Comincia come una storia di Natale: fuori fa freddo, ha appena iniziato
a nevicare e la strada è ghiacciata, sporca. Di tanto in
tanto passa una macchina, ma in quel vicolo sono soli. È
tardi, ormai, e l’intero quartiere dorme nel calore delle
case che si stringono sulle vie con un abbraccio che è in
qualche modo materno.
Cassian non sa neanche come c’è finito,
dall’altra parte della città, eppure sente di aver
fatto una scelta azzeccata, una volta tanto, quando due ore prima ha
deciso di imbacuccarsi nella sua giacca blu per uscire a ficcanasare in
qualche festa universitaria. Ora è spalle al muro contro il
cancello di un palazzo, il fiato teso nell’eccitazione, le
mani prese a tastare il corpo che si ritrova addosso mentre la bocca
assaggia delle labbra, della saliva, mentre la sua lingua è
persa a conoscerne un’altra quasi per caso.
Quando la ragazza che gli ha gettato le braccia al collo nel locale
dove stava festeggiando in solitudine si scosta, riportata alla
realtà dall’improvvisa suoneria del suo cellulare,
Cassian avverte un folata di vento freddo schiaffeggiargli il viso in
fiamme.
Resta a guardarla mentre rifiuta la chiamata, la osserva, silenzioso e
ansimante, mentre lei si passa la mano libera tra i capelli e gli getta
addosso uno sguardo frettoloso.
«Andiamo da te?» gli dice, alzando le spalle.
«Da me è un casino».
Cassian esita. Da lui, da lui … ha bevuto un po’
troppo per ricordarsi che da lui non è fattibile,
perciò annuisce e dà un’occhiata
all’orologio da polso che sbuca da sotto al giaccone.
«Come sei messa a gambe?» chiede, sbuffando.
Lei alza un sopracciglio. «Perché?»
«Perché dobbiamo correre, su!»
La metro chiude alle tre e mezzo del mattino. Sono le tre e
ventiquattro quando scavalcano senza pudore i tornelli, scivolando in
completa solitudine nei freddi corridoi della stazione dove il treno
arriva fischiando nel freddo. Non è esattamente una
metropolitana, ma in città la gente ama chiamarla
così.
Le porte si chiudono e subito riparte quel timido toccarsi. Dapprima
sono soltanto le loro mani che si sfiorano, poi le cose arrivano
così velocemente alle loro lingue che si trovano nel
disordine di un bacio che quasi Cassian non sa dire quanto tempo sia
passato.
Gli scivolano addosso i secondi, le fermate, alla fine anche la
passione.
«Ma dove diavolo abiti?!» fa ad un tratto la
ragazza, scoccandogli un’occhiata dubbiosa. Pensa che la stia
rapendo, probabilmente. Considerato dove stanno andando, osserva
Cassian, non ha neanche tutti i torti.
«Sono di Long Branch».
Quella confessione gli sguscia fuori con discrezione, nel tono di voce
volutamente abbassato e nell’aria furtiva che assume.
La ragazza sgrana gli occhi, per poco non si mette a gridare.
«Long Branch!» ripete, così forte che
probabilmente lo ha sentito tutto il vagone. «Saranno tre ore
di viaggio!»
Cassian alza le spalle. «Due, in realtà»
risponde. Improvvisamente, si vergogna come un ladro e ringrazia di
avere le guance già arrossate dal freddo. «Vuoi
… vuoi tornare indietro?»
«Indietro? Scherzi?
Adesso?
No, facciamolo».
Quando scendono dalla metropolitana, l’autobus è
parcheggiato davanti alla stazione con le porte chiuse per salvare
l’autista dal freddo. Nevica forte, adesso, e Cassian corre
per primo dalla terrazza fino alla strada per permettere alla sua
accompagnatrice di arrivare dritta alle porte senza dover aspettare che
si spalanchino.
Gli viene il dubbio del perché si stia dando tanta pena, ma
poi si volta a guardare quella ragazza con cui sta tornando a casa e si
rende conto che è la prima volta che vede tanta grazia
addosso a qualcuno coperto di neve, e subito abbandona ogni insicurezza.
«Forza» le dice, indicandole un sedile tra tutti
quelli liberi nell’autobus deserto.
A lei squilla di nuovo il cellulare, ma neanche stavolta chiunque la
stia chiamando ininterrottamente riceve risposta.
«Sei scappata di casa?» Cassian lo chiede con
leggerezza, quasi non gli interessasse davvero.
La risposta, secca e fredda tanto quanto l’inverno che li
circonda, lo fa fremere dalla curiosità.
«No». È tutto quello che riceve, poi la
ragazza ripone il telefonino nella borsetta e si infila i guanti,
sospirando.
Cassian fa lo stesso. «Senti, stavo pensando
…» incalza poco dopo, speranzoso. «Non
siamo ancora a metà strada, quindi potremmo anche usare il
tempo in maniera produttiva, tipo per conoscerci meglio». Fa
una pausa che usa per mordersi appena il labbro secco a causa del gelo;
intanto, gli sfugge un sorriso. «Ad esempio, io mi chiamo
Cass–»
«Wooo!» La ragazza lo interrompe alzando una mano e
premendogliela sulla bocca. Lui la guarda come si guarda una
sconosciuta che ti urla addosso un “wooo” nel cuore
della notte su un autobus deserto, e con gli occhi la costringe a una
spiegazione. «È troppo personale» si
sente dire, in un soffio di fiato caldo che genera una piccola nube
biancastra. «Facciamo le cose in maniera
superficiale».
Stavolta è Cassian, quello che alza un sopracciglio.
«Superficiale?»
«Sì, tipo una botta e via».
Una botta e via.
La storia della sua vita.
«Già, perché no?» si ritrova
a rispondere, sospirando.
Poi ricade il silenzio.
«Quindi … hai un sacco di botte
e–»
«Wooo!»
«Okay, okay, ho capito. Sto zitto. Ma tu non
urlare».
Scendono dall’autobus e si ritrovano in mezzo al niente,
abbandonati sul raccordo che unisce il centro con
quell’insieme di case e villette che è Long
Branch. C’è un po’ più di
traffico rispetto al quartiere da dove sono partiti: macchine disperse,
comunque, puntini luminosi che pascolano nella neve.
Cassian ha percorso quella strada centinaia di volte, da solo o in
compagnia che fosse, eppure non gli è mai sembrata
così lunga. A volte, per la paura di perdere
l’autobus, l’ha addirittura fatta di corsa
rischiando puntualmente di scivolare sul ghiaccio dell’ultimo
pezzo. Essere costretti a percorrerla in silenzio, senza nulla di
veramente interessante o
non-personale
da dire, sembra improvvisamente uno strazio.
Arrivano alla fermata dell’autobus che tremano entrambi come
foglie. Cassian sente le goti fargli male per via del freddo,
istintivamente affonda il mento nella sciarpa che porta al collo. Poi
scocca un’occhiata preoccupata alla ragazza, che se ne sta in
disparte sotto alla tettoia e continua a soffiarsi sulle mani con
un’ostinatezza che ha un che di affascinante. Sul viso, ha
un’espressione talmente seria che quasi lo convince di
riuscire effettivamente a riscaldarsi con quel misero gesto.
Quasi istintivamente, Cassian si apre la giacca, avvicinandosi.
«Tieni, mettile qui», sussurra.
La ragazza lo guarda, diffidente. «Non penso
funzionerà».
«Tu fallo e basta».
Le prende le mani con delicatezza e le guida dentro al suo cappotto,
avvolgendole nella sciarpa e spingendole piano contro il suo petto
coperto dal maglione.
«Non è tanto male, no?»
Per la prima volta, sul viso pallido di quella ragazza compare un
sorriso.
«No, in effetti no».
Cassian annuisce, di nuovo lo coglie il terrore del silenzio.
«Quindi … che hai mangiato a pranzo?»
chiede.
«Prego?»
«Sei seria? Troppo personale?»
La ragazza fa spallucce, ma decide di dargliela vinta.
«Un’insalata».
«Insalata, eh? Quindi sei tipo, non so,
vegetariana?»
«Sì, vegetariana. Se non conti il pollo, il bacon
e tutto il resto, insomma».
Ridacchiano assieme, spontaneamente si fanno più vicini di
quanto già non siano per la storia della giacca. Cassian
pensa di stare per ricevere il primo bacio sincero di quella serata,
probabilmente il solo che non saprà di fretta e di inverno
che riceverà da quella ragazza.
Non fa in tempo a goderselo: l’autobus li supera velocemente
e si ferma poco più in là. Il conducente, sempre
lo stesso da almeno tre anni, suona il clacson per avvertirli.
«Andiamo!» esclama Cassian, scostandosi e prendendo
a correre lungo il marciapiedi ghiacciato. La sua mano afferra quella
della ragazza, trascinandola con sé. «Questo
è l’ultimo!»
Lei ride, per una volta lo segue senza lamentarsene.
*
La stazione degli autobus di Long Branch è deserta e
innevata, l’ennesimo attimo di smarrimento in quella
città gigantesca che di notte sembra ancora più
abbandonata. Le loro scarpe affondano silenziosamente nel morbido
strato accumolatosi quella notte; di solito scricchiolerebbero, pensa
Cassian, ma quando nevica ogni rumore viene assorbito dal candore di
quel momento, e l’unico suono captabile è quello
di una macchina che sfreccia in lontananza su un cavalcavia.
Senza parlare, ancora mano nella mano, raggiungono la rastrelliera
delle biciclette.
«Te lo scordi!» esclama la ragazza, lasciandolo
improvvisamente mentre lui le mostra mestamente quel pezzo di ferraglia
che si ostina a chiamare bicicletta.
«Senti, è l’ultimo sforzo»
ribatte Cassian, sospirando. Le mette il casco in mano e alza le
spalle. «Ormai sei qui».
«Prendiamo un taxi!» si ostina lei, ma le bastano
pochi secondi per rendersi conto di trovarsi a Long Branch, il
quartiere dimenticato persino dai suoi abitanti dove già
avere una bicicletta arrugginita è considerato un gran
lusso. Le tocca correggere il tiro, perciò si infila il
casco in testa e sbuffa. «Sia chiaro che pedali tu»
dichiara.
A Cassian viene da ridere.
Il viaggio in bicicletta non dura molto, ma è il tratto
più piacevole dell’intera traversata. Ha smesso di
nevicare, la strada è libera, l’aria pulita e
fresca. Ormai, sta cominciando ad albeggiare. C’è
una strana canzone che risuona nella notte, anche se Cassian
è convinto di immaginarla. Mentre alza i piedi dai pedali e
lascia che la bicicletta scenda da sola l’ultima discesa, si
sporge in avanti e lascia un lieve bacio infreddolito sulla guancia
della ragazza.
Lei ride, scuote il capo. Poi si appoggia alla sua spalla e soffia
piano contro il suo mento sporco di barba.
Per l’ennesima volta, il telefono prende a squillare.
Cassian frena, fa scendere la sua passeggera e la resta a guardare.
Lei si allontana, finalmente risponde.
«Senti» grida, nel bel mezzo della strada.
«Piantala. Di. Chiamarmi. Non ci voglio tornare a casa! No,
non sono più nel mio appartamento. Evita di venirmi a
cercare!» Riaggancia di scatto, stavolta il cellulare lo
ributta in tasca.
«Quindi
sei
scappata di casa» commenta Cassian, fissandola dalla
bicicletta.
«Sto bene» insiste lei.
«Andiamo».
«Chi era?»
«Wooo!»
Cassian rotea gli occhi, sentendosi improvvisamente rifiutato. Con una
scrollata di capo la supera, poi butta la bicicletta contro il tronco
di un albero che cresce lungo il viale.
«Aspetta». Il tono della ragazza cambia
improvvisamente, addolcendosi quel poco che basta per riscaldare una
serata invernale. «Era il mio patrigno».
Cassian annuisce, cauto. «Vuoi parlarne?»
«Non c’è molto da dire. I miei sono
morti, sono finita da lui e … dopo anni ancora non gli
riesce di pronunciare decentemente il mio nome».
«Bé, non te lo chiedo nemmeno, qual è
il tuo nome, quindi …»
Un tizio in tenuta da jogging li supera correndo, salutandoli entrambi
con un gesto della mano.
Loro scoppiano a ridere.
«Ma dove siamo?» fa la ragazza, in piedi in mezzo
alla neve accumulata nel cortile.
Cassian alza le spalle. «A casa» risponde, poi le
fa cenno di seguirlo.
*
Il suo appartamento
è piccolo, giusto quello che serve a uno come lui per
dormire e mangiare senza dover necessariamente fare entrambe le cose
nella stessa stanza. È tutto in disordine, ma a Cassian
è sempre piaciuto così.
Mentre lo mostra a quella ragazza, non può fare a meno di
sentirsi un po’ vulnerabile, come se quella parte di lui si
trovasse in un posto sperduto come Long Branch per un motivo, lontana
da chi ha voglia di ficcanasare, da chi lo vuole stringere, da chi non
lo vuole vedere da solo.
«Scusa il casino» si giustifica, facendo strada
verso la sua stanza. «Io e Kappa non abbiamo mai ospiti, per
cui …»
La ragazza si guarda intorno, il naso arricciato puntato contro tutto
ciò che la circonda. È schifata dal ciarpame che
hanno accumulato in tutti quegli anni di convivenza? Oppure sta
guardando le loro fotografie attaccate alle pareti con il nastro
adesivo?
«Tranquilla». Indicando il seminterrato, Cassian
soffoca a stento una risatina. «Kappa non è un
tipo invadente».
«Kappa sarebbe …?»
«Mio fratello. Più o meno. Diciamo che ci siamo
trovati quanto avevamo bisogno di una spalla e non ci siamo
più lasciati».
Le indica una foto, un ricordo di quanto sono stati al mare
l’estate prima e si sono fatti rubare i portafogli dopo
essersi addormentati in spiaggia.
«Sembra un tipo a posto».
«Lo è».
Al piano di sotto, illuminata dalla fioca luce di una fila di lampadine
dell’albero natalizio, la sua camera li aspetta in silenzio.
È calda, Kappa deve aver acceso i termosifoni prima di
andare a dormire, e le lenzuola sono state cambiate di recente dal
momento che vi è un lieve profumo di naftalina proveniente
dal giaciglio coperto dalla trapunta.
«È un bel posto» fa la ragazza, mollando
la borsetta sul pavimento e sfilandosi le scarpe senza neanche degnarsi
di slacciarle. Lo raggiunge poi, e afferra frettolosamente i baveri
della sua giacca per stampargli un bacio sulle labbra.
Cassian è certo di non essere mai stato spogliato con
così tanta fretta. Si ritrova senza la giacca nel giro di un
unico bacio, e non fa neanche in tempo a pensare di fare lo stesso con
quella ragazza che lei ha già le mani sulla sua cintura.
«Aspetta, aspetta».
«Che c’è?»
«No, niente …»
Si scambiano un altro bacio, poi Cassian si sente tirare verso il suo
stesso letto.
«Volevo dirti una cosa» gli sussurra la ragazza,
precedendolo sul materasso in un cigolo di molle. «Mi chiamo
J─»
Cassian soffoca a stento una risata. «Wooo!»
esclama, interrompendola. Apre la mano dritta davanti ai loro visi e le
copre le labbra.
Per risposta, si sente trascinare verso le coperte.
Segue placidamente quei movimenti, sedendosi sul letto e lasciandosi
cadere di lato come le mani di quella ragazza gli chiedono, gelide,
mentre gli slacciano la cintura e si insinuano sotto il tessuto ruvido
dei jeans.
È l’unico contatto che la loro pelle riesce a
trovare, quello: le mani fredde attorno ai suoi fianchi, le dita
affondate nella carne mentre tentano di abbassargli i pantaloni.
Lei ha ancora addosso la giacca.
Baciandola piano, Cassian le abbassa lentamente la cerniera, la aiuta a
spogliarsi di quell’indumento ingombrante coprendole
l’addome di baci man mano che arriva a scostarlo.
Quando torna al suo viso, incontra uno sbadiglio.
«Scusa» sussurra la ragazza, stringendosi a lui.
«È che sono stanca morta».
«A chi lo dici».
A Cassian non dispiace nemmeno; si stende piano sul materasso, non
pensa neanche a cambiarsi poiché il richiamo del letto
è troppo forte. Scivola tra le coperte e invita la ragazza a
fare lo stesso, sorridendole con fare incoraggiante quando lei lo
guarda, stupita.
«Scusami» la sente ripetere, mentre la guarda
arrossire appena sul viso già colorato dal freddo che ha
preso prima di entrare in casa. Tuttavia, si avvolge nel piumone e si
accoccola accanto a lui.
Cassian alza le spalle. «Anche io sono stanco»
risponde, prendendole la mano. Se la porta alla mano e la bacia,
ridacchiando quando un pensiero rompe il momento. «E poi, se
domattina conoscerai Kappa, sarò io a dovermi
scusare».
Guadagna una risata, e la cosa lo convince a chiudere gli occhi per
cedere finalmente al sonno.
Tuttavia, la voce di quella ragazza lo trattiene nella
realtà.
«È così strano» dice lei,
scuotendolo appena per costringerlo a guardarla. «Non so
neanche chi sei».
Cassian sorride, passandole una mano sul viso e seguendone i contorni
con dolcezza. «Fa niente» sussurra. «Sono
uno davvero bravo a pronunciare i nomi in maniera decente».
Un paio di settimane fa, giravagando su internet senza niente da fare
(storia della mia vita), sono incappata in
questo cortometraggio canadese che
mi ha fatto veramente partire per la tangente. Prima di tutto
perché me lo sono quasi subito immaginata come un'AU di
Rogue One, secondo perché ci sono veramente poche cose che
mi smuovono come i cortometraggi pseudo-romantici.
Avevo deciso quasi subito di scriverci sopra una oneshot, ma mi ero
bloccata ancor prima di iniziarla perché non ne avevo voglia
:D E fondamentalmente perché sono incapace di scrivere cose
romantiche
Poi, però, parlando di allegrie varie e gioie
con Vic
394 ho trovato il coraggio
e la voglia di
rimettermici seriamente.
Quindi parte del merito o della colpa vanno a lei.
E niente, penso di aver finito con le premesse finali (what).
Grazie a chi ha letto, leggerà, a chi passerà e
basta, anche per sbaglio.
Che
la forzah sia con voi.
Lechat
vert