XII. Olivander
XII
Ci aveva pensato
tutto il giorno e tutta la notte. E anche il giorno prima, e quello
prima ancora, da quando era entrato nell’anno dei suoi undici
anni. Ma finché la lettera non era arrivata, in famiglia nessuno
aveva fatto parola. Poi una mattina di aprile la lettera era arrivata,
a lui ultimo figlio di un’antichissima famiglia di maghi dal
sangue potente come al più anonimo dei Nati Babbani. Nessuno si
era sorpreso, ovviamente, e tutti avevano festeggiato, ma ancora
nessuna parola, e non sarebbe stato lui a rompere il silenzio. Solo suo
padre, alla fine della giornata, gli aveva finalmente parlato.
“Da domani iniziamo a
lavorare sul serio sulla tua bacchetta. Ho già fatto tante cose,
tanti progetti, e credo di essere vicino al risultato.”
Garrick Olivander aveva sorriso a suo padre, pieno di gioia.
Anche l’erede della più antica famiglia di artigiani di bacchette doveva avere la sua, e che fosse sua soltanto.
Ma nel corso dei giorni
successivi si era insinuata in lui un’inquietudine di cui non
sapeva spiegare la ragione. Piano piano avevano preso forma alcuni
pensieri ricorrenti: era davvero possibile che suo padre fabbricasse
per lui una bacchetta su misura, da zero? Suo nonno ripeteva spesso che
creare una bacchetta su misura per un mago che ti sta di fronte
è la cosa più difficile, mentre è molto più
semplice farlo per un mago che non vedi, che non conosci ancora, per un
mago in potenza, come diceva
sua nonna. Cosa che andava contro il senso comune, perché
dovrebbe essere più facile fare qualcosa per qualcuno che hai
davanti che per uno sconosciuto, no?
E poi: la sua bacchetta sarebbe
stata speciale solo perché era un Olivander? O alla fine avrebbe
pescato una bacchetta dalle molte sistemate nelle loro scatoline sugli
scaffali? Voleva che fosse speciale, ma si sentiva anche in colpa nel
pensarlo. Qualunque bacchetta è speciale, se tale è il
mago che la impugna, sentiva dire da che aveva memoria. Però da
quello che studiava già da quando aveva imparato a leggere e
scrivere per prepararsi al suo futuro di artigiano, c’erano legno
e legno, e se c’erano cento bacchette di quercia o di nocciolo e
solo un paio di tasso o di agrifoglio una ragione ci doveva essere.
E infine, la cosa più
importante: non c’era qualcosa di profondamente stonato,
dissonante, incongruente, nel fatto che suo padre o suo nonno,
artigiani di bacchette, fabbricasse una bacchetta per lui, suo figlio o
nipote, sangue del suo sangue? Non sarebbe stato più giusto che
la sua bacchetta provenisse da un’altra mano, una mano che non
avesse con lui un tale legame?
Ma tutte quelle riflessioni se le era tenute per sé, per tanti giorni, prima e dopo l’arrivo della lettera.
Intanto maggio era quasi finito
e suo padre non sembrava avere ancora ultimato la sua bacchetta. Stava
meno in negozio e lavorava a lungo nel laboratorio sul retro, senza
dire una parola. Suo nonno Gerbold lavorava nello stesso modo di
sempre, ogni tanto alzava gli occhi sul figlio e sorrideva. Lui intanto
spolverava il bancone e faceva pratica col metro incantato, che non
mancava di ribellarsi.
“A volte frusta ancora
me, figuriamoci se non frusta te adesso, che sei ancora così
giovane!” gli aveva detto suo padre una volta.
Sapeva che doveva ancora
studiare tantissimo prima di poter gestire quello strumento così
antico e carico di magia, eppure aveva sperato di riuscire a carpire
qualcosa dalle proprie misure, prese alla meglio con faticosi tentativi.
Un pomeriggio suo padre lo chiamò nel retrobottega e gli disse che aveva pronte delle bacchette per lui.
“Ecco qui, nocciolo e drago, undici pollici e un quarto.”
Garrick Olivander provò la bacchetta, ma non produsse nulla.
Suo padre si accigliò lievemente, ma gli porse un’altra bacchetta, di acero e unicorno.
Un altro fiasco.
La terza era di mogano e unicorno, e produsse uno scoppio simile a un lamento.
“C’è qualcosa che non torna” borbottò suo padre.
Suo nonno dava loro le spalle, chino a limare un pezzo di legno, ma Garrick ebbe la sensazione che stesse sorridendo.
Poi suo padre riprese il metro,
fece altre misure, parlottò tra sé e gli disse che
avrebbero riprovato il giorno dopo con alcune bacchette già
pronte.
Stava per aggiungere qualcos’altro, ma suonò il campanello, ad indicare che un cliente era entrato.
Erano un uomo con sua figlia e
Garrick spiò da dietro uno scaffale la ragazzina trovare senza
difficoltà la sua bacchetta, di olmo e unicorno.
“Sa, quest’anno
anche mio figlio va a Hogwarts! – iniziò suo padre –
Garrick, saluta una compagna di classe!” lo apostrofò
facendolo uscire dal suo nascondiglio.
Aveva preso l’odiosa
abitudine di presentarlo a tutti i nuovi maghi, convinto che dovesse
subito impegnarsi nel fare amicizie.
Salutò con un cenno e anche il padre della ragazzina incitò la figlia a fare lo stesso.
“Ethelred, hai visto, oggi hai già conosciuto anche un compagno di scuola!”
La ragazzina fece un cenno svogliato, così simile al suo.
Gli stava già antipatica, a pelle.
Quella sera faticò a
prendere sonno e si svegliò nel cuore della notte. Mosso da una
sensazione che non riusciva a spiegarsi, si alzò e
sgattaiolò al piano di sotto, facendo attenzione a non fare
rumore, diretto al retro del negozio.
Aprì piano la porta in legno pesante e restò pietrificato dalla sorpresa.
Suo nonno era al lavoro ad un piccolo tavolo, da cui qualcosa sprizzava scintille.
“Vedo che non sono il solo ad essere sveglio e in cerca di qualcosa” commentò il vecchio.
Garrick Olivander si avvicinò, titubante.
“Sì, nonno, ero irrequieto a letto. Pensavo alla mia bacchetta” disse d’un fiato.
“Lo immaginavo –
rispose Gerbold Olivander ridacchiando – Anche tuo padre è
sveglio nel letto, ma è troppo orgoglioso per scendere
giù.”
“Ho paura che papà non sia in grado di fare la bacchetta per me” cominciò il giovane Olivander.
“E perché pensi questo?”
“Non lo so, ma sento che
è così, che non va bene che sia lui a farmi la bacchetta.
Papà può creare la bacchetta per tutti i miei futuri
compagni di scuola, compresa quella musona che è entrata oggi,
ma non per me.”
“Anche a me non fece una
grande impressione tua nonna, il primo giorno di scuola”
osservò distrattamente Gerbold Olivander.
Il nipote si fermò un
attimo a chiedersi cosa c’entrasse quell’osservazione, ma
il legno grezzo sparso sul tavolo attirò la sua attenzione.
“Chissà se sarò mai in grado io, nonno” considerò, con voce atona.
“Oh sì che sarai
in grado, più di me e di tuo padre messi insieme. Non ne ho il
minimo dubbio” rispose l’anziano.
Il ragazzo sospirò, pensieroso.
“La sensibilità e
l’inquietudine sono un requisito fondamentale per questo
mestiere, e anche tuo padre non ne è ancora del tutto
consapevole. È perfettamente normale che il pensiero della tua
bacchetta ti crei un dibattimento interiore, perché tu stai per
diventare al contempo colui che crea e colui che distrugge: colui che
crea, perché imparerai e dominerai quest’arte che offre a
ogni mago il prolungamento della mano e della mente, l’oggetto
più intimo e importante per ciascuno di noi, e colui che
distrugge, perché la magia si consuma insieme alla vita che la
percorre e ogni bacchetta si spegne col suo mago, dopo una vita in cui
si è arricchita e approfondita, e solo gli sciocchi credono di
poter far ereditare ai propri figli la propria bacchetta, e se stessi
attraverso di essa. Tu, come tuo padre e come me prima di lui, sei il
demiurgo, come direbbe la nonna, sei il punto dove il cerchio si chiude
e dove il cerchio si riapre.”
“E la mia bacchetta quindi?”
“La tua bacchetta
è qui da qualche parte, fabbricata di sicuro molto tempo fa,
quando tu non eri nei pensieri nemmeno di tua madre,
probabilmente.”
“E la troveremo presto?”
“Stanotte stessa, se vuoi” rispose l’anziano artigiano, allusivo.
Gli occhi chiari di Garrick Olivander si spalancarono di entusiasmo.
“Papà ci rimarrà male…” iniziò, poco convinto.
“No, non credo, tuo padre sa come vanno certe cose, solo che a volte se ne dimentica.”
“Sì” disse soltanto il ragazzo.
“Bene, chiudi gli occhi
– disse il nonno svolgendo il metro – Per te sarà
più facile se non vedi.”
Garrick Olivander tenne gli
occhi chiusi per tutto il tempo che sentì il metro volteggiargli
intorno e anche oltre, quando il nonno tornò con alcune scatole.
“Faggio e fenice, dodici pollici” disse il nonno indicandogli la prima scatola.
“Cosa dovrei sentire?” chiese prima di prenderla, ad occhi aperti.
“Ognuno sente cose diverse. Dimmelo tu. Non è nemmeno detto che sia questa” rispose Gerbold Olivander.
Il giovane Olivander la prese in mano e, con sua sorpresa, non sentì niente.
“Non sento niente, come
oggi pomeriggio. Non è che, appunto, non funziona se io, siccome
so che tu, e papà, cioè, non possiamo…” ma
il nonno lo interruppe con lo sguardo.
Provò un’altra bacchetta, senza successo.
“Ancora, chiudi gli occhi e, per una volta, non pensare, ma abbi fiducia” disse Gerbold Olivander.
“Ma io ho fiducia in te!” ribatté il nipote.
“Fiducia in te stesso. Chiudi gli occhi.”
Garrick Olivander chiuse gli
occhi e provò via via qualche altra bacchetta che il nonno gli
porgeva, chiedendogli cosa sentiva.
Aveva perso il conto di quante ne aveva provate.
“Cosa senti?” chiese ancora una volta il vecchio artigiano.
“Sento il calore del
caminetto. Sento il profumo del legno. Sento l’estate, e il volo
ad ali spiegate del drago libero sui prati verdi e le brughiere. Sento
il sorriso di mamma e l’ironia della nonna. Sento il campanello
del negozio e i sussurri della notte.”
“Undici pollici e tre quarti, legno di carpino, corda di cuore di drago. Visto che l’abbiamo trovata?”
Garrick Olivander aprì gli occhi.
“È perfetta, nonno.”
***
NdA: FINE! Wands si chiude qui, con una bacchetta che doveva per forza essere l’ultima, quella di Olivander stesso.
Postilla: io sono una capra in
filosofia, ho vaghi ricordi del liceo che tengo ben stretti, ma non
sono un’addetta ai lavori e i riferimenti filosofici in questa
storia non sono da prendere troppo sul serio, ma come suggestioni di
una profondità che ci sfugge e che secondo me ben si addice al
personaggio e al suo compito.
Ecco, anche se è tutto
finito non è una scusa per non recensire, quindi commentate e
fatemi sapere cosa ne pensate!
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