Capitolo 5
Pov
Bella
Fu il tepore a svegliarmi. Non trovavo conforto nel
calore, non più. Il freddo era mio amico, il freddo era mio complice, mi
aiutava nelle mie illusioni. Cercai di riportare alla mente gli ultimi
avvenimenti. Mi sentivo confusa, stordita e annebbiata. Avevo la bocca secca.
Non era un buon segno. La bocca riarsa era un sintomo che avevo dormito troppo.
Io non dormivo così tanto. In realtà non dormivo abbastanza. Quando succedeva era solo perché mi venivano
somministrati dei farmaci. Carlisle doveva avermi
dato un calmante.
Solo quando aprii gli occhi ricordai davvero.
Inspirai sentendo l’onda di dolore risalire come un fiume in piena dal centro
del mio cuore. Mi sfuggì un singhiozzo e le mie mani corso istintivamente sulla
mia bocca nel tentativo di contenerlo.
«Bella, che succede?
Ti senti male?»
La mia testa si mosse verso il suono della sua voce.
Era appollaiata su una poltrona accanto al mio letto, il corpo proteso verso di
me, sul volto un espressione allarmata.
«Alice» la mia voce era ruvida, gracchiante. Mi
sentivo come se avessi ingoiato carta vetrata.
«Carlisle ha lasciato
dell’acqua, ha detto che avresti avuto sete al tuo risveglio»
Annuii e lasciai che mi portasse il bicchiere alla
labbra. Bevvi avidamente dalla cannuccia lasciando che l’acqua fresca lenisse
quel sordo dolore pulsante.
«Va meglio?»mi chiese, quando il bicchiere fu vuoto.
Annuii brevemente mentre puntellavo i gomiti sul materasso cercando di mettermi
a sedere.
«Che fai? Carlisle dice
che devi riposare»
Scossi la testa testarda. «Non sopporto parlare
stando sdraiata. Mi fa venire il mal di testa» Mi guardava ma era leggermente
combattuta. Alla fine sistemò i cuscini e mi aiutò a sedermi. Non smetteva di
fissarmi. Il silenzio si protendeva ed
era così innaturale e pesante da essere imbarazzante. Finalmente trovai il
coraggio di sollevare lo sguardo dal copriletto che fissavo con insistenza da
quando avevo riaperto gli occhi. I suoi spalancati e preoccupati, attendevano.
«Non l’ho immaginato vero? Era lì. Lui.»
Solo un lieve movimento del capo, appena accennato.
Nient’altro. Inspirai. Forte.
«Sta bene? Sembrava sofferente e…
affamato.» Furioso.
Alice fece una smorfia. «Carlisle
lo ha mandato a caccia. Ora sta meglio.»
Una pausa. I suoi occhi si offuscavano e tornavano lucidi, dopo ogni
frase. Solo pochi istanti. Ma li vedevo.
«State comunicando»
Alice sobbalzò come se avesse preso la scossa. Non
sia aspettava che lo capissi. Era decisamente stupita. «Si.» Un occhiata fugace
oltre il letto. Alla porta.
Il cuore accelerò
il battito in un istante. Risucchiai il labbro tra denti così forte che sentii
una scossa di dolore. La ignorai.
«È qui? » la mia voce nascondeva una nota di panico.
E di speranza. Speravo che non fosse troppo evidente.
«Si è allontanato solo per nutrirsi.» Chiuse gli
occhi e mi rivolse una smorfia di scuse. «Non voleva lasciarti. Carlisle gli ha ordinato di aspettare fuori. Non voleva che
stessi male di nuovo. Secondo lui hai avuto una crisi respiratoria dovuta allo
spavento.»
Mi sfuggì una risata amara. «Non ero spaventata.
Solo scioccata. Io, non mi aspettavo di vederlo…
così»
Alice annuì. Il suo sguardo si perse di nuovo. Fece
per dire qualcosa ma poi ci ripensò.
«Perché è qui fuori?» lo chiesi a lei, ma i miei
occhi erano fissi sulle modanature del legno della massiccia porta bianca.
«È preoccupato per te» sussurrò lieve. Come se fosse
un segreto. Ma certo. Edward era sempre preoccupato per qualcuno. Questo lo
aveva preso da Carlisle. Quei due erano così simili.
Mi chiedevo se notassero tutte le somiglianze che li accumunavano. Avevano una
animo nobile, una natura altruista. Erano creature speciali. Lo sarebbero state
in qualsiasi mondo, in qualsiasi forma. Umano, vampiro. Erano solo parole. Le
loro azioni, i lori cuori, andavano oltre la loro natura.
«Puoi entrare, se lo desideri. Sto bene adesso.»
Mi sorpresi
di averlo detto davvero. Era stato un suono pacato, lieve e basso perfino per
me che lo avevo prodotto. Ma sapevo che ogni vampiro in quella casa lo avevo
udito.
E poi era li. La porta ora aperta faceva da cornice
alla sua figura alta e slanciata. Le occhiaie erano meno marcate, gli occhi di
un ambra brillante, i vestiti erano puliti e stirati. Ma il tormento e il
dolore erano impressi a fuoco sul volto. Ripensai alle confessione di Carlisle. “Il
problema era l’amore travolgente che provava per te e l’odio e la repulsione
che sentiva per se stesso.”
«Ciao»fu la mia brillante uscita. I suoi occhi erano dritti su di me.
Mi scrutava, mi osservava, a volte si soffermava su un piccolo lembo di pelle,
una ciocca di capelli, il tremolio di una ciglia. Sembrava perso in una sua
personale contemplazione. Non sapevo nemmeno se mi avesse sentito. Ebbi un
brivido quando un lampo di dolore gli deturpò il viso. Gli occhi fissi sui miei
arti immobili, nascosti dalla copriletto.
«Non è brutto come sembra. Voglio dire, almeno ho smesso di inciampare»
Che diavolo stavo dicendo? Mi guardò con disapprovazione, durò poco, il dolore
riprese subito possesso del suo volto.
«Edward…» Il mio tono era supplichevole, volevo
che dicesse qualcosa, che mi parlasse. Bramavo il suono della sua voce.
«Mi dispiace per Charlie» La sua voce. Il suono della sua
voce. Era più bello di quanto la mia stupida memoria umana riuscisse a
ricordare. La mia anima, il mio cuore, tutto di me vibrò e si animò sulle note
della sua voce. La gioia data dal piacere di risentirla era annebbiata
solo dal senso delle sue parole.
«Grazie» sussurrai. I suoi occhi si incatenarono ai miei. Ed ero persa.
Di nuovo.
Alice si schiarì la voce. «Vado a vedere se riesco a trovarti qualcosa
da mangiare. Hai saltato il pranzo»
Lui non diede segno di averla sentita. Guardava me. Io non potevo –
volevo- distogliere lo sguardo. Il
leggero rumore della porta che si chiude fu l’unico avviso che eravamo soli.
«Mi dispiace» dissi. Di farti soffrire, di esserti di impaccio. Di
essere umana.
Il dolore inondò ogni singola sfumatura del suo viso. Chiuse gli occhi.
«Bella» disse, in quel suo modo unico capace di toccare le parti più
profonde del mio essere. Sobbalzai ritrovandomelo inginocchiato davanti al
letto, a capo chino, la fronte appoggiata al materasso.
Restammo così un eternità. Lui chino sul letto, io a contemplare il suo
profilo immobile, le mani che mi prudevano per il bisogno di passarle nei suoi
capelli.
La richiusi in un pugno. Non sopportavo più quel silenzio.
«Di qualcosa»
«Cosa vuoi che dica?»
Risi. «Questa scena l’ho già vissuta. Non va a finire bene»
Alzò il capo con lentezza, come se quel movimento gli costasse un
enorme sforzo.
«Non riesco a immaginare niente che io possa dire per farti capire
quanto mi dispiace, Bella. Conosco decine di lingue, milioni di parole, e
nemmeno una per esprimere come mi sono sentito quando ti ho vista scendere da
quell’auto con…» sospirò e i suoi occhi corsero verso
la sedia a rotelle, la guardava come se volesse distruggerla. «Non so come
chiedere perdono per questo. Perché non posso chiederlo. Non ne ho diritto. Non
lo merito.»
Ero senza parole. Non era quello che mi aspettavo.
«Di che cosa stai parlando? Questo ..» dissi indicando le mie gambe « … non è colpa tua. È stato un incidente. Un
incidente imprevedibile, come quelli che capitano a milioni di persone nel
mondo. È successo e basta. Non dipende da te, da me, da nulla. »
Le sue labbra si tesero, l’espressione si indurì.
«Bella. Pensaci. Se non me ne fossi andato, Alice lo avrebbe previsto e
io sarei stato vicino, sarei potuto intervenire prima che avvenisse.
Prima che tu perdessi tuo padre. Prima che tu vivessi un esperienza
tanto orribile, un dolore tanto grande. Prima che il tuo corpo subisse questa …
questa … agonia.» Le parole gli vennero fuori come un sibilo, fra i denti
serrati. Sentivo le mie palpebre aprirsi
e richiudersi a grande velocità ma sapevo che probabilmente il mio sguardo
doveva essere vuoto. Le sue parole vorticavano nella mia mente, ancora e
ancora. Ma la conclusione alla quale arrivai, non era quella che mi sarei
aspettata. E probabilmente nemmeno lui.
«Mi stai dicendo che ti sei pentito di avermi lasciata.»
Rimase in silenzio per un lungo, lunghissimo, istante. Decisamente
troppo per un umano, figurarsi per un vampiro. Quando riprese a parlare non mi
guardò.
«Non è quello che intendevo»
E io che pensavo che il mio cuore non potesse andare più in frantumi di
così. Quanto ero stupida. Il respiro accelerò senza che potessi fare nulla per
impedirlo. Mi sentivo soffocare. Lui se ne accorse e il suo sguardo allarmato
fu come uno schiaffo in pieno viso. Improvvisamente era ansioso. Iniziò a
parlare veloce, come se non avesse più tempo.
«Non capisci. Volevo davvero che tu avessi una vita lunga e felice,
senza mostri che ti mettessero in pericolo, senza interferenze del mio
mondo. Volevo che potessi avere tutto
ciò che io non posso darti. Volevo che avessi la possibilità di essere come
tutti gli altri. Ma ho tralasciato un particolare importante. Ho commesso un
terribile errore. Tu non sei come tutti gli altri. Non lo sei mai stata. C’è
qualcosa in te che io…» Scosse la testa frustrato
«Avrei dovuto prevedere che le tue sfortune non potevano finire con me. Sarei
dovuto restare nell’ombra, proteggerti da lontano, impedire al male, che tu
attiri come una calamita, di avvicinarsi a te. Ho sbagliato. Ho fallito. E sei
stata tu a pagarne le conseguenze. Non può esistere perdono per questo. Per me.
Non può…»
Il cellulare sul mio comodino scelse proprio quel momento per
annunciare l’arrivo di un messaggio. Il suono fu così improvviso che non potei non
sussultare. Lo fissai per qualche secondo. Sapevo esattamente chi era. A
quest’ora doveva essere andato fuori di testa. E poi un nuovo bip. Forse avrei dovuto parlargli, ma non volevo che ci
lasciassimo con una litigata. Così me ne ero andata e basta.
Passarono altri secondi. Immobili. Il telefono mi fissava, aspettando
che mi decidessi. Io fissavo il telefono. Edward fissava me.
«Bella? Che succede?»
«Nulla. È solo … »
La porta si aprì con un leggero cigolio.