda
gentilezza delle frasi di circostanza mi congedò: la guardai
allontanarsi, raggiungere suo fratello, scambiare alcune battute con
lui e subito dopo dileguarsi verso il gruppetto capitanato da Black.
Anche lui aveva evidentemente lasciato perdere la propria provvisoria
compagna. Sorrisi. Di certo a casa mia non avrebbero apprezzato molto
quella scenetta, ma a me faceva piacere oltre che un’infinita
tenerezza. I miei amici mi accerchiarono, facendo apprezzamenti sul
fatto che ero ancora vivo, che lei era davvero molto carina e meno
stupida di tante, ma io li lasciai alle loro chiacchiere e mi avvicinai
all’unica e sola che avrei invitato, fin
dall’inizio, se fossi stato libero di fare di testa mia.
“Marlene, ti va di
ballare?”
Fece un po’ la difficile all’inizio, come sempre,
ma finalmente Marlene McKinnon si alzò e mi diede la mano, e
per tutto il resto della serata ballai con lei.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).
Valeria
Scheda
Immagine
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