Questo
capitolo è dedicato alla Lady,
che mi supporta sempre in qualsiasi cosa, ma stavolta per un motivo
particolare.
Spero
che ti piaccia <3
Ⅳ Capitolo
Tokyo,
20 luglio 2016, 13:56
La
luce del salone era sempre e comunque spenta, a differenza di quella
della cucine, che si trovava anche al piano terra. Ormai aveva imparato
a non porre più domande e a muoversi in quella sala immensa.
Shouyou
si asciugò le mani su un panno di spugna rosso stinto,
sospirando. «Kageyama, ho finito!» gridò
tentando di farsi sentire dall’altro, che invece suonava al
piano di sopra.
La
musica del violino cessò come venne sovrastata dalla quella
vocetta acuta.
«E
allora sali, idiota!»
Sorrise
e si slacciò il grembiule dietro il collo.
«Arrivo!»
Non
portava più il bentou da casa da quando, circa una settimana
prima, lo aveva dimenticato. Tobio, di malavoglia, si era trovato
costretto a cucinare anche per lui; peccato che fosse un totale
disastro e Shouyou non si era fatto problemi a farglielo notare.
Lo
aveva dimenticato anche il giorno successivo, e anche il giorno
successivo ancora; allora il violinista gli aveva detto che poteva
preparare ciò che voleva anche a casa sua. In un primo
momento, aveva pensato che avesse voluto avvelenare gli ingredienti ‒
il che, dopotutto, non era troppo lontano dal suo modo di fare.
Tobio
si era reso conto solo dopo di ciò che aveva compiuto, come
sempre. Aveva sbattuto la testa al muro, quella sera: era colpa di
quello stupido cervello che aveva mandato l’ordine alla sua
bocca di parlare. Era per caso colpa di quello stupido cervello se si
stava preoccupando per Shouyou? Non lo sapeva e non era sicuro di
volerlo sapere. Perché sì, dopo il permesso di
fare come se fosse stato a casa sua era risultato ovvio persino a lui
che si stava preoccupando.
D’altronde,
non era così poco intelligente. Aveva largamente compreso
che Shouyou aveva problemi familiari: l’unico argomento su
cui non aveva mai raccontato nulla era proprio la sua famiglia, al di
fuori di sua sorella. Per non parlare della storia del pianoforte.
Costava indubbiamente tanto, non lo poteva negare, ma dei genitori
avrebbero fatto di tutto pur di accontentare il proprio figlio in una
pratica così bella. Anche tutto,
però, aveva dei limiti.
Lo
spaventava più che altro il fatto che avesse tenuto in
considerazione quella questione e che avesse ‒ inconsapevolmente ‒
cercato di alleggerire Shouyou di un peso che, lo sapeva, era in grado
far cadere più volte.
Lo
spaventava ancor più la possibilità di starsi
affezionando a qualcuno. E se prima era relativamente facile smettere
di pensarci ‒ tanto ci era abituato, cosa cambiava? ‒, ora non
c’era una singola cosa che non gli ricordasse lo strambo
ragazzo. Da quando mangiava riso con l’uovo, quello con cui
l’altro voleva sempre pranzare, a quando suonava.
L’unica
soluzione efficace era rimuginare su qualcosa che gli premeva di
più, anche se faceva male.
Saltò
un libro che stava davanti alla porta della camera di Tobio e
spalancò la porta. «Eccomi!»
«Sei
lento» non mancò di osservare il quindicenne che
gli dava la schiena, chinato sul letto.
«Come
mai prima stavi suonando Bach?» Saltellò un
po’ per la stanza, evitando gli oggetti per terra come ormai
era solito fare, per vedere cosa stesse combinando.
Chiuse
la cerniera della custodia. «Prendi le tue cose. Andiamo a
suonare fuori.»
Shouyou
sgranò gli occhi, attonito, e si accigliò.
«Scusa?»
«Sbrigati!
Il taxi dovrebbe essere già giù.» Si
mise la borsa in spalla e s’incamminò verso il
corridoio.
Fece
vagare lo sguardo per tutta l’area con atteggiamento
concitato, fino a scorgere il suo cellulare che spiccava sulla
scrivania chiara. Lo afferrò al volo e, sebbene non fosse a
conoscenza delle sue intenzioni, lo seguì comunque.
«Kageyama!»
esclamò mentre provava a non cadere per le scale.
«Dove diamine stiamo andando?»
«All’aeroporto
Haneda, dato che lì c’è un pianoforte e
anche un bel po’ di gente» rispose annoiato,
cercando nella tasca posteriore dei bermuda il mazzetto di chiavi.
Il
rosso frenò improvvisamente proprio agli ultimi gradini,
letteralmente impietrito. «E tu me lo dici
così?» s’infuriò, la nocche
sbiancate sul corrimano di legno. «Dovremmo suonare in mezzo
a uno degli aeroporti più popolati del mondo?»
Tobio
si strinse nelle spalle allo stesso modo di chi lo frequenta per hobby,
per poi addentrarsi nell’oscurità del salone.
«Ma
poi perché?» riprese a lamentarsi, raggiungendolo.
«Perché
devi abituarti a suonare in pubblico, o ai concorsi andrai nel panico
esattamente come ora.»
«Non
sono nel panico, sono solo sorpreso!»
«Ne
riparleremo quando ti riprenderai dalla sorpresa.»
Shouyou
sbuffò, ma dovette abbandonare l’argomento e
concentrarsi per non inciampare da nessuna parte. Nonostante
percorresse quei pochi metri spessissimo, gli era ancora necessario
prestare attenzione a non pestare niente e a non sbattere contro nessun
mobile.
Non
passò neanche un minuto, ma loro lo vissero come una vita
intera: al di fuori di quella casa, nessuno li conosceva. La porta
grande e massiccia lli aveva sempre protetti e, al tempo stesso,
privati delle critiche degli altri: era impossibile crescere da soli,
senza che qualcuno comunicasse loro in che aspetto migliorare, in quale
rivedere le proprie convinzioni assolute. E mentre questa visione loro
la limitavano al mondo della musica, nulla impediva che si potesse
estendere anche a quello della vita.
Aeroporto
di Tokyo, 20 luglio 2016, 14:42
Dopo
aver ringraziato e salutato l’autista, entrambi scesero
dall’autovettura bianca.
Shouyou
diede una lieve spinta alla portiera, che si chiuse a stento.
Deglutì un groppo in gola che aveva sentito formarsi mentre
avevano iniziato a muoversi, e avanzò a testa bassa fino ad
affiancare l’altro ragazzo.
Tobio
gli rivolse un’occhiata perplessa. «Ohi, non mi
dire che te la stai facendo sotto.»
Il
pianista strinse i denti per istinto. «C’era
davvero bisogno di un taxi?»
«Dato
che volevamo arrivare in poco tempo, sì»
chiarì, spiazzato per l’assenza di proteste.
«Quanto
hai pagato?» mormorò con lo sguardo puntato a
terra.
Il
taxi ripartì e loro restarono fermi in mezzo al parcheggio
esterno.
Lo
scrutò attentamente per qualche secondo, per capire che
sentimenti stesse provando: rabbia, senso di colpa, vergogna? Non ci
riuscì, perciò si avviò verso le porte
scorrevoli dell’ingresso, dando per scontato che
l’altro lo seguisse. Aveva capito, però, cosa
aveva causato quelle emozioni.
«Rispondimi,
Kageyama!» Voleva avere una voce sicura, e invece
andò tremendamente vicina al tremolante. Tuttavia, non si
mosse e alzò il capo per guardare direttamente il ragazzo.
Continuò
a camminare e non si girò né lo degnò
di un’occhiata. «Non ti preoccupare.»
Smarrito
dal tono candido, quasi gentile, del corvino, tutto il disagio e
l’imminente pianto gli scivolarono di dosso come acqua. Corse
al suo fianco e si ostinò a tenere su di lui i suoi occhi,
ancora incredulo.
Tobio
odiava sentirsi osservato in quel modo, quasi gli stesse facendo una
radiografia, e da quelle iridi che per i suoi gusti erano troppo grandi.
Shouyou
non fece più domande. Si limitò a torturarsi
l’interno delle guance e le pellicine sulle dita. Non smise
mai di occhieggiare Tobio che, come lui, pareva star vivendo un
dissidio interiore.
I
motivi, ovviamente, non erano gli stessi.
Appena
avvistò un enorme pianoforte a coda nero, lucidissimo, gli
brillò lo sguardo e, nonostante ciò che era
accaduto precedentemente, sorrise. Avvertì il petto
gonfiarsi di meraviglia, poi si rivolse a Tobio: «Come facevi
a sapere dov’era?»
Gli
lanciò un’occhiata fuggevole, ma non era
né di disprezzo né di irritazione.
«Sono venuto tante volte in questo aeroporto»
spiegò vago, alzando le spalle.
«Davvero?
Hai mai preso un aereo?» chiese con stupore.
Il
quindicenne sbatté le palpebre, non comprendendo tutta
quella agitazione. «Sì…?»
farfugliò, come se fosse ovvio.
«E
com’è?»
«Tremendo»
ammise con una smorfia. Gli venne in mente il volo che aveva preso
insieme a suo padre, qualche anno prima, per l’Inghilterra,
l’aria pesante, le orecchie perennemente tappate e le gambe
che gli formicolavano per la posizione scomoda. Erano state dodici ore
atroci.
Il
volto del più basso si contrasse in un cipiglio deluso.
Tobio
si bloccò e Shouyou, che stava dietro di lui, gli
finì quasi addosso. A circa un metro da loro, il piano si
estendeva nella sua elegante imponenza, strabiliando la gente anche
più lontana.
«Dovremmo
suonare qui?» sussurrò il pianista in seguito a un
silenzio concorde. Girò attorno allo strumento, notando
finalmente lo sgabello.
Quasi
lo intimoriva. Si era sempre seduto davanti a pianoforti relativamente
piccoli e si era illuso di poterli domare. Adesso, invece, provava
l’ansia e l’adrenalina scorrergli nelle vene, allo
stesso modo di un uomo rinchiuso in una gabbia insieme a un leone
affamato.
«Sì.»
Tobio
appariva così sicuro, stabile. Per un momento lo
invidiò per il sangue freddo che stava ostentando: se anche
era nervoso, lo celava perfettamente.
«Hinata,»
proferì piano, artigliandolo per un braccio e avvicinandolo
a sé, «sta’ calmo e non ti agitare.
Fa’ come se fossimo a casa.»
Lo
aveva detto con tono deciso ma non brusco; ancora lontano, tuttavia,
dall’essere rassicurante.
Avrebbe
voluto ribattere che non erano a casa, che tutte quelle persone li
avrebbero ascoltati, studiati e criticati comunque, che non era
possibile stare calmi. Il violinista, però, lo
lasciò e si abbassò fino ad adagiare la borsa sul
pavimento liscio, per poi procedere a schiudere la zip.
Shouyou
si abbandonò sullo sgabello, il cuore che sembrava volergli
sfondare lo sterno. Fissando insistentemente il colore scuro e lucente
della cassa armonica, sollevò con lentezza e accortezza il
coperchio. Espirò dal naso e chiuse gli occhi, tentando di
raccogliere più concentrazione possibile. Percepiva
già decine di sguardi confusi e basiti su di lui.
«Hinata»
lo avvertì sommessamente, poiché la gente stava
già iniziando ad adunarsi intorno a loro.
Gli
gettò un’occhiata, scorgendolo alla sua destra e
incontrando i suoi occhi: li avrebbe riconosciuti ovunque, soprattutto
in quei momenti, in cui il ghiaccio si scioglieva per dar vita a un
mare in tempesta. Lo vide portare il violino vicino al mento e, quando
toccò la clavicola, cominciò a contare.
Un.
La
prima volta era stata magica: sembrava davvero che ne fossero stati in
grado grazie alla magia.
Due.
La
seconda era stata un disastro e non erano nemmeno arrivati alla seconda
pagina della partitura. Si erano arresi? Naturalmente no.
Tre.
Alla
terza era stato palese che Shouyou fosse completamente fuso: aveva
esordito con Cantabile,
il brano di Paganini.
Quattro.
La
quarta, qualche ora dopo, era stata mediocre: piena di errori di
dinamica per la paura di scoordinarsi. Erano andati avanti a questo
modo, come se la prima volta non fosse neppure esistita; se
così fosse stato, però, loro non avrebbero saputo
che potevano arrivarci, alla vetta. Dovevano solo fare più
pratica.
Un.
Erano
riusciti ad eliminare la maggior parte degli errori di dinamica
soltanto dopo una settimana di lavoro portato quasi agli estremi. In
quel momento, Shouyou aveva finalmente assistito alla parte
più tenera, infantile di Tobio: aveva urlato, ma non contro
qualcuno. Aveva urlato perché ne aveva sentito il bisogno,
per dire a chiunque lo avesse udito che ce l’aveva fatta.
Due.
Non
avevano potuto distinguere neanche col binocolo la stessa correttezza
ed emotività per almeno le cento occasioni seguenti.
C’era sempre qualcosa che non erano capaci di correggere,
anche minima: il problema ‒ o la fortuna ‒ era che entrambi si
imponevano di dare il meglio di sé, di ricercare la
perfezione.
Tre.
Shouyou
si era accorto piuttosto tardi che ciò che tentavano di fare
da giorni consisteva in qualcosa di assurdamente complesso. Tobio era
obbligato a volgere tutta la sua attenzione ai suoi stessi movimenti:
appena il suo violino gli toccava la spalla, lui doveva iniziare a
contare in una maniera a cui non era abituato. Inoltre, era
fondamentale riporre in Shouyou tutta la sua fiducia; ma non era
abituato neanche a questo. In generale, non era abituato a fidarsi di
chiunque.
Se
voleva vincere, però, doveva imparare.
Quattro.
Con
tutta la forza di volontà che manifestavano arrivavano a
fare quasi tutto, anche le cose che sarebbero potute apparire
impossibili, e lo dimostrarono in quel momento.
Fu
come la prima volta: magico.
D’un
tratto, la pesantezza degli occhi della gente sparì,
così come tutto ciò che li circondava: rimasero
solo Shouyou e Tobio, il pianoforte e il violino.
Nemmeno
gli annunci agli altoparlanti potevano distrarli: erano solo suoni
robotici, distanti. A loro non interessavano, perché in quel
momento esisteva la musica e basta, per quanto effimera e inafferabile
fosse. Sembrava che stessero dentro a un castello costruito con delle
carte, uno di quelli che i bambini si divertono a creare ma che poi
è destinato a cedere, in un modo o nell’altro.
Bastava un soffio, un dito a sfiorare una singola carta, e allora tutto
cadeva sopra di loro. Forse era possibile rallentare il tempo, restare
ancora un po’ così, nella propria
immobilità serafica e talmente pericolosa da renderla ancora
più elettrizzante. Forse era possibile resistere, sostenere
il castello affinché non collassasse.
Il
soffio, la mano sbadata arrivarono prima del previsto.
«Mamma,
mamma! Cosa stanno suonando?»
E
allora l’aria intorno a Shouyou tornò a farsi
opprimente, con tutti gli sguardi e il dito puntato su di loro. Non
sapeva se li stessero giudicando negativamente, ma era comunque una
distrazione; e per lui, essere distratto era la peggiore delle
possibilità che potessero presentarsi.
E
se avesse sbagliato? Tobio lo avrebbe abbandonato perché non
era stato in grado di suonare in pubblico? No, del resto era
invischiato anche lui in quella faccenda e desiderava con tutto se
stesso partecipare al torneo. Però mancava ancora tanto
tempo ai nazionali, e loro non avevano scelto il brano…
Magari a quel punto lo avrebbe sul serio lasciato per trovare un
pianista più competente. E poi, era davvero concesso dalle
regole?
Anche
la troppa energia esercitata dall’interno avrebbe saputo
rovesciare il loro castello: non sempre erano il soffio o il dito
esterni a rovinare ciò che si era costruito in tanto tempo.
Sotto
quelle carte stavano in due, benché lo spazio fosse troppo
ridotto; dovevano avvicinarsi sempre di più, conoscersi in
tutto e per tutto. Tuttavia, Shouyou non conosceva quasi nulla di Tobio
e Tobio voleva credere che gliene importasse ancora poco di Shouyou.
La
fiducia non in tutti i casi si rivelava sufficiente. In quel caso
serviva da base, ma le mura non si potevano fabbricare da sole.
La
mano gli tremò a tal punto da fargli saltare una nota di un
accordo: fu allora che andò nel panico. Le mani tremolanti
faticavano ad arrancare dietro al suono raffinato e prestante del
violino. Strinse le labbra e, dai movimenti fluidi in cui si era
trascinato finora, passò a una sgradevole
rigidità.
Tobio
lo guardò allarmato da sopra la spalla, ma non si
arrestò.
Perché
tutti i castelli di carte sono destinati a cedere, in un modo o
nell’altro. Ciò, però, non impediva
loro di ricostruirne un altro.
Aeroporto
di Tokyo, 20 luglio 2016, 15:03
«Ora
mi spieghi perché.»
Shouyou
abbassò lo sguardo, sotto pressione: probabilmente non gli
avrebbe più permesso di mettere piede in casa sua,
né di suonare insieme a lui nel torneo.
«Quella
bambina ti ha deconcentrato? Te la sei davvero fatta sotto davanti a
tutta quella gente?» Mosse un altro passo, ritrovandosi il
sedicenne giusto a qualche centimetro da sé.
Gli
indirizzò un’occhiata, rendendosi conto che
l’espressione di Tobio era, sì, irata, ma non
sembrava sul punto di picchiarlo ‒ non sul serio, almeno. Era sincero
riguardo al voler capire il perché di
quell’impazzimento.
«Rispondimi,
deficiente!» Gli picchiettò l’indice
sulla fronte pallida. «Dobbiamo tornare a casa, non ho
intenzione di stare tutto il giorno qua!»
In
realtà non gli sarebbe dispiaciuto troppo stare
lì per un poco: su quel terrazzo tirava un gradevole vento
fresco che emanava un senso di pace e benessere. Per loro fortuna,
quello era un giorno feriale e, nonostante le terrazze
dell’aeroporto Haneda vantassero di grande fama e un
esorbitante numero di visitatori, non era neppure troppo popolata. Si
trovavano in un angolo colmo di vasi con fiori di tutti i colori e le
finestre che davano sull’interno a qualche metro da loro.
Il
rosso mostrò un cipiglio confuso e alzò lo gli
occhi su quelli del violinista. «Suoneremo ancora
insieme?» bisbigliò, più rivolto a se
stesso che all’altro. «Non vuoi cercare un altro
accompagnatore?»
I
suoi lineamenti si deformarono in una smorfia indignata, quasi avesse
appena attentato alla sua intelligenza. «Sei proprio duro,
allora» sbuffò, afferrando la custodia del violino
che aveva adagiato contro il muretto grigio dopo aver trascinato
Shouyou in quel luogo. «Non ho speso tutto questo tempo per
nulla e non posso dire al primo che passa di partecipare a un torneo
con me.» Prese a passeggiare verso l’ingresso a
passo rilassato.
Il
pianista corse davanti a lui e camminò
all’indietro, incurante di poter colpire qualcuno.
«Ma ti ho fatto fare una figuraccia davanti a un sacco di
persone!» esclamò gesticolando. «Ho
rovinato tutta l’esibizione!»
La
bocca di Tobio, se possibile, si storse ancora di più.
«Sei tu che hai fatto schifo, non io»
rettificò, facendolo curvare verso destra con poco garbo.
«E suono con te anche sapendo che sei una
schiappa.» Lo spinse più forte. «Quindi
muoviti, ché se fai così anche al concorso ti
uccido!»
Tokyo,
25 luglio 2016, 10:31
Il
trillo del campanello giunse lievemente attutito in bagno.
«Ma
che cazzo...»
Si
tirò su i pantaloncini frettolosamente, e nel processo il
portascopino si rovesciò, lasciando fluire fuori
l’acqua.
«Merda!»
Ancora
con la cerniera dei bermuda aperta, si precipitò nella
veranda, dove teneva scope e stracci usurati. Dopo aver riempito il
secchio di acqua e averci versato dentro del detersivo per pavimenti,
vi inzuppò il panno e lo strizzò. Si
affrettò nuovamente al bagno dalle mattonelle azzurre,
brandendo il bastone come se fosse una lancia, con le gocce
d’acqua che cadevano dietro di lui e segnavano il suo
percorso.
Dopo
aver rimesso a posto il portascopino, iniziò a pulire e si
dimenticò totalmente di avere qualcuno ad aspettarlo alla
porta. Almeno finché quel qualcuno glielo ricordò
in modo assordante e fastidioso.
Finì
di fretta in furia di pulire, borbottando imprecazioni, per poi
riportare lo straccio in veranda e scendere per le scale.
Saltellando
tra i libri di cui ormai conosceva esattamente la posizione ‒ non li
spostava da mesi, dopotutto ‒, arrivò all’entrata
e l’aprì con veemenza.
Poteva
essere solo lui, ovvio.
«Ma
perché ci sei stato così tanto,
Kageyama?» allungò le vocali del suo nome come in
una cantilena. S’introfulò di sua spontanea
volontà, cominciando a vagare per il salone.
Tobio
lo raggiunse e gli prese il capo con una mano, stringendolo.
«È sempre colpa tua, imbecille.» Lo
usò come appoggio e lo superò impettito.
«Che
ho fatto ora?» Massaggiandosi la nuca, si mise al suo passo e
salì sul primo gradino delle scale per il secondo piano.
«Sei
venuto» bofonchiò il più alto.
«Mi
hai detto tu di venire ogni giorno alle dieci e mezza!»
protestò Shouyou offeso.
Lo
freddò con un’occhiataccia. «Ma non
mentre sono in bagno, idiota.»
«E
io mica posso sapere quando sei in bagno o no...»
«E
allora fai in in modo di saperlo prima di rompere!»
«Blablabla»
lo scimmiottò, le labbra ancora arricciate. «Ci
hai messo comunque un sacco e non è colpa mia.»
Scavalcò
gli ultimi due scalini in un sol movimento e, dopo avergli lanciato uno
sguardo eloquente, prese a correre verso la sua stanza.
Il
sedicenne stette fermo per un secondo, disorientato, ma subito dopo lo
seguì seppure fosse indietro.
Quando
piombò nella camera, trovò Tobio che lo guardava
dall’alto in basso con un ghigno beffardo. Si
raddrizzò e, fatto qualche passo, si mise a sedere sullo
sgabello davanti al pianoforte, leggermente ansante.
«Hai
barato, non è giusto.»
S’immusonì nuovamente.
«Ma
perché ci sei stato così tanto,
Hinata?» lo imitò, ancora con quel sorrisetto
schernitore che Shouyou gli avrebbe voluto togliere con tutto se stesso.
Sbuffò,
voltandosi. «Antipatico come sempre» si
lamentò.
«Lento
come sempre» rispose a tono, girandosi anche lui anche se per
prendere il violino.
«Comunque»
riprese circa un minuto dopo, con tono annoiato e apparentemente
disinteressato, «da oggi ti metterò le chiavi sul
davanzale della finestra, quella a destra della porta.»
Sbatté
le palpebre un paio di volte. «E non ti spaventi?»
«Ovviamente
le nascondo, stupido.» Pizzicò una corda con
l’archetto per verificare che la quantità di
colofonia che aveva usato fosse sufficiente. «E poi
c’è sempre Hirashi-san a controllare chi entra nel
residence.»
Il
pianista lo guardò mentre armeggiava con il suo strumento.
«Significa che potrò venire qua quando
vorrò» rifletté, poggiando il gomito
sulla coscia mentre si sosteneva il mento sul palmo.
Tobio
lo fulminò con lo sguardo. «Guai a te se mi rompi
alle due di notte solo perché non riesci a dormire o cose
simili.»
Ridacchiò
come se farlo davvero lo avrebbe divertito. «No,
intendevo...» Fissò i suoi occhi d’ambra
in quelli blu notte dell’altro e sorrise allo stesso modo di
chi sorride nel vedere delle tenere sciocchezze compiute da un bambino.
«Ti devi fidare tanto di me se mi dai la
possibilità di entrare a mio piacimento.»
Sentì
il cuore saltargli in gola e le guance riscaldarsi, e strinse la bocca
nell’inutile tentativo di far cessare quello strano tepore
che si stava espandendo nel petto. «Che
cavolate...» Volse la testa di lato imbarazzato.
«È che sei troppo stupido per fare qualcosa di
cattivo» masticò stentatamente.
Allargò
il sorriso, quasi non avesse udito l’ultimo insulto. Si mise
in piedi e immediatamente si buttò di schiena sul letto,
vicino alla custodia del violino. «Ormai ti conosco,
Kageyama-kun!»
Tokyo,
28 luglio 2016, 17:16
Si
passò una mano sulla fronte grondante, mentre con
l’altra continuava a strofinare il panno bianco sulla cassa
armonica del pianoforte. Lo aveva chiesto tempo fa a Tobio e lui, in
seguito a una lunga occhiata, non aveva obiettato. Pulirlo lo faceva
diventare un po’ più suo, lo aiutava a conoscere
ogni dettaglio e a entrarvi in sintonia.
Sentì
il cigolio delle doghe dietro di lui e si girò, ancora
piegato sulla tastiera.
«Sei
tornato...» osservò a bassa voce, tornando a
spolverare e lucidare il piano. «Con chi parlavi?»
«Con
mio zio.» Versò qualche goccia su un pezzo di
stoffa blu e prese anche lui a sfregarlo sul suo strumento.
«Domenica suoneremo per la sua scuola» aggiunse
poi, calmissimo.
Shouyou
trasalì e si voltò di scatto verso il corvino,
strabuzzando gli occhi e mettendosi diritto. «La sua
scuola?» s’informò stupito.
Il
quindicenne annuì, non distogliendo l’attenzione
dal violino. «È il fratello di mia madre. Porta
avanti una scuola privata da un po’ di anni…
Diciamo che dalla parte materna sono quasi tutti musicisti.»
Parlò sempre con quel tono distaccato, freddo, come se non
stesse raccontando della sua famiglia ma di qualche estraneo.
«E
perché dovremmo andare a suonare noi in una scuola
privata?» Storse le labbra, perplesso.
«L’unica cosa buona è che non me
l’hai detto all’ultimo minuto come
sempre...»
Se
doveva essere onesto, sì, avrebbe detto di avere decisamente
qualcosa contro le istituzioni private ‒ a parte il liceo e le scuole
medie, dato che nel loro paese era impossibile trovare una scuola
pubblica vicino casa che impartisse una formazione decente. Durante i
suoi primi anni alle elementari aveva desiderato come non mai seguire
un qualsiasi corso, che fosse di sport o di musica.
D’altronde, se i suoi compagni potevano seguirli,
perché lui non poteva fare lo stesso?
Ora,
invece, andava estremamente fiero del suo essere autodidatta, del
sudore e dell’impegno che ci aveva buttato, poiché
se ora si trovava lì lo doveva soltanto a se stesso ‒ e in
parte a Tobio, ma non avrebbe ringraziato quell’antipatico
più del dovuto.
Scrollò
le spalle. «L’avevo chiamato ieri sera per
chiedergli se ci fosse qualche possibilità di suonare in
pubblico, e oggi mi ha detto che ha tenuto occupato un posto verso
l’inizio dell’esibizione per gli ospiti.»
Lo fissò intensamente, smettendo di dedicarsi al suo
violino. «Non dobbiamo pagare nulla. Durerà pochi
minuti, ce ne andremo subito dopo e non ci sarà nessuna
premiazione, quindi non andare nel panico. Capito, stupido?»
Shouyou
calò lo sguardo sul marmo riscaldato dal sole del
pomeriggio. «Sarò nervoso...»
«È
normale essere nervosi» ribatté Tobio con
nonchalance, ponendo il panno blu e il detergente sul comodino accanto
alla testiera del letto. «Se non lo sei vuol dire che non te
ne frega niente.»
Il
ragazzo dei capelli rossi lo osservò. Era tranquillo e lo
era stato anche prima di intervenire nell’aeroporto. Strano:
non si sforzava nemmeno per infuriarsi così spesso e a
mostrarlo, tuttavia nel momento in cui sarebbe potuto apparire debole
agli occhi degli altri, tratteneva tutto dentro. Preferiva risolvere i
problemi da sé, non accogliendo il sostegno di nessuno.
Gli
rivolse un sorriso dolce, come se gli avesse confessato una sua
preoccupazione. «Facciamolo, Kageyama!» lo
sfidò allungando un braccio verso di lui, il pugno serrato.
Il
violinista batté le ciglia scure un paio di volte,
sbigottito. Qualche istante dopo, tese anch’egli
l’arto con esitazione e chiuse la mano.
Benché
in modo inavvertibile, un sorriso sghembo era apparso a rilassargli i
lineamenti.
Tokyo,
31 luglio 2016, 9:46
Espirò
piano dalla bocca, appoggiando la testa al muro e calando le palpebre.
Continuò a respirare in modo lento, quasi simulato, provando
a placare il cuore che gli batteva impazzito nel petto.
«Tutto
bene?»
Il
timbro lo riconobbe subito, ma non era squillante come sempre. Gli
parve più basso, un po’ tremolante. Aveva ragione:
era teso.
Schiuse
pigramente un occhio. «Lo faccio sempre prima di
esibirmi.»
Shouyou
gli sedette a fianco, alzandosi la giacca nera e gessata che gli stava
lievemente lunga. «Perché?»
Il
violinista lo richiuse. «Perché mi aiuta a
calmarmi.»
Annuì
debolmente, volgendo il capo verso il muro opposto del corridoio. Alla
loro destra c’erano alcuni assistenti che chiamavano i
partecipanti, mentre questi ultimi erano rinchiusi nei propri camerini.
Naturalmente,
loro due non ne avevano: era solo due ospiti che in pochi,
là fuori sugli spalti, conoscevano. Siccome era un saggio
che determinava la sospensione dei corsi fino all’inizio
dell’autunno, la maggior parte delle persone riunite erano
parenti degli alunni stessi. Magari, chi faceva già parte
del mondo della musica era a conoscenza del talento che Tobio
incarnava, ma Shouyou era un completo sconosciuto a tutti.
Quella
poteva essere anche una fortuna: non doveva soddisfare nessuna
aspettativa. Essere un prodigio, forse, portava con sé un
fardello non indifferente.
Ogni
brano eseguito male rappresentava una sconfitta, anche in un evento
privo di antagonismo. E loro non avevano alcuna intenzione di perdere.
«Tobio
Kageyama-san» gli occhi dell’uomo guizzarono di
nuovo sul foglio di carta che teneva in mano, «Shouyou
Hinata-san, è il vostro turno.»
Il
rosso lo guardò profondamente; ormai, tuttavia, non gli dava
più troppo fastidio. Prese il violino appoggiato alle sue
gambe piegate e, facendo poco gentilmente leva sulla spalla
dell’altro, fu dritto sui piedi, per poi procedere in
silenzio sino all’entrata del palco. Prima di addentrarsi
nell’oscurità, però, si
voltò: Shouyou stava salendo sull’ultimo scalino,
a poco meno da un metro da lui.
Sollevò
lo sguardo sul violinista. «Che vuoi?»
borbottò ancora imbronciato per lo sfruttamento della sua
spalla.
Tobio
non rispose finché non mise piede sulle travi di legno scuro
dell’impalcatura, emulato all’istante dal sedicenne.
Gli
lanciò un’occhiata penetrante.
«Fa’ del tuo meglio, idiota.»
Tokyo,
31 luglio 2016, 9:54
Abbassò
il violino e la prima cosa che fece fu volgersi alla sua sinistra.
Incontrò gli occhi del pianista, brillanti e lucidi come
sempre quando suonava, e notò il suo smagliante sorriso.
Assentì minimamente, per poi dare di nuovo la sua attenzione
alla folla, da cui si levavano scroscianti applausi.
Shouyou
si alzò dallo sgabello e raggiunse la sua destra con
andatura quasi posata. Scrutò un’altra volta il
ragazzo accanto a lui, per scorgere qualsiasi emozione che trasparisse
dal suo volto: aveva le guance rosse ‒ poteva però essere
anche lo sforzo ‒ e la bocca gli tremva lievemente, anche se non ne
capì la ragione.
Gli
diede una pacca sulla schiena, una specie di complimento, e allora
quell’espressione che per lui era decisamente eccitata
mutò in un cipiglio indispettito. Durò solo per
un attimo, poi si piegò in un inchino per non darlo a
vedere, e allora anche il pianista s’inchinò,
grato a tutte quelle lodi.
Dopo
qualche secondo, si drizzarono e, apprezzati gli applausi ancora un
po’, camminarono verso l’uscita.
Tobio
riusciva a sentire il fiato corto dell’altro accanto a
sé, che quasi sovrastava il rumore del battito del suo cuore
‒ lo sentiva martellare follemente, il sangue pompato rimbombare nelle
orecchie. Ingoiò un grumo di saliva, scoprendosi con la
bocca secca, e si alienò un attimo dal mondo.
Gli
era piaciuto suonare con qualcun altro, su un palco davanti a un
pubblico. Gli era piaciuto condividere i suoi sentimenti, per quanto
negativi fossero, con la musica di qualcun altro. Pensò che
probabilmente stava impazzendo anche lui, insieme al suo cuore.
Come
Shouyou gli rivolse quel sorriso così irritante e accecante,
si riscosse. Dietro le quinte, poco prima di scendere per la breve
scalinata, rispose alla pacca sulle spalle precedente ‒ ma con molta
più potenza.
Il
sedicenne quasi cadde in avanti e, tossicchiando, esclamò un
«Ahi!».
Il
violinista proseguì impettito, contento di essersi prese la
sua rivincita.
«Ma
sei pazzo?» strillò, non preoccupandosi di
moderare i toni nonostante fossero ancora sul palco.
Il
moro si accigliò, girandosi appena e guardandolo torvo.
«L’hai fatto anche tu, imbecille!»
Il
cooperatore, vestito di tutto punto con un frac nero, lo
osservò sconcertato sfilare davanti a sé proprio
mentre insultava il pianista.
«La
mia era amichevole!» si aggiunse quest’ultimo,
contrariato, scendendo giù per le scale di corsa.
«Qualcosa tipo: “bravo”!»
Tobio
schiuse e richiuse le labbra innumerevoli volte, colto di sorpresa. Era
un gesto comune tra loro ragazzi? Non lo sapeva, nessuno lo aveva mai
fatto a lui e lui non lo aveva mai fatto a nessuno.
La
prima che gli venne in mente la farfugliò goffamente:
«Be’, la mia no!»
Il
viso di Shouyou divenne una maschera di delusione e stizza.
«Il solito insopportabile!» Saltò
l’ultimo gradino sotto lo sguardo frastornato
dell’assistente, che si fermava un momento su di lui un
momento su Tobio.
A
dir la verità, non poteva negare che avesse eseguito il
tutto più che bene. Stavolta, aveva contribuito a costruire
il loro castello di carte, sebbene alcune di esse non fossero
posizionate perfettamente, e ne aveva avuto un valido controllo.
Ovviamente,
avevano deciso nello stesso momento. Avevano imparato insieme che ogni
castello di carte, prima o poi, deve collassare, affinché
uno più bello e stabile venga realizzato. Allora tanto
valeva scegliere quando, no?
Tokyo,
14 agosto 2016, 15:28
Come
faceva ormai da settimane, si diresse alla finestra e, dietro un piatto
con del cibo per gatti, scovò la chiave
dell’appartamento. La afferrò frettolosamente e
con la stessa agitazione spalancò l’ingresso dopo
aver fatto scattare la serratura.
Uno
spiraglio di luce strisciò lungo il pavimento del salone
come un serpente, ma Shouyou serrò la porta dietro di lui
appena entrato. Se Tobio voleva che quel posto restasse
nell’oscurità, allora avrebbe rispettato la sua
decisione, pur essendo terribilmente curioso.
«Kageyama,
sbrigati!» strepitò più forte che
poté, giocando con il portachiavi. Avvertì
qualcosa tastare la sua testa e subito dopo attanagliarla.
«Sono
qui, idiota, non c’è bisogno di spaccarmi i
timpani» sibilò il quindicenne, ma levò
la mano dai suoi capelli impossibili comunque.
Il
ragazzo dagli occhi del colore del tramonto sorrise, elettrizzato.
«Su, andiamo!» Lo sospinse con entrambe le mani
sulla borsa del violino, mentre l’altro calava la maniglia
d’ottone.
Fece
una smorfia indignata e gli schiaffeggiò gli avambracci.
«Tocca ancora la mia custodia e ti faccio cadere le mani,
deficiente!»
Allora
Shouyou lo spinse ancora, stavolta dalle spalle, rischiando di farlo
cadere mentre andava giù per i gradini
dell’uscita. Come il corvino emise un suono strozzato,
scoppiò a ridere e lo superò, saltellando per il
viottolo dell’abitazione.
Si
raddrizzò, e dire che il suo sguardo sarebbe stato capace di
incendiare un’intera città era un eufemismo.
«Hinata, idiota!» urlò in una specie di
dichiarazione di guerra.
L’appellato
si voltò e sbarrò per un secondo gli occhi nel
vedere l’espressione furente del violinista.
Tobio
ebbe appena il tempo di notare un ghignetto furbo sul suo viso che
l’altro prese a correre nella direzione opposta.
«Torna qui!» gridò ancora, seguendolo a
ruota.
Shouyou
continuò a correre, ridente come non mai.
Tokyo,
14 agosto 2016, 17:32
«Dove
vai?»
«A
sedermi.»
Lo
vide indugiare un po’ sul limite della stanza, come se
volesse aspettarlo.
«Come
la scorsa volta?» s’informò interessato.
Il 31, seduti l’uno di fianco a l’altro, non
avevano più proferito parola: Shouyou, però, non
aveva provato il bisogno di rompere quel silenzio, il che rasentava
l’insensato per lui.
Il
moro annuì e si fermò definitivamente, ma non si
voltò. «Resti qua?»
«Io...»
esitò. Gli sarebbe piaciuto assistere alle tre esibizioni
antecedenti alla loro, in quella piccola sala con qualche sedia e due
schermi. Poi rammentò la sensazione piacevole che Tobio
accanto a lui gli aveva procurato. «Arrivo.» Gli
indirizzò un sorriso di scuse, quasi gli stesse facendo un
torto. «Solo un attimo.»
Alzò
un po’ le spalle, borbottando un «Va
bene», e appena uscito chiuse a metà la porta
scorrevole della stanza.
Il
corridoio, tranne per qualche insegnante e dei concorrenti che
parlottavano sommessamente tra di loro, era vuoto. Mosse qualche passo,
virò a sinistra e, giunto in un punto impreciso che gli
sembrava abbastanza lontano da quel gruppetto, si lasciò
scivolare contro il muro bianco. Forse la giacca nera dello smoking si
stava anche sporcando di intonaco, ma non ci pensò troppo.
Appoggiò
con garbo il violino e l’archetto accanto alla sua spalla. Si
portò le ginocchia al petto e, dopo averle abbracciate, ci
affondò il volto.
Apprezzava
particolarmente quella parte del suo riscaldamento: non era fisico,
bensì psicologico. Lo aiutava a fare mente locale di tutte
le esperienze più intense che aveva vissuto,
perché tutto ciò che percepiva in quei momenti lo
traduceva in musica. Lo psicologo che gli avevano rifilato anni fa gli
aveva detto che i traumi o delle vicende cariche di sentimenti dannosi
sono più facili da dimenticare, dopo tanto tempo. Il
subconscio li elimina, li relega nel dimenticatoio del nostro cervello,
affinché essi non facciano soffrire.
Però,
tolti quelli, a lui cosa rimaneva?
Dato
che vedeva nero a prescindere, compresse forte gli occhi.
Li
riaprì, in seguito a dei pensieri che erano solo nocivi,
come si accorse che qualcosa era vicino a lui. Volse fiaccamente il
capo, ritrovandosi lo sguardo e i denti luminosi di Shouyou a circa un
metro da lui. Tornò alla postura di prima, ma non
riuscì più a rievocare tutti gli avvenimenti
degli ultimi cinque anni.
Pensò
a sua madre che suonava la Gioia
di amare
di Kreisler, mentre lui si nascondeva sotto il pianoforte orizzontale,
per poi vagare in tutti quei brani della sua infanzia che aveva
ascoltato, in mezzo a tanti anziani giudici e intenditori, grazie
all’orchestra di cui faceva parte quella spettacolare
pianista.
E
riavvertì la pelle d’oca sulle braccia,
l’amore per la musica ‒ e soprattutto per il violino ‒ che si
allargava nel suo petto come una bolla di sapone.
Non
sapeva cosa,
ma qualche cosa sicuramente gli restava.
Appena
sentì il suo nome, la sua testa scattò in alto.
Non era stato distolto dalle sue stesse riflessioni, al contrario: era
ancora più concentrato su ciò che doveva e voleva
fare.
Guardò
l’altro e fu soddisfatto di aver previsto correttamente:
anche Shouyou era vigile. Si stava già rimettendo in piedi,
ma la luce dei suoi occhi non sfuggì a Tobio. Era
più scura, ma non per qesto meno viva.
Una
volta dritto, gli offrì la mano, ma lui si girò
dalla parte opposta e prese il suo strumento. Poi si
ripresentò alla sua altezza naturale, in un atteggiamento
tanto sicuro da risultare quasi imponente.
Il
ragazzo dai capelli rossicci gli fece la linguaccia, risentito, ma
attese che facesse il primo passo verso l’entrata con lui.
Si
rivolsero uno sguardo serissimo, per sfidarsi a modo loro, quasi si
sarebbero dovuti sorpassare a vicenda per vincere, solo quando si
trovarono al varco per i loro sogni.
Tokyo,
14 agosto 2016, 17:59
«Mi
raccomando: calmo.»
«Lo
stai dicendo a te, Kageyama-kun?»
Sembravano
dire quello le occhiate che si lanciarono poco prima che la spalla di
Tobio sfiorasse il legno del violino.
Un,
due, tre, quattro.
Eccole,
le prime due carte, pronte a congiungersi. Senza di esse, sarebbe stato
impossibile costruire tutto il castello. Necessitavano di
concentrazione, tranquillità, o sarebbero cadute subito.
Esisteva un solo tentativo: se fossero crollate la prima volta li
avrebbero schiacciati come dei macigni.
Un,
due, tre.
Mancava
un millimetro. Uno solo, e allora avrebbero sicuramente continuato.
Quattro.
Un
tasto si abbassò, pressato dalla mano sinistra di Shouyou;
il bicordo del violino vibrò nell’aria statica,
cristallino come acqua di un ruscello.
Le
prime due carte erano lì, inclinate fino a toccarsi e a
sorreggersi a vicenda, e loro erano sottodi esse: decisero entrambi che
era troppo presto per distruggerlo. Un po’ più di
carte, una struttura più sofisticata, più gente
meravigliata da quella costruzione. Allora si sarebbero accorti anche
dei suoi artefici e non li avrebbero più dimenticati.
Un.
Accorse
anche la mano destra, mentre la sinistra si spostava già sul
prossimo tasto; il Sol del violino, però,
sovrastò tutto.
Tobio
occhieggiò il ragazzo che era ormai ufficialmente diventato
il suo
accompagnatore,
sorprendendosi di trovare gli occhi d’ambra indirizzati a
lui. Era la prima volta che i loro sguardi si incontravano durante
un’esecuzione.
Mentre
proseguivano con il pezzo, una gara tutta loro ebbe inizio. Se non
riuscivano ad oltreppassare i propri limiti, come avrebbero potuto
vincere contro gli altri? Se desideravano competere a livello
nazionale, era indispensabile superare se stessi, perché
qualcuno migliore di loro ci sarebbe stato indubbiamente.
Dunque,
avrebbero combattuto per spodestare quel qualcuno e persino le loro
stesse persone, per ripresentarsi sempre più in alto, anche
solo di un posto per volta.
Strinse
le mani e il tappo della biro nera gli graffiò
superficialmente un dito. «Che cosa assurda...»
Non
stava neppure annotando i vari errori, che seppur pochi
c’erano. Gli pareva di star assistendo a
un’esibizione libera da ogni gara e che solo la deformazione
professionale gli stesse impedendo di godersi appieno
l’emotività riversata in quel brano.
L’assurdità
stava nel totale contrasto tra le emozioni del violino e del
pianoforte. Entrambi estremamente coinvolti, così
concentrati nella loro impresa di trasmettere qualcosa che la musica
appariva quasi palpabile e visibile. Forse lo era. Forse, chiudendo gli
occhi, si poteva davvero osservare tutti quei sentimenti di ogni genere
prendere vita insieme alla miriade di note. Non era neanche corretto
parlare di miriade: le note sono sette, e considerando i semitoni
dodici. La bravura di un compositore sta anche nel creare delle armonie
mai sentite prima e che, contemporaneamente, siano orecchiabili; la
bravura di coloro che le suonano sta anche
nell’interpretarle, nell’imprimervi altre armonie:
le proprie esperienze, pensieri e sensazioni.
E
Shouyou e Tobio erano bravi: nonostante la discordanza, c’era
un equilibrio. Come se stessero giocando al tiro alla fune in due, con
la stessa forza ed intensità. Qualche volta, poi, il
violinista tirava un po’ di più, e allora un treno
di rabbia e angoscia investiva lo stomaco di tutti gli spettatori;
quando era il pianista a trascinare la corda verso di sé,
sembrava di andare al parco divertimenti con il proprio migliore amico
dopo uno sfogo sfiancante.
Tuttavia,
anche se raramente, Shouyou era certo di udire della gioia nella
melodia, così come a Tobio sembrava che tutta quella
felicità travolgente in certi punti si affievolisse.
Non
si rendevano conto, però, del fatto che, tirando
perennemente in direzioni opposte, si stavano avvicininando. Magari
sarebbero arrivati in un punto d’incontro in cui sarebbero
stati capaci di suonare tutta la lunghezza e le sfaccettature di quei
sentimenti, di comprendere anche quelli dell’altro.
Ora,
in ogni caso, un equilibrio esisteva. Se così non fosse
stato, le bocche del pubblico sarebbero state aperte solo per parlare.
Tokyo,
14 agosto 2016, 18:03
Il
nuovo silenzio della sala venne subito spezzato dagli applausi.
Shouyou
si era asciugato le lacrime prima di alzarsi e affiancarsi al ragazzo
che aveva già abbassato il violino e stava guardando
l’uditorio con occhi sgranati e leggermente lucidi. Ma,
quando la folla li acclamò con inaspettato vigore, altre
lacrime corsero sul suo immenso sorriso.
S’inchinò, nascondendole, immediatamente seguito
da Tobio.
In
quel momento, un altro paio di mani batterono, anche se solo tre volte.
Sebbene loro non l’avessero notato, quell’applauso
valeva almeno il triplo di quello del resto delle persone nel teatro.
Non
se lo sarebbe mai aspettato: stava sorridendo. Lievemente, i denti non
si vedevano neppure, ma non era né un ghigno derisorio
né un sorriso inquietante: era sereno.
Probabilmente era la prima volta che lo vedeva con
un’espressione così tranquilla in volto.
«Tutto
bene, Kageyama?» fece con voce allarmata, mentre si
dirigevano agli spogliatoi.
Il
piccolo sorriso scomparve come era arrivato.
«Perché?»
Shouyou
sbatté le ciglia un paio di volte, stringendosi nelle
spalle. «Stavi sorridendo...»
A
quelle parole, i suoi lineamenti s’indurirono nuovamente.
«E allora?» grugnì e si
bloccò, prendendogli il capo con una mano e stringendogli la
ribelle zazzerra rossiccia.
«Lasciami!»
si lagnò invece il pianista con voce strascicata, cercando
invano di raggiungere il petto di Tobio e colpirlo.
Dopo
aver stretto un altro po’, lo abbandonò sul posto
e procedette verso i camerini. «Prima mi dici di sorridere e
poi ti lamenti pure, idiota!»
«Ma
non mi stavo lamentando!» protestò e lo
accostò di nuovo. «Era una constatazione, dato che
non sorridi mai, ma non ho mai detto che mi dispiace.»
Stavolta fu lui a rivolgergli il suo sorriso gentile, uno di quelli che
gli riservava solo quando non lo criticava brutalmente per la sua
perfomance al piano ‒ ovvero quasi mai.
Il
quindicenne storse le labbra, bofonchiando qualcosa di incomprensibile.
Non gli poteva dare torto: la risata non faceva esattamente parte del
suo repertorio di espressioni frequenti.
Tuttavia,
qualcuno gli aveva detto che non gli dispiaceva.
E non una persona qualsiasi: era il suo
accompagnatore.
Tokyo,
14 agosto 2016, 19:17
«Smettila
di dondolare quelle dannate gambe, Cristo!»
Era
da più di mezz’ora ‒ da quando tutti i concorrenti
si erano esibiti ‒ che si trovavano nella sala principale, dove
sarebbero stati esposti i risultati. Avevano ascoltato e guardato tutte
le esibizioni e in seguito avevano corso per dieci minuti nel cortile
esterno, rientrando per l’afa insostenibile, completamente
sudati.
Si
erano messi a vagare per tutto il salone, ma, quando un impiegato dello
staff li aveva richiamati, erano stati costretti a sedersi.
«Tu
ti stai dondolando con tutto il corpo!» ribatté
Shouyou, continuando a oscillare le gambe avanti e indietro, scomposto
su una panca imbottita accanto all’altro.
«È
diverso!» rettificò il violinista, ondeggiando con
il busto come un orologio a pendolo. «Mi fai venire il mal di
mare.»
S’immusonì,
offeso, e voltò la testa di lato. «E allora non mi
guardare, stupido!»
Tobio
sbuffò con sdegno e si volse a sua volta dal lato opposto.
«E chi ti guarda!»
Alcuni
secondi dopo videro dei ragazzi, tutti sopra i quattordici anni,
accorrere davanti ai quattro schermi che scendevano dal tetto, posti al
centro.
Si
girarono di scatto e, un’occhiata velocissima dopo, si
ritrovavano già a correre verso tutti quei liceali. Alzarono
lo sguardo sui risultati.
L’ansia
li aveva corrosi per una lunga ora, a entrambi. Tobio era convinto di
essere passato insieme al pianista, ma a lui non bastava. Credeva non
bastasse nemmeno a Shouyou: erano troppo ambiziosi perché la
semplice qualificazione andasse loro bene. Quasi certamente, anche
posizionandosi secondi si sarebbero disperati, arrabbiati e avrebbero
reclamato rivincita.
Però,
almeno per quanto riguardava quel concorso, non sarebbero mai riusciti
a reclamarla.
Avvertì
un fremito in tutto il corpo, dal petto fino alle mani, che non
cessarono di tremare neppure dopo. Guardò il suo compagno
solo quando sentì un urlo provenire dalla sua sinistra.
Aveva
un pugno chiuso e il gomito piegato in segno di vittoria, le guance
arrossate e le labbra che formavano smorfie diverse ogni istante a
causa dell’emozione.
Tutti
si sbagliavano sul conto di Tobio; si era sbagliato anche lui, tempo
addietro. All’inizio gli era apparso come un ragazzo freddo,
cinico, insensibile e, in realtà, tremendamente saggio.
Shouyou si era ricreduto su tutto. Forse poteva sembrare freddo per via
del suo aspetto spaventoso, mentre probabilmente era l’unico
di sua conoscenza la cui passione equiparava la sua. Non era
né cinico né insensibile: al contrario, forse
dentro di lui bruciavano troppe emozioni, nonostante avesse
difficoltà a mostrarle.
Che
fosse un genio della musica era indubbio, ma Shouyou avrebbe riso fino
alla morte se gli avessero chiesto della sua maturità e
saggezza. Le aspettative degli altri sulla sua persona erano troppo
grandi, disumane. Tobio Kageyama era pur sempre un ragazzo di quindici
anni, non un dio.
A
lui, ad ogni modo, non sembravano neanche interessare. Si allenava
comunque, nonostante tutte le voci che giravano sul suo conto nel mondo
della musica. Lui diceva che lo faceva solo per sé, per
nessun altro, ma realizzare qualcosa per una persona cara fa sempre
sì che l’impegno e il risultato siano migliori,
più sentiti.
E Shouyou poteva giurare che, se proprio un qualcosa di Tobio era
sentito, quel qualcosa era sicuramente la musica.
Sollevò
le mani per farsi dare il batti cinque, ma inizialmente
l’altro non comprese. Quando gliele premette praticamente in
faccia, il violinista si decise ad alzare anche le sue e il ragazzo
dagli occhi d’ambra gli diede il primo batti cinque della sua
vita ‒ o almeno, quello che avrebbe sempre ricordato.
Come
notò che aveva sorriso solo per un momento effimero, si
allarmò. Lo prese per una spalla, trascinandolo di peso
mentre lui gli gridava: «So camminare da solo,
Kageyama!», poiché dalla folla di ragazzi si stava
levando sempre più confusione.
«Che
hai?» lo interrogò, con tono più
stizzito che interessato, piantandolo vicino all’uscita.
Il
pianista aggrottò lievemente la fronte e, dopo essere
sfuggito al suo sguardo indagatore per un attimo, lo fissò.
«Potremo suonare di nuovo?» disse infine, la voce
incredula.
Il
moro sbatté le palpebre un paio di volte.
«Sì…?» Che c’era di
strano?
Si
erano classificati primi,
dopotutto.
«Sempre
qui? Ci saranno più partecipanti?»
Ci
stette un po’ a replicare anche stavolta. Studiando il volto
leggermente sconvolto del giovane, capì.
«Sì» confermò sicuro.
«E per questo non puoi permetterti di fare idiozie.»
Shouyou
espirò lentamente dalla bocca, senza far rumore, e le sue
spalle si rilassarono, come se fossero state tenute in alto da un
burattinaio per tutto quel tempo. Sorrise come solo lui sapeva fare:
raggiante, incontenibile, travolgente.
Doveva
aspettarselo, ma prima d’ora non ci aveva mai fatto troppo
caso. Quella era solamente la sua seconda gara, la sua prima vittoria e
qualificazione. Era ovvio che non fosse neanche capace di credervi.
Quasi
per inerzia, gli angoli della sua bocca si piegarono in su.
Poi
si voltò: Tobio non sopportava quelle situazioni
imbarazzanti. Non sapeva mai come reagire. Tuttavia, fu impossibilitato
a fare un passo in più.
«Invece
hai trovato proprio un bel pianista, Tobio-chan.»
Raggelò
sul posto. Restò con gli occhi sgranati inchiodati in un
punto indefinito, il suo corpo che si rifiutava di rivolgerli altrove.
Il
sedicenne gli si avvicinò non troppo cautamente e, sulle
punte, gli sussurrò di rispondere, o sarebbe parso un
maleducato. In seguito si girò verso quell’uomo
che stava davanti a loro, lontando dalla folla. Non gli avrebbe dato
più di venticinque anni, ma appariva molto più
maturo, grande e virile di lui.
«Scusi...»
bisbigliò con una nota di curiosità a ravvivargli
il timbro. «Lei chi è?»
L’uomo
gli sorrise in un modo che sul suo viso calzava benissimo, ma che su
qualcun altro sarebbe sembrato terribilmente simulato, quasi
sgradevole. «Uno dei giudici di questo torneo.»
Shouyou
aprì e richiuse le labbra più volte, stupefatto.
Guardò ora il violinista ora il giudice, chiedendosi come
potessero conoscersi. Gli pizzicò poi un fianco,
incalzandolo impazientemente a intervenire e a non lasciarlo
lì come un pesce lesso.
Tobio
sussultò, riscuotendosi solo allora. Fu finalmente in grado
di spostare lo sguardo sull’uomo dai capelli castani,
più alto di lui di circa cinque centimetri, ma nessuna
scintilla scattò in lui.
Il
suo sorriso, invece, man mano che i secondi passavano, diveniva sempre
più forzato, simile a una smorfia indignata. Alzò
un sopracciglio, incitandolo a dire qualcosa.
Il
corvino arricciò le labbra. «Non la
ricordo...» Non era di certo per la persona in sé
che era stravolto.
Il
sorriso svanì completamente e la sua espressione perse ogni
traccia di gentilezza per un singolo secondo, ma si corresse subito.
«Conoscevo tua mamma e ti vedevo spesso quando eri
piccolo» lo informò, riprendendo a ridere come
prima. «E sono stato nella giuria ai tornei under
fourteen degli
ultimi due anni.»
Tobio
aveva un vago ricordo di quel viso delicato e bello, così
come della voce allegra e un po’ troppo acuta per i suoi
gusti. Ma era, per l’appunto, vago: niente che fosse capace
di rievocare. «Ah» fece soltanto.
Persino
quel cipiglio annoiato appena affacciatosi stava bene su di lui.
«Comunque» si mise le mani sui fianchi,
rivolgendosi a Shouyou, «mi chiamo Oikawa Tooru. Piacere di
conoscerti, piccoletto.»
Sorrise e gli porse una mano.
Il
rosso arricciò il naso, risentito, mentre gliela stringeva.
«Non sono un piccoletto,
ho sedici anni...» farfugliò con tono offeso ma
comunque basso, tentando di non farsi sentire.
Tooru
rise divertito. «Sì, sì, lo
so» lo liquidò con una mano. «Piuttosto,
ti volevo chiedere: partecipi a qualche corso?»
Tobio
corrugò le sopracciglia, in contemporanea al suo
accompagnatore, e lo guardò.
«No.»
Stralunò appena gli occhi.
«Perché?»
L’uomo
parve sorpreso. «So riconoscere quando qualcuno migliora
anche nelle basi, come battere il tempo o il solfeggio.» Si
portò un dito al mento, come se stesse meditando.
«L’anno scorso non contavi per niente e si vedeva,
invece quest’anno sei molto più
preciso.» Studiò entrambi con fare sornione, quasi
gli stessero nascondendo qualche segreto; il che, dopotutto, non era
falso, dal momento che non lo conoscevano. «Che è
successo in questi mesi?»
Il
viso di entrambi era una maschera di confusione. Il pianista
consultò il compagno con lo sguardo, ma lui scosse la testa,
smarrito almeno quanto lui.
Tooru
aprì la bocca sottile per continuare a parlare, ma venne
bloccato da un grido che non poteva essere altro che furioso. E
conteneva il suo cognome. O almeno, una parte del suo cognome. Si
pietrificò, gli occhi color nocciola sgranati e le spalle
rigide.
Shittykawa.
Un
altro uomo, poco più basso del giudice, comparve alle sue
spalle, mentre gli sguardi dei due musicisti seguivano attenti e ancora
attoniti la scena.
«Brutto
idiota!» Con quell’esclamazione, lo prese per il
retro del colletto della t-shirt azzurra. «È da
mezz’ora che aspetto in quella merda di macchina e tu ti
metti a molestare i ragazzini!»
All’ultima
frase, se avessero potuto, le mascelle dei ragazzini
avrebbero toccato il pavimento.
«Devo
ancora chiudere il negozio per colpa tua!» sbraitò
ancora, cominciando a trascinarlo verso l’uscio.
«Ma secondo te che cazzo sono, un cameriere?»
«Ahia!
Aspetta! Iwa-chan,
mi fai male!» si lagnò Tooru con voce lamentosa e
capricciosa.
Shouyou
si voltò verso il moro, domandandogli silenziosamente se
ciò che avevano appena visto fosse solo frutto della sua
fantasia.
Poteva
darsi: l’espressione di Tobio suggeriva che lui avesse
vissuto tutt’un’altra esperienza.
Iwa-chan.
Iwa-chan
lo ricordava. Era sempre accanto a Tooru, anche se probabilmente aveva
assistito più alle sue sgridate nei confronti del castano
che a delle discussioni con sua madre.
Si
trovava là
quando era successo. E la sua attenzione, per una volta, si era
distolta dal giudice ed era volata su di lui, che non aveva neppure
dieci anni.
Tuttavia,
non ricordava il motivo. Perché ‒ glielo aveva detto anche
il suo psicologo ‒ i traumi o le vicende cariche di sentimenti dannosi
sono più facili da dimenticare.
一
Salve a tutti! Stavolta il capitolo ve lo beccate prima della scorso.
BD In realtà avrei voluto aggiornare già
lunedì, ma purtroppo il tempo mi manca sempre, sigh. Ma
comunque, finalmente ce l’ho fatta!
Allora, partiamo dalla fine: ve lo aspettavate? Spero di no.
:’) Però almeno ora posso andare a mettere il tag
IwaOi nella descrizione, perché volevo che fosse una
sorpresa (anche se, se qualcuno la leggerà dopo, non la
sarà più, ma vabb). Da qui in poi, questi altri
due idioti si uniranno alla compagnia, dato che, come avrete ben
capito, hanno un determinato ruolo in tutti i problemi di Tobio (non vi
preoccupate, nemmeno a loro mancherà del buon angst
:’D).
E
niente, non ho tanto da dire, se non una cosa: ho scritto questo
capitolo ascoltando S O L T A N T O questa
canzone
(House
of Cards
dei BTS) che, davvero, amo con tutto il mio cuore. L’ho
trasportata in tutt’altro contesto, lo so, ma, dato che
è molto calma e che le parole che volevo usare erano proprio
quelle, mi ha aiutato un sacco. Un giorno farò la
playlist di tutte le canzoni che associo ai capitoli, prometto!
Infine,
ringrazio come sempre Maiko_chan
e
_Lady di inchiostro_
per recensire (e sclerare insieme a me), siete davvero fantastiche.
<3
E
niente, ora mi dileguo, anche perché vado di fretta, sob.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e sappiate che un parere anche
piccolissimo è sempre ben accetto! :3 Allora ci vediamo al
prossimo capitolo! ~
Baci
Shizuha
|