Grosvenor 1
TUTTO IL GIN DI CALCUTTA
Capitolo 1
Quando il tenente Eldred
Grosvenor riprese i sensi e si trovò a torso nudo, supino su
una
lastra di pietra e incatenato per i quattro arti, capì che
non era
una buona giornata.
Si guardò intorno
ancora
stranito e per un po’ fu quasi convinto di essersi preso la
sbronza
peggiore della sua vita: era in una stanza semibuia, dal soffitto
così alto che si perdeva nell’oscurità.
Le pareti erano un
groviglio di altorilievi di persone e animali, la luce danzante delle
fiaccole creava l’illusione che le figure palpitassero di
vita.
Illuminata dal bagliore sanguigno di due bracieri, incombeva su di
lui la forma gigantesca di una donna con quattro braccia, una collana
di teschi e una cintura di membra recise. Il volto era atteggiato a
un’espressione di ira furente e dalla bocca zannuta la lingua
le
scendeva fino al mento. L’effigie era dipinta in colori
più o meno
realistici e aveva una chioma scomposta di capelli veri che le
scendeva fino alla vita.
L’aria afosa e
appesantita
dagli incensi vibrava del selvaggio frastuono di cembali e tamburi.
Voci roche modulavano un canto cercando di sovrastare gli strumenti.
Deglutì a vuoto e
nonostante il
caldo la pelle nuda del torace gli si increspò in un brivido
ghiacciato. Se le sue scarse conoscenze di induismo non lo tradivano,
quella virago
era la dea Kali.
Il che significava che era
prigioniero dei thug.
Ignorava in che modo e
perché
ciò si fosse verificato. E ignorava altresì
perché i thug, dei
quali aveva sempre sentito parlare come di un fenomeno estinto e
relegato nella leggenda, fossero invece vivi e vegeti.
L’unica cosa che
sapeva per
certo era che entro breve sarebbe arrivato qualcuno con la pretesa di
strangolarlo.
L’attesa in effetti
non fu
lunga: a un tratto la musica tacque e nel silenzio un passo misurato
si avvicinò. Un uomo si piegò su di lui.
Grosvenor lo fissò
e gli occhi
gli si dilatarono per la sorpresa. “Maharaja?”
mormorò
stupefatto. Nonostante non portasse più il prezioso
sherwani* e il
turbante ingioiellato con cui aveva accolto le truppe inglesi, il
nuovo arrivato era indubbiamente Suraj Singh di Barhdaman.
“Vi
prego, ditemi che questa è un’antica usanza di
ospitalità delle
vostre parti,” soggiunse scrutandolo incerto.
L’uomo gli rivolse
un freddo
sorriso. “Che questa sia un’usanza antica non ve lo
nego,”
rispose compito, “ma di certo non si tratta di
ospitalità. Voi
inglesi non siete precisamente quelli che definirei graditi
ospiti.”
“Sì,
ma...” L’ufficiale
pensò che prendere tempo non sarebbe stata una cattiva idea,
anche
solo per capire cosa stava succedendo. “Ma ci avete chiamati
voi
nel vostro palazzo, volevate degli istruttori per i vostri
soldati…
Ecco, non pareva proprio che la nostra presenza vi infastidisse. E
comunque bastava non chiamarci.”
“Non vi abbiamo certo chiamati
in India, giusto?” Gli occhi neri e pesantemente bistrati del
maharaja ebbero un brillio di fanatismo.
“Ammetto che forse ci siamo
presi qualche libertà eccessiva,” rispose
l’ufficiale in tono
conciliante.
“Già, forse un
tantino
eccessiva,” replicò l’uomo con glaciale
calma.
Nel frattempo si udiva il
tramestio di decine di piedi scalzi. Figure a torso nudo, col capo
coperto da un semplice turbante chiaro, stavano lentamente
circondando l’altare.
“Suppongo che liberarmi,
offrirmi da bere e rimandarmi a Calcutta sia fuori
questione?” si
informò con discrezione il tenente.
Il maharaja non si prese
neppure
la briga di rispondergli. Con gesti misurati cominciò a
srotolare la
sottile fascia di seta che teneva avvolta in cintura, poi la strinse
con entrambe le mani e la sollevò solennemente verso la
statua di
Kali. La tese con un gesto rapido, facendola schioccare.
“Aspettate!”
esclamò il
tenente. “Aspettate un attimo, dannazione!”
L’altro si
voltò infastidito
verso di lui. “Non avrete il cattivo gusto di mettervi a
implorare,
spero.”
“Sono rassegnato al mio
destino,” gli assicurò l’ufficiale in
tono grave. “Posso
almeno esprimere un ultimo desiderio?”
Suraj Singh sbuffò
seccato.
Grosvenor stabilì che si trattava di un segno di assenso.
“Venite
più vicino.”
“Cosa?”
“È
sconveniente.”
“Che cosa sarebbe
sconveniente?”
“L’ultimo desiderio.
Voglio
dirvelo in un orecchio.”
Suraj Singh fece schioccare di
nuovo la fascia di seta. Con una certa precipitazione,
l’ufficiale
disse: “Non avrete paura di un prigioniero con le mani e i
piedi
legati, voglio sperare. Che fine ha fatto il vostro leggendario
coraggio?”
Dopo qualche secondo di
esitazione, con gli occhi di tutti i suoi uomini puntati su di lui,
il maharaja si chinò avvicinando il viso a quello di
Grosvenor.
“Ebbene, il vostro ultimo desiderio?”
domandò seccato.
“Questo!”
esclamò l’inglese
buttando la testa in avanti con tutte le sue forze. Colpì in
pieno
il suo antagonista, che emise un grido inarticolato e
barcollò
all’indietro zampillando sangue dalla bocca.
Grosvenor scrollò
il capo e i
due incisivi che gli erano rimasti piantati nel sopracciglio caddero
a terra tintinnando. Il suo sangue si unì a quello del
maharaja
sull’altare.
Si abbandonò
all’indietro con
un sospiro appagato. “Creperò ugualmente, ma
almeno mi sono tolto
una soddisfazione.”
Alla vista di Suraj Singh
ferito,
l’ira dei thug esplose furibonda. Tutti si agitavano e
inveivano,
il tenente fu colpito più volte, uno lo prese addirittura
per i
capelli e gli sbatté la testa contro la pietra
così forte che per
qualche secondo l’ufficiale vide tutto nero, ma nessuno
pareva
intenzionato a mettergli un laccio al collo. Dopo averlo malmenato in
vari modi sciolsero le catene che lo tenevano avvinto e lo portarono
fuori dal tempio. Si scambiarono rapide frasi nella loro lingua, poi
in quattro lo sollevarono alla meglio e lo trascinarono via.
Semisvenuto e dolorante,
l’ufficiale non riusciva a opporre alcuna resistenza.
Arrivarono
all’aperto, la luce forte gli fece sbattere gli occhi.
Percepì il
calore bruciante del sole sulla pelle e un odore di decomposizione
talmente forte da dargli la nausea.
Lo lasciarono cadere a terra
bocconi, poi si scambiarono altre frasi. Sentì il rumore di
una lama
che veniva sfoderata.
Tentò di alzarsi,
ma qualcuno lo
bloccò premendogli un piede sulla schiena.
Poi dietro le sue spalle ci fu
un
grido soffocato, e un corpo gli crollò addosso. Dopo un
frenetico
tramestio, altri due corpi si abbatterono al suolo. Sentì
delle mani
afferrarlo e rivoltarlo sulla schiena, il gesto aveva una certa
connotazione di premura. “Come state, signore?”
chiese una voce.
Grosvenor cercò di
aprire gli
occhi, ma accecato dal sangue e dal sole che gli batteva in faccia,
vedeva solo una sagoma scura con un turbante. L’altro
sembrò
capirlo e si spostò in modo da proiettargli addosso la
propria
ombra.
Il tenente mise a fuoco
l’immagine: a prima vista era un giovane thug. Torso nudo,
turbante
chiaro, pelle olivastra, capelli neri lunghi fino alle spalle, un
accenno di barba e baffi. “Con chi ho
l’onore?...” mormorò
mentre tentava di sollevarsi sui gomiti.
Di nuovo l’altro
intervenne
aiutandolo a mettersi seduto. “Potete chiamarmi Chāyā**.
Come vi sentite?”
“Come una palla da rugby alla
fine della partita. Che cos’è successo? Chi siete?
Perché non mi
hanno fatto secco là dentro? Che cos’è
questo odore terribile?”
L’altro si
guardò rapidamente
intorno, poi disse: “Ora non c’è tempo
per le domande. Visto che
non hanno potuto sacrificare voi, quando avranno finito di purificare
l’altare andranno a prendere un altro prigioniero. Riuscite a
camminare?”
“Direi di
sì.”
“Bene, seguitemi.”
Con una certa fatica, il
tenente
Grosvenor si alzò in piedi. Per terra c’erano i
corpi di tre thug
sgozzati come capretti, il sangue fresco si stava rapidamente
coprendo di mosche. “Siete stato voi a fare
questo?” chiese
meravigliato.
“Non c’era altro da
fare,”
fu la sbrigativa risposta. “Ora muovetevi: dobbiamo salvare
gli
altri inglesi.”
“Dove sono?”
“Seguitemi!”
Per quanto ancora dolorante,
l’ufficiale cercò di tenere il passo svelto
dell’indiano. Si
trovavano in una stretta gola, tra templi dalla struttura poderosa,
composti di più livelli, con le facciate scolpite. Alcuni
erano
talmente massicci da dare l’impressione di essere stati
scavati
direttamente dal fianco della montagna, ma tutti sembravano
abbandonati da tempi immemorabili. Tra essi correvano degli stretti
corridoi che si intersecavano ortogonali. Chāyā
si muoveva con disinvoltura, dando l’impressione di conoscere
il
posto molto bene.
“C’è un
piccolo problema,”
disse il tenente cercando di non rimanere troppo indietro.
“E sarebbe?” chiese
il
misterioso giovane senza nemmeno voltarsi.
“Io sono più
disarmato di un
reverendo.”
“Non preoccupatevi: voi dovrete
solo distrarre il guardiano.”
Chissà
perché, Grosvenor se
l’era immaginato. Il guardiano, che stavano osservando da
dietro
una scultura, era alto un palmo più di lui e largo quanto
lui e
Chāyā messi insieme. Le sue mani davano l’impressione di
poter
stritolare la pietra dei templi come ricotta, un’enorme barba
nera
gli arrivava fino al petto e in cintura oltre al rumal***
aveva una frusta da bestiame. “Che
dite, provo a declamargli qualcosa di Byron?” propose il
tenente
sardonico.
“Dovete
solo distrarlo, al resto penserò io.”
“Non
vorrei che la sua distrazione consistesse nel fare a pezzi il
sottoscritto.”
“Non
abbiamo molto tempo,” gli ricordò Chāyā.
“D’accordo,
d’accordo.”
Il gigante sedeva davanti a un
piccolo tempio che a differenza degli altri aveva sbarre alle
finestre e una porta di legno chiusa da un elaborato lucchetto.
Grosvenor uscì da
dietro la
statua passeggiando come se fosse stato in Trafalgar Square.
“Buon
giorno,” disse affabile al guardiano, “mi chiedevo
se qualcuno
avesse mai visto da queste parti una scimmia a tre teste. Sapete,
sono un naturalista, e così...”
Non fece in tempo a finire la
frase: con imprevista velocità, l’uomo
saltò in piedi e sfilò il
rumal dalla cintura, quindi cominciò a farlo roteare
nell’aria. La
sfera di metallo che ne appesantiva l’estremità
mandava un sibilo
sinistro.
Grosvenor si voltò
per correre
via, ma non aveva fatto il primo passo che già il laccio gli
si
stava avvolgendo intorno al collo. Fece appena in tempo a mettere una
mano tra la gola e le spire di seta poi il peso lo colpì
alla tempia
facendolo cadere a terra.
Pur stordito dalla botta,
cercò
di rialzarsi e liberarsi del rumal, ma il guardiano gli si
buttò
addosso con tutta la sua mole, strappandogli un gemito soffocato.
Si rigirò sulla
schiena, sferrò
un pugno in piena faccia al gigante. Questi si limitò a
scrollare la
testa e a emettere un grugnito di disappunto, poi come se niente
fosse afferrò le due estremità del laccio e
cominciò a tirare come
per chiudere un sacco.
Più che agitarsi
come una trota
presa all’amo, Grosvenor non riusciva a fare: il suo
antagonista
aveva una forza spaventosa, inoltre incassava i pugni come il fianco
di un pachiderma. Per quanto lui cercasse di colpirlo con tutte le
sue forze, l’unica cosa che otteneva a parte farsi male alla
mano
era che l’altro rinsaldasse la stretta sul laccio.
La vista gli si fece nera.
“Signore!
Signore!”
Grosvenor si accorse che
qualcuno
lo stava scuotendo per le spalle. Riemerse faticosamente dal buio per
trovarsi faccia a faccia con Chāyā, che in ginocchio accanto a lui
cercava di farlo rinvenire.
Il tenente tossì,
si passò una
mano sulla gola dolorante. “Alla
buon’ora,” protestò, ancora
afono dopo la recente esperienza di strangolamento, “volevate
godervi lo spettacolo?”
“Alzatevi,
non c’è tempo!”
“Aspettate
un attimo, non so nemmeno se sono ancora vivo.”
“Dobbiamo
fare in fretta, tra un po’ arriveranno!”
“Sapete,
voi mi ricordate tanto il Bianconiglio,” brontolò
l’ufficiale,
puntellandosi su un gomito per rimettersi in piedi, ma Chāyā non lo
stava più ascoltando: era chino sul corpo del guardiano e lo
stava
palpando da tutte le parti. “Eppure ci deve
essere,” mormorò.
Poi alzò gli occhi sull’inglese e a voce
più alta aggiunse:
“Datemi una mano, presto!”
“A
fare che?”
“Dobbiamo
cercare la chiave, so che la porta sempre addosso.”
“Sapete
un sacco di cose, mi pare.”
“È
il mio mestiere. Ora aiutatemi, non abbiamo tempo.”
La chiave era in un posto che
in
qualità di gentiluomo Grosvenor trovò dei
più sconvenienti. Era
anche sudaticcia, e viscida per motivi che il tenente
preferì non
approfondire. “È questa?” chiese
reggendo con due dita
un’elaborata chiave di ottone appesa a una catenella.
“Date
qua,” disse per tutta risposta Chāyā. Fece scattare il
lucchetto,
spalancò la porta e con un gesto che a Grosvenor parve assai
strano
si fece rapidamente da parte.
Un istante dopo
uscì dalla cella
come un treno il sergente Jenkins, con l’uniforme che
sembrava
pronta per un’ispezione e uno sgabello brandito come una
specie di
clava. “Dove sei, sporco mangiacurry?”
inveì guardandosi
intorno. Poi vide il tenente, abbandonò
l’improvvisata arma e
salutò militarmente. “Felice di rivedervi vivo,
signore!” disse
in tono marziale.
“Anch’io
sono felice di rivedervi, sergente. C’è qualcun
altro dei nostri
con voi?”
Uscirono dalla cella anche
Thayes
e Barrett, due soldati del suo plotone. Il primo dovette chinarsi per
evitare di sbattere la fronte contro la porta e si mise un
po’ di
traverso per far passare le spalle. Il secondo, un diciottenne con
l’aria di uno che pensava di andare in seminario e invece si
era
ritrovato nei fucilieri, reggeva con deferenza la sua giacca.
“Grazie,
soldato,”
disse il tenente indossandola. “E ora andiamocene da
qui.”
Al seguito
dell’indiano, i
quattro corsero verso l’imboccatura della gola. Man mano che
procedevano, le pareti del canalone si abbassavano e si stringevano,
e da esse debordava una vegetazione lussureggiante. Di pari passo, il
tanfo di decomposizione che stagnava nell’aria andava
facendosi
sempre più intenso.
Barrett era già
bianco come un
cencio e c’era da scommettere che entro breve avrebbe
cominciato a
vomitare, ma persino il sergente Jenkins, sebbene impassibile, era
piuttosto grigio in faccia.
Alla fine della gola, la
giungla
li accolse come un muro: afa, frinire di migliaia di insetti, piante
di ogni genere che crescevano le une addosso alle altre, bestie in
agguato. Chāyā si infilò risolutamente nella macchia, in un
punto
dove a ben guardare si scorgeva qualche leggera traccia di passaggio.
“Presto!” raccomandò per
l’ennesima volta.
Corsero schivando rami e
saltando
tronchi caduti per un tempo imprecisato, poi la vegetazione parve
diradarsi. Tra le fronde dei ficus e dei banyan apparve un lembo di
cielo caliginoso, nel quale roteavano lente le sagome nere degli
avvoltoi.
Rallentarono.
L’odore era ormai
insopportabile. Prendeva alla gola, impregnava i vestiti. Ogni
respiro era una pena.
Quando la vegetazione si
esaurì
del tutto lasciando spazio a una radura, i quattro inglesi
impietrirono. Barrett si afflosciò direttamente a terra
privo di
sensi e Thayes dovette correre a vomitare. Grosvenor aprì la
bocca
per dire qualcosa, ma si accorse di essere senza parole.
Il sergente Jenkins fu il
primo a
riprendersi: “Per le braghe di Belzebù,”
imprecò, “io ne ho
viste di porcherie fatte dai selvaggi, ma questa le batte veramente
tutte!”
Quella che stavano con orrore
contemplando era una fossa comune. Dentro c’erano decine di
corpi,
tutti maschi, di pelle bianca e nudi. Ognuno di essi aveva il ventre
squarciato, dal quale fuoriuscivano i visceri.
Il caldo soffocante aveva
accelerato i processi di decomposizione e i corpi avevano i volti
enfiati e nerastri, nei quali era ormai impossibile riconoscere i
lineamenti. Tutti avevano il collo segnato da un profondo solco
orizzontale.
Gli avvoltoi saltellavano
sulla
distesa di cadaveri godendosi il macabro banchetto. Nugoli di mosche
ronzavano ovunque.
“Li
hanno strozzati tutti,” disse Jenkins, la voce che fremeva di
sdegno, “tutti quanti.” Alzò lo sguardo
verso Chāyā. “E
perché sbudellarli come bestie al macello? Questo non
è il modo di
trattare dei soldati.”
“È
l’usanza dei thug,” disse il giovane senza
guardarlo, “quando
derubano le carovane lo fanno per evitare che i gas della
putrefazione rivelino dove hanno sepolto i cadaveri.”
“Ma
perché non ricoprirli di terra, almeno?”
“Aspettavano
di buttare dentro anche voi.”
Nessuno si sentì di
replicare.
Thayes rianimò alla meglio il commilitone che giaceva ancora
a terra
svenuto, poi si lasciarono alle spalle la raccapricciante fossa per
ributtarsi nella giungla.
Continuarono a camminare nel
folto della vegetazione, seguendo un sentiero che solo Chāyā era in
grado di scorgere. Andarono avanti senza fermarsi fino al tardo
pomeriggio. Grosvenor era esausto. Era assetato, dolorante
dappertutto e tormentato dagli insetti che si accanivano intorno alla
ferita ancora aperta che aveva sul sopracciglio. Il sudore e il
sangue gli avevano inzuppato l’uniforme, rendendola ruvida
come
carta vetrata. Fossero stati solo lui e l’indiano, gli
avrebbe
semplicemente comunicato che stava per crollare dalla stanchezza, ma
sentiva su di sé lo sguardo di Jenkins e dei due soldati, e
ciò lo
convinse a non aprire bocca.
Col tono più neutro
che riuscì
a tirare fuori, si informò di quanto mancava.
“Non
molto,” rispose Chāyā
Il
tenente non replicò. Il non
molto
di quel tizio non lo convinceva per niente, tuttavia non aveva altra
scelta che farsi bastare quella scarna rassicurazione. Per distrarsi
cominciò a calcolare quanto gin e quanta acqua tonica
sarebbero
stati necessari per estinguere la sua sete una volta rientrato a
Calcutta.
Era ancora immerso nei suoi
conti
quando arrivarono ai margini di uno spiazzo lastricato. In
più punti
il pavimento era sconnesso perché le pietre erano state
sollevate
dalle radici degli alberi, ma era accuratamente pulito. Al centro di
quello spazio così tenacemente conteso alla natura sorgeva
un tempio
di mattoni. La costruzione era antica e mostrava i danni del tempo,
ma aveva una generale apparenza di ordine e decoro. I gradini che
conducevano all’ingresso recavano i segni di innumerevoli
offerte
di gulal**** rosa e viola, ai due lati della scalinata
c’erano
vecchi vasi di terracotta con piante fiorite.
Una donna con un saree
colorato
si stava apprestando a entrare nella costruzione.
Senza uscire dalla macchia,
Chāyā
imitò il verso di un uccello. La donna si voltò
nella sua
direzione. Sembrava che lo vedesse, perché i suoi occhi
erano
puntati con sicurezza verso di lui. Rispose con lo stesso suono.
“Andiamo,”
disse semplicemente l’indiano, muovendosi per raggiungerla.
Imitato
dagli altri, Grosvenor lo seguì.
Il tenente, che pensava di
essere
esausto, dovette ricredersi: non era mai stato così esausto
in tutta
la sua dannata esistenza. Appena la donna gli indicò un
posto dove
sedersi vi crollò sopra, e decise che non si sarebbe
più alzato di
lì nemmeno se a sloggiarlo si fosse presentata la dea Kali
in
persona.
Tentò di
ricostruire gli ultimi
avvenimenti, ma nessun pezzo sembrava combaciare con gli altri.
Tutto
era cominciato con una tigre del Bengala che aveva accidentalmente
dimenticato
nello studio del generale Harris dopo una serata di libagioni. Il
generale non l’aveva presa bene e Wilson, il suo colonnello,
aveva
pensato di aggregare lui e il suo plotone al contingente del maggiore
Shaw, in modo da sottrarlo per un po’ alla vista del
furibondo
superiore.
Il maggiore doveva compiere
una
missione che sembrava quasi una passeggiata, ovvero andare da un
maharaja e fornirgli istruttori inglesi per i suoi soldati, quindi
sarebbe stato un buon modo per tenersi alla larga da Calcutta per un
po’.
Suraj
Singh aveva accolto i militari nel migliore dei modi: bevande
fresche, acquartieramenti ombrosi e ventilati per la truppa, danze e
musiche in onore degli amici
britannici...
E poi si era ritrovato legato
su
un altare in attesa di farsi tirare il collo come una gallina.
A parte i tre che aveva
recuperato, e che probabilmente erano stati tenuti in vita per essere
a loro volta sacrificati, gli altri erano stati ammazzati dal primo
all’ultimo.
“Chāyā,”
mormorò, la voce debole per la stanchezza.
“Signore?”
“Avete
detto che sapere cose è il vostro mestiere. Non disdegnerei
qualche
spiegazione.”
L’altro emise un
sospiro, poi
disse: “Lasciate che Kaur si occupi delle vostre ferite. Dopo
parleremo.”
Nonostante non fosse la dea
Kali,
la donna riuscì a farlo alzare e lo condusse in una specie
di stanza
da bagno. Lo spogliò quanto la decenza consentiva, senza
né un gran
sfoggio di pudicizia né sfrontatezza, poi
cominciò a lavare le sue
varie ferite. “Vi fa male?” chiese picchiettandogli
un panno
umido sul sopracciglio.
“Un
po’,” rispose Grosvenor a denti stretti,
sobbalzando a ogni
tocco.
“Preferite
che lasci stare?”
Sì,
vi prego, mi state facendo un male orribile e voglio solo dormire.
“No, non preoccupatevi.”
Per cercare di distrarsi, il
tenente prese a osservare Kaur. Era una donna di
mezz’età, né
alta né bassa, né bella né brutta,
né magra né grassa, con un
abito né troppo vistoso né troppo dimesso. Il
genere di persona che
nessuno avrebbe guardato una seconda volta.
La prima cosa che gli venne in
mente fu che anche Chāyā era così. Un giovanotto talmente
anonimo
che nessuno l’avrebbe notato, a meno che non fosse stato lui
a
volersi far notare.
Pensò a madre e
figlio, ma i due
non si assomigliavano per niente.
E poi, guardando meglio la
donna,
si accorse che in realtà era molto più giovane e
piacente di quello
che voleva far vedere, e che il saree era drappeggiato in modo da
nascondere il più possibile le sue forme.
“Kaur,
chi siete?” le chiese.
“Nessuno,”
rispose la donna con un vago sorriso, continuando a medicarlo.
“C’era
un tale che diceva di chiamarsi così, ed era famoso per
essere
dannatamente furbo.” Il tenente alzò gli occhi su
di lei. “Mi sa
che voi siete come quel tale.”
L’altra si
schermì con fare
modesto. “Siamo dalla vostra parte comunque.”
“Siamo?
Quanti siete?”
“Chāyā
vi spiegherà tutto.”
Il misterioso giovane si
ripresentò dopo cena. Nel frattempo aveva dismesso i panni
da thug e
indossava una casacca chiara e un paio di pantaloni. In testa aveva
aveva un semplice foulard arrotolato alla maniera dell’Asia
Centrale.
Raccolse una lanterna e un
portasigarette poi disse: “Venite con me, tenente.”
Condusse l’ufficiale
nella sala
principale del tempio, e da quella su per una scaletta di pietra.
Arrivarono a una stanza piccola, arredata con un tappeto, cuscini sul
pavimento e un tavolino centrale. Le tende dell’unica
finestra
ondeggiavano spinte dalla brezza notturna.
Chāyā fece segno al tenente di
accomodarsi, quindi si sedette a sua volta e si accese una sigaretta
sulla fiammella della lanterna. Spinse poi il portasigarette verso
Grosvenor.
I due fumarono in silenzio per
un
po’, ascoltando i rumori della foresta di notte. Le ombre
danzavano
sulle pareti, l’aria era satura di profumi. Il tenente
pensò che
quel posto era come tutta l’India: affascinante, pericoloso e
con
poco alcol. “Ucciderei per un gin tonic,”
sospirò.
“Temo
che per un po’ dovrete farne a meno,” disse
l’altro, poi di
punto in bianco gli chiese: “Cosa sapete del Grande
Gioco?”
L’ufficiale si
appoggiò
all’indietro sui cuscini come chi si appresta ad ascoltare
qualcosa
di molto interessante e se lo vuole godere stando comodo. Il Grande
Gioco era roba forte. “Che è una guerra di spie
tra noi e l’Impero
Russo, principalmente. Che solo i soldati più capaci dei due
schieramenti vi prendono parte.”
“Sapete
il necessario. Conoscete i pandit?”
“So
che esistono, anche se non ne ho mai visto uno.”
“Perché
normalmente non ci facciamo vedere.”
Grosvenor stava per alzare le
sopracciglia in segno di stupore, poi ripensò alla
medicazione di
Kaur e decise di rimanere impassibile. “Questo significa che
voi
siete un pandit?” si limitò a chiedere.
“Esattamente.”
“Si
spiegano molte cose,” considerò il tenente,
pensando all’abilità
nel combattimento che l’anonimo giovanotto aveva dimostrato.
“E
Kaur?”
“Lei
non compie missioni, ma è comunque una nostra
agente.”
Chāyā finì la
sigaretta,
schiacciò il mozzicone sul pavimento e lo
appoggiò da una parte,
poi spazzolò via con la mano ogni traccia di cenere dalle
pietre. Si
accorse che l’ufficiale stava seguendo i suoi movimenti con
lo
sguardo e in tono quasi di scusa disse: “La prima cosa che ci
abituano a fare è non lasciare tracce.”
“Capisco.”
L’altro si morse il
labbro,
giocherellò un po’ con un lembo del foulard che
portava in testa e
finalmente si decise a dire: “Queste sono informazioni
riservate,
che normalmente non rivelerei a nessuno, ma qui si tratta di un caso
di emergenza, diciamo così. Io vi ho aiutati, ma ora voi
dovete
aiutare me, è una cosa della massima importanza.”
Grosvenor sorrise.
“Con il
sottoscritto dovrete accontentarvi un po’, ma farò
del mio meglio.
E ora volete finalmente dirmi le cose che in situazioni normali non
rivelereste a nessuno? Purché che non siano sconvenienti,
però.”
Chāyā ignorò la
battuta, forse
troppo teso per coglierla. Si accese un’altra sigaretta e per
un
po’ fumò dando l’impressione di essere
immerso in pensieri
tormentosi.
Alla fine prese un gran
respiro e
disse: “La spia più abile dei russi è
un uomo di Khiva che si fa
chiamare O’lim*****. Attualmente costui si trova proprio qui
nel
Bengala, e ha la missione di scatenare una rivolta anti-britannica
per indebolire l’Impero e fare in modo che i disordini
interni
rallentino la sua espansione verso l’Asia Centrale. Per
ottenere
tutto questo sta fomentando il fanatismo dei thug e sta finanziando
il movimento indipendentista indiano, che proprio a Calcutta ha la
sua roccaforte. In occasione della Conferenza Nazionale
assassinerà
il Governatore e dopo sarà il caos.”
A quelle sconcertanti
rivelazioni
Grosvenor mostrò l’imperturbabilità di
un Sadhu Ramanandi******.
Solo dopo aver fumato, in mancanza di alcol, un’altra
sigaretta,
nel più puro gergo militare proferì:
“Al tempo.”
“Al
tempo?”
“Intendo
dire, con calma e nel dovuto ordine. Da dove arriva questo
O’lim,
tanto per cominciare?”
“Ve
l’ho detto, è una spia russa.”
“E
voi come fate a sapere che è qui?”
L’altro
sbuffò. “L’ho
seguito.”
“C’è
un motivo per cui non l’avete ancora fermato, se sapete
dov’è e
cosa vuole fare?”
“Sì,
che non ci sono riuscito.”
“Com’è
fatto?”
“Non
avrebbe alcun senso che ve lo descrivessi. Può diventare
quello che
vuole, ancora più di me. Se gli serve essere un bramino
è bramino,
se no sadhu, o sepoy, o persino donna.”
“Anche
vacca sacra?”
Chāyā non poté fare
a meno di
sorridere: “No, vacca sacra no.”
“È
già qualcosa.”
Fra i due calò il
silenzio. Di
nuovo la notte tropicale li avvolse con i suoi mille suoni
misteriosi. La lanterna colorata creava un’atmosfera
ipnotica, che
invitava all’abbandono.
Dopo un po’,
Grosvenor disse:
“Per quello che ne sapevo, il problema dei thug aveva smesso
di
esistere cinquant’anni fa.”
“Dopo
oggi ne siete ancora convinto?”
“Decisamente
no, ma non capisco come mai sono tornati fuori, e perché fra
loro
c’è addirittura un maharaja.”
“I
thug in realtà non hanno mai smesso di esistere, il generale
Sleeman
li solo fatti ritirare nella segretezza. I maharaja li hanno sempre
usati come sicari e assassini prezzolati, e molti potenti erano e
sono thug a loro volta.”
“Ho
capito. E voi cosa facevate oggi al tempio della dea Kali?”
“Seguivo
le mosse di Suraj Singh. So che deve incontrarsi con O’lim
per
ricevere da lui denaro e documenti.”
Grosvenor lo fissò
sorpreso.
“Quindi il nostro maharaja è un traditore al soldo
dei russi?”
“Esatto.
Nello stile dei thug ha drogato e poi ucciso tutti gli inglesi per
evitare che trapelasse la notizia del suo tradimento, e state pur
certo che starà cercando anche voi e i vostri uomini per
farvi fare
la stessa fine.”
“Motivo
in più per non separarci, noi e voi,”
sospirò il tenente. Poi,
dopo una pausa meditativa: “Sono stanco morto, ma vorrei
sapere
un’ultima cosa.”
“Dite.”
“Perché
non mi hanno ucciso nel tempio?”
“Ci
siete rimasto male?”
“Il
contrario
direi. E poi, se mai dovessi essere sacrificato a un dio, ci terrei
che almeno si trattasse di Bacco. Ero solo curioso.”
Come se fosse la cosa
più ovvia
del mondo, Chāyā rispose: “In un sacrificio a Kali non
può
essere versato sangue. Ci sarebbe anche un motivo religioso, ma visto
che siete stanco ve lo risparmio.”
“Voi
siete religioso?”
L’indiano
alzò le spalle. “Sono
un agnostico, più che altro, ma so celebrare le liturgie di
otto
culti diversi. In certe situazioni è molto comodo farsi
passare per
sacerdote.”
“Capisco.”
Il pandit andò alla
ricerca di
un’altra sigaretta, l’accese e domandò:
“Volete sapere
qualcosa del piano per domani?”
Non gli giunse risposta: il
tenente Grosvenor alla fine era crollato e stava dormendo della
grossa. Chāyā gli stese sopra una coperta e uscì portandosi
dietro
la lanterna.
* Abito lungo simile al
britannico frock coat, nato come abito di corte in stile europeo
della dinastia Moghul.
** “Ombra”
in bengalese.
*** Fascia di seta che i thug
usavano per strangolare le vittime.
**** Polvere colorata e
profumata
che si usa come offerta votiva.
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“Morte” in uzbeko.
****** Asceti induisti che
dedicano la propria vita all’abbandono e alla contemplazione.
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