TVD è
finito l'altro giorno e, anche se sono quasi due anni che io e questa
serie ci siamo dette addio, c'è stato un tempo in cui questa storia
significava molto per me e, forse, anche per chi la seguiva e leggeva.
E' per questo che mi è sembrato il momento giusto per riaprire infine
la bozza dell'epilogo già tratteggiato tanto tempo fa e metter anche
io, in tutto e per tutto, la parola fine. E’ un epilogo molto più
frammentario, con molte meno scene e approfondimento, di ciò che
sarebbe stato solo avessi avuto il tempo e la voglia di svilupparlo per
bene, ma il senso è fedele all’idea originale, e credo che alla fine
conti quello.
Anche se per me TVD è finito in delusione (e non l'altro ieri, ma
parecchio tempo prima), è stato bello finché è durato, venire qui a
immaginare queste versioni alternative dei personaggi dello schermo con
chi condivideva la stessa passione - mi siete mancate, ragazze, e mi
dispiace infinitamente non essere stata più in grado, negli ultimi
tempi di questa storia, di rispondere a tutte le belle parole che per
il suo ultimo capitolo mi avete lasciato. Non rimpiango una sola parola
sudata e versata per questi due. Anche perché, scrivere in questo
spazio ha riacceso una passione per la scrittura che era rimasta
dormiente per anni, tanto da avere anche adesso una storia originale in
lavorazione che adoro da impazzire e che non vedo l'ora possa presto
vedere la luce in un modo o nell'altro, e senza questo passaggio
intermedio, senza i vostri incoraggiamenti che andavano al di là del
semplice apprezzamento per la fanfiction, non se avrei mai avuto il
coraggio di imbarcarmi nell'impresa. Quindi grazie, ancora una volta,
alle lettrici, alle autrici, a efp, a Damon e Elena, a Stubborn Love, a
tutto quanto.
E mi sembra giusto, nonostante tutto, poter dire addio a Damon e Elena
a modo mio in questo piccolo spazio felice. Ma basta ciance, ecco
l'epilogo. Vi avviso che contiene alte dosi di fluff. Consumate a
vostro rischio e pericolo.
ever
Epilogo.
The
long way home
- So let's go out past the party lights
We can finally be alone
Come with me,
and we can take the long way home
Come with me,
together
we can take the long way home-
( The long way
home - Norah Jones)
Damon ha rotto con me la
sera del matrimonio di Caroline e Stefan. Dopo la partenza degli sposi
per il loro viaggio di nozze in giro per l'Europa, dopo che anche
l’ultimo invitato se ne era andato ed eravamo rimasti solo noi due,
insieme agli addetti del catering che avevano iniziato a ripulire, la
sua giacca e i miei tacchi abbandonati per terra, seduti al bordo del
patio sotto alle lucine bianche che ancora luccicavano nel buio.
Era stata una cerimonia
incantevole. In tutto e per tutto contraria a ciò che Caroline aveva
sempre fantasticato sarebbe stata, e assolutamente incantevole.
Non era una fresca
giornata di primavera, ma una calda sera di fine agosto, appena dopo il
tramonto, unico momento in cui la calura si era fatta più sopportabile.
Non c'erano un centinaio di persone a vederla in uno splendido vestito
di alta sartoria, ma appena un paio di dozzine di familiari e amici più
stretti, e un semplice vestito da sera color crema perché non c'era
stato tempo di adattargliene uno bianco addosso. Nella fretta dei
preparativi, i fiori erano stati mandati gialli invece che rosa, e
sulla torta la pasticceria aveva scritto Caroline & Steven, ma
Caroline aveva scrollato via ogni contrattempo con un distante sorriso
trasognato.
E io, dopotutto, avevo
avuto la mia camminata verso l'altare, con fiori freschi tra le mani e
l'uomo che amavo alla fine di essa. Con tanto di occhiata ammiccante da
parte mia, e un mezzo sorriso complice da parte sua, prima che io da
brava damigella d'onore prendessi il mio posto alla sinistra, mentre
lui da bravo testimone restava lì sulla destra.
C'era stato solo un breve,
seppure intenso, momento di panico, quando, dopo che Stefan le aveva
messo la fede al dito, Caroline si era immobilizzata di colpo, lo
sguardo allargato, restando muta per alcuni interminabili secondi
riempiti dai mormorii degli invitati.
Finché Stefan non le aveva
stretto appena di più la mano, sussurrandole un preoccupato, "Care?"
"Ho dimenticato i miei
voti," aveva balbettato lei. "Avevo scritto tutte queste cose, fatto
tutte queste ricerche, per trovare le parole più giuste … E adesso non
le ricordo più."
Sembrava sul punto di
piangere. Stefan l'aveva tirata più vicina.
"Va bene," aveva detto
rassicurante. "Va bene, Care."
"No," aveva replicato lei,
scuotendo forte la testa. “No, ci ho messo tutta la notte, per pensare
al modo migliore di dirti quanto ti amo, quanto rendi ogni mia giornata
migliore … e me una persona migliore … e invece … così … non sono
capace…”
Stefan l'aveva tirata a sé
e l’aveva baciata, sopra a tutti quei farfugliamenti, e lei aveva
reciprocato con altrettanto slancio, lasciando un confuso ministro a
domandarsi cosa fare davanti a quel “Puoi baciare la sposa"
completamente fuori tempo, soprattutto quando dopo cinque buoni minuti
ancora non si erano staccati, né sembravano avere alcuna intenzione di
farlo.
Damon aveva dovuto
battergli un colpetto sulla spalla.
"Stef. Il tipo qua deve
prima finire."
La prima canzone era stato
un medley tra Bon Jovi e Cindy Lauper.
Bonnie aveva presentato
Sage a sua nonna.
Alaric aveva spaventato un
giovane cameriere insistendo che venisse perquisito prima di entrare,
perché aveva una “faccia sospetta”.
Charlotte aveva stretto le
braccia al collo di Damon. "Stefan mi ha detto,” gli aveva sussurrato.
“Sono così, così felice per te."
"Di cosa parla?" gli avevo
chiesto quando, terminata quell'interruzione, avevamo ripreso a
dondolare piano sopra la musica, le mia mani sulla sua nuca, le sue
dita sui miei fianchi. Aveva posato il volto contro il mio, un bacio
morbido sulla mia guancia. "Te lo dico dopo."
Lo aveva fatto a festa
finita, quando tutti se ne erano andati.
Ero rimasta appoggiata
contro il parapetto in legno del patio, mentre Damon mi raccontava di
essere andato a cercare Katherine subito dopo aver lasciato casa mia,
un paio di sere prima, trovandola appena prima che salisse su un bus
notturno. Le aveva offerto cinquecentomila dollari come accordo di
divorzio, ovvero tutto che era rimasto della sua eredità dopo aver
liquidato casa e azioni della compagnia per lasciarle a Stefan, se lei
avesse portato a termine la gravidanza e lasciato il bambino con lui,
senza nessun obbligo di restare a fargli da madre. Katherine gli aveva
dato del pazzo. Quindi aveva cautamente provato a contrattare. Poi
aveva detto che ci avrebbe pensato, e preso lo stesso su quel bus.
Infine, lo aveva chiamato la sera prima, dicendogli che allora avrebbe
dovuto sborsare anche per ogni capriccio ormonale e voglia strana che
avrebbe avuto negli otto mesi successivi.
"E' meraviglioso, Damon!"
esclamai felice, prendendogli la mano. "E pensi davvero che Katherine
non vorrà mai averci niente a che fare?"
"Non lo so," disse,
giocherellando con le mie dita. "Per adesso, sì. Ci ha particolarmente
tenuto a metterlo in chiaro. Forse un giorno lo vorrà conoscere, forse
no. Non so neanche bene cosa gli dirò quando chiederà di sua madre. Ma
è qualcosa di cui mi preoccuperò quando accadrà, se mai accadrà.”
"Gli?" domandai, alzando un
sopracciglio. "Potrebbe essere una bambina, sai."
"Cosa vuol dire, una bambina?" ribatté accigliato,
neanche avessi suggerito una strana specie aliena. "No, è un maschio.
Insomma, andiamo," si indicò con un ghigno compiaciuto sulle labbra.
"Ovvio che è un maschio. E' un Salvatore."
Scoppiai a ridere, per il
modo in cui quel suo sorriso mi aveva riempito il cuore. Strinsi più
forte le dita tra le sue.
"Sarai un padre
fantastico."
"Non ne sono poi così
sicuro. Sono terrorizzato, a dire la verità. Ma … Immagino che ci
dovremo accontentare." Sorrise più tristemente, portando lo sguardo
sulle nostre mani. "Non è il migliore dei tempismi, vero?"
"Quando mai lo è?"
Ma poi avevo visto il suo
sguardo, e solo con quello avevo capito cosa stava per dire. Lo
anticipai prima che potesse andare fino in fondo.
"Damon, no. Non ci pensare
neanche. Lo faremo funzionare. Io non vado da nessuna parte."
"Invece sì. Lo farai."
Ed era stato
completamente, insopportabilmente, testardamente irremovibile su
quello. Ci avevo provato in tutti i modi, a fargli cambiare idea, a
impedirgli di lasciarmi. Ero stata rassicurante. Ero stata
supplichevole. Mi ero infuriata.
Aveva lasciato che mi
sfogassi con ogni epiteto e ogni preghiera, fino a che non avevo
esaurito fiato, proteste, lacrime, e opzioni. E poi aveva detto solo:
"Elena. Ti ho aspettato per anni. Cosa credi che siano, appena qualcuno
in più?"
Nonostante tutto, ero
stata così furiosa con lui che, per almeno qualche mese, il suo piano
aveva davvero funzionato. Dopo quella sera, non lo avevo più chiamato,
non lo avevo più cercato. Certo non mi sarei trasferita fino in
California per qualcuno che non voleva stare con me, mi ripetevo tra
una fitta e l'altra del mio cuore e del mio orgoglio feriti.
Così, d’improvviso, senza
più Damon accanto ad offrirmi la direzione e la scelta più ovvia, mi
ero resa conto, non senza un certo disappunto, che a dispetto di tutte
le opzioni che mi si stavano aprendo davanti, non ero ancora in grado
di decidere dove volessi andare, cosa volessi fare, o chi volessi
essere.
Ma se non altro ero
determinata a scoprirlo.
Avevo preso i miei
risparmi, insieme a ciò che avevo messo da parte per il matrimonio con
Elijah, ed ero partita. Per un po’ avevo chiesto accoglienza a Finn,
l’amico di Sage a New Orleans che già aveva ospitato la mia pazza fuga
di qualche mese prima, offrendomi di aiutare nel suo locale in cambio
di una stanza dove dormire. Avevo poi passato l’inverno successivo a
Parigi, tra un minuscolo appartamento condiviso in subaffitto e classi
serali che avevano cercando di insegnarmi nozioni di francese e di
pasticceria - con qualche successo per la prima impresa, e molti meno
per la seconda. Avevo preso treni, visitato città, e incontrato persone
che non avrei mai più rivisto.
Era stata una sensazione
così strana all’inizio, paurosa e stimolante al tempo stesso, come può
esserlo solo la prospettiva di illimitate possibilità ancora aperte in
attesa là fuori indipendenti da chiunque, compreso un uomo frustrante e
meraviglioso che pure mi amava con tutto se stesso. E, pur senza
smettere mai di pensarlo, in un contraddittorio alternarsi di
sentimenti che oscillavano dal desiderio, alla tristezza, alla rabbia,
e alla mancanza di lui che avvertivo in ogni fibra del mio essere, dopo
un po’ avevo iniziato a vedere ciò che aveva fatto.
Damon si era tolto
dall’equazione e mi aveva lasciato andare per la mia strada fino a che
non avessi saputo quando e dove fermarmi, proprio come avevo fatto io
con lui tanti anni prima quando le parti erano state invertite, solo
con un po’ meno drammi.
La prima volta che lo
avevo visto di nuovo era stato quando era nato Thomas.
Ero tornata negli Stati
Uniti da qualche settimana, dopo aver ricevuto risposta positiva da uno
dei college per cui avevo fatto domanda. Ero a Berkeley per una visita
a Jeremy che aveva finito per protrarsi più a lungo del previsto
quando, un po' per caso, un po' perché avevo ancora qualche mese libero
da impegnare prima dell'inizio dei corsi, avevo iniziato a prestare
volontariato presso un centro che organizzava programmi educativi e di
recupero per persone provenienti da situazioni disagiate.
Il pensiero che avrei
potuto rivedere Damon solo attraversando la baia era un sottofondo
costante, tremendamente vicino ma fragile, pieno di tutte le incertezze
che accompagnavano la consapevolezza di non sapere, non fino in fondo,
cosa avrei potuto trovare ad aspettarmi dall'altra parte, se uno
spiraglio di possibilità o un altro cuore spezzato come quello con cui
mi aveva lasciato mesi prima.
Solo la telefonata di
Caroline in un soleggiato pomeriggio di aprile, con la quale mi
informava tutta agitata che lei e Stefan stavano per prendere il primo
volo per San Francisco per non perdersi l'imminente nascita di loro
nipote, era riuscita a farmi compiere quel passo e attraversare quella
sottile, incolmabile, striscia d’acqua che ancora ci separava.
Ero arrivata in ospedale
verso sera. Senza avere bene idea di dove andare, avevo vagato nel
reparto maternità fino a che un infermiere non mi aveva indirizzato
nella giusta direzione e verso la giusta stanza.
Damon non mi aveva visto,
ma io avevo visto lui. Lo avevo intravisto attraverso la porta lasciata
socchiusa, proprio mentre l’infermiera se ne andava e lui restava lì,
un po' impacciato all’inizio, ma con lo sguardo trasognato carico di
nervosismo e felicità e stupore incapace di staccarsi dal neonato
addormentato tra le sue braccia.
Lo vidi sporgersi appena
in avanti per avvicinarsi al suo viso e mormorare con un sospiro
rassegnato, “Mi dispiace davvero molto, dover essere io a dirtelo,
piccolo. Perché a quanto pare sei incastrato con me, il che vuol dire
che sei abbastanza fregato in partenza. Ma prometto di fare del mio
meglio, ok?”
Con la gola più stretta,
stavo per indietreggiare e andarmene, ma poi Damon rialzò la testa, i
suoi occhi di colpo più larghi nel momento in cui mi avevano toccato, e
poi accigliati in una confusione stupita l’attimo dopo.
“Ciao,” bisbigliai, la
voce roca, incapace di dire di più.
“Ciao,” sorrise.
A quel punto, il mio cuore
era già un disastro tamburellante, sveglio e scombinato tutto d’un
tratto.
Avevo fatto un passo in
avanti, incerta, quasi a voler vedere se la terra sotto ai piedi mi
avrebbe tenuto. Poi un altro, e un altro, ed ero corsa da lui, gettando
le braccia intorno a entrambi e seppellendogli la faccia nel collo,
inalando l’odore di caffè, neonato, ospedale, una sigaretta recente, e,
sotto e sopra a tutto ciò, l’odore di lui, lo stesso che mi agitava le
farfalle nel petto fin da quando non eravamo che ragazzi.
“Dove sei stata?” mi
sussurrò nell’orecchio, sfiorandomi appena la pelle con le labbra.
Sussurrai di rimando.
“Qui.”
***
Nevica a Mystic Falls,
così come su tutta la costa orientale, e tutti i voli sono in ritardo,
compreso quello di Damon.
Mi attardo a villa
Salvatore ad aiutare Caroline con gli ultimi regali di Natale, mentre
Stefan aspetta che suo fratello e suo nipote atterrino all’aeroporto.
“Così, ho chiamato
un’altra volta il giornalista,” la mia amica sta finendo di raccontare,
mentre posa un adorabile fiocchetto sopra un piccolo maglione con renne
danzanti che ha preso per Thomas. Ne ha preso uno identico anche per
Damon, e sono piuttosto impaziente di vedere la sua faccia quando
Caroline lo costringerà a indossarlo per le foto. “E gli ho detto, non
me ne frega un cavolo, se si tratta di ciò che ha realizzato con la sua
compagnia e non della sua vita privata, non è un dettaglio di poco
conto! E’ sposato, con me.
Scrivi questo nel tuo stupido giornale.”
Trattengo a stento una
risata. Un paio di settimane fa, Stefan è comparso nella lista di
Forbes degli under 30 più di successo, un riconoscimento che ha
accettato modesto con un sacco di punzecchiamenti da parte di suo
fratello e qualche brontolio da parte di sua moglie, che da quel
momento non aveva più smesso di chiamare l’editore responsabile per
lamentarsi del fatto che l'articolo non specificasse abbastanza
chiaramente che Stefan non fosse uno scapolo disponibile sul mercato.
“Beh, oggi ha pubblicato
la rettifica,” sorride con soddisfazione, mentre finisce di mettere via
il regalo insieme alle altre dozzine che suo nipote di venti mesi sta
per ricevere. “E, per scusarsi, ha fatto un generosa donazione al WHC.”
Il Women Health Center è
la fondazione che Caroline ha fatto partire lo scorso anno per offrire
assistenza sanitaria e supporto a donne che non hanno i mezzi per
permetterselo. E’ la sua missione, la sua creatura, come anche lei la
chiama, e si sta facendo abbastanza conoscere nella zona. Non molto
tempo fa, la mia amica è stata approcciata da un comitato elettorale
che le ha chiesto se avesse mai considerato di entrare in politica.
Beh, lo sta considerando adesso.
“Un’altra vittoria per
Caroline Salvatore,” la prendo in giro.
Lei mette su un finto
broncio, ma in realtà sta gongolando.
“Devo andare,” dico mentre
finisco di avvolgermi in sciarpa e cappotto, preparandomi ad affrontare
il freddo che c’è fuori. “Papà e Jeremy mi aspettano per cena. Quando
arrivano, dai un bacio ai ragazzi da parte mia.”
“Glielo hai detto?” mi
chiede, quando sono già sulla porta.
Esito, mentre finisco di
mettermi i guanti. Scuoto la testa.
“Non ancora.”
Piega la testa di lato,
appoggiandosi con una spalla contro lo stipite della porta del salotto.
Dietro di lei, l’albero di natale luccica in tutti i suoi caldi colori,
riflettendosi contro il vetro buio delle finestre.
“Perché no?”
Sospiro.
“Perché so cosa dirà, e
non voglio avere di nuovo quella discussione, non adesso. Ma lo farò.
Prima della fine delle feste.”
“Non lo capisco,” scuote
la testa lei. “State insieme? Non state insieme? Sono quasi due anni!
Per la mia sanità mentale, vi volete decidere?”
In risposta, sorrido e
basta, calco il cappello in testa, ed esco verso la neve.
***
Non si tratta tanto di
mancanza di volontà, tra me e Damon. La maggior parte della volte, è
più una questione di tempo, geografia, e di due vite parallele che
finiscono per non incrociarsi quasi mai.
Le cose erano state così
frenetiche, nuove e meravigliose, in quei primi giorni quando aveva
portato Thomas a casa. Caroline e Stefan erano rimasti per un po’ ad
aiutare e, senza averne del tutto intenzione - o forse dopotutto un po'
sì - ero rimasta anch’io. Del resto, mi ci era voluto poco meno di un
secondo, precisamente quello in cui lo avevo per la prima volta tenuto
tra le braccia, per innamorarmi del piccolo Thomas almeno quanto già lo
ero del padre.
Ma sapevamo entrambi che,
prima o poi, cosa farne di noi due era un discorso che avremmo dovuto
affrontare di nuovo.
Era successo a notte
tarda, nell’appartamento di Damon. Thomas si era da poco addormentato,
e io stavo finendo di lavare alcune ciotole e stoviglie rimaste nel
lavandino. Avevo sentito Damon avvicinarsi in silenzio alle mie spalle,
lo avevo sentito restare a guardarmi senza dire niente per un lungo
istante.
Chiusi il rubinetto, le
mani ancora gocciolanti.
“Adesso chiamo un taxi e …”
Fu in quel momento che le
sue labbra mi sfiorarono il collo. Non con incertezza, non come una
titubante richiesta, ma come un dato di fatto, premuto sulla pelle a
riassumere tutto quello che, nelle ultime due settimane, non ci eravamo
ancora detti a parole.
Mi si bloccò il respiro,
ma in un solo istante mi ero già abbandonata all'indietro, contro il
suo petto e contro il suo bacio, incurvando appena il collo per
offrirgli un accesso migliore che non esitò ad accettare.
“Resta,” disse piano,
mentre la sua mano si posava sul mio fianco, la voce roca di bisogno.
“Anche solo stanotte.”
Mi sfuggì un gemito quando
avvertii la pressione dura contro le gambe, la pelle a fuoco dove le
sue labbra mi stavano tracciando la spalla, e dove le sue dita si erano
intrufolate sotto alla maglietta per accarezzarmi il fianco.
Fu così difficile,
costringermi a dirglielo.
“Pittsburgh,” sussurrai,
mentre le sue dita risalivano leggere sopra il mio addome fino ad
andare a sfiorarmi la parte inferiore del seno, e non aiutarlo a
liberarmi di quei vestiti io stessa iniziava a costarmi uno sforzo
enorme.
“Mai stato,” mormorò.
“Cosa c’è là?”
“Il college dove mi hanno
accettato.”
“E’ grandioso.”
“Inizio in autunno.”
Sentii la sua pausa, il
momento in cui staccò appena le labbra da me. Mi voltai. Quando
incontrai il suo sguardo, non ebbi bisogno di dire altro.
“Elena,” disse con fare
serio, solenne. “Hai idea da quanto stessi morendo dalla voglia di fare
questo? Autunno è tra mesi.
Pensi che io sia in grado di pensare così a lungo termine, ora in
questo momento, ora che sei qui? Perché, con tutta la buona volontà,
non ce la faccio. Tu ce la fai?”
“No,” ammisi, prima di
infilare le mani ancora bagnate tra i suoi capelli e tirarlo a me per
far scontrare la sua bocca con la mia.
Ma mesi, in realtà, non è affatto un
termine poi tanto lungo, quanto piuttosto lo spazio di un respiro,
finito prima di avere a malapena il tempo di inspirarlo.
Qualche sera prima della
mia partenza per Pittsburgh, avevamo avuto di nuovo la stessa
discussione della sera del matrimonio di Stefan e Caroline. Era finita
con un po' più di speranza per l'immediato futuro rispetto alla prima
volta, ma la conclusione pratica non era stata poi molto diversa.
Nè era cambiata molto nei
mesi successivi. Thomas richiedeva tutto il suo tempo e le sue energie,
mentre il semestre e i corsi in Pennsylvania si prendevano i miei.
Eravamo finiti in un limbo nel quale non avevamo mai, o quasi, modo di
vederci. Quando ciò di rado accadeva - le vacanze di primavera, il
primo compleanno di Thomas, la fine della sessione di esami - nessuno
dei due era capace di pensare oltre il momento presente, proprio come
quella prima notte a casa sua.
Ogni volta che ci
separavamo, avevamo di nuovo la stessa conversazione. Ogni volta, io
gli promettevo: un giorno te lo farò capire.
"Capire cosa?"
Che
posso scegliere e avere entrambe le cose, Damon.
Me stessa, e te.
***
Mi sveglio nel mezzo del
notte e, allungando una mano verso Damon, trovo la sua parte di letto
vuota. Non è la prima volta che capita, così mi alzo, mi getto addosso
una felpa e, scalza, mi avventuro nella casa buia.
Il nuovo appartamento di
Damon è pieno di scatole a metà, mezze aperte e mezze piene, che
ingombrano ogni angoletto e via di passaggio dall'ingresso fino alle
camere. A quanto ne sa Damon, è per questo che sono qui a San
Francisco, per aiutarlo con il suo trasloco nel nuovo appartamento più
grande prima dell'inizio della nuova sessione di corsi di gennaio, non
per l'altro motivo che ancora non gli ho detto.
Mi faccio strada tra il
disordine, attenta a non calpestare qualche mattoncino Lego vagabondo,
sempre capace di sbucare fuori dal nulla quando meno te lo aspetti,
fino alla camera di Thomas.
Come sospettavo, è lì che
lo trovo, addormentato sulla poltrona, con una mano penzolante dentro
al lettino dove anche Thomas dorme afferrandolo per le dita. Da
sveglio, Thomas ha i più begli occhi azzurro chiaro che abbia mai visto
- più belli anche di quelli del padre, lo prendo sempre in giro. Sono
anche pronta a giurare che, ogni volta che mi sorride, lo faccia già
con un sorrisetto furbesco che mi è a dir poco familiare.
Mi rannicchio accanto a
Damon sulla poltrona, e lui si muove appena per aggiustare la sua
posizione così che anche io possa trovare spazio, facendo scivolare un
braccio attorno alla mia vita.
"Non volevo svegliarti,"
mormora in un bisbiglio assonnato.
"Lo so," bisbiglio di
rimando. "Va bene."
Gli metto una mano sul
petto, ci poso anche la guancia, riscaldata dal calore che emana.
Sopra una delle mensole,
tra foto e pupazzi, nella penombra si intravede una busta con il nome
di Damon scribacchiato sopra, che ancora contiene una lettera
stropicciata che non è mai stata letta. So che ha avuto la tentazione
di farlo, una volta o due. Ma non lo ha mai fatto e non penso che lo
farà mai. Damon dice che preferisce così, sempre lì a ricordargli di
non lasciare mai troppe cose non dette tra lui e suo figlio.
Io, invece, ancora non gli
ho parlato dell'altra lettera. Quella con cui, solo qualche settimana
fa, l'università della California ha accettato la mia richiesta di
trasferimento da Pittsburgh insieme alla dichiarazione del mio
indirizzo di studi in psicologia clinica, con cui voglio proseguire il
lavoro iniziato per volontariato da quasi due anni ormai.
Forse, quando lo farò,
ammettendo di essere qui tanto per il suo trasloco quanto per il mio,
torneremo di nuovo alla solita conversazione. E forse non sarà sempre
perfetto, e sarà sempre un po' complicato, ma va bene così.
Non c'è nessun altro modo
in cui lo vorrei.
Lo so io e, soprattutto,
lo sa benissimo anche lui.
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