Assassin's
Creed
Rauf's Chronicles
<<… Avevo una famiglia, e mi fu permesso di
godermela neppure fino ai miei sei anni, quando, brutalmente, ricordo
solo di aver ricevuto un preciso ordine e di aver ubbidito come
qualsiasi altro bambino della mia età avrebbe fatto. Oggi
sono triste, oggi compiango la mia scelta, oggi mi domando
perché Dio abbia scelto proprio la mia testa dove poggiare
tutta questa sfiga! Oggi rimpiango di avere questa naturale, stupida
natura di ascoltare ed apprendere, oltre che eseguire, qualsiasi cosa
mi venga detta. Nel corso della mia breve vita, ho appreso di avere un
passato da raccontare, ho imparato ad apprezzarlo, perché
forse, senza che fosse successo tutto ciò, oggi non sarei
proprio qui, di fronte all’acqua limpida di questa fontana
nel centro di Masyaf, ad ammirare la mia immagine specchiarsi tra le
ondine leggere che vi si formano.
Brilla
il sole, è una stupenda giornata d’estate,
esattamente come lo era 18 anni fa.
Il
cielo è azzurro, e nell’acqua vedo specchiarsi
anche questo. Io che sto in piedi dinnanzi alla pietra della fonte alla
quale accorrono le donne della città assieme alle loro
brocche in ceramica, contornato di bancarelle e del caos cittadino che
è diventato la mia casa.
Ammiro
il mio cappuccio grigio abbassato sulle spalle, seguo la linea dei
lacci di cuoio che mi percorrono una spalla e l’altra, per
poi stringermi il petto legate le une alle altre da quel magnifico
triangolo di metallo argentato. Osservo la mia veste corta, grigia
chiara arrivarmi fino alle ginocchia e, di conseguenza mi guardo i
piedi pensando alle cose più assurde, come solitamente
faccio nell’attendere qualcosa o qualcuno,
pazientemente…
Torno
a fissare l’acqua della fonte e studio affondo il mio viso,
specchiato in essa, ora adulto, ma che nel corso degli anni ha pensato
tanto a com’era stato quand’era bambino…
Ho
sempre temuto di andare a caccia del mio passato, ricordando forse cose
che non mi avrebbe fatto piacere anche solo immaginare. Ho paura di
domandarmi perché certe persone avessero fatto quello che
effettivamente, fecero…
Non
chiedo di poter cambiare ciò che è successo,
anzi… giungendo in questo luogo, ho saputo apprezzare le
scelte che il mio Dio ha fatto per me. Sono devoto a Lui come lo sono
sempre stato a qualsivoglia mio superiore.
Il
mio nome è Rauf Sy-Ia’hef, e ricordo solo ora la mia
storia…>>
Sotto
di me, a pochi metri più in basso, c’era il
terreno arido e polveroso caratteristico del Regno. Qualche ciuffetto
di erba verde spuntava qua e là tra le pietre, e il caldo
era torrido e lasciava asciutta la bocca; ma io stavo tanto bene
lassù!
Le
mie gambe cadevano a penzoloni nel vuoto. Le dondolavo avanti e
indietro, sorprendendomi dell’aria leggera che mi accarezzava
la pelle e scivolava tra le dita dei piedi. Era piacevole, rilassante
sopra ogni dire!
Il
ramo era tutto intarsiato e sfregiato, e quindi parecchio scomodo;
forse mi ero proprio scelto il posto peggiore dove sedermi! Osservavo
le formichine che trafficavano tra le venature della corteccia:
formavano una fila ordinata ed io, affascinato, le ammiravo stupito
passando un dito sulla corsi vuota accanto alla loro.
Vicino
al mio albero c’era un piccolo laghetto di acqua linda, nel
quale vedevo la mia immagine riflessa e distorta dalle leggere ondine
create dal vento impercettibile di quella mattina.
Sollevai
un ginocchio e me lo strinsi al petto; respiravo con calma e il sorriso
affiorava sulle mie labbra sottili ed innocenti. I raggi del sole
penetravano le fronde verdognole dell’ulivo e mi riscaldavano
le guance arrossate e poco piene. Il viso mio magro e aguzzo, tipico
della mia gente, era quello di un bambino di quattro, cinque anni al
massimo. I capelli tagliati corti e di un castano scuro, liquido come i
miei occhi, che si erano ridotti a due fessure per il sole abbagliante
di quella calda giornata d’estate.
Ascoltavo
il canto delle cicale nascoste nel grano e tra i cespugli della terra,
ammiravo l’orizzonte oltre il mio naso e contavo le belle
rondini che mi passavano accanto nidificando in qualche ulivo
più avanti del mio.
Udii gli zoccoli di un cavallo
ronzarmi nelle orecchie, ma non mi voltai percependo poi quel suono
allontanarsi da me e dirigersi svelto verso il villaggio.
Solo
allora capii, sollevando di poco lo sguardo e ammirando la nube di
polvere che sollevavano due cavalli che, da quella distanza, riconobbi
poco.
-Dada-
dissi con la mia vocina acuta, ridendo.
Mi
lasciai scivolare giù dal ramo, graffiandomi i pantaloni
della corteccia solida e sfregiata.
Atterrai
saldamente piegando le ginocchia e scattai subito di corsa. Traversai
la strada sterrata che conduceva al mio villaggio e correvo gioioso tra
la gente che mi guardava allibita.
In
quel momento ero felice, felicissimo. Era stupendo, indescrivibile la
gioia che stavo provando.
Raggiunsi
le porte di casa mia, fermandomi d’un tratto dinnanzi
all’uscio schiuso.
C’era
un piccolo giardino recintato davanti all’ingresso. Alla
staccionata erano legati due bellissimi cavalli: un puledro castano
chiaro dagli stinchi bianchi e uno stallone nero come la notte, la
sella del quale era proprio quella che avevo sempre lucidato con tanta
premura assieme alla mamma.
Non
esitai oltre e mi apprestai ad entrare in casa.
Il
sorriso che avevo sulle labbra si spense poco a poco, fin quando,
finalmente nel salone centrale dell’abitazione, cominciai a
guardarmi attorno felice.
Udii
dei singhiozzi, un pianto flebile provenire da non molto lontano, e
pensai che potessero trattarsi di lacrime di gioia.
-Dada!-
chiamai, e subito i miei occhi balenarono nello scorgere mia madre e
un’altra figura nel retro di casa, esattamente dove
c’era un piccolo cortile ove solitamente la donna amava
stendere i panni al sole.
Mi
avviai lì di corsa, spuntando dal nulla nel cortile e
andando subito in contro al nuovo arrivato. Mi gettai ad abbracciarlo.
Le
parti della sua armatura dorata mi diedero alcun fastidio, e molte
delle placche d’argento erano calde per via
dell’esposizione al sole.
Il
cavaliere mi poggiò una mano sulla testa accarezzandomi i
capelli, ma il suo flebile tocco si fece presto assente…
Vedevo la spada nel fodero legato al suo fianco, ma… quella
non era la sua spada.
L’elsa
semplice, quale quella di mio padre non era. L’impugnatura
rovinata, quale quella di mio padre non era. Il fodero chiaro, sobrio,
quale quello di mio padre non era, che invece ricordavo bene fosse di
cuoio nero e decorato di meravigliosi ghirigori dorati.
Mi
staccai improvvisamente dall’uomo, indietreggiando
terribilmente dispiaciuto e intimorito. Non era mio padre, ma indossava
la sua stessa armatura. L’elmo che teneva sottobraccio era
sfregiato e rovinato da frecce di poco schivate. Mi guardava allo
stesso modo di come io guardavo lui: quasi con terrore, ma nel suo
sguardo profondo, il compagno d’armi di mio padre aveva
un’immensa tristezza e un infinito rammarico.
Poi
mi voltai, accorrendo da mia madre che, in disparte, si era seduta su
una delle panche del cortile tenendosi il viso tra le mani.
Singhiozzava senza freno, irrigidendo le spalle e bagnandosi i palmi
chiari delle sue lacrime argentee e lattiginose. Indossava un vestito
bianco assieme a quel bellissimo velo verde chiaro a coprirle parte del
capo.
Mi
avvicinai a lei, girandomi di tanto in tanto verso l’uomo
alle mie spalle che continuava a fissarmi amareggiato, come se la morte
in battaglia di mio padre fosse stata colpa sua.
Non
ero mica così scemo. Lo capii subito che mio padre era
morto, e non di fu bisogno di una parola di più per dire
ciò che si era discusso con un groviglio di sguardi e mesti
sorrisi.
Odiavo
quel mio genere di perspicacia, ma delle volte sapevo mi sarebbe
tornato utile.
La
mattina successiva, quando mi svegliai tra le braccia calde di mia
madre, sdraiata sul mio lettino accanto a me, stropicciai per bene gli
occhi abituandomi alla luce sottile che penetrava dalla finestra.
Scostai di poco la mano della donna che pendeva su un mio fianco e
scivolai giù dal materasso; passeggiai lentamente verso la
finestra e mi affacciai a guardare fuori da questa.
Ammirai
il sole che sorgeva sul mio villaggio diffondendo i suoi raggi dorati
su tutto il Regno. Il cielo era azzurro, come il giorno precedente, e
non vi era l’ombra di una sola nuvola per chilometri e
chilometri oltre le colline dell’orizzonte. I prati verdi e i
deserti attorno al mio villaggio si stagliavano infiniti fino alle
montagne a nord; tra le strade vi era già tanta, tantissima
gente indaffarata. Carovane e animali, greggi di pecore e stormi interi
di polli che si apprestavano a raggiungere la piazza centrale per la
domenica del mercato.
Mi
voltai appena lanciando un’occhiata al corpo assopito di mia
madre. Ella aveva il viso tristemente sereno, avrei detto. Sorrideva
come poteva sorridere una donna che nel proprio mondo dei sogni stava
abbracciando suo marito per l’ultima volta come fosse
realtà; una realtà alla quale sorridere in quel
triste modo che trasmetteva a me ogni sua malinconia.
Lasciai
la stanza e raggiunsi il salotto. Mi affacciai subito fuori dalla porta
di casa che lasciai aperta, prendendo una gran boccata d’aria
fresca e lasciando che il venticello estivo penetrasse dolcemente
nell’atrio.
Mi
guardai attorno andando a sedermi sulla staccionata del piccolo
giardino davanti l’ingresso. Con le gambe a penzoloni e le
spalle strette al collo, non mi accorsi della gente che,
riconoscendomi, mi salutava agitando una mano allegramente.
Li
ignorai. Una ad una, anche le madri dei miei compagni di giochi
parevano nel degne della mia attenzione. Io che, tanto triste e solo
con me stesso, solo allora cominciai ad apprezzare il mio silenzio.
Sentii chiamarmi, e questa
volta mi girai riconoscendo la voce stanca e incrinata dalla tristezza
di mia madre.
Scesi
dalla staccionata con un balzo e le andai in contro
sull’uscio di casa.
Aveva
due occhiaie sotto gli occhi che non le avevo mai visto. I capelli
scuri scompigliati e aggrovigliati, il volto scoperto di fronte a tutta
quella gente che passava di mattina davanti casa nostra.
-Va’-
mi disse prendendo una mia mano nella sua e allungandomi con
l’altra una piccola brocca in ceramica.
–Va’ a prendere dell’acqua- aggiunse
sorridendomi non tanto.
Annuii
stringendo la brocca la mio petto e mi avviai di corsa sulla strada
sterrata.
Raggiunsi
la fontana con il fiato corto e le guance rosse; il viso sudato e i
capelli bagnati e attaccati alle tempie. Il sole cocente mi stava
abbrustolendo senza pietà, riflettendosi sulla mia pelle
già così scura e ramata di suo.
Feci
la fila dietro alle altre donne che portavano sé le brocche
di ceramica simile alla mia. Attesi qualche minuto prima del mio turno,
guardandomi attorno e sfuggendo il mio sguardo a quello dei passanti
che traversavano quella zona del villaggio con le loro
attività appresso; quali bancarelle e bestiame.
Quando
fu il mio turno, riempii tutta la brocca fino al bordo e mi avviai
svelto verso casa. Sulla strada del ritorno feci attenzione a non
rovesciarne una goccia una.
Entrai
nel salone e corsi subito in cucina, dove trovai mia madre seduta al
tavolo con la testa nascosta tra le braccia conserte. Singhiozzava
versando lacrime che non vedevo colarle dagli occhi celati sotto la
massa di capelli scuri.
Poggiai,
con non poca fatica, la brocca sul tavolo e mi avvicinai a lei con
attenzione e premura.
-Mama-
mormorai allungando una mano verso di lei.
-Va’
via, va’ via…- sentii solo pronunciarle.
-Mama-
ripetei.
-Va’
via!- ringhiò lei con violenza. Si alzò di colpo
e afferrò un cucchiaio di legno che levò in alto,
minacciandomi. –Va’! Via! Ora!- ed io ubbidii.
Voltandomi
spaventato, feci cadere a terra la brocca d’acqua che si
frantumò rumorosamente in tanti pezzi. Uscii di casa senza
voltarmi, corsi a perdi fiato e con le lacrime che mi salivano agli
occhi. Ascoltai i lamenti della folla che si scostava imperterrita nel
vedermi passare. Scappai terrorizzato e inciampai diverse volte in
pietre, cespugli, crepe del terreno, ma fatto sta che quella fu
l’ultima volta che rividi l’unico membro restante
della mia famiglia.
<<…
mi riscuoto dai miei ricordi, dai miei pensieri percependo i nitrii di
un cavallo poco distante da me. Mi volto, e aspetto pochi secondi prima
di intravedere una figura incappucciata, vestita di bianco, varcare la
soglia della città e avvicinarsi a me col suo solito passo
così composto, così serio e perfetto.
Allora
spalanco le braccia e faccio un passo avanti, chiamandolo per nome:
-Altair! Sei tornato!- sorrido compiaciuto. Non immaginavo di vederlo
qui a Masyaf così presto. La sua era stata una missione
rischiosa, pensai.
-Rauf-
dice assente lui, distogliendo lo sguardo.
-Mi
fa piacere vederti illeso, dai!- gioisco accorciando ancora le
distanze. –Immagino che la tua missione sia riuscita!-
aggiungo allegro, forse troppo per i suoi gusti.
Sotto
il cappuccio, il mio superiore alza gli occhi di poco al
cielo, voltandosi ad ammirare la fortezza che, imponente, veglia
dalla collina della città. –Il Maestro
è nella torre?- domanda deviando il discorso.
M’insospettisco
non poco, ma ben presto mi riscuoto balbettando: -Sì,
sì! Sepolto fra i libri come sempre! Di sicuro ti aspetta-
lo guardo allontanarsi da me e avviarsi già sulla strada,
così gli vado ascoltando i suoi ringraziamenti.
-Grazie,
fratello- mormora l’assassino.
Mi
fermo alle sue spalle e lo ammiro da lontano, contemplando la sua
figura composta confondersi alla folla che saliva verso la fortezza.
–Salute e pace, Altair- dico poco allegro, questa volta.
E
lui, serio, risponde: -Altrettanto-.
La
sua veste bianca risale la collina e, non appena lo perdo del tutto di
vista, mi appoggio al bordo della fontana incrociando le braccia al
petto…>>
Angolo d'autrice
Un
piccolo tributo ad un personaggio che mi è rimasto impresso
fin da quando giocai AC per la prima volta. Rauf, il quale cognome ho
inventato e non credo esitate neppure in Arabo, compare sì e
no solo due volte nel gioco, ma mi ha colpito molto il primo impatto
che questi ha con il protagonista da noi controllato nel gameplay!
Questa one-shot era nata con l’idea di raccontare invece il
passato di Altair, ma invece, quando la traccia ho deciso che prendesse
una piega differente, per non cancellare tutto e riscrivere daccapo, ho
preso l’iniziativa di dedicarne una sua parte del tutto
distaccata dalle altre… perché, come ho scritto:
“Rauf’s Chronicles” ho in mente
di dedicare molto presto una sia ad Altair, Malik e Kadar, e
l’ultimo, il tizietto presuntuoso che compare una sola volta
e porta il nome di Abbass… chi è un vero fan
della serie sa di chi parlo!!! Come spero abbiate capito, i filmini
mentali di Rauf cominciano mentre lui è nella piazza
centrale della città, dove c’è quella
specie di fontana, nell’attesa che arrivi Altair. Entrambi i
personaggi, nell’ultima parte della vicenda, si comportano
esattamente come nel gioco, riportandoci alla scena iniziale quando
l’assassino fa ritorno dal tempio di Salomone, portando con
sé le brutte novelle sul fallimento della missione.
:D
bene, qui è tutto. Ora aspetto solo le vostre recensioni.
P.S.
One-Shot dedicata ad Altair in
arrivo, non perdete la speranza, ma probabilmente la
staccherò totalmente da questa inglobandola in EFP come una
storia a sé, nominandola anche diversamente…
vabbé, si vedrà! Spero di non aver deluso le
vostre aspettative, ma essendo molto devota al gioco di AC, ho voluto
scrivere queste follie come tributo ai personaggi fondamentali e non
della vicenda!
Attenzione:
allego il link ad un video che fa chiarezza sulla one-shot!
Il
video guardatelo dal minuto 3:09 in poi. In quell’istante
comincia il dialogo tra Rauf e Altair.
Il
video: http://www.youtube.com/watch?v=m0f9EW1m_P8
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