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[Scritta per l’ottava
challenge di True Colors, “Courtly Love”, gestita da Juuhachi Go, con il
tema “#08-The soldier came knocking upon the queen’s door”, che si era bell’e
infilato nelle prime due righe della storia quando ancora non sapevo che la
suddetta sarebbe stata per questa sfida XD. Altro tema utilizzato, dal
prompting post del
lj della giudicessa, è “Ashe/Basch, sette veli”.
Basch potrebbe essere
considerato un po’ il modello del “cavaliere perfetto”: ma in questo piccolo
pezzo ho voluto provare a mostrare (in maniera molto meno accurata di quanto
avrei voluto, alas) quanta individualità e quanta umanità ci siano nella
“perfezione” sua come di altri personaggi che gli assomigliano.
Importante: non ho
ancora finito il gioco (causa televisori e controller che si sfasciano…), quindi
posso solo augurarmi di non aver scritto qualcosa di completamente senza senso.
Se però è stato così, ditemelo, please. ç___ç
Il titolo, beh, è quel
concetto dei trovatori provenzali che probabilmente conoscete, dunque non calza
esattamente a pennello; ma l’ho scelto perché sempre di amore da lontano si
parla, in qualche modo, e perché evoca i tempi in cui il mito, l’immaginario e i
valori dell’amor cortese sono nati.
“I raz e jauzens m’en
partrai, s’ieu ja la vei l’amor de lonh…”
“Triste e gioioso me ne
partirò, se mai riuscissi a vederlo, l’amore lontano…”
- Jaufrè Rudel]
Dal biondo dei
capelli, al balenare dei denti nel sorriso, agli strascichi riflessi sul marmo
dei pavimenti, è tutta una cascata di oro e di bianco.
Venuto per ordine del
re con l’intenzione di bussare e chiedere a che punto fossero i preparativi, era
rimasto sulla soglia, davanti alle porte spalancate, perso nella visione.
Nella visione di lei,
tutta candida e tutta uno splendore di trasparenze contro il sole, unica macchia
di luce pura in mezzo agli abiti colorati delle ancelle che l’aiutavano a
vestirsi.
“Capitano! Ma che ci
fate lì? Almeno venite ad aiutare!”
E il sorriso si era
aperto in risata, in una gioia ancor più chiara, e lui non aveva potuto far
altro che avvicinarsi, e, inginocchiato, scostarle il tulle dalle caviglie.
E restare a guardare
mentre i pendagli le venivano disposti attorno con cura, mentre il suo riso si
copriva di veli e il suo sguardo, irrequieto a controllare ogni dettaglio, si
perdeva dietro quegli schermi.
Un abito tutto veli,
come da sempre per le nozze di principesse e sovrane di Dalmasca, come nei
costumi delle danze di quel regno del deserto, quelli delle ballerine della
città bassa che si spogliano al suono dei cembali di un drappo alla volta, e
anche se lasciano a terra strati su strati di cortine, quando escono di scena
sono ancora vestite, ammantate della stessa dignità delle regine.
E quando era stata
pronta, lui l’aveva aiutata a camminare, aveva aperto porte, sorretto gli
strascichi, accompagnato la sua gioia, e infine l’aveva lasciata scendere sola
giù per la gradinata, dentro la luce del giorno del suo matrimonio.
E poi erano stati
altri veli, ma neri, questa volta. Di nuovo aveva visto i suoi occhi sfumare
dietro elusive trasparenze, sottrarsi al suo sguardo, ma allora non c’erano più
stati ori e sorrisi e candori da cercare. Aveva bussato alla sua porta, l’aveva
vista coprirsi da sola il viso con il velo, l’aveva scortata fino alla cappella.
E come pochi giorni prima si era tenuto a rispettosa distanza dalla sua gioia,
adesso lo aveva fatto per la sofferenza. Sempre un passo dietro a lei, in
silenzio, pronto a darle né più né meno di ciò che le poteva servire. Il sorriso
quel giorno, ora uno sguardo che rispecchiasse il suo stesso dolore.
Ora la sua principessa
cammina nella polvere, vestita come una popolana, gonna corta e armatura.
E’ottone, quello degli schinieri, scurito e sporco per di più, e il bianco si
affaccia sempre meno dalle sue labbra. Eppure è con l’antico rispetto che la
mattina lui bussa alla sua porta negli ostelli dove si fermano a dormire, o
scosta i drappi delle tende dei loro accampamenti. In questo, per lui non è
cambiato niente. Non ha più strascichi da portarle, scalinate da aiutarla a
scendere; ma stringere il laccio di uno stivale può essere lo stesso. Ancora,
quegli occhi sono rivolti altrove –una fibbia o una polsiera reclamano la sua
attenzione- e anche se non sono più adornati di trucco e di gioia, lui si
ritrova tante volte a rimirarli in silenzio, in ginocchio ai suoi piedi,
esattamente come quel giorno.
E adesso, quello di
cui lei può aver bisogno è una mano a cui appoggiarsi nel superare una roccia,
uno scudo che la difenda, uno sguardo fermo o una parola. E lui li ha tutti,
tutti in serbo per lei, da offrirle al momento opportuno. E’ di guardia ad ogni
moto dei suoi occhi, alle porte di ogni suo passo.
Forse quelli che li
accompagnano si chiedono come faccia lui ad essere sempre così, instancabile e
sicuro, il perfetto cavaliere della sua principessa anche in mezzo al fango.
Chissà se pensano che non può reggere all’infinito, o che sta fingendo, o cosa
immaginano che nasconda dietro i suoi gesti, dentro i suoi silenzi.
Se se lo chiedono,
sbagliano. Perché lui è sincero. Ha una certezza che gli tiene alto lo sguardo,
diritte le spalle, che scioglie ogni stanchezza: la convinzione che, un giorno,
vedrà di nuovo la sua protetta raggiante nella gloria degli ori e dei veli che
le spettano, risplendere insieme al loro Paese. Per lui, è già la regina del suo
popolo. E’ sicuro che verrà quel giorno, e spera di esserci, per vederla cingere
finalmente la corona, per chiamarla bussando alla sua porta la mattina per poi
scortarla dentro un altro giorno di sole.
Nascondere? No, non
nasconde niente.
Quello che non mostra,
non ha scelto lui di tacerlo. E’ solo che sotto il metallo di una corazza non si
sente battere il cuore.
Ed è giusto che sia
così, per un cavaliere. Ed è felice di portare quell’armatura che metterà sempre
la sua signora al riparo non solo dai colpi dei nemici, ma anche dalla sua
inevitabile fragilità di uomo.
E’ un bene che lei non
saprà mai della minuscola pugnalata di tormento che gli si è piantata nel petto
orribilmente identica in tutti quei giorni, quello del matrimonio e del
funerale, quando le allaccia uno stivale e quando si sveglia dopo averla
sognata.
Perché se ha vissuto
troppo per non sapere che non può evitarlo, tenere quel sentimento dov’è fa
parte dei suoi precisi doveri.
Non si sente un
martire, per questo, non sente di stare facendo nessun sacrificio.
Semplicemente, con l’onore di cavaliere che porta sempre addosso, sebbene non
abbia più sulle spalle corazza sbalzata e mantello, corregge ogni giorno il
difetto di amarla.
Esiste anche lui, ma
certo, esistono anche i suoi desideri. Ed è per se stesso infatti che ripone
ogni momento di questo viaggio nella sua memoria, perché sa che qualcosa di
simile non si ripeterà più. Ed ha intenzione di conservare ognuno di questi
istanti, dove Lady Ashe sta per forza di cose sciogliendo uno ad uno quei veli
delle vesti da sovrana, costretta ad assottigliare schermi, distanze,
spogliandosi come le danzatrici fino a lasciargli intravedere non il suo corpo,
ma le sue paure, la sua fermezza, i suoi cambiamenti. E con la reverenza di un
amante che attende la sposa da un tempo infinito, se lei sceglierà un giorno di
far cadere tutti i drappi lui sarà lì, a prendere tra le braccia la sua anima.
Aspetta il giorno in cui lei, se lo vorrà, troverà la forza, accetterà la
debolezza di guardarlo davvero negli occhi.
E forse anche lui
allora avrà il coraggio di sbagliare, e per una volta condurre la mano di lei
sotto la sua corazza.
Sa già che se, se
questo accadrà, sarà soltanto per un istante, e quello successivo sarà lui, di
nuovo, ad aiutarla a rivestirsi di tutti i suoi drappeggi e gioielli e doveri.
Sorreggerà con sicurezza le code di un abito regale che la renderà per sempre
infinitamente lontana da lui, l’aiuterà a scendere e salire scale che lui non
potrà più valicare, sarà al suo fianco anche se attraverserà il palazzo
rivestita dei veli di nuove nozze. Perché così deve essere, e sa che ci vuole
più coraggio a rispettare quelle distanze che non a spezzarle, a lasciarla
andare che non ad attirarla a sé.
Oh, certo, sa anche
che non per questo, dietro le sue palpebre chiuse, lei smetterà di sorridergli e
di guardarlo negli occhi e di essere sua. Ma i sogni servono anche a quello.
Quando chiude gli occhi, non ha colpa di pensarla: può respirare nella grazia di
vederla, bellissima, senza la responsabilità d’averla guardata.
Finalmente disvelata,
spogliata di tutti i doveri e lontananze e sofferenze, lei brucia come una
fiamma dolcissima al centro di ogni sua notte.
Ma per quanto sia
perfetta la visione, lui preferirà sempre la sua signora alla luce del giorno,
diritta e fiera come una lama, i suoi occhi sfuggenti e duri che non guardano
lui. La realizzazione, l’essenza più piena di se stesso la trova ai suoi piedi:
un ginocchio nella polvere, devoto senza mai piegare la schiena, quando le può
tendere la mano si sente migliore di quanto non sia mai stato.
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