Una
lucciola volteggia tra le tue mani. L’aria fredda stuzzica il
naso e le guance. Osservi il paesaggio, la città che si
perde all’orizzonte del cielo notturno. Le sue luci si
confondono
con le stelle. Laggiù, una linea curva su cui immagini di
camminare come quel funambolo di Grayson.
Era tutto
così calmo lassù. Nessuna
gravità, i problemi sembravano scivolare via dal mantello.
Ogni tanto passava qualche nuvola, ma per il resto, non c’era
anima viva.
Era
meraviglioso avere tutto quello spazio per te, da vivere
in solitudine e tranquillità. Era speciale. Come quei poteri
acquisiti per una fatalità che mai avresti immaginato.
(Anche)
quella notte hai sognato di volare. Era un sogno
ricorrente, volare.
Volare.
Volare.
Volare… sì.
Volare.
Non
c’era cosa più bella di volare; ma
non volare grazie a un aereo, un tappeto magico, un amico alato. Era
bello volare da soli, fluttuare, sentire il proprio corpo leggero.
Essere come quello lì delle fiabe… Peter Pan?
Doveva essere lui, quello che volava.
Il cielo era
il posto più silenzioso, tranquillo.
Era l’unico luogo in cui ti sentivi quieto. In mezzo alle
nuvole, vedere tutte le luci della città, ti faceva battere
il cuore. Flebili vite, come la tua — ma eri lì.
Eri ancora
lì.
Ora,
però, non potevi più librarti in
aria con tanta facilità. Non potevi più levitare
fuori dal letto fino alla cucina, evitando il freddo pavimento. Eri
tornato ai rampini, agli aerei — e avevi ritrovato Goliath.
Avevi
ritrovato un amico, sembrava che la vita fosse
destinata a scorrere ‘serenamente’ combattendo il
crimine; ma quando ti guardavi allo specchio la vedevi.
Un’ombra che si nascondeva nelle tue verdi iridi. Non le davi
peso — non avresti mai voluto che la malinconia vincesse: non
gliel’avresti mai permesso.
Tuttavia, le
carte in tavola cambiarono ancora con
l’arrivo di lui.
Lui
ti faceva ricordare la perdita dei tuoi poteri. Lui ti ricordava
il momento in cui hai dovuto rimangiarti l’orgoglio di aver
lavorato con la JLA. Lui aveva quel
dono — poteva volare. E fu allora che quell’ombra
fuggiasca uscì allo scoperto e si espanse sul tuo viso. Ti
dipingeva quell’espressione che odiavi.
La vedevi nel
riflesso del tuo specchio, l’emozione
che mai avresti pensato di provare: l’invidia.
Sì, sembrava che il colore dei tuoi occhi fosse diventato
verde invidia.
Era una
smorfia molto chiara: la linea della bocca marcata
verso il basso, un riflesso lucido nelle iridi, naso tirato
all’insù: era la faccia di chi doveva convincersi
che
LUI non aveva niente di speciale.
Anche tu
potevi volare, avevi le ali per volare. Grazie a
Goliath; o ai rampini. Ti spegnevi un po’ mentre ricordavi
che dipendevi completamente da altri fattori, come le raffiche di vento
e gli appigli. Non eri più così libero.
E quel
sentimento ti mordeva il cuore, ti divorava
l’animo.
Non avresti
più riavuto i poteri. Non avresti
più potuto volare.
E lo specchio
non rifletteva Robin. No, non c’era
lui. Non c’era neanche un Al Ghul o un Wayne, né
il Damian che conoscevi. Allo specchio c’era soltanto il
riflesso di un ragazzino invidioso o meglio, di un ragazzino spaventato
di non essere più all’altezza delle aspettative.
Ti sentivi un po’ come Icaro: temevi di esserti avvicinato
troppo al sole, temevi che saresti precipitato. O peggio: forse eri
già precipitato.
E
l’unica cosa che volevi era solo una
rassicurazione. Un abbraccio, qualcosa.
Toc
toc
(non
rispondi)
Toc
toc
toc
(deglutisci cercando di non far rumore)
“Signorino?”
Inspiri.
“La
colazione è pronta.”
Espiri.
“Le
serve qualcosa?”
Trascini
lentamente i piedi scalzi sul pavimento, cercando di
non inciampare nei pantaloni. Perso nel loro grigiore, il tuo sguardo
è chino: ti chiedi se anche tuo fra-Tim— Drake, si
fosse
mai sentito così a terra, se li avesse mai trascinati
quei pantaloni prestati e mai restituiti.
Perché non li avevi mai restituiti? Per dispetto,
forse? Non ricordi.
Rischi quasi
di sbattere la fronte contro la porta. Poggi
pigramente la mano sulla maniglia.
“Inspira.”
Silenzio.
“Espira.”
Passi.
Ovattati dal suono dei tappeti nel corridoio, ma
li sentivi, i passi. Il maggiordomo se ne stava andando. Apri la porta
con
forza, quasi a scardinarla. Gli corri incontro e ti tuffi sulla sua
schiena. Il povero Alfred è stretto nella tua morsa e fatica
a girarsi per abbracciarti, fedele e solidale come sempre.
“Ci
siamo svegliati col piede sbagliato?”
Non ti vede,
non ti può vedere. Il tuo volto
costernato da quel sentimento che mai avresti dovuto
provare… non mostreresti quell’espressione neanche
a lui.
Tiri su col
naso, il respiro sempre più veloce.
Cacci le lacrime, digrigni i denti. Damian Wayne non piange, mai.
“Ce
la farò, Alfred…
vero?” chiedi, la voce leggermente tremante. Lui ti accarezza
la nuca con la sua mano guantata.
“Ma
certamente. Se ho imparato a conoscerla bene,
lei riesce sempre in tutto quello che fa. E ottiene sempre
ciò che vuole.” Non c’è neanche
un briciolo di dubbio nella sua voce.
Ed
è allora che l’invidia
diventò una domanda:
cosa volevi, Damian Wayne?
Volevi volare
via, lontano da tutti i pensieri? Lontano da
quel mondo che ti faceva soffrire? Volevi piangere e urlare senza
vergogna, perché lassù (probabilmente) non
t’avrebbe sentito nessuno? Credevi che volare - da solo - ti
avrebbe salvato dal dolore che provavi?
Le tue
braccia si sciolgono lentamente, cadono ai tuoi
fianchi: sono senza vita. Le dita tastano, lentamente, la stoffa
rovinata dei pantaloni: era ruvida, un cotone di seconda o terza
categoria. Erano rovinati, ma pratici. Molto usati, ma puliti. Erano
brutti, ma leggeri. Erano troppo larghi, però comodi. Erano di Tim, non erano i tuoi.
In quel
momento, capisti che la tua invidia era solo un
pretesto per odiare qualcuno o qualcosa che già di appariva
antipatico. Era un modo per non pensare a scappare. Per non sognare di volare.
Non ti senti così distrutto per via di un
qualche legame di sangue; non era per una qualche carta straccia, non
era per una qualche ipotetica amicizia. Ti senti così
perché lui era — un compagno. Era un Robin; a cui avevi
fatto di tutto e di più. E sebbene non scorresse buon sangue
tra voi, c’era stato nel momento del bisogno. Era tra coloro
che ti avevano salvato
dalla morte. Era lì anche
per te.
E adesso che
te ne sei reso finalmente conto, sapevi che non
potevi fare lo stesso. Era una morte
in famiglia con cui dover convivere (forse) per sempre. Ti
rendeva triste e sentivi che non esisteva posto come il cielo stellato
per poterti sfogare. Volare via era la dannata soluzione e non potevi più
farlo!
E allora
sì che eri invidioso di quel moccioso
kryptoniano! Lui poteva
svolazzare in giro, lui
si era preso quell’angolo di mondo che sentivi tuo e che ti
regalava un po’ di pace. Miseria, se lo invidiavi…
odiavi quel bambino kryptoniano!
Quello era il
tuo posto… Il tuo unico
posto… Il tuo posto — era tra le braccia di
Alfred. Paterne, protettive, sicure.
“Mi
manca.” sussurri.
“Va
bene.”
Andava bene?
Davvero? C’erano tanti insegnamenti
della Lega degli Assassini che non avevi ancora scordato: piangere
sulla perdita non era accettabile; e ora andava bene? Andava bene anche
provare invidia? Andava bene sognare di volare via? Perché
eri l’unico pettirosso che
non poteva volare?
Le domande
sparivano in un soffio di memoria. Le parole
morivano in gola. Le lacrime non rigavano le guance. Eri solo
intorpidito.
Resti
lì inerme, appoggiato ad Alfred,
finché non ti chiede: “Colazione?”
Annuisci e lo
segui - per una volta - senza fiatare.
E anche
quella notte, hai sognato di volare. E la notte dopo,
e quella dopo ancora, e quell’altra dopo anche. Non era poi
un brutto sogno. Era certamente migliore dei soliti mostri e incubi. Ti
lasciava una nota di malinconia, di solitudine, ma potevi conviverci.
Eri un Robin
e sognare di volare era il minimo. E poi, il
futuro Batman non avrebbe mai potuto perdere contro il futuro Superman
(semmai Jon avrebbe
vissuto tanto)... e quei pantaloni erano troppo comodi per disfartene.
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