Tarocchi 3
Salve
a tutti/e! Eccoci qui con un nuovo aggiornamento del nostro horror
londinese e vittoriano. Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito, e
soprattutto chi ha avuto la
gentilezza di lasciarmi un commento.
E ora vi lascio ai nebbiosi vicoli di Londra^^
Capitolo 3
MacLeod
uscì dal Bedlam piuttosto perplesso. Ciò che aveva sentito era la
realtà dei fatti o la farneticazione di un pazzo?
Difficile
non pensare alla seconda opzione: come poteva esistere una donna che
moriva fisicamente ma continuava a parlare
nella testa delle
persone e a far succedere incidenti? Più probabilmente il povero
Adamson era impazzito, forse schiacciato dalla colpa di quello che
aveva fatto lui stesso e fatto fare ai colleghi, e la sua mente
sconvolta aveva elaborato la strana storia che poi gli aveva esposto.
Naturalmente,
dopo sette anni non avrebbe avuto alcun senso far dragare il fondo
del Tamigi, anche perché con ogni probabilità non avrebbero trovato
un solo corpo, ma almeno duecento: i suoi colleghi non erano certo
stati gli unici a pensare di disfarsi di un cadavere buttandolo nel
fiume con un peso al collo.
Si
chiese dove fosse la madre di O’Hanigan, quella Catriona che si
faceva chiamare Papessa Nera, e di cui tutti sembravano avere un
sacro terrore. Stabilì che doveva tornare il prima possibile al
Bedlam, per farsi dire da Adamson in cosa consisteva, concretamente,
‘ci ha pensato
Wyndham, con un cuscino in faccia.’
Mentre
stava così ragionando, l’orologio batté le dodici, ed egli
realizzò che era quasi ora di pranzo. Meccanicamente, si diresse al
pub che si trovava di fronte al posto di Polizia, dove tutti i
colleghi andavano a pranzare quando erano in servizio.
Appena
entrato si imbatté in Campbell, che era seduto al suo tavolino
preferito e stava mangiando una generosa porzione di kidney pie
annaffiata con birra leggera.
Non
appena si accorse di lui, il collega lo salutò e gli fece cenno di
avvicinarsi. “Non hai il turno di notte, Alistair?” gli chiese
quando si fu seduto.
Il
più giovane annuì.
“E
che ci fai in giro a quest’ora? Dovresti essere a dormire.”
L’altro
stava per rispondere quando arrivò il cameriere e chiese: “Che
cosa vi porto, agente MacLeod? Abbiamo la kidney pie, la cottage pie
e dei sandwich col prosciutto.”
Il
giovane fece distrattamente la sua ordinazione – dopo le ultime
rivelazioni non aveva una gran voglia di mangiare – e quando l’uomo
si fu allontanato, fissò Campbell negli occhi e gli disse: “Sono
stato al Bedlam stamattina.”
L’altro
non parve molto impressionato. “E quindi?”
“Ho
parlato con Adamson.”
All’udire
quel nome, Campbell gli fece bruscamente cenno di abbassare la voce,
poi dardeggiò un’occhiata apprensiva in giro. Quando fu certo che
nelle immediate vicinanze non ci fosse nessun volto conosciuto, emise
un sospiro e disse: “Ti avevo già chiesto di lasciar perdere
questa storia, se non sbaglio.”
“Charles,
quell’uomo mi ha raccontato la verità.”
“La
verità? I deliri di un ammalato di nervi, vorrai dire.”
Tornò
il cameriere, e i due si zittirono. L’uomo posò il piatto davanti
a MacLeod, gli consegnò anche una pinta di birra e gli augurò buon
appetito, quindi se ne andò.
Appena
furono di nuovo soli, Campbell disse: “Te lo ripeto, Alistair:
lascia perdere questa storia.”
“Perché?”
L’altro
emise un sospiro di esasperazione. “Sei un novellino con sei mesi
di servizio, non sai nemmeno allacciarti le scarpe se non hai un
veterano di fianco, cosa pensi di fare?”
“Se
stare con i veterani significa imparare a fare quello che avete fatto
voi, grazie tante, sto con i novellini.”
Campbell
si passò una mano sul viso e rispose: “Pagherei qualsiasi cosa
perché tu ti potessi riascoltare fra dieci anni, così capiresti che
idiozia hai appena proferito. Tu non sai niente del servizio, vedi le
cose solo da fuori, come i giornalisti e i giudici, perché non ti ci
sei ancora calato dentro. E da fuori, caro mio, sono bravi tutti a
dirti cosa avresti dovuto fare.”
“Beh,
non ci vuole poi chissà che mentalità strana per pensare che
ammazzare di botte qualcuno per toglierlo di mezzo non sia
esattamente il comportamento dell’agente modello.”
“Ma
che bravo,” replicò l’altro con tono sarcastico, “sei come
tutti gli altri, solo pronti a puntare il dito e a giudicare. Uno
come te, che vive nel castello fatato, dovrebbe fare il reverendo,
non il poliziotto.” Si alzò bruscamente in piedi.
“Aspetta,
Charles,” lo richiamò MacLeod.
Il
collega lo fissò sprezzante. “Mi piacerebbe che l’avessi
ritrovato tu, uno dei bambini uccisi da quel bastardo. Forse adesso
ragioneresti in maniera diversa. Forse capiresti che ci sono
individui che nella loro schifosa vita non potranno fare altro che
del male, e vanno eliminati come se fossero bestie rabbiose.”
Detto
questo, gli girò le spalle e uscì.
§
Seduto
alla scrivania, MacLeod giocherellava con la penna. La sala era
talmente silenziosa che si percepivano distintamente il lieve sibilo
del gas che usciva dai cannelli delle lampade e il respiro pesante di
Gardner, che sicuramente si era già addormentato.
Tanto
per fare qualcosa, si mise a sfogliare il registro.
Ripensava
alle parole che Campbell gli aveva rivolto poche ore prima e si
chiedeva se e quanto Bene e Giustizia coincidessero. Davvero non
capiva quale fosse il modo giusto di comportarsi perché era solo una
recluta? Con l’esperienza avrebbe capito dove e fino a che punto
fosse lecito violare la Legge in nome di un bene superiore, e dove
invece essa fosse da applicare con il massimo rigore?
Ma
chi faceva le leggi? Chi stabiliva cosa fosse bene o male?
Posò
la penna e si passò una mano fra i capelli con un sospiro di
frustrazione. A pensare a certe cose c’era il rischio di farsi
venire mal di testa.
Si
alzò e andò nella stanza attigua a prendere il bricco dell’acqua.
Preparò
la teiera, prese due tazze e tornò alla sala principale. Quando
arrivò sulla soglia, fu investito da un’ondata di freddo mortale e
quello che aveva in mano minacciò di cadergli: al centro del locale
c’era la vecchia signora. La misteriosa figura era in lutto
strettissimo, portava come al solito uno scialle frangiato, un ampio
cappello con la veletta e i guanti.
Non
appena lo vide, prese ad avanzare a passettini nella sua direzione.
MacLeod
deglutì e dovette fare uno sforzo per impedirsi di indietreggiare.
Gettò una fugace occhiata a Gardner, che però era abbandonato sulla
sedia con la testa all’indietro e la bocca aperta, e non sembrava
in grado di intervenire in suo favore.
“Buona
sera, agente,” salutò la signora, al solito con una voce che
sembrava fatta di polvere e ragnatele. “Sto cercando l’agente
Clifford Adamson, per favore.”
“Non…
non è più in servizio, signora. Posso… ehm… sapere il motivo
per cui lo cercate?” Rabbrividì, il freddo sembrava farsi di
attimo in attimo più intenso. Ebbe la sensazione che se fosse
rimasto al cospetto di quella strana figura ancora per qualche
secondo, la teiera fumante gli si sarebbe trasformata in un blocco di
ghiaccio.
La
signora emise un suono rauco e fischiante che gli parve una grottesca
risata, quindi si voltò impercettibilmente verso Gardner.
Improvvisamente,
la sedia su cui l’agente dormiva scivolò, e con un fracasso da
fine del mondo egli rovinò a terra trascinandosi dietro tutto quello
che c’era sulla sua scrivania. All’improvviso rumore, MacLeod
fece un salto, la teiera di latta gli rotolò via rimbalzando sul
pavimento e versando tè bollente ovunque, le tazze andarono in
frantumi.
Quando
i due poliziotti riuscirono a riprendersi dallo spavento, della
signora non c’era più traccia.
William
Gardner si alzò dolorante e disse: “Per la miseria, MacLeod, ma si
può sapere che ti è preso? Un altro po’ e mi facevi venire un
colpo.”
“Tu
l'hai fatto venire a me.”
“Stai
scherzando? Che ti salta in mente di lanciare la teiera come se fosse
una palla da rugby?”
“Veramente,
io
ho mollato la teiera dopo che tu
hai fatto tutto quel fracasso.”
“Impossibile:
dormivo,” gli rispose candidamente Gardner.
“Devo
mandare un messaggio al Bedlam,” disse l’altro per tutta
risposta.
“Eh?
Un che? Dove?”
“Un
messaggio, al Bedlam. Un paziente è in grave pericolo.”
“Ma
cosa stai dicendo?”
“So
che è in pericolo. Non ho tempo per spiegarti.”
“Secondo
me ci devi andare tu, al Bedlam,” brontolò Gardner.
Senza
ascoltarlo, MacLeod si infilò nell’ufficio del sergente Kelsey,
dove si trovava l’apparecchio telefonico che metteva in contatto
tutti i posti di Polizia di Londra. Cercò il numero di quello più
vicino all’asilo per alienati e lo compose.
“Posto
di Polizia di Kennington, agente Harris,” rispose una voce
assonnata dall'altro capo del filo.
“MacLeod,
di Whitechapel,” disse rapido il giovane, “chiamo per segnalarvi
che un paziente del Bedlam si trova in grave pericolo.”
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, poi l'agente Harris chiese: “E voi come
fate a saperlo da laggiù?”
“Ve
lo spiego dopo. Mandate qualcuno a cercare un paziente che si chiama
Clifford Adamson. È stato un nostro collega, e in questo momento è
in grave pericolo.”
Ma
l'altro sembrava ancora poco convinto. “Un agente impazzito?”
chiese, come se fosse quella la cosa più importante.
“Vi
ho detto che vi spiegherò tutto dopo,” replicò MacLeod con una
punta di fastidio nella voce, “Ora andate. Clifford Adamson.”
“Sì,
l'avete già detto.”
La
comunicazione si chiuse.
MacLeod
abbassò la cornetta e si girò: alle sue spalle c'era Gardner che lo
fissava con aria perplessa. “Sei sicuro di stare bene?” gli
chiese.
“Sto
benissimo.”
“Cosa
gli racconti domani, a Kelsey?”
“Perché?”
“L'apparecchio
telefonico. Lo sai che farebbe usare più volentieri sua moglie,
piuttosto che quell'affare.”
Il
più giovane emise un sospiro, quindi gettò un'occhiata alla sala e
disse: “Sarà meglio che vada a prendere uno straccio.”
Un'ora
dopo, squillò il telefono. L'insolito richiamo fece sussultare i già
tesi agenti.
MacLeod
abbandonò quello che stava facendo e si precipitò sull'apparecchio.
“Posto di Polizia di Whitechapel, agente MacLeod,” recitò nella
cornetta.
“Oh,
giusto voi,” disse l'agente Harris dall'altra parte del filo.
“Siete veggente, per caso?”
“Che
intendete dire?”
“Quel
paziente di cui mi avevate dato le generalità, Adamson.”
Il
giovane sentì che il cuore gli balzava nel petto. “Sì?”
“Beh,
appena ho smesso di parlare con voi, ci hanno chiamati dal Bedlam: il
tizio era stato strangolato da un altro paziente. Quando siamo
arrivati sul posto, il dottore ha detto che l'assassino era sempre
stato un pazzo tranquillo, che prima di allora non aveva mai fatto
male a nessuno, ma io dico che con quella gente non si può mai
sapere, giusto?”
MacLeod
rimase a guardare la cornetta come inebetito.
“Giusto?”
lo richiamò alla realtà la voce del collega.
L'altro
sussultò. “Ehm, certo. Certo, scusate.”
“Avreste
dovuto vederlo, l'assassino: un ometto alto come un soldo di cacio.
Ma dove la trovano, quella forza, dico io...”
Il
giovane agente ringraziò e chiuse la comunicazione. Deglutì a
fatica a causa della bocca secca e si passò una mano sul viso. “Mio
Dio...” esalò.
“Che
c'è?” chiese Gardner dalla sala.
“Sarà
meglio che vada a fare dell'altro tè. Bello forte, questa volta.”
§
I
dintorni della conceria avevano un aspetto sinistro anche nel pieno
di una mattinata di sole. La luce forte faceva impietosamente
risaltare i muri anneriti dalla polvere di carbone e le finestre
buie. Sembrava addirittura che il calore dei raggi rendesse più
disgustoso il tanfo che aleggiava dappertutto.
Come
al solito, per strada non c'era anima viva.
La
casa sorgeva lugubre al centro del suo giardino di sterpi. Nonostante
fosse sereno, si era mantenuta intorno all'edificio, forse a causa
dell'umidità del suolo, una lieve caligine che strisciava rasoterra
e si annidava negli anfratti più ombrosi.
MacLeod
salì i gradini che conducevano alla porta d'ingresso e abbassò la
maniglia, che come la volta precedente cedette morbida.
Nonostante
la temperatura mite dell'esterno, una volta oltrepassata la soglia
l'agente si trovò a rabbrividire nel pesante pastrano.
“C'è
nessuno?” chiese a voce alta. Non gli giunse alcuna risposta.
Si
addentrò nell'ingresso, alla ricerca di una fonte di luce. Ricordò
il mozzicone di candela che aveva visto sotto il ritratto della
zingara, lo raccolse staccando la colata di cenere che l'aveva
incollato al pavimento e lo accese. Con quello in mano, salì
cautamente al piano di sopra.
Il
primo ambiente nel quale entrò, ovvero una camera da letto,
conservava ancora biancheria e lenzuola, come se il suo occupante si
fosse assentato col proposito di fare ritorno quanto prima. Nei
cassetti c'erano abiti maschili, alcuni anche di un certo pregio.
Sotto il letto c'era un paio di scarpe di buona fattura. Sotto il
cuscino, l'agente trovò una rivoltella carica.
Proteggendo
con la mano la fiammella tremolante, si spostò nella stanza da
bagno. Lì trovò un assortimento di articoli da toeletta, sia
maschili che femminili. Di nuovo, oggetti di pregio, in avorio e
argento.
Sollevò
un lembo del telo che copriva lo specchio, e gli parve di vedere,
riflessa nella lastra, un'ombra alle sue spalle. Sussultò e si girò
bruscamente, ma i suoi occhi incontrarono solo il vuoto.
Aspettò
che il ritmo del respiro tornasse normale, quindi stabilì che si era
trattato di un gioco di luci causato dalla fiamma della candela e
proseguì con la sua esplorazione.
Il
corridoio si biforcava a T. La cosa che lo lasciò perplesso, e che
anche la volta precedente, ricordò, l'aveva colpito, fu la presenza
di un armadio enorme proprio nell'incrocio dei due bracci della T,
appoggiato al muro nel braccio orizzontale. Il mobile, di solido
rovere, era pesante e ingombrante, tanto che tra esso e il muro
antistante si passava a stento.
Con
fatica si spostò verso una stanza che fungeva da guardaroba
femminile. Dentro c'erano abiti dai colori sgargianti, ma di una
foggia che non si vedeva più in giro da almeno una quindicina di
anni. Trovò anche stivaletti, guanti, cappelli, biancheria e altro.
Le cose erano sia riposte negli armadi che abbandonate in cumuli
sulle spalliere delle sedie. Sollevò la candela per osservare
meglio, e notò su una parete la tipica sagoma lasciata da un mobile
che viene portato via.
La
fiamma ebbe un'oscillazione, e MacLeod si girò di scatto: la
sensazione di avere qualcuno alle spalle era tornata, più forte di
prima, ma di nuovo non vide nessuno. Emise in un lungo sospiro il
fiato che aveva trattenuto. Uscì dalla stanza dei vestiti, la fiamma
oscillò di nuovo minacciando di spegnersi. Il poliziotto vi mise
intorno la mano a coppa per proteggerla, ma non c'erano correnti
d'aria. “Questo è curioso,” mormorò a disagio.
Tornò
sui suoi passi, ripercorse il corridoio, oltrepassò l'armadio e
arrivò a un salottino che aveva al centro un tavolo rotondo coperto
da una tovaglia che arrivava fino a terra. Ne sollevò un lembo, ma
non vide nulla di particolare al di sotto.
Fece
girare intorno la fiamma della candela: c'erano delle vetrine con
dentro delle ceramiche, qualche fotografia alle pareti, una cornice
velata che doveva racchiudere uno specchio.
La
fiamma della candela cominciò a farsi sempre più piccola, come se
lo stoppino stesse per consumarsi definitivamente. Il che era
impossibile, dal momento che nel mozzicone ce n'era ancora almeno un
pollice.
Quando
la luce assunse l'intensità di una brace di sigaro, l'agente fu
costretto a interrompere le sue osservazioni.
Tornò
verso la scala, e la fiamma riprese ad ardere normalmente.
MacLeod
si girò, e di nuovo rimase a guardare le stanze buie che aveva
appena lasciato, faticando a convincersi che non ci fosse nessuno.
Andò
alla camera da letto e infilò la mano sotto il cuscino, ma la
pistola era ancora dove l'aveva lasciata.
Scese
al piano terreno, spense la candela soffiandovi sopra e la depose su
un tavolo, quindi si strofinò le mani infreddolito e uscì all'aria
aperta.
Per
quanto il posto fosse lugubre, quando fu nel giardino si concesse un
sospiro di sollievo. Realizzò di avere tutti i muscoli della schiena
indolenziti per la tensione. “Domani mi faranno un male d'inferno,”
borbottò.
Mentre
stava percorrendo il vialetto, vide due donne fermarsi a osservarlo
dalla strada. Si scambiarono qualche frase, poi una di esse a voce
alta lo avvisò: “Non ci abita nessuno, là dentro!”
Il
cancelletto era aperto, ma nessuna delle due sembrava essere
intenzionata a mettere piede nel giardino.
MacLeod
le raggiunse. “Buon giorno,” salutò, portandosi due dita alla
fronte come aveva visto fare ai vecchi, “Da quanto tempo è
disabitata questa casa?”
Le
due si scambiarono un'occhiata, poi una disse: “Saranno sette anni,
signore.”
“Di
chi era?”
Di
nuovo uno sguardo tra le due donne, poi quella che sembrava più
autorevole disse: “È meglio se andate a parlare con l'ebreo,
signore.”
“L'ebreo?
E chi sarebbe?”
L'altra
intervenne: “È uno che ha un negozio di libri vecchi. Sta a due
isolati da qui.” Sollevò un braccio per indicare la direzione.
“Lui
vi parlerà,” intervenne l'altra. “Parla sempre con tutti.”
“E
voi perché non mi parlate?”
“Di
questa casa?” replicò la più giovane, “Oh, no. Proprio no.
Scusate, signore.” Arretrò di un passo, come per sottrarsi
all'influenza nefasta della magione, poi disse all'altra donna: “È
meglio che andiamo.”
“Sì,
si è fatto tardi.”
Si
allontanarono rapide, piantando l'agente lì su due piedi,
attraversarono la strada e scomparvero dietro l'angolo camminando a
passo svelto.
All'agente
non rimase altro da fare che recarsi dove gli avevano suggerito le
due donne, ovvero al negozio di libri vecchi dell'ebreo.
Dovette
chiedere un po' in giro, ma alla fine riuscì a identificare il
luogo: si trattava di una vetrina polverosa, nella quale erano
disposti libri che sembravano usciti da un monastero benedettino. I
testi non davano l’idea di essere in esposizione, piuttosto
sembravano riposti come in un armadio. Tutto il luogo in effetti dava
l'idea di un ritrovo di intenditori, più che di un esercizio
commerciale.
Mentre
era fermo con aria irresoluta sul marciapiede, dal negozio uscì un
signore anziano, che gli si avvicinò e in tono cortese gli domandò:
“Posso fare qualcosa per voi, agente?”
L'uomo
aveva un'espressione buona, premurosa, faceva pensare al nonno che
ogni nipotino vorrebbe avere.
Aveva i
capelli grigi lunghi fin sulle spalle e una barba da patriarca che
gli arrivava al petto. Portava un dignitoso completo nero un po' liso
sui gomiti.
L'agente
gli rivolse un sorriso e rispose: “Sto cercando un negozio di libri
gestito da un ebreo. È questo, per caso?”
L'altro
accennò di sì. “Temo proprio che sia questo, agente,” rispose
in tono bonario, “anche se non sono ebreo, sono armeno.” Gli
porse la mano. “Petros Kasparian,” si presentò.
“Alistair
MacLeod,” si presentò a sua volta l'agente. “E allora perché vi
chiamano ebreo?”
L'uomo
alzò le spalle. “Forse perché si dà per scontato che chiunque
venga dall'est e venda libri antichi appartenga a una delle tribù di
Israele.” Gli accennò l'ingresso del negozio: “Prego, entrate.”
Il
poliziotto si piegò un po’ per oltrepassare la porta, e si infilò
con qualche difficoltà tra scaffali carichi di libri antichi. Si
mosse adagio cercando di non urtare nulla.
“Ebbene,
come posso aiutarvi?” gli chiese il signor Kasparian
raggiungendolo.
“Si
tratta di una vecchia casa abbandonata della quale nessuno sa o vuole
fornirmi informazioni. L’unica cosa che sono riuscito a cavare
fuori a due passanti è stato il consiglio di venire a parlare con
voi.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia e annuì grave. “È la casa della
cartomante, vero?”
“Della
cartomante?”
Kasparian
annuì di nuovo, poi disse: “Una villetta isolata, con le persiane
del piano superiore inchiodate, giusto?”
MacLeod
si trovò involontariamente a sorridere. “Proprio quella.”
“Un
posto piuttosto sinistro, non è vero?”
“Già,”
rispose l’agente.
“E
ditemi, che cosa posso fare per voi?”
“Potete
raccontarmi quello che sapete. C’è un mistero, intorno a quella
casa, e non riesco a venirne a capo.”
Il
vecchio assentì con un vago sorriso. Persi tra decine di piccole
rughe d’espressione, i suoi occhi neri, straordinariamente vivi,
brillavano. “Omero diceva che Il fascino dell’ignoto domina
tutto. Voi siete d’accordo?”
“Io
voglio scoprire la verità,” si limitò a rispondere l’agente.
“E
non è anche questo un modo di addentrarsi nell’ignoto? Di portare
la luce dove regnavano le tenebre?”
MacLeod
non rispose.
Kasparian
lo prese gentilmente per una spalla, e sospingendolo verso un
retrobottega che sembrava ancora più piccolo e ingombro di carta del
negozio, gli disse: “Vi racconterò quello che so.”
Seduto
su uno sgabello fra due traballanti pile di libri, un bicchiere di
vino di melagrana in mano, il poliziotto fissava con aspettativa il
libraio.
Veramente
non avrebbe potuto bere, dal momento che era in servizio, ma
Kasparian aveva insistito per fargli assaggiare quella che aveva
definito una specialità della sua terra. Trovandosi così vicino
all’acquisizione di informazioni che aveva inseguito per settimane,
MacLeod non si era sentito di declinare l’offerta. Immaginò che se
Kelsey lo fosse venuto a sapere l’avrebbe spedito a contare i
merluzzi che scendevano dai pescherecci ai docks, ma si sentiva di
dire che quello era un caso di forza maggiore.
Il
libraio si versò a sua volta un bicchiere di vino, che alla luce
delle lanterne a gas prendeva una cupa tonalità di granato, poi
disse: “Bene, bene. Da dove volete che cominci?”
“Dall’inizio.”
MacLeod si bagnò appena le labbra con la bevanda, in un tentativo di
compiacere il suo ospite e al tempo stesso non venire meno
all’obbligo di mantenere la sobrietà.
“Dall’inizio,”
fece eco Kasparian. “Molto bene.” Bevve un sorso, poi disse:
“Avete mai sentito il nome di Malcolm O’Hanigan?”
“Sono
qui per lui.”
“Ebbene,
era Malcolm O’Hanigan il padrone di quella casa. Credo che sia
ancora intestata a lui, fra l’altro. Quando le sue azioni criminose
cominciarono a fruttargli, la comprò per viverci con sua madre.”
“Che
tipo era la madre?” chiese l’agente.
“La
gente diceva che era una strega e che i tarocchi che usava per
leggere il futuro erano quelli di Satana. Tutti la chiamavano la
Papessa Nera, e anche se andavano a consultarla ne avevano una paura
tremenda. Correva voce che le sue maledizioni fossero terribili.”
“Voi
l’avete mai vista?”
“Sì,
certo. Una volta andai addirittura a farmi leggere le carte da lei.”
“Davvero?”
“Ve
l’ho detto: il fascino dell’ignoto domina tutto. E poi in effetti
i suoi tarocchi erano veramente pregevoli. Dallo stile direi che
dovevano avere almeno cinque secoli, anche se le figure erano del
tutto particolari, e si mantenevano stranamente vivide, nonostante
lei manipolasse quel mazzo praticamente tutti i giorni.” Sollevò
le sopracciglia e soggiunse: “Io glieli avrei comprati volentieri,
anche pagandoli molto bene, ma figuratevi se ha mai accettato di
venderli.”
Affascinato
dalla narrazione, soprappensiero MacLeod bevve un generoso sorso di
vino e assunse un’espressione soddisfatta, poi chiese: “E adesso
dov’è la donna?”
“Dopo
aver spadroneggiato per anni con le sue fatture, a un certo punto
rimase invalida e fu costretta a letto. Ci furono parecchi che
tirarono un sospiro di sollievo, ma in breve si accorsero che la
Papessa Nera era più potente che mai, e a quelli che avevano
esultato maggiormente capitarono inspiegabili incidenti, naturalmente
mortali. Ricominciò a fare le carte, solo che invece del tavolino
tondo del salotto, adoperava una tavola di legno che si teneva in
grembo mentre era sdraiata nel suo letto.”
“Sì,
ma… adesso sarà morta, no?”
L’altro
assentì col capo. “Quando scomparve il figlio, scomparve anche
lei. Si sparse la voce che fosse morta, e nessuno ha mai avuto il
coraggio di entrare in quella casa per controllare. Un giorno trovai
le persiane inchiodate, non so se per impedire alla gente di entrare
o a chissà cosa di uscire, e da allora nulla è cambiato, a parte il
fatto che pian piano gli alberi e le statue del giardino sono
spariti.”
Il
poliziotto bevve un altro sorso. “Questo è strano,” disse poi.
“Sapete, la porta d'ingresso è aperta. Io ho abbassato la maniglia
e sono entrato come se niente fosse.”
Fu
la volta di Kasparian di fare tanto d'occhi. “Siete entrato?”
“Dovevo
controllare,” fu la candida risposta.
“La
gente del quartiere si sarà fatta l'idea che siate un pazzo, o che
abbiate il coraggio di un leone.”
MacLeod
fece una breve risata. “Nessuna delle due cose, signore. O almeno
spero non la prima. È compito dell'agente di Polizia addentrarsi
laddove altri non osano spingersi. Altrimenti, come potremmo
contrastare il crimine?”
L'armeno
assentì con un sorriso.
“Per
tornare a noi,” riprese il poliziotto, “Non capisco perché
abbiano inchiodato le persiane, se poi hanno lasciato la porta
aperta. È strano, non credete?”
“Di
solito, le cose ci sembrano strane quando non abbiamo abbastanza
elementi per comprenderle fino in fondo.”
“Voi
dite?”
“Se
ripercorrete la storia della conoscenza, vi accorgerete che è così.
Pensate a quante cose venivano credute magia nei tempi antichi. Ora
invece la Scienza ci spiega che sono solo fenomeni naturali.”
MacLeod
abbassò lo sguardo sul proprio bicchiere, che fra un discorso e
l'altro era ormai quasi vuoto. “Voi credete che la magia esista?”
domandò pensoso.
“Perché
mi fate una domanda del genere?”
L'altro
alzò gli occhi. “Non lo so. È che quello che sta succedendo non
ha una spiegazione logica, signor Kasparian.”
“Io
penso che l'acquisirà una volta che avrete in mano tutti gli
elementi della vicenda, agente.” gli disse il libraio con fare
incoraggiante.
“Voglia
il Cielo che sia così,” sospirò il giovane poco convinto.
§
“Stasera
non fai altro che sbadigliare,” disse Campbell. “Mi sembra di
fare il giro di ronda con un coccodrillo del Nilo.”
Contrito,
MacLeod rispose: “Scusa, Charles. Ho dormito poco.”
L'altro
fece girare intorno la lanterna, la fissò su un cumulo che si rivelò
essere una persona avvolta in una coperta e sbuffò. “Se non la
smetti di stare in servizio di notte e correre dietro ai tuoi
fantasmi di giorno, tra un po' cadrai per terra come una pera
marcia.”
“Sono
così vicino, che...”
“Sei
vicino al collasso,” lo interruppe l'altro bruscamente. “Devi
dormire. Hai una faccia che sembri scappato dal sanatorio.”
Continuarono
a camminare fianco a fianco per un po’. La notte sembrava
tranquilla, nemmeno particolarmente fredda, considerando la stagione.
Alla fine, MacLeod disse: “Perché invece non mi aiuti, Charles?”
“Non
ci voglio entrare in questa storia.”
L’altro
si fermò, costringendo il primo a imitarlo. Infilò la lanterna
dentro una finestra semiaperta e diede un’occhiata a quello che
c’era dall’altra parte, facendo scappare un paio di gatti
randagi. “Ci sei già dentro,” disse poi, apparentemente parlando
fra sé e sé. “Ci sei dentro fino al collo, dal momento che in
quella lista di sei anche tu, e di otto che eravate, siete rimasti in
tre.”
“Sei
premuroso a farmelo notare.”
“Sono
realista. Ora non puoi alzarti e andartene come al pub, quindi mi
devi stare a sentire. Io non so se qualcuno ti abbia ordinato di
tenere la bocca chiusa o che altro, fatto sta che gli agenti che
hanno partecipato a quell’arresto stanno morendo uno dopo l’altro.”
“Lo
so.”
“Mancate
tu e altri due.”
“So
anche questo, dannazione!” ringhiò Campbell. “Credi che non ce
l’abbia sempre scolpito in mente, il fatto che siamo rimasti in
tre?”
“E
allora aiutami, no? Cos’hanno fatto per te i veterani, a parte
ordinarti di non parlare?”
“Tu
non capisci. La fedeltà al corpo viene prima di tutto.”
“Anche
prima della verità?”
“Tu
non capisci,” ripeté Campbell, quindi lo distaccò di qualche
passo.
Il
più giovane lo seguì per un po’ in silenzio, poi disse: “Almeno
posso raccontarti quello che ho scoperto finora? Magari tu riesci a
capire cosa sto trascurando.”
L'altro
sospirò con fare esasperato e replicò: “Pensavo di essere uno
scozzese cocciuto, MacLeod, ma in confronto a te sono più volubile
di un'adolescente ubriaca.”
“Non
sono cocciuto,” fu la piccata risposta, “non mi piace lasciare le
cose a metà, ecco tutto. E ora, vuoi aiutarmi o no?”
“Va
bene, senti, ti aiuto. Basta che la smetti.”
“Grazie!”
“Bah.
Fermiamoci a bere una tazza di caffè mentre parli, almeno. Sto
gelando.”
Fecero
una sosta a un chiosco che teneva aperto fino a tardi, ordinarono la
bevanda e diligentemente il più giovane cominciò a esporre i fatti.
Alla
fine della narrazione, Campbell lo stava fissando con tanto d'occhi.
“Da non credere,” disse.
MacLeod
rispose: “Te l'avevo detto che c'era qualcosa di strano.”
Il
primo vuotò la tazza e la spinse sul bancone per farsela riempire di
nuovo, quindi brontolò: “Quasi quasi mi dispiace che non ci sia
Dobbins con la sua fiaschetta. Mi sono venuti i brividi, e non per il
freddo.”
“È
una brutta storia,” assentì il più giovane.
“Quella
roba che hai visto nella casa… insomma, sembra magia nera.”
“Probabilmente
lo è. Ma c’è qualcosa che non sto capendo, qualcosa che mi
sfugge. Dove dormiva la donna? Perché non ho trovato la camera?”
L’altro
si strinse nelle spalle.
MacLeod
finì a sua volta il caffè, quindi si voltò verso il collega e gli
chiese: “Cos’è successo quella notte? Io so che...”
“Zitto!”
lo interruppe Campbell. Fece girare una rapida occhiata, ma nessuno
sembrava fare caso a loro. “Vieni, andiamo a controllare come
stanno le cose verso Spitalfields,” gli disse, prendendolo per una
spalla e sospingendolo avanti.
Quando
si furono allontanati dalla mescita, l’agente disse: “Quello che
è successo lo sai, no? Hai detto che te l’ha raccontato Adamson.”
“So
che qualcuno di voi è andato anche alla casa.”
“Non
io. So che ci andarono Wyndham e Taggart. Quando tornarono, dissero
che la vecchia non sarebbe più stata un problema.”
“Non
sai cos’hanno fatto?”
“Non
l’hanno mai detto. E nessuno l'ha mai chiesto, ovviamente.”
Continuarono
a camminare per un po’, i fasci di luce delle lanterne danzavano
sul selciato davanti ai loro piedi, i passi echeggiavano cadenzati.
Alla fine, MacLeod propose: “E se provassimo a chiedere qualcosa a
Wyndham? In fondo, anche lui è in pericolo.”
“Non
ti parlerebbe mai.”
“Dici
che preferisce morire?”
Campbell
alzò le spalle. “Forse.”
“Allora
è più matto del povero Adamson.”
“Un
dubbio che ho sempre avuto.” Poi, dopo una pausa: “Non andare a
stuzzicarlo, Alistair, va bene?”
“Perché?”
“Lascia
perdere e basta. Piuttosto, possiamo andare alla casa di O’Hanigan
domani pomeriggio, se vuoi.”
MacLeod
non poté impedirsi un sorriso. Subito dopo però chiese: “Perché
non domattina?”
L’altro
sospirò. “Chi sei, lo scozzese testardo delle storielle comiche?
Domattina dobbiamo dormire. Puoi anche fermarti da me, se ti va,
tanto vivo per conto mio.”
“Posso
andarci anche da solo,” replicò caparbio il più giovane.
“Non
è il caso.”
“So
badare a me stesso.”
“L'ho
notato, ma se non ti accompagnassi non sarei un buon poliziotto.
Siamo colleghi, in fin dei conti.”
MacLeod
avrebbe voluto chiedergli da dove spuntava, all’improvviso, tutta
quell’etica, ma preferì non rischiare di rovinare l’alleanza che
si stava così faticosamente creando.
“Colleghi,
certo,” ripeté, poi continuò a camminare al suo fianco senza più
aggiungere altro.
§
I
due poliziotti si fermarono di fronte alla casa. Questa volta si
erano portati le lanterne, ognuno la propria, e una buona scorta di
fiammiferi.
Appoggiati
al recinto, rimasero per un po' a contemplare la sinistra magione,
poi MacLeod chiese: “Tu ci eri mai stato, qui, Charles?”
L'altro
scosse la testa. “Tutti sapevano della casa di O’Hanigan. Io però
non ci sono mai entrato.”
Percorsero
il vialetto.
Campbell
si guardava intorno, l'espressione faceva chiaramente capire quanto
poco gli piacesse quello che stava vedendo. “Mette i brividi,”
brontolò.
“Aspetta
di vedere com’è dentro,” replicò l'altro.
Salirono
i tre gradini che conducevano alla porta, poi MacLeod abbassò la
maniglia e spinse l’uscio, che cedette con un cigolio. Da dentro
giunse l'ormai consueto odore di muffa e polvere, accompagnato da
un'ondata di freddo che spinse Campbell a indietreggiare brontolando
un'imprecazione.
Entrarono.
Al chiarore che proveniva dall'esterno accesero le lanterne, quindi
si chiusero la porta alle spalle. Cominciarono a esplorare il luogo
facendo girare dappertutto i fasci di luce.
Campbell
indicò il pentacolo di vernice rossa subito davanti alla soglia. “E
questo?”
MacLeod
alzò le spalle. “Ce n'è così tanti che ci si stanca di contarli,
soprattutto sulle porte e sulle finestre. Tu sai cosa significhino?”
“Protezione,
credo. Ci vorrebbe un'altra strega per dircelo con sicurezza.”
“Quella
che abbiamo qui basta e avanza, direi.”
Esplorarono
il piano inferiore, incluse le stanze che MacLeod non aveva
ispezionato le volte precedenti, ma trovarono solo altri pentacoli,
principalmente graffiati sugli infissi delle finestre, e i residui di
qualche genere di rituale, candele, rami secchi e un ritaglio
bruciacchiato di pergamena, sul tavolo di marmo della cucina.
Si
scambiarono un’occhiata: il silenzio era assoluto, non si sentivano
nemmeno i pochi rumori dell’esterno. Dappertutto gravava un tanfo
di chiuso che si mescolava all’odore della conceria dando luogo a
una mistura venefica, putrescente, che sembrava succhiare pian piano
le energie con il suo lezzo nauseabondo.
“Peggio
di un cimitero,” commentò Campbell. “Vediamo cosa c’è di
sopra?”
Salirono
al piano superiore, ispezionarono le camere presenti. A un certo
punto, Campbell si fermò a metà del corridoio, puntò il fascio di
luce contro l’armadio che si trovava esattamente di fronte a loro e
disse: “E questo qui?”
MacLeod
lo fissò con aria interrogativa.
“Non
ti sembra un posto strano, per un armadio? Voglio dire, proprio qui,
nell’incrocio tra i due corridoi...”
Le
lampade si affievolirono, i fasci di luce presero una tonalità
giallastra.
“Ecco
che ricomincia,” disse MacLeod.
“Cosa?”
“È
successo anche l’altra volta: quando sono arrivato qui, la luce ha
cominciato a fare così.”
Per
tutta risposta, l’altro allungò la mano verso una delle maniglie
dell’armadio e tirò. Si udì uno scricchiolio, l’anta si schiuse
e qualcosa cadde sul pavimento con un rumore metallico. I due
sussultarono e fecero un salto indietro.
Simultaneamente
puntarono gli ormai fiochi fasci di luce sull’oggetto, e videro che
si trattava di un ferro da stiro. Illuminarono l’interno del
mobile, e lo trovarono pieno delle cose più pesanti che si potevano
rinvenire in una casa: alari del caminetto, pentole di ghisa, ciocchi
di legno, addirittura un sacco di carbone.
“Togliamo
questa roba,” disse Campbell.
Posarono
le lanterne da una parte e cominciarono a estrarre cose dall’armadio.
La sensazione di aver fatto una scoperta importante li riempiva di
un’aspettativa febbrile, che conferiva loro una foga sempre
maggiore nel portare a termine il compito.
Alla
fine, ansanti, contemplarono il mobile vuotato di ogni suo contenuto.
MacLeod
si terse il sudore dalla fronte e propose: “Lo spostiamo?”
Fianco
a fianco, si posero con la schiena contro un lato di esso e fecero
forza con le gambe. Dopo qualche tentativo, il pesante armadio di
rovere ebbe un sussulto e si spostò leggermente.
“Forza!”
esclamò Campbell.
Continuarono
a spingere, guadagnando pollice dopo pollice. Sul pavimento comparve
il cerchio esterno di un pentacolo.
Alzarono
gli occhi sulla parete e videro il telaio di una porta.
Raddoppiarono
gli sforzi.
Alla
fine, ansanti e sudati, i due agenti si trovarono a contemplare
quello che verosimilmente era l’ingresso alla camera di Catriona
O’Hanigan. Sull’anta era stato disegnato un pentacolo che ne
occupava tutta la larghezza, accompagnato dagli stessi simboli che si
trovavano anche intorno al ritratto fotografico. Per terra c’erano
mazzetti ormai disseccati di erica e vischio.
Si
scambiarono un’occhiata, poi MacLeod allungò lentamente una mano
verso a maniglia e la abbassò, ma la porta era stata chiusa a
chiave.
Sollevò
le sopracciglia e disse: “Curioso: quella d’ingresso no e questa
sì.” Fece una risatina nervosa.
“Di
là ci dev’essere qualcosa di importante,” gli suggerì Campbell,
quindi arretrò di un passo e colpì sotto la maniglia con una
potente pedata. La porta scricchiolò ma rimase al suo posto. “È
bella solida,” constatò l’agente, “Normalmente le faccio
saltare al primo colpo.”
Ci
vollero altri due tentativi, poi l’anta si spalancò bruscamente,
andando a sbattere contro la parete con uno schiocco che fece
sussultare i due. Dall’interno della stanza, immerso in tenebre
picee, provenne l’odore greve che si respirava negli ossari.
Fermi
sulla soglia, i due agenti si scambiarono un’occhiata, poi MacLeod
andò a prendere la lanterna e guardò dentro. Si trattava di una
camera da letto femminile. Sulla sinistra c’era un armadio con
l’anta a specchio, sulla destra una pettiniera con il piano
disseminato di cosmetici. Accanto a essa era disposto un paravento
che pur coperto dalla polvere conservava il brillio di sete cinesi.
La parete centrale e opposta alla porta era occupata da un
monumentale letto a baldacchino con i cortinaggi tirati.
Il
pavimento era coperto di tappeti e disseminato di capi di vestiario e
oggetti.
MacLeod
in testa, i due entrarono cauti, facendo scorrere qua e là il fascio
di luce delle lanterne. Girarono intorno al letto, cercarono di
scrutare all’interno, ma pesanti strati di broccato rosso e oro lo
impedivano.
Alla
fine, Campbell sottovoce suggerì: “Bisogna guardare dentro.”
L’altro
annuì e tese la mano verso il bordo della tenda. Deglutì
irresoluto. Un po’ si vergognava a dirlo al collega, ma da quando
aveva messo piede in quella camera aveva cominciato a provare una
sensazione terribile: come la paura, ma più forte. Un terrore
ancestrale, che gli faceva tremare le gambe e battere il cuore come
se avesse voluto saltargli fuori dal petto. Percepì gocce di sudore
gelido corrergli lungo le tempie.
“Alistair?”
sussurrò Campbell in tono interrogativo.
L’altro
deglutì. “A posto,” gli assicurò, poi afferrò il lembo di
stoffa e lo tirò da una parte.
Subito
dopo, entrambi sussultarono e fecero un salto indietro. MacLeod quasi
si fece sfuggire di mano la lanterna.
Rimasero
qualche secondo a guardarsi, come per raccogliere un coraggio che
sembrava sul punto di abbandonarli, quindi si riavvicinarono adagio.
Nel
letto c’era un cadavere mummificato. Era sotto le coperte, con la
schiena appoggiata a due cuscini. Gli abiti e la pettinatura lo
identificavano come femminile. Il volto era brunastro, scavato. Gli
zigomi protrudevano come creste. I denti, di un inquietante candore,
sporgevano come quelli di una fiera. Luce fioca conferiva alle orbite
ormai vuote l’aspetto di buchi neri, dal fondo dei quali uno
sguardo carico di malevolenza sembrava seguire i due agenti.
Le
mani, lunghe, rinsecchite, con il bianco delle falangi che spuntava
qua e là nelle giunture, erano posate su una tavoletta di legno,
proprio sotto una fila di otto carte.
Gli
agenti le osservarono incuriositi: si trattava di arcani maggiori dei
tarocchi. Erano grandi circa il doppio di carte da gioco normali, e
sembravano fatte di pergamena. Sul dorso avevano un intricato disegno
nero e rosso nel quale brillava ancora qualche residuo di foglia
d’oro.
MacLeod
si chinò a osservarle meglio. Da una parte c’era un mazzo coperto.
Le otto carte erano in fila, e da sinistra a destra le prime cinque
erano scoperte e le ultime tre coperte.
L’agente
allungò cautamente una mano e raccolse la prima. Rappresentava un
carro visto di fronte, trainato da due cavalli. A bordo del veicolo
c’era un re con scettro e corona. “Il carro,” lesse.
La
posò e prese la seconda: una torre colpita da un fulmine, che
crollava facendo precipitare un uomo. “La torre.”
La
terza rappresentava una ruota alla quale erano avvinghiati degli
animali grotteschi. “La ruota.”
Nella
quarta c’era un uomo a testa in giù, sospeso per un piede.
“L’appeso.”
La
quinta rappresentava un uomo vestito come un giullare, ma con gli
abiti stracciati. Teneva un fagotto in spalla, aveva un bastone da
viaggio ed era seguito da un cane. “Il matto.”
A
questo punto, MacLeod alzò gli occhi sul collega. “Tutto questo
non ti suggerisce niente?” mormorò con voce incerta.
Campbell
annuì. “Il povero Hayes travolto da un carro, Pierce precipitato
nel crollo della torre, Banks stritolato sotto la ruota dentata,
Jackson impiccato a testa in giù, Adamson ucciso da un matto. Qui
bisogna immediatamente chiamare un prete.” Fece per muoversi, ma
l’altro lo trattenne. “Aspetta, vediamo quelle coperte.”
“No!
E se scoprendole li fai morire?” Deglutì. “Cioè… ci fai
morire?”
“Riflettici,
Charles: questa stanza era sigillata, chi avrebbe potuto girare le
carte? L’entità che sta agendo qui dentro non è qualcosa di
umano.”
“Già,
forse hai ragione.”
Mac
Leod prese la prima carta coperta e la girò. “Questa è strana,”
disse aggrottando le sopracciglia. C’erano due torri o colonne ai
lati di una spianata. In primo piano si vedeva un lago, sulla cui
sponda c’erano due cani, o due lupi. Nel cielo brillava una luna
che però sembrava un mezzo sole, perché era circondata da raggi
arancioni. “La luna.”
La
seconda era una donna in abiti eleganti, con un ampio cappello, che
spalancava le mascelle di un leone. “La forza,” lesse l’agente.
Si
scambiarono un’occhiata. “Prendi l’ultima,” suggerì
Campbell.
L’altro
la sollevò e la girò. Rappresentava una donna dall’aria
autorevole seduta su uno scanno, con una mitria papale in testa e un
libro aperto sulle ginocchia. “La papessa.”
Seguì
un lungo silenzio. MacLeod rimise la carta al suo posto e si fece
indietro, richiudendo i cortinaggi sul sinistro spettacolo. “Da
brividi,” commentò.
Fece
qualche passo nella stanza, quindi andò all’armadio e lo aprì:
dentro c’erano un abito nero, uno scialle frangiato, sempre nero,
un cappello con un’ampia veletta di tulle e un paio di scarpe. Ne
prese una e osservò la suola: era infangata. La toccò e si accorse
che era ancora umida.
|