Capitolo 2
L’umidità della notte si era
condensata in una nebbia che i primi raggi di sole coloravano di rosa
e arancio. Solenne, indistinta nella caligine, la foresta sembrava un
fantasma silenzioso e immanente.
Grosvenor uscì al cospetto di
tanta misteriosa bellezza con la sensazione di aver dormito un decimo
del necessario e dolorante persino in parti del corpo che fino a quel
momento non aveva neppure saputo di possedere.
La sua uniforme, lavata e
asciugata da Kaur durante la notte, aveva riacquistato una parvenza
di decoro, ma il suo aspetto rimaneva quello di uno che ha litigato
pesantemente con un branco di cinghiali.
Jenkins, la cui inappuntabilità
aveva invece come sempre del soprannaturale, lo salutò militarmente
e gli presentò la forza, composta dai soldati Thayes e Barrett.
“Quali sono gli ordini,
signore?” gli chiese, tranquillo come se fosse stato nella caserma
dei fucilieri a Calcutta.
“Oggi ci trasformeremo in
fanteria di marina, sergente. Sembra che dovremo introdurci in un
palazzo costruito sull’acqua.”
“Un palazzo sull’acqua,
sissignore.” rispose Jenkins, all’apparenza per nulla turbato
dalla faccenda.
In quel momento arrivò anche
Chāyā,
che aveva in tutto e per tutto l’aspetto del più umile dei
contadini. Grosvenor lo fissò meravigliato: lo snello giovanotto che
aveva conosciuto il giorno prima sembrava adesso un macilento
omiciattolo di mezz’età, piegato dalla fatica e dalla
malnutrizione. Aveva addosso degli stracci rattoppati e in testa un
pezzo di saree sbiadito a mo’ di turbante. Il fango gli incrostava
le gambe come se fosse appena uscito da una risaia.
“Venite
con me,” disse semplicemente il Pandit.
Stavano per incamminarsi quando
comparve Kaur sulla soglia. “Tenente Grosvenor,” chiamò.
L’ufficiale la raggiunse.
“Signora?”
“Solo
Kaur.” Gli porse alcuni dadi scolpiti nell’osso. “Prendeteli,”
gli disse. “Questi sono un nostro segno di riconoscimento. Chiunque
dei nostri li veda saprà che vi deve aiutare.”
“Vi
ringrazio.”
“E
state attento, i thug sono maestri del trasformismo. Così come noi
siamo dappertutto, lo sono anche loro. Non fidatevi di nessuno.”
“Ci
sarà Chāyā con noi. Lui dovrebbe avere l’occhio allenato, no?”
“Chāyā
è una spia. Obbedisce ad autorità che in ogni momento potrebbero
richiamarlo altrove.” Fece una pausa e lanciò un’occhiata al
giovane indiano. “Oppure potrebbe morire.”
“Iddio
non voglia,” rispose Grosvenor, inorridito al pensiero di rimanere
nel bel mezzo del Bengala inseguito da thug e spie russe con l’unico
conforto di tre militari disarmati.
“Tuttavia
bisogna essere realistici,” rispose asciutta la donna, “quindi
conservate quei dadi e state attento a chi vi sta troppo intorno. E
ora andate.”
Con un cenno di saluto gli girò
le spalle e rientrò nell’edificio. La porta si chiuse dietro di
lei.
Grosvenor per un attimo rimase a
fissare l’anta serrata con l’espressione del naufrago che vede
l’ultima scialuppa allontanarsi, poi si riscosse e tornò dai suoi
uomini. “Siamo pronti, sergente?” chiese, come se avesse avuto
davanti l’intero plotone in assetto di marcia.
“Signorsì.”
“Molto
bene, allora direi che è il caso di muoverci.” Poi, con una
condiscendenza degna del Re Sole, soggiunse: “Siate così gentile
da fare strada, Chāyā.”
Scoprirono che la sera prima
erano entrati nel tempio dalla porta posteriore. Aggirando l’edificio
videro che la facciata aveva degli ornamenti di stucco, aggraziati
anche se scrostati dal tempo, e ai lati della porta invece dei vasi
di fiori c’erano due statue a forma di leone, entrambe multicolori
per il gulal che era stato loro offerto nel corso degli anni.
Da lì si dipartiva un sentiero
lastricato che si addentrava nella foresta.
A differenza dello spiazzo sul
retro, quel percorso era in buone condizioni e battuto da numerosi
passaggi quotidiani.
Tramite quello arrivarono in
pochi minuti a un paese. I primi contadini si stavano preparando per
andare nei campi e le vacche sacre meditavano, assorte nella scelta
dell’orto da depredare.
Chāyā fece cenno di attendere,
poi scomparve e tornò poco dopo con un carretto coperto.
I
militari salirono nel cassone. Nessuno sembrò notare che il veicolo
si allontanava con quattro sahib
a bordo, ma questo non diede alcun conforto a Grosvenor, cui le
parole di Kaur continuavano a risuonare in mente come un sinistro
presagio di sventura: così
come noi siamo dappertutto, lo sono anche loro.
Cercò di distogliere il pensiero
e riprese il calcolo del giorno prima.
Quando furono fuori dal centro
abitato, strisciò verso il pandit che sedeva a cassetta e sottovoce
disse: “Chāyā, vi ripropongo il problema di ieri: senza armi, le
giubbe rosse possono avere al massimo una funzione decorativa.”
L’altro annuì. “Abbiamo
pensato anche a quello.”
“E
a quale conclusione siete giunti?” chiese il tenente, ignorando se
Chāyā stesse usando una sorta di plurale
maiestatis
o se facesse riferimento alla misteriosa organizzazione cui sembrava
appartenere.
“Sotto
il carro,” fu la scarna risposta, poi il giovane tornò a rivolgere
lo sguardo alla strada polverosa.
Passò qualche secondo, ma non
giunsero altre spiegazioni.
“Sotto
il carro,” ripeté allora scettico il tenente, poi si ritirò nel
cassone come una lumaca nel guscio. Incontrò lo sguardo del
sergente, che gli rimandò la sua stessa sfiducia.
Proseguirono per un tempo
imprecisato. Ormai il sole era sorto e nell’aria stagnava il
consueto caldo umido. Grondante di sudore, Thayes fece per slacciarsi
il colletto della giubba, ma venne fulminato dallo sguardo di Jenkins
e abbassò la mano con espressione colpevole.
Cominciarono ad aleggiare odori
di limo e acqua stagnante. Il poco che si vedeva dell’esterno erano
erbe alte e canne palustri. Disturbato dal passaggio del carretto, si
alzò in volo un airone.
“Siamo
vicino a un lago,” constatò il tenente.
“Signorsì,”
approvò Jenkins, che sedeva impettito e con l’aria di ignorare
totalmente le condizioni climatiche.
Il carretto si fermò. Pochi
secondi dopo Chāyā
scostò la tenda che chiudeva il cassone e disse: “Scendete,
presto!”
Ecco che ricomincia a fare il
Bianconiglio, pensò
Grosvenor con un sospiro.
Nel frattempo il pandit stava
estraendo da sotto il veicolo una cassetta di legno che aveva l’aria
di pesare parecchio. La appoggiò al suolo con delicatezza e la
scoperchiò, rivelando una matassa di paglia da imballaggio. Ci frugò
dentro e cominciò a tirare fuori degli involti di stoffa che avevano
un inconfondibile odore di olio per armi.
Tutti presero a fissarlo come
cani che vedono il padrone trafficare con la ciotola del cibo.
Chāyā distribuì un involto a
ciascun militare e ne tenne uno per sé. Con sorpresa di tutti,
continuò a frugare e distribuì a ognuno un secondo involto molto
più piccolo, che aveva più che altro l’aria di un sacchetto con
dentro della ghiaia, solo notevolmente più pesante.
Grosvenor e il sergente si
scambiarono un’occhiata.
“È
quello che siamo riusciti a trovare in una notte,” disse l’indiano
raddrizzandosi. “Comunque sono in ottime condizioni.”
Ufficiale e sottufficiale
reputarono la frase decisamente sospetta.
Jenkins disfò il più grande dei
due involti che aveva ricevuto e ci trovò un cinturone con una
fondina da cui spuntava il calcio di una pistola. Tirò fuori l’arma,
ebbe qualche secondo di sbigottito silenzio e infine proferì: “Che
mi venga un colpo. Ma questa la usavo nella Guerra di Crimea!”
Il tenente diede un’occhiata:
Colt Navy modello 1851 a tamburo. Ricordava di averne vista una in
una vetrina nel salotto del colonnello Wilson, esibita come una
specie di cimelio.
Per sua fortuna, il sergente
stava già provvedendo a istruire le truppe: “Allora, giovanotti!
Io usavo già queste armi quando i vostri padri andavano ancora a
scuola, le conosco come le mie tasche! Primo, sono ad avancarica!
Secondo, niente cariche troppo potenti o vi salta la canna! Terzo, se
becco un cretino che non mette del grasso sul tamburo dopo averlo
caricato, lo faccio arrivare a Calcutta a calci nel deretano!”
Grosvenor stava già pensando con
orrore che nemmeno lui
aveva mai usato
un’arma ad avancarica, ma il sergente, che non aveva certo svolto
trentacinque anni di servizio scaldando una sedia in fureria, col
tono di chi propone la cosa più normale del mondo disse: “Signore,
permettetemi di caricare la vostra pistola, non vorrei che vi
sporcaste con la polvere.”
Tutti procedettero alla
complicata operazione.
Sistemata la propria arma, Thayes
si alzò in piedi e grazie alla sua altezza fu in grado di esclamare:
“Ehi, ma c’è un palazzo in mezzo all’acqua!”
“Dì
un po’,” gli chiese Jenkins in tono severo, “dove hai scovato
la roba per ubriacarti?”
“È
la verità, sergente!” protestò il soldato. “C’è un palazzo
enorme, proprio nel bel mezzo del lago.”
Il sottufficiale si fece strada
fra le canne, guardò oltre e l’unica cosa che disse fu: “Che mi
venga un colpo.”
Grosvenor era curioso come una
scimmia, ma fedele al suo ruolo di ufficiale, con sussiego chiese:
“Che c’è, sergente?”
“Signore,
un palazzo in mezzo al lago, con quattro torri e degli alberi
dentro.”
“Singolare,”
commentò il tenente.
In quel momento arrivò Chāyā,
che arrancava con l’acqua fino alle anche tirandosi dietro una
piccola imbarcazione.
“Ecco che stiamo per diventare
Royal Marines,” disse Grosvenor.
Poco dopo, una barchetta carica
di frutta e verdura si staccò dalla costa. Accovacciato a poppa, un
misero contadino vestito di stracci la spingeva con fatica verso il
palazzo.
Con ogni evidenza, il pover’uomo
aveva intenzione di proporre i prodotti del suo campo alle cucine del
maharaja, e si era mosso di buon mattino per essere tra i primi
fornitori.
Sul fondo della barchetta, ben
nascosti sotto le ceste di ortaggi, i quattro militari facevano del
loro meglio per non dar segno di sé.
Dati i suoi sei piedi e sei
pollici di altezza, sistemare Thayes non era stato uno scherzo.
L’avevano dovuto mettere supino, perché se stava sdraiato sul
fianco le sue enormi spalle creavano una sporgenza del tipico rosso
British Army difficilmente camuffabile. Ai suoi lati c’erano
Barrett e il sergente, con una posizione che ricordava quella dei
fedeli protetti dal manto della Madonna di certi quadri manieristi.
In omaggio al suo rango di
ufficiale, il tenente era sdraiato sopra a Thayes, faccia a faccia
con lui e con un assortimento di cesti e sacchi sulla schiena.
Dopo un tempo che a tutti parve
interminabile, si udì il raschiare della prua contro la pietra del
molo e delle voci accolsero l’attracco del natante.
Chāyā rispose, si accese un
dialogo che rapidamente divenne piuttosto concitato.
Ammucchiati l’uno sull’altro,
gli inglesi potevano solo scambiarsi degli sguardi, che si facevano
sempre più preoccupati man mano che il colloquio saliva di tono.
Ci furono anche dei colpi qua e
là sulle ceste, a Grosvenor parve che qualcosa di duro e appuntito
scavasse fra gli ortaggi.
Faccia a faccia con lui, Thayes
lo stava fissando con espressione di panico. Il sergente, alla sua
destra, era nella fase di impassibilità attenta di chi deve
mantenere il decoro ma sa che è in arrivo qualcosa di profondamente
sgradevole. Solo Barrett, alla sua sinistra, appariva perfettamente
tranquillo. Grosvenor stabilì che l’ingenuo ragazzotto
probabilmente non aveva capito nulla di quello che stava succedendo,
e che chissà da quanto tempo si crogiolava in quella serafica
condizione.
Lo fissò, e lui gli rimandò lo
sguardo pacioso di una vacca sacra.
Pian piano il vociare e il
tramestio cessarono e l’unico rumore che rimase fu il lieve
sciabordio dell’acqua contro i fianchi della barchetta. Dopo un
lasso di tempo imprecisato ma decisamente penoso, finalmente la voce
di Chāyā
sussurrò: “Tutto a posto. Venite, presto.”
Il pandit spostò qualche cesta
permettendo ai clandestini di abbandonare lo scomodo natante.
Grosvenor non aveva ancora fatto
in tempo a rimettere tutte le ossa al loro posto che già l’indiano
ripeteva: “Presto, presto!”
Il tenente si guardò intorno: il
molo conduceva a una grande camera dal soffitto a volta. Il luogo era
chiaramente adibito al servizio e non concedeva nulla all’estetica.
Le pareti una volta bianche erano sporche e in qualche punto
annerite dalla fuliggine, per terra c’erano scarti di verdura e
paglia. In un angolo era appoggiato una specie di carretto a due
ruote a trazione umana.
C’erano porte sui quattro lati,
e al di là si intravedevano corridoi e scale.
Seguendo Chāyā, i militari si
addentrarono per un dedalo di stanze. Ogni tanto il pandit si fermava
con l’orecchio teso e cambiava percorso a seconda dei rumori che si
udivano, scegliendo sempre le vie più silenziose.
L’ufficiale
aveva già perso l’orientamento alla terza deviazione. Ricordava
solo di essere sceso e salito più volte per scale di ogni genere e
di aver percorso corridoi bui e meno bui al seguito di una tremula
luce di candela, ma tutti quei percorsi si sovrapponevano nel tempo e
nello spazio mescolandosi come le carte tra le mani di un croupier di
Montecarlo. Nemmeno
nelle sbronze più orribili sono mai stato così confuso,
pensò.
Chāyā invece si muoveva in quel
labirinto più disinvolto dell’architetto che l’aveva progettato.
Alla fine si ritrovarono in una
stanzetta senza finestre, a porta chiusa, con un’unica smilza
candela a illuminarli. In quella relativa sicurezza il tenente
espresse un dubbio che da un po’ lo assillava: “Abbiamo un
piano?”
Il pandit annuì. “La
situazione è delle più fortunate,” disse, “il maharaja si trova
qui e si incontrerà con O’lim nelle sue stanze, che sono proprio
qui sopra.” Fece un cenno verso l’alto.
“Come
fate a esserne così sicuro?” gli chiese il tenente.
“Abbiamo
una spia nelle cucine, la stessa che ci ha aiutati ad arrivare fin
qui con la barca.”
“C’è
un posto dove non ci siano spie di qualcuno in questo Paese?”
Chāyā mantenne un diplomatico
silenzio.
“Ci
stavate parlando del piano,” lo incoraggiò Grosvenor. Aveva
pensato alla situazione, in effetti, non è che non l’avesse fatto,
ed era giunto alla conclusione che tra padella e brace, sempre di
scottarsi il deretano si trattava. Ovvero: o dispersi nel bel mezzo
del Bengala senza nemmeno un temperino per difendersi, o con quattro
catenacci d’antiquariato e al seguito di una spia del Grande Gioco
per intercettare il suo arcinemico russo. Perlomeno la seconda
opzione sarebbe stata un argomento di conversazione più
interessante.
Il piano venne accuratamente
esposto da Chāyā: “Ora andiamo su, ci nascondiamo e li
aspettiamo. Quando arrivano li facciamo fuori, ci appropriamo dei
documenti che si scambieranno per portarli a Calcutta come prove e ce
ne andiamo.”
“Se
non altro, non rischieremo di dimenticarci qualche particolare di
fondamentale importanza,” sospirò Grosvenor.
“Io
sono abituato a lavorare da solo,” rispose l’indiano. “Di
solito non ho bisogno di spiegare a me stesso i piani che intendo
seguire.”
“Capisco.”
“Una
domanda, signore,” intervenne Jenkins.
“Sergente?”
“Ci
saranno
uomini armati a difesa di costoro?”
“Nel caso, sergente, compito
vostro e dei vostri uomini sarà aiutarli a raggiungere il loro
paradiso, qualunque esso sia.”
“Ammazzarli dal primo
all’ultimo. Tutto chiaro, signore.”
“La vostra capacità di sintesi
è encomiabile, Jenkins.”
“Grazie, signore.”
Se questa è una delle
situazioni più fortunate, non vorrei conoscere quelle decisamente
sfortunate, pensò il
tenente Grosvenor, tirandosi indietro mentre una pallottola faceva
schizzare via schegge di pietra dalla colonna dietro cui si stava
riparando.
Qualcosa era andato storto. Non
era certo quello il contesto più adatto per scoprire in che punto il
trenino della pianificazione aveva deragliato dai binari della
tattica e della logistica, fatto sta che lui, i suoi uomini e il
pandit erano asserragliati intorno al trono del maharaja e impegnati
in uno scontro a fuoco in piena regola.
“Avevate detto che sarebbe
stato facile!” disse a Chāyā,
alzando la voce per sovrastare il rumore degli spari.
“Non
l’ho mai
detto!” replicò piccato l’indiano.
“Quando
si parla di situazioni fortunate, uno si fa l’idea che si tratti di
qualcosa di positivo.”
“Questo
perché voi non avete mai preso parte al Grande Gioco. Altrimenti,
state pur certo che avreste fatto in fretta a rivedere il vostro
concetto di positivo.
Qui perlomeno siamo al coperto, non ci sono dirupi profondi duemila
piedi dietro le nostre spalle e non ci sono trenta gradi sottozero.”
Si alzò e abbatté una delle guardie del maharaja con un colpo di
pistola, poi tornò accanto al tenente.
La pur ampia sala del trono era
ormai invasa dal fumo degli spari, l’aria rimbombava di
detonazioni. A ogni colpo, qualche inestimabile elemento di arte
moghul andava in frantumi spargendo schegge di stucco, vetro o
specchio tutt’intorno.
Chinandosi per evitare una
sventagliata di frammenti di ceramica, Grosvenor chiamò: “Sergente!”
“Signore?”
rispose subito il sottufficiale, che finalmente si trovava nel suo
elemento.
“Sergente,
è giunto il momento di far capire a costoro che errore hanno fatto a
non accettare istruttori britannici per le loro truppe.”
“Sissignore!”
rispose Jenkins. Si calcò in testa con fare risoluto il casco
coloniale, atto che immancabilmente preludeva ad azioni decisive.
Il tenente fece per dire qualcosa
a Chāyā, ma scoprì che nel frattempo il pandit si era abilmente
eclissato. Pronunciò con sentimento la parola di Chambronne.
“Era
pur sempre un mangiacurry, signore,” gli ricordò il sergente, “di
quelli non ci si può fidare.” Poi, a voce più alta: “Thayes, tu
a destra. Barrett, tu a sinistra, lungo le pareti. Io e il signor
tenente vi copriremo. E non sprecate le pallottole, dovete prendere i
mangiacurry alle spalle!”
I due soldati caricarono le
pistole e si prepararono a scattare.
Jenkins e Grosvenor si
scambiarono un’occhiata, poi in sincrono si alzarono e cominciarono
a bersagliare le sagome che sporgevano da dietro le colonne.
Alcuni
tizi vestiti come comparse de Il
ratto del serraglio
caddero a terra e vi rimasero immobili.
“Bel
colpo, signore,” approvò il sottufficiale.
“Grazie,
sergente. Complimenti anche a voi.”
“Grazie,
signore.”
Continuarono a sparare. Le
pallottole ronzavano nell’aria, alle loro spalle il trono di Suraj
Singh di Barhdaman, tripudio di intarsi e legni pregiati, si stava
rapidamente trasformando in assi sforacchiate buone solo per il
camino.
Poi finalmente i due soldati
arrivarono in posizione e a questo punto furono le guardie del
maharaja a trovarsi in una situazione poco simpatica.
Una cosa che Grosvenor notò, ad
esempio, fu che Barrett sterminava pagani peggio dell’arcangelo
Michele: con quel faccino pulito da seminarista e gli occhioni
spalancati sul mondo, ogni colpo che sparava era un tizio che cascava
per terra e ci rimaneva.
Thayes, invece, che da un po’
aveva scaricato la sua pistola e non aveva certo tempo di
ricaricarla, con grande spirito pratico raccoglieva le armi dei
caduti e le usava come corpi contundenti, facendo gli stessi danni
del commilitone.
Non
avevano fatto in tempo a bonificare la sala che già si sentivano le
urla e il tramestio di un secondo contingente in avvicinamento. “Via
tutti!” urlò Grosvenor. Staccò dalla parete un talwar*
dalla lama damascata augurandosi che oltre ad avere l’impugnatura
d’oro tempestata di diamanti fosse anche affilato.
Attraversarono di corsa la sala,
serrarono i battenti della porta d’onore e Thayes vi ammucchiò
contro due enormi statue e un po’ di mobili.
Continuarono a correre come se
avessero il Diavolo alle calcagna. Alle loro spalle già si udivano
urla e tonfi contro la porta.
Grosvenor notò confusamente che
si trovavano in una sala grande quanto la prima, quasi ugualmente
sfarzosa, con ori, stucchi e stoffe pregiate dappertutto. Si accorse
che sul pavimento di marmo bianco c’era una fila di gocce di
sangue.
Le seguirono, imbattendosi ben
presto nel cadavere di una guardia del maharaja che giaceva supina,
con un buco in mezzo alla fronte e gli occhi spalancati.
Le tracce di sangue proseguivano
oltre il cadavere.
Continuarono a seguirle fino a
che il tenente, che correva davanti a tutti, entrò in quello che
sembrava uno studio, con una scrivania e scaffali di libri.
Appoggiato a una parete, il pandit
si stava premendo una mano sul petto. Tra le sue dita contratte
scorreva un rivolo di sangue.
“Chāyā!”
esclamò Grosvenor muovendosi verso di lui.
“Attento,”
lo avvertì l’indiano con voce debole.
Immediatamente un’ombra si
mosse verso di lui, egli vide un baluginio d’acciaio e fece appena
in tempo a indietreggiare per evitare un fendente.
Si voltò e si trovò di fronte
un uomo dai lineamenti vagamente orientali, smilzo, vestito di nero,
che brandiva un kukri** nepalese.
Ripeté mentalmente la parola di
Chambronne.
L’uomo lo studiò dapprima con
sguardo freddo, poi improvvisamente attaccò. Un fendente, l’unica
mossa possibile con il kukri, che però aveva la potenza di un colpo
d’ascia.
Grosvenor lo parò con il talwar.
La lama resse, ma il tenente dovette rinforzare la presa
sull’impugnatura con la seconda mano per non farsi sfuggire l’arma.
Subito dopo tentò un tondo
dritto, ma l’altro scattò indietro con la velocità di un felino e
la sciabola tagliò solo l’aria.
Il tenente ruotò il polso e
incalzò l’orientale con un tondo rovescio, ma fu intercettato
dalla pesante lama del kukri, che subito dopo si levò preparandosi a
calare su di lui dall’alto.
A quel punto, fortunatamente
echeggiò uno sparo e Jenkins irruppe nella stanza.
Vistosi in minoranza, l’uomo in
nero si buttò contro una finestra fracassandone i vetri istoriati.
Si udì il tonfo del corpo che cadeva in acqua.
Grosvenor si voltò verso Chāyā,
che nel frattempo era scivolato sul pavimento e ormai era seduto in
una pozza di sangue. Vide che aveva il volto terreo e imperlato di
sudore freddo.
“Fatemi dare un’occhiata,”
gli disse, chinandosi accanto a lui. Cerò di scostargli la mano che
copriva la ferita.
“Ormai è tardi,” ansò
l’altro. Gli porse una busta che teneva nell’altra mano. “Portate
questa a Calcutta più presto che potete, ci sono dentro le prove del
tradimento di Suraj Singh. Dite che… i thug...” Dovette
interrompersi mentre una fitta di dolore gli deformava i lineamenti.
“Faremo il necessario,” gli
assicurò Grosvenor.
“O’lim… dovete fermarlo.”
“È il tizio in nero che era
qui?”
“Sì, è lui. Fermatelo. Sta
preparando una rivolta, tutti i thug...” Si interruppe di nuovo,
gemette in preda a uno spasmo. “I thug attaccheranno…
dappertutto. Al segnale...”
“Che segnale?”
“Il segnale… la morte del...”
Si afflosciò riverso.
“È andato,” constatò
Jenkins, in piedi alle spalle del tenente.
L’ufficiale si alzò e si girò
verso di lui. “Sarà meglio che ci muoviamo, se non vogliamo fare
la stessa fine. Fatemi solo dare un’occhiata alla scrivania, magari
troviamo qualcosa di utile.” Gli porse la busta: “Questa tenetela
voi, sergente. Siete sicuramente più affidabile di me.”
Poco dopo, i quattro stavano
nuovamente correndo attraverso le stanze del palazzo, con la
differenza che questa volta non avevano una guida.
Un tonfo sordo aveva segnato la
fine del portone d’onore e subito dopo aveva cominciato a risuonare
il sinistro tramestio di decine di piedi al loro inseguimento.
Grosvenor, cui come ufficiale
spettava il difficile compito di condurre la ritirata, aveva scelto
la tattica della lepre, ovvero brusche svolte ad angolo retto per
disorientare gli inseguitori. La cosa purtroppo disorientava anche
lui, e scompaginava ogni volta le poche idee che nel frattempo era
riuscito a mettere insieme sull’architettura di quel dannato
labirinto.
A un certo punto sbucarono in un
giardino interno, dove fanciulle in abiti colorati si dispersero
strillando al loro apparire. Lo attraversarono ignorando i fiori rari
e le fontane zampillanti, mandarono gambe all’aria qualche eunuco e
si trovarono in una sala completamente rivestita di specchi anche sul
soffitto, che nel riflettere le loro giubbe rosse sembrò
letteralmente andare a fuoco. Passarono poi in una stanza di marmo
bianco con delicati intarsi di pietre dure su tutte le pareti, e da
lì, attraverso un corridoio, a una delle torri, dove Grosvenor
scoprì una scala a chiocciola che andava verso il basso.
Gli inseguitori erano stati
distanziati, tuttavia i quattro militari le percorsero con tutta la
velocità che le gambe consentivano loro, arrivando alla fine col
fiatone e la testa che girava.
“Qui è più buio che nel mio
culo di notte,” proclamò la voce di Thayes.
“Modera i termini, giovanotto!”
lo rampognò Jenkins, “Sei in presenza di un ufficiale!”
“Scusate, sergente.”
In effetti era buio pesto.
Muovendosi a tentoni, Grosvenor avanzò su un pavimento di pietra.
L’eco dei suoi passi dava l’idea di un posto piccolo e col
soffitto basso. Nell’aria c’era odore di chiuso e olio per armi.
Procedette fino a che le sue mani
non toccarono del legno: c’era una porta con grossi cardini,
rinforzata da borchie di ferro.
Palpando lì intorno trovò anche
una mensola, sulla quale reperì un acciarino e un mozzicone di
candela.
“Buon Dio!” esclamò quando
finalmente ci fu un po’ di luce.
La porta aveva un finestrino, e
da quello si poteva contemplare una distesa di armi da fuoco di ogni
genere.
Entrarono. Non era robaccia
locale, erano tutti fucili e pistole europei e americani, pezzi di
pregio, rifiniti e personalizzati secondo i gusti del maharaja.
Calcioli d’avorio o di legni rari, incisioni, decorazioni di
smalto…
“Non si fa mancare niente,
questo,” constatò Jenkins, studiando una carabina Winchester
ultimo modello ancora nuova di fabbrica.
Grosvenor fece un gesto degno del
Re Sole. “Prego, signori: approfittatene. E non preoccupatevi, non
è un furto, è una requisizione.
Rilasceremo regolare ricevuta a nome dell’Esercito Britannico.”
Con l’espressione di bambini
che sono riusciti a intrufolarsi dentro una pasticceria, i due
soldati cominciarono a guardarsi intorno, ma subito il sergente
intervenne dicendo: “Piano, razza di cialtroni! Noi siamo militari
britannici, non vi permetterò di andarvene in giro con questa
paccottiglia da mangiacurry!” Indicò con spregio le armi istoriate
e damascate.
“Ma sergente...” protestò
flebile Thayes, che aveva adocchiato un vistoso fucile placcato in
oro e col calcio decorato da intarsi di scene venatorie in
madreperla.
“Molla subito quel ciarpame!
Cercate dei fucili come si deve, piuttosto, che sparino dove mirate e
non attirino tutte le gazze ladre della regione. Sempre che ci siano,
in questo ammasso di roba da effeminati!”
Completato il rifornimento, il
tenente stilò come promesso una dettagliata ricevuta e la firmò con
artistici svolazzi, non dimenticando di includere il proprio grado e
titolo nobiliare. Nella nota era specificato che in cambio delle armi
asportate venivano consegnate quattro Colt Navy 1851 in ottime
condizioni e provviste di adeguato munizionamento. Pose il foglio in
bella vista su un tavolino.
“Ora possiamo andare,
sergente,” concluse infine.
Fecero il percorso a ritroso, ma
quando arrivarono su, il posto non era più deserto come l’avevano
lasciato.
“Dev’essere stata una di
quelle oche,” brontolò fra i denti Jenkins, scrutando dai gradini
le guardie del maharaja che andavano su e giù.
“Che oche, sergente?”
“Quelle del giardino, signore.
Quando siamo passati hanno strillato talmente forte che devono averle
sentite anche a Calcutta.”
“Scendiamo di un piano,”
ordinò Grosvenor, “qui è troppo frequentato e a me dà fastidio
la folla, soprattutto se è composta da gente intenzionata a farmi
secco.”
Ricominciarono ad aggirarsi,
peraltro senza nemmeno il conforto della luce atmosferica, visto che
si trovavano sotto il livello dell’acqua. Barrett era sceso a
recuperare il mozzicone di candela dell’armeria e novello Diogene
precedeva il gruppo reggendo l’incerta fiammella.
“Signore, che posto è questo?”
chiese il sergente dopo un po’ che camminavano. Il piano era
deserto. Avevano attraversato una zona di servizio ed erano arrivati
alla parte di rappresentanza, ma sembrava che l’edificio fosse
abbandonato. Non c’erano mobili nelle stanze, né tappeti o altri
segni di presenza umana.
“Da quello che mi ha detto
Chāyā,
questo dovrebbe essere un palazzo per quando il maharaja va a caccia
di anatre.”
Categorico, Jenkins rispose: “Le
tipiche esagerazioni da mangiacurry, se volete la mia opinione,
signore. Per le anatre basta una botte.”
Dopo un po’ che si aggiravano,
Barrett riuscì a individuare una scala che saliva. Erano di nuovo
nella zona adibita al servizio, e dall’alto proveniva una debole
luce.
Su c’era un camerone simile a
quello che li aveva accolti al loro arrivo. Anche da lì si dipartiva
un molo, cui era attraccata una barchetta rossa carica di fiori. A
prua sedeva un vecchio con un caffettano e un berretto in testa.
Aveva il viso scavato dagli anni e l’espressione mite. Con grande
cura stava sistemando un vaso pieno di giacinti rosa e viola.
I quattro militari si scambiarono
un’occhiata.
Quella era pur sempre una barca,
anche se piuttosto male in arnese, e guarda caso c’era proprio un
lago da attraversare, possibilmente in fretta.
“Seguitemi, uomini,” disse
Grosvenor, e si diresse risoluto verso il piccolo natante. “Buon
giorno, signore,” salutò. “Parlate la mia lingua, per caso?”
Il vecchietto, che peraltro non
aveva dimostrato una gran sorpresa nel vedersi comparire davanti
quattro sahib
in assetto di guerra, fece un sorriso sdentato e si strinse nelle
spalle.
“Temo che sia un no,”
concluse il tenente.
Con stupore di tutti, si fece
avanti Barrett, che pronunciò una frase in perfetto bengalese.
L’uomo sorrise di nuovo, ma stavolta annuì con energia.
I due si misero a parlare come
vecchi amici che non si rivedevano da tempo. Gli altri tre ovviamente
non capivano assolutamente nulla, ma dai gesti intuivano che la
conversazione verteva via via sui fiori, sul tempo atmosferico, sui
massimi sistemi e sulla caccia alle anatre.
La questione si stava facendo
lunga.
“Mio buon Barrett,” si
intromise Grosvenor a un certo punto, “potremmo concludere la
trattativa prima che arrivino qui tutti gli sgherri di Suraj Singh?”
“Sì, scusate, signore,”
rispose il soldato. Scambiò ancora un paio di frasi con il
vecchietto poi disse: “Ha detto che per una rupia a testa porterà
i sahib, ovvero noi, di là.”
“Affare fatto. Si dà il caso
che abbia prelevato un po’ di argent
de poche
– fondamentale
per un gentiluomo –
dalla scrivania del maharaja, e questa mi sembra un’ottima
occasione per cominciare a usarlo.”
Altro scambio di battute fra
Barrett e il fioraio, poi il soldato disse: “Ha detto che ci
porterà uno per volta.”
La barca, in effetti, aveva sul
fondo quattro dita buone d’acqua. “Ci sarà da ridere quando
dovrà traghettare me,” disse Thayes.
“Vedi di non farla affondare,
altrimenti te la fai a nuoto,” lo minacciò il sergente.
Il primo ad approfittare
dell’indigeno Caronte fu Barrett, che con il suo scarso peso non
rappresentò un problema per il barcaiolo.
Successivamente fu traghettato
Thayes, che passò tutto il tempo a remare come un forsennato mentre
il vecchietto sgottava con altrettanta foga. Grazie alla poderosa
propulsione, il tragitto durò fortunatamente solo pochi minuti.
Il terzo a passare fu Jenkins,
impettito come il Washington di Emanuel Leutze.
Grosvenor rimase a guardarlo
mentre si allontanava. Oziosamente considerò che il rosso della
barchetta faceva pendant
con la giubba dell’Esercito Britannico, e che quella vivace
pennellata scarlatta spiccava molto sulla prevalenza di verdi e
azzurri del lago. Sarebbe stato il soggetto ideale per un quadro.
Poi cominciò a sentire dei
rumori alle sue spalle. Un tramestio vago, dapprima, che in breve si
fece sempre più forte, fino a raggiungere l’inconfondibile
cacofonia del furibondo contingente militare che ha finalmente
individuato l’odiato nemico.
Imprecando con sentimento, il
tenente considerò tutte le opzioni che gli si offrivano: scappare di
nuovo nel palazzo e far perdere le sue tracce, posto che ci
riuscisse, finendo chissà dove. Buttarsi a nuoto e mettere alla
prova la mira degli uomini del maharaja con un magnifico bersaglio
rosso fiammante. Arrendersi e finire di nuovo dalla vecchia Kali in
qualità di grazioso omaggio. Trovare il modo di sbarrare la porta e
sperare in un rapido ritorno della barchetta.
Di tutte le alternative, la meno
suicida gli parve l’ultima. Andò a vedere: peccato che non ci
fosse la porta.
Gli uomini del maharaja
arrivarono assieme a un nutrito gruppo di thug con il rumal già in
mano e pronto al lancio.
Rimasero tutti estremamente
delusi: non c’era più nessuno, gli inglesi erano riusciti a
scappare e si stavano allontanando sulla terraferma, si vedevano le
odiate uniformi rosse apparire e scomparire nella vegetazione.
A mollo come una rana, aggrappato
con una mano alle pietre scivolose mentre con l’altra reggeva la
pistola, Grosvenor pregava tutte le divinità di sua conoscenza
fuorché Kali che a nessuno venisse in mente di arrivare alla fine
del molo e dare un’occhiata in basso.
Su, andate via,
pensava intensamente, augurandosi che nel mesmerismo ci fosse qualche
barlume di fondamento scientifico, che
ci state a fare qui? Non vedete che i sahib sono scappati?
Continuava a sentire dei passi
che andavano su e giù, accompagnati da concitati scambi in
bengalese.
Se esco da questa situazione
ci faccio il bagno, nel gin tonic, giurò
a se stesso, così mi
ripulisco da quest’acqua schifosa.
Un ratto di dimensioni titaniche
uscì da un buco fra le pietre, lo annusò, gli camminò
tranquillamente sulla testa con le zampette fredde e si ributtò in
acqua dopo averlo oltrepassato.
Grosvenor pensò intensamente a
quanti galloni di gin e quanti di tonica sarebbero stati necessari
per riempire la vasca. Impegnò la mente sul problema di trovare
anche un adeguato rifornimento di scorze di limone.
Un secondo ratto, più piccolo,
seguì il primo, ma invece di saltare nel lago gli corse sul braccio
fino al polso e rimase a studiare per qualche secondo l’imboccatura
della manica, ponderando se infilarcisi dentro o no.
Pussa via, bestiaccia!
pensò il tenente, ma di nuovo ebbe una dimostrazione
dell’infondatezza delle teorie di Mesmer.
Strinse i denti obbligandosi
all’immobilità mentre il sorcio gli girava qua e là sotto la
giubba.
Finalmente, dopo un tempo
penosamente lungo, gli uomini del maharaja parvero arrendersi
all’evidenza. Grosvenor percepì lo scalpiccio di numerosi passi
che si allontanavano. Le voci pian piano si affievolirono e calò il
silenzio.
Una volta libero delle importune
presenze, l’ufficiale si issò sul molo e per prima cosa assestò
una manata al molesto roditore.
La seconda cosa che fece fu
rallegrarsi di aver affidato le preziose carte a Jenkins. Per
l’argent de poche
non era stato altrettanto previdente, ma per fortuna se n’era
salvata la maggior parte.
Successivamente guardò verso la
costa nella speranza di scorgervi qualcosa di rosso. Inizialmente non
vide nulla, e fu preso dall’orrore al pensiero di doversela fare
tutta a nuoto, poi notò con sollievo che la barchetta si era
staccata dalla sponda e si stava muovendo dolcemente nella sua
direzione.
Al posto dell’anziano fioraio
c’era Barrett, che remava come un battelliere del Volga.
Probabilmente il sergente non aveva ritenuto l’indigeno degno di
trasportare un ufficiale dell’Impero Britannico e l’aveva ipso
facto esautorato
sostituendolo con un più adeguato militare.
Una volta a bordo, Grosvenor si
sedette per non rischiare altri bagni fuori programma e fissò il
soldato: un ragazzotto neanche diciottenne, con le lentiggini sul
naso e un’aria stranamente per bene.
“Come mai parli il bengalese?”
gli domandò.
“Sono nato qui, signore. I miei
hanno una piantagione di tè su in Darjeeling.”
Il tenente fece mente locale.
“Una piantagione? Di loro proprietà?”
“Sì, signore.”
“Quanto è grande?”
Il ragazzo si strinse nelle
spalle. “Non saprei, signore. Da quello che so è una delle più
grandi della zona.”
“E allora tu che ci fai nei
fucilieri, Barrett?
Il soldato arrossì. “Volevano
mandarmi a studiare in Europa, signore, così me ne sono andato di
casa.”
“Nel senso che sei scappato?”
“Sì, signore,” si decise a
rispondere il ragazzo chinando il capo. Dopo qualche secondo di
silenzio, fissò l’ufficiale di sottecchi e cautamente chiese: “Non
è che mi volete rimandare a casa, vero, signore?”
“Finalmente trovo un interprete
che non è un mangiacurry, come direbbe Jenkins, e lo rimando a casa?
Non ci penso nemmeno.”
Il ragazzo sorrise. “Grazie,
signore.”
* Sciabola indiana.
** Coltello di grandi dimensioni,
pesante e affilato, usato dai Gurkha nepalesi.
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