Il
morso del diavolo
Cap.
1 – L’urlo inghiottì il silenzio
Privet
Drive non era mai stata così poco frequentata come quella
sera del
20 giugno. Infuriava una terribile tempesta e i lampi illuminavano il
cielo disegnando guizzanti saette che scuotevano nel profondo gli
animi, i tuoni percuotevano i vetri facendoli tremare così
tanto da
rasentare la rottura. Pesanti scrosci d’acqua si riversavano
sul
suolo che ormai era diventato una palude mentre venti impetuosi
sferzavano e piegavano al loro volere le piante inermi e mulinelli di
foglie danzavano impazziti. Proprio in quel momento, le luci dei
lampioni lampeggiarono debolmente per poi spegnersi del tutto; anche
le finestre, disperati occhi ciechi, rimasero buie, in attesa.
Nell’aria
densa, i tuoni coprirono il cigolio di una porta che si aprì
fagocitando tre losche figure che frettolosamente raggiunsero la
macchina parcheggiata nel vialetto della loro abitazione anonima.
Subito dopo, con circospezione, una quarta ombra raggiunse le
precedenti; venne acceso il motore e, a fari spenti, l’auto
si
allontanò lungo la via, incurante del diluvio che rendeva
impraticabile la guida.
Poco
importa cosa avvenne all’interno dell’abitacolo,
quello che ci
interessa sapere è la destinazione dell’auto.
Intanto, la tempesta
era scemata e languiva lontana, in un turbine di luci e brontolii,
laggiù, verso l’orizzonte. Dopo parecchi
chilometri, guidati con
prudenza, l’auto si fermò ai margini di un parco
trascurato; ne
scese la più piccola delle figure che, con passo
strascicato, si
inoltrò tra la vegetazione. L’auto
partì quasi sgommando,
sicuramente felice di aver lasciato indietro quel pesante fardello.
Il
parco era isolato, relativamente buio e soprattutto abbandonato. Il
giovane arrancò verso un circolo di panche di legno, era
evidente la
conoscenza del luogo, vista la sicurezza con cui si muoveva al buio.
Prese posto sul legno e si rannicchiò sperando di
proteggersi dal
fresco venticello e dalla bruma che si alzava dai campi bagnati.
Passò un po’ di tempo e il giovane, ormai
infreddolito e stanco,
cercò conforto scaldandosi le dita intorpidite con il fiato.
Nel
mentre, un leggero sibilo attirò la sua attenzione facendolo
inevitabilmente rabbrividire dall’ansia. Sebbene spaventato,
cercò
di spostarsi per vedere meglio e, allungando le membra rattrappite,
cadde riverso a terra battendo malamente la faccia; il colpo, unito
al freddo che ormai aveva raggiunto le ossa, intontì il
ragazzo, che
rimase accasciato sul cemento umido.
Ripresosi
un attimo, attraverso le ciglia socchiuse, vide un’ombra
strisciare
verso di sé. Allarmato, cercò di nascondersi
trascinandosi
all’interno delle rigogliose siepi alle sue spalle.
L’ombra,
però, si mosse veloce e, in un attimo, lo raggiunse. La
bestia si
erse in tutta la sua altezza mentre con le spire della sua coda,
sfregandole tra loro, produceva una dolce melodia atta ad ammaliare
la preda. Il giovane si bloccò, terrorizzato, aspettando e
valutando
le mosse di quello che gli sembrava il più grosso serpente
mai
apparso sul suolo britannico. Inconsapevolmente, dalla bocca del
ragazzo con gli occhiali rotti poggiati di sghembo sul naso e le
iridi fisse in quelle verticali dell’animale, uscirono suoni
zufolanti e striduli che bloccarono per un attimo il grosso serpente.
Sembrò tentennare, ma durò solo un battito di
ciglia e, con un
colpo deciso e fulmineo, spalancando l’enorme bocca,
agguantò il
dorso della preda e strinse.
L’urlo
che si propagò nell’aria fu talmente pregno di
dolore e angoscia
che accapponò la pelle di alcuni passanti che, raggiunto in
fretta
il luogo, rimasero inorriditi ad osservare l’enorme bestia
avvolgersi intorno al gracile corpo. Per evitare che il serpente
incominciasse a inglobare la vittima, un uomo, recuperati dei
calcinacci abbandonati lungo il ciglio della strada,
incominciò una
fitta sassaiola; un altro, a debita distanza, schiamazzò
saltando
sul ripiano ferroso dello scivolo nello spazio giochi dei
più
piccoli. Un terzo, attaccato alla cabina rossa in fondo al vicolo,
cercò disperatamente di spiegare l’assurda
situazione per ottenere
dei rinforzi. Altri, scesi in strada richiamati dalla confusione, con
i rami spezzati trovati in terra, cercarono di colpire la coda della
bestia che frustava nervosa nell’aria. Finalmente la zona si
illuminò a giorno mentre un elicottero sorvolava il cielo,
costringendo il rettile a lasciare la preda e ritirarsi
nell’ombra.
Ormai non aveva scampo: uomini armati fino ai denti erano sulle sue
tracce e presto innumerevoli colpi d’arma da fuoco
crivellarono il
suo corpo. Per qualche strana ragione, le forze dell’ordine
si
limitarono a transennare la zona abbandonando la carcassa al suo
destino.
Un’ambulanza
con sirene spiegate arrivò sul posto; gli uomini che ne
scesero,
avvezzi ad ogni tipo di sciagura, indietreggiarono agghiacciati: sul
suolo, in una pozza di sangue, languiva scosso da spasmi involontari
il corpo martoriato di un giovane. Le membra erano scomposte e
piegate in strane angolazioni, le ossa bianche fuoriuscivano dalla
carne in più punti. Sul viso emaciato spiccavano le labbra
bluastre,
segno evidente di una prolungata asfissia, il petto si alzava
debolmente sospinto dalla scarna attività respiratoria. Gli
occhi
spalancati erano due pozzi vuoti, le iridi si intravvedevano appena
sul candore marmorizzato di rosso. Dei rantoli sfuggivano dalle
labbra semichiuse per disperdersi nell’aria umida.
La
cosa più sorprendente, era rappresentata da una impalpabile
luce che
gli avvolgeva il corpo come un sudario, quella forma sconosciuta
sembrava tenere radicato al suolo lo spirito del ragazzo che,
indomito, non voleva soccombere alla morte. La luce, al massimo del
suo fulgore, si divise in minuscole particelle: due di queste si
posarono delicate, una sulla fronte del giovane da cui entrò
rapidamente, svanendo alla vista, l’altra si
depositò sul petto e
lo penetrò fino a quando riuscì ad illuminarne
brevemente il cuore
caparbio. Il resto dell’aura magica si disperse sotto forma
di
pulviscolo sugli esseri viventi che attorniavano il giovane: una pace
ultraterrena invase i loro cuori.
Con
delicatezza, vennero portati i primi soccorsi al corpo martoriato;
lacrime di pena si mescolarono ai medicinali somministrati. Il
battito era così debole che furono costretti a rianimarlo
per ben
due volte prima di raggiungere l’ospedale. Arrivati,
depositarono
il fardello nelle mani esperte dei migliori medici del Paese e, dopo
un fugace bacio sulla fronte del ragazzo, tornarono alle loro
mansioni sicuri che i luminari sarebbero riusciti a mantenerlo in
vita. Tornarono spesso a trovare quel disgraziato per tutto il tempo
che rimase ricoverato.
Il
ragazzo rimase in coma farmacologico per quasi un mese. Essendo stato
trovato senza documenti, la polizia diramò volantini e
appese
manifesti per tutta Londra. Purtroppo, l’immagine stampata
era
quella di un corpo avvolto in un intreccio di tubicini, la faccia
deforme e bluastra, certo non utile al riconoscimento. Solo gli
occhi, illusoriamente aperti, risultavano stranamente vividi e
intensi, smeraldi di un colore e una profondità che
speravano
fossero inconfondibili. Al notiziario locale, durante un servizio
serale, vennero richieste alla popolazione notizie che permettessero
di identificare lo sconosciuto: non si fece avanti nessuno, come se
il ragazzo appartenesse ad un mondo a loro ignoto.
Finalmente,
dopo settimane di attesa, il ragazzo si svegliò dal coma;
spaesato,
osservò il luogo che lo circondava. Un rumore improvviso
alla
sinistra lo spaventò a tal punto da offuscargli la vista e
fargli
cacciare un urlo straziante: sembrava uno sfregamento di ferraglia
arrugginita che si sbriciolava. Gridò fino a cedere
all’incoscienza,
i medici accorsero, allarmati.
Al
suo nuovo risveglio, il giovane trovò al suo capezzale visi
sconosciuti ma che stranamente gli risultavano familiari. Con calma e
con le dovute parole, i medici gli spiegarono la situazione; solo due
lacrime gli rigarono il volto chiuso in un composto dolore. Gli
chiesero anche il nome ma purtroppo il lungo silenzio e il trauma
alla gola gli impedirono di parlare. Con domande accurate e mirate, i
medici capirono che non aveva perso la memoria. Infatti, ricordava
perfettamente chi era e soprattutto non aveva scordato gli attimi
prima dell’aggressione da parte dell’animale.
Provarono a fargli
scrivere il nome su un foglio ma le ossa del braccio non erano del
tutto saldate, impedendone l’utilizzo.
Mentre
si applicavano in un semplice gioco –
a indovina la lettera –
per ottenere almeno il nome, improvvisamente, con
un tonfo
sordo che si propagò per i corridoi asettici, la porta si
spalancò.
Una figura nera si affacciò ammantata di rabbia e
autorità. Il
ragazzo spalancò gli occhi e, per la prima volta, dette
segno di
agitazione cercando di alzarsi e districarsi dai tubi che lo legavano
alla macchina respiratoria. In un balzo l’uomo lo raggiunge
per
tenerlo saldo al materasso e, con un tono di voce mai rivolto a lui,
lo ammansì fino a farlo addormentare. Poi, con calma, si
volse a
guardare i medici per chiedere spiegazioni.
Note
dell’autrice: questa long è
stata scritta di getto quasi
tre anni fa, poi, è finita in un angolo dimenticata.
L’ho ripresa
in mano in un momento della mia vita in cui ho sentito la necessita
di cambiare, di rivalutarne alcuni aspetti. Se andando avanti vi
sembrerà scritta da due persone non è
un’allucinazione ma il ‘me
stessa’ di ieri ha trovato una sorte di
pace interiore.
Buona lettura e sono graditi i commenti.