telescrittura
Premessa: E' una
storia di tensione
psicologica e di stravolgimenti di trama. Inizierà in
maniera
classica, con una sorta di evocazione spiritica (per approfondimenti vd
note a fondo pagina, attenzione agli spoiler), per poi prendere una
piega man mano sempre più imprevedibile. Il protagonista
principale è Sasuke, assieme in parte a Naruto. Ho cercato,
per
quanto la situazione sia assolutamente drammatica rispetto al contesto
classico, di rendere tutti i personaggi il più possibile IC
e
realistici.
Come accennato
nell'intro ci
saranno dei riferimenti a Lovecraft (non di trama, la trama
è
tutta mia invenzione), per chi non lo conoscesse sono comunque spiegati
nelle note autore; ho adottatto inoltre uno stile parecchio spezzato,
proprio per incrementare l'inquietudine e lo svolgersi rapido, secco,
degli eventi.
Se questa storia ha preso vita è stato anche grazie a Ilenia
(che oggi mi ha dato una notizia bellissima e reso migliore la mia
giornata) aka Sunako,
la quale legge con santa pazienza e affetto le bozze che le passo, mi
consiglia e mi guida. Grazie, per tutto quello che sei e che fai.
Buona
lettura e...
buon Halloween! Poi se ve lo dice una che è l'incarnazione
di una zucca è ancora meglio, no?
"I
have
seen beyond the bounds of infinity and drawn down daemons from the
stars... I have harnessed the shadows that stride from world to world
to sow death and madness"
From Beyond -
H.P. Lovecraft
And
then… there was Darkness.
Boruto
lanciò
una breve occhiata all’ampia libreria del salotto, scorrendo
i
vari romanzi storici, fantasy e qualche thriller, per poi soffermarsi
come d’abitudine sugli scaffali dedicati
all’esoterismo che
avevano da sempre catturato la sua attenzione.
Si
voltò verso Sarada, seduta al tavolo con un foglio, una
penna e un bicchierino, per poi domandarle dubbioso:
“Ehr...
sei sicura di voler fare questa cosa?”
La ragazza
sollevò
lo sguardo, si aggiustò con aria professionale gli occhiali
e
dopo aver emanato un breve sospiro annuì: “Certo
che ne
sono sicura – accennò a un mezzo sorriso
provocatorio
– non dirmi che proprio tu vuoi tirarti indietro.”
Boruto
aggrottò le sopracciglia e sbottò, ferito
nell’orgoglio di quindicenne:
“Non
dire stronzate,
io di sicuro non ho paura. Mi stupivo solo che tu, dopo tutti questi
anni in cui mi hai vietato anche solo di toccare i libri di tuo padre,
te ne esci con sta storia della... cosascrittura,
o come si dice.”
Borbottò,
grattandosi il naso dopo aver appoggiato una mano sul tavolo.
Sarada, che
aveva finito di disegnare le lettere dell’alfabeto sul
foglio, inserendo anche voci di comodo quali si, no e il punto
interrogativo, chiuse la penna per replicare con aria tranquilla:
“Telescrittura,
Boruto, si chiama telescrittura. Guarda che la questione dei libri di
papà rimane: l’esoterismo è una materia
da non
prendere sottogamba, in nessun caso.”
“Oh,
beh, alla faccia
del divieto! Perché quello al tuo fianco mi pare proprio un
libro esoterico di tuo padre! Oppure lo davano in edicola in comode
uscite settimanali nella raccolta Evocazioni,
impara anche tu a parlare con gli spiriti?”
Replicò,
puntando un dito contro l’oggetto incriminato.
Sarada,
nonostante
l’aperta ironia del commento, arrossì e
aggrottò le
sopracciglia, assumendo un’aria indignata, per poi ribattere
asciutta:
“In
questo caso
è diverso. Mi sono dovuta documentare, la telescrittura non
è una cosa da affrontare alla leggera e – tacque
un
istante, mordendosi un labbro – era l’unico modo.
Per
parlare con la mamma, visto che papà dopo tutti questi anni
sembra averci rinunciato.”
Dopo aver
ascoltato quelle
parole e, soprattutto, visto l’espressione
dell’amica
d’infanzia, Boruto sospirò, si portò un
pollice al
petto gonfio di determinazione e la esortò, carico
d’energia:
“Va
bene! Facciamolo allora!”
Suo malgrado,
Sarada si
ritrovò a sorridere per quella scarica di
vitalità e
annuì a sua volta, prendendo tra le mani i vari oggetti,
così da alzarsi in piedi. Notando lo sguardo vagamente
interdetto del compagno spiegò con voce più
bassa, quasi
stessero per compiere un crimine inenarrabile:
“Non
qui, Boruto.
Nella mia camera: non si sa quello che potrebbe succedere o se magari
papà rientra all’improvviso.”
“O
se passa il vecchio signor Ward. Per offrirti sigari e chiederti il
sale.” Scherzò l’altro.
Sarada
roteò gli
occhi: “Non è vecchio, è rimasto solo
ferito dopo
una delle spedizioni con papà; l’Africa ha
cambiato le
vite di tutti noi.”
Commentò
infine,
cominciando a salire le scale che conducevano alla bella mansarda dove,
anni fa, i suoi genitori avevano fatto i lavori per renderla abitabile
e ricavarne una camera tutta per lei, luminosa, dal tetto alto e con le
nicchie più basse murate per ricavarne uno sgabuzzino chiuso
da
una porta bassa, nel quale tendenzialmente finivano le valigie e tutte
le robe inutili accumulate negli anni.
A Sarada
piaceva la sua
mansarda, proprio perché spaziosa e piena di luce, anche se
a
volte si sentiva un po’ troppo lontana rispetto ai suoi
genitori,
quando c’erano ancora entrambi e rientravano a casa la sera.
Risalì
le scale in
legno lucido, facendo scivolare le dita sul mancorrente, seguita da
Boruto che non visto la scrutava, incapace suo malgrado di comprendere
l’improvviso impulso che aveva spinto la sua amica, dopo
tutti
quegli anni, a cercare un dialogo con sua madre che pure era morta
tempo addietro.
Ma
d’altronde lui una
madre ancora l’aveva, per fortuna, quindi non si sentiva
esattamente nella posizione di obiettare qualcosa, decidendo come
sempre di supportare Sarada nelle sue scelte, anche quelle
all’apparenza più folli, anziché
osteggiarla
dimostrando un buon senso che, in fondo, lui non aveva decisamente mai
posseduto.
Osservò
brevemente
la Playstation con i pad appoggiati a terra, i videogiochi impilati, i
libri e una boccetta di smalto che Sarada aveva evidentemente cercato,
forse il giorno prima, di mettersi senza troppi risultati. Sorrise, per
tutti i bei ricordi che aveva della loro infanzia, delle competizioni
con gli sparatutto o i salti assieme quando incominciavano un videogame
horror che masochisticamente giocavano di notte, al buio.
Poi, vide
Sarada sedersi per terra su un cuscino, lanciargliene uno ed esortarlo:
“Dai,
cominciamo.”
Per quanto
entusiasta per
ogni iniziativa tendenzialmente sconsiderata, quella volta Boruto non
poté fare a meno di sentire un senso di irrequietezza quasi
istintivo, nonostante l’atmosfera distesa e la consapevolezza
che
il loro futuro mezzo di comunicazione spirituale fosse,
sostanzialmente, nient’altro che un foglio scribacchiato.
Si sedette a
sua volta e scherzoso espresse i suoi dubbi:
“Sicura
che quel
pezzetto di carta vada bene? Non dovremmo avere qualcosa di
più
figo, tipo una tavola ouija come quelle che si vedono nei
film?”
Sarada si
sistemò
gli occhiali: “Andrà benissimo. Tutte quelle robe
che vedi
in televisione sono giusto per fare scena. Che tu abbia una biro o una
Montblanc scrivi lo stesso, no? Con la telescrittura è la
stessa
cosa.”
“Sei
sempre saggia e
sai un sacco di cose, Sarada.” buttò lì
Boruto,
d’istinto, con un sorriso allegro.
La ragazza,
intimamente
compiaciuta e imbarazzata, arrossì. Poi dette un colpo di
tosse,
appoggiò il bicchierino sul foglio con le lettere
dell’alfabeto e disse, guardando con serietà
l’amico
negli occhi.
“Ti
spiego come
andranno le cose. Se non te la sentissi o volessi
ripensarci… lo
capirei, non devi provare un obbligo nei miei confronti.”
Perché,
davvero,
l’ultima cosa che desiderava era trascinare Boruto in un
qualcosa
di più grande di entrambi senza che lui ne fosse
consapevole. Ma
l’amico nemmeno la fece finire di parlare:
“Vai
di spiegazioni.
Abbiamo fatto un sacco di stupidaggini in questi anni, tendenzialmente
provocate da me – ridacchiò – quindi non
penso
nemmeno alla lontana di lasciarti sola in questa cosa, sei la mia
famiglia.”
Sarada
sorrise,
genuinamente, grata per poter contare sul migliore amico di sempre e il
fratello che non aveva mai avuto anche in circostanze come quella.
Dunque annuì e cominciò a parlare per sommi capi
di
quello che avrebbero dovuto fare:
“Posizioniamo
il
bicchierino al centro, poi appoggiamo l’indice su di esso.
Gomiti
alzati, non devono entrare in contatto con nulla, nemmeno il nostro
ginocchio. Infine… aspettiamo. Stando al libro a un certo
punto
le nostre menti dovrebbero connettersi e permetterci di convogliare le
giuste energie per cominciare la comunicazione con
l’aldilà.”
Boruto
annuì. Il
sole filtrava attraverso le finestre incastrate nel tetto, non
c’era nemmeno una nuvola nonostante fosse tardo pomeriggio.
Sarada
rovesciò il
bicchierino di vetro, posizionandolo al centro, poi dopo aver espirato
appoggiò sul fondo l’indice, guardando
l’amico con
occhi carichi d’aspettativa.
Il ragazzo
commentò,
tirandosi su le maniche: “Dai racconti dei nostri genitori,
mio
padre e il tuo non avevano nemmeno bisogno di toccare il bicchiere, si
spostava tipo impazzito.”
Sarada
scrollò le
spalle: “Questo perché tuo papà
è un medium
e il mio ha una forte energia psichica, oltre a essere un esperto in
occultismo. E’ normale che non abbiano nemmeno bisogno di un
contatto ma – precisò con quel fare tagliente
eppure
paziente che la contraddistingueva – noi non siamo
né
medium, né i nuovi spiritisti dell’anno, quindi
dobbiamo
arrangiarci come possiamo. Ora proseguiamo o aspetti che
l’aldilà apra una porta con noi per
esasperazione?”
“Va
bene, va bene,
siamo tipo al livello 1 di un gdr e dobbiamo expare per raggiungere i
nostri vecchi. Vai di level up!”
Sorrise e
appoggiò a sua volta il dito sul bicchiere.
Il vetro era
freddo e la carta liscia sotto di esso.
I due ragazzi
si
guardarono, avvolti dal silenzio della casa, mentre i loro respiri
facevano appena rumore, come per paura di rovinare qualcosa.
Passarono
diversi minuti ma ancora non ci furono movimenti: il bicchierino era
immobile, esattamente come loro.
Dopo diverso
altro tempo, Boruto domandò perplesso: “Quando
esattamente dovrebbe succedere qualcosa?”
Sarada si
morse un labbro:
“Non lo so, non c’è scritto un tempo
preciso. Pensa
a mia mamma, concentrati su di lei.”
Ritornarono,
in silenzio, a
guardare l’oggetto in vetro che era rimasto esattamente dove
l’avevano posizionato. Sarada cominciava a sentire il braccio
farle male, complice il muscolo tenuto immobile e sollevato troppo a
lungo, nonché la frustrazione perché quel dannato
coso
non accennava minimamente a spostarsi, per quanto lei avesse letto e
studiato la procedura. Non capiva cosa stesse sbagliando.
Poi,
all’improvviso, il bicchiere si mosse.
Fu uno scatto
millimetrico, ma lo avvertì distintamente.
Guardò
d’istinto Boruto che a sua volta posò gli occhi su
di lei:
“Boruto,
smettila di prendermi in giro. Non serve che mi dai
l’illusione per farmi contenta.”
Il ragazzo
sgranò gli occhi, offeso:
“Prenderti
in giro? Tu, piuttosto, l’hai spostato per farmi stare qui
finché non succedeva qualcosa.”
Sarada
assottigliò lo sguardo: “Io non ho fatto proprio
un bel niente.”
Tacquero
entrambi. Poi abbassarono il volto verso l’oggetto.
In quel
preciso istante, il
bicchiere si mosse, ancora. Finì precisamente sulla lettera
N,
né vicino, né fuori dai confini delineati a penna.
Quella volta i
due amici
non si guardarono. Tennero invece gli occhi puntati
sull’oggetto,
le braccia immobili, le dita quasi leggere sul corpo in vetro che
sembrava essere scivolato sotto di loro.
Dopo essersi
umettata brevemente le labbra, Sarada ribadì:
“Non
togliere il dito. Per nessun motivo.”
Boruto
continuò a non spostare lo sguardo e si limitò ad
annuire.
Il bicchiere
si mosse ancora, più deciso, diretto verso una nuova
lettera. Sarada la memorizzò: U.
“Nu...”
sussurrò tra le labbra.
Gli occhi
seguirono il
bicchierino che riprese a spostarsi, più veloce. Sembrava
ribellarsi sotto le loro dita che erano disperatamente ancorate alla
sua superficie, come calamitate da essa: la sentivano più
fredda
mentre la carta al di sotto frusciava, accarezzata eppure rotta da quel
passaggio brusco, persino frettoloso.
“L…
I… O…” continuò a leggere ad
alta voce.
Poi, il
bicchiere si arrestò.
Boruto e
Sarada si resero
conto di aver trattenuto il respiro, mentre il cuore batteva
più
forte e la stanza attorno a loro aveva perso di significato.
Velocemente,
con la mano
libera Sarada estrasse un taccuino dalla tasca dei jeans, lo mise alla
buona sul ginocchio e sempre con la sinistra afferrò la
penna
per appuntarsi le lettere.
Poco dopo il
bicchiere si mosse.
Altre lettere,
toccate
velocemente: Boruto aveva l’impressione di non riuscire a
star
dietro a quella scheggia di vetro impazzita che sfrecciava sulla carta,
mentre senza fiatare Sarada si annotava con sguardo attento ogni
singola lettera.
Una breve
pausa, prima di
un nuovo insieme di lettere, lo scrivere frenetico sul foglietto degli
appunti, infine… il nulla. Non un movimento.
Sarada
ansimò,
agitata. Un brivido le corse all’altezza della cervicale, il
cuore le era arrivato fino in gola e pulsava talmente tanto forte da
sentirlo fin dentro il cervello e nelle orecchie, pronte a gettarlo
fuori.
“Mamma?”
Domandò
alla fine con voce incerta, scoprendo di non avere sufficiente aria da
espellere per stimolare le corde vocali.
Non
guardò il blocco
di fogli, né seppe quello che aveva scritto, troppo
concentrata
ad appuntare i movimenti del bicchiere. L’oggetto per un
istante
non si mosse.
Poi, lento,
esso si
spostò. Discese, lettera dopo lettera, senza fermarsi su
nessuna. Per un istante andò di poco fuori dai confini del
foglio, si arrestò, infine parve ripensarci.
Un altro breve
secondo e il bicchiere risalì appena, rimanendo nel mezzo
tra il si
e il no
scritti a penna con la calligrafia precisa di Sarada.
Attesero.
Infine, con
altrettanta
lentezza l’oggetto si avvicinò al si, sfiorandolo,
e il
cuore di Sarada batté più forte, per
l’emozione,
l’agitazione e l’aspettativa.
Ma proprio
quando credette
che si sarebbe posato lì, su quel dannatissimo si, il
bicchierino fece una virata brusca e con uno scatto persino violento
andò sul...
No.
Due lettere,
chiare, inequivocabili.
“Non
è tua madre, Sarada. Non stiamo parlando con lei.”
Commentò
a mezza voce Boruto.
La ragazza
aprì appena la bocca, fece fatica a deglutire.
Com’era
possibile?
Aveva pensato a lei, era nella sua casa, protetta dai propri oggetti e
con un amico fidato che non aveva mai interrotto il contatto.
Il bicchiere
non si mosse, nemmeno loro.
Avrebbe voluto
chiedere chi sei ma
non lo fece. Sapeva che a quel punto, chiunque ci fosse
dall’altra parte poteva rispondere qualunque cosa, con la
stessa
prepotenza con cui tale entità era entrata in contatto con
loro.
Afferrò
il taccuino.
Guardò
le parole composte ma non disse nulla.
Impaziente,
Boruto glielo prese tra le mani, rilesse più volte le
lettere e fissò Sarada con gli occhi sconvolti:
“Ma…
non vuol dire nulla. Sono parole senza senso.”
Spostò
di nuovo lo
sguardo sulla frase scritta dall’amica. Tre parole che nulla
avevano a che fare con la loro lingua.
Sarada non
spostò a sua volta il dito e provò ad andare per
logica:
“No,
non hanno senso.
Ma magari non riusciamo a capirlo. O forse la tavola non è
stata
scritta in maniera sufficientemente chiara per chi abbiamo contattato,
a volte succede che gli spiriti si confondano.”
Perplesso,
Boruto scrutò il blocchetto:
“Sembra
latino
– fece un sorriso teso – chi avrebbe mai pensato
che un
giorno conoscere una lingua morta ci sarebbe stato
d’aiuto.”
La ragazza
sospirò,
con il cuore che sembrava essersi calmato. Gli prese i foglietti dalla
mano e li tenne stretti, per poi fare presente: “Il suono
ricorda
latino eppure… le parole non mi dicono nulla.”
Boruto
scrollò le spalle: “Beh, ogni tanto ci
sarà pur qualcosa che nemmeno tu conosci.”
Sarada fece
una smorfia, per nulla convinta.
Dopo un
istante convenne
con Boruto di interrompere, in contemporanea, la comunicazione e
togliere gli indici dal bicchierino che quasi per istinto Sarada
allontanò dalla tavola ouija fatta in casa.
Rilesse le
parole e fece per pronunciarle ad alta voce.
Ma Boruto le
afferrò il braccio, guardandola come se stesse per detonare
una bomba:
“Ti
ha dato di volta
il cervello? Se c’è una cosa che ho imparato da
anni e
anni in casa con mio padre e la frequentazione con il tuo è
di
non leggere mai
ad alta voce delle parole che non conosci, specie se è
latino.”
“Boruto
questo non
è latino, quindi non facciamoci strane paranoie. Ma magari
una
volta pronunciate ci sono delle assonanze vocali che ci possono far
collegare a qualcos’altro. Forse – aggiunse, con
evidente
speranza – è uno spirito in contatto a sua volta
con la
mamma.”
Boruto
sospirò ma
non mostrò ulteriore perplessità. Sarada sembrava
così disposta a tutto pur di tornare, anche solo una volta,
a
parlare con sua madre, a sapere come stesse e dirle tante cose vissute
e provate in quegli anni, che lui proprio non se la sentì di
sminuire i suoi di per sé brillanti tentativi.
Dunque
annuì e si
mostrò più risoluto, scacciando eventuali dubbi
per non
apparire un codardo piagnucolone di fronte all’amica,
confidente
ed estensione della famiglia che amava, specie dopo tutte
l’avventure strampalate in cui l’aveva coinvolta.
“Ok,
ok, niente
latino, niente conseguenze strane. Vai di assonanze, chissà
che
magari dietro non ci sia un gioco enigmistico di quelli che piacciono
ai tuoi genitori.”
Sarada si
mostrò effettivamente più entusiasta:
“E’ un’ottima
possibilità!”
Allora
l’amico le sorrise, sollevando il pollice con aria complice.
Erano in
ballo, tanto valeva ballare.
Dopo qualche
minuto,
osservò l’amica dare un colpo di tosse per trovare
la
giusta impostazione vocale, umettarsi le labbra secche per
l’agitazione e pronunciare, assicurandosi di scandire bene le
parole.
“Nulio bonus omoreo.”
Trattenne il
fiato, imitato
da Boruto che occhieggiò la tavola ouija, ma il bicchierino
non
si mosse. Poi, si guardarono attorno senza alzarsi dai loro posti.
La luce era un
po’
più tenue con l’avvicinarsi della sera, il vento
soffiava
ogni tanto tra gli alberi allontanando eventuali nuvole e la casa era
silenziosa: ogni cosa, a partire dai loro corpi, era perfettamente
immobile.
“Non…
non è successo nulla.”
Commentò
Boruto, a voce bassa. Deglutì.
Sarada si
aggiustò gli occhiali, tornando a guardare l’amico:
“Così
sembrerebbe – nascose una punta di delusione, per la speranza
che
invece a quel punto sua madre magari le avesse nascosto un messaggio,
infine si costrinse a dire – penso che per oggi possa
bastare.
Leggo ancora qualche altro testo e riproviamo più
avanti.”
“Va
bene. La prossima
volta sono sicuro che andrà alla grandissima!”
esclamò, mostrando un sorriso carico
d’incoraggiamento.
Sarada fece a
sua volta un
mezzo sorriso, grata per l’entusiasmo che Boruto sapeva
sempre
mettere in tutte le cose. Lanciò una breve occhiata alle
parole
insensate pronunciate poco fa, ripromettendosi che le avrebbe
analizzate in serata, per poi concentrarsi i giorni successivi su
approfondimenti utili per indirizzare il contatto verso uno spirito
specifico e non più qualcuno di casuale.
“Grazie,
Boruto.” disse lei, alzandosi in piedi.
Il ragazzo si
alzò a
sua volta, raccogliendo i cuscini: “Siamo inseparabili, no?
– lanciò i cuscini sul letto, infine propose
– pizza
e film? Poi ti lascio tornare ai tuoi serissimi studi
d’approfondimento sull’assemblea condominiale di
spiriti e
affini, in attesa che tuo padre rientri.”
In fondo,
nella solitudine
degli anni d’infanzia fatta di genitori lontani per lavoro,
Boruto e Sarada erano stati reciprocamente l’unica famiglia
che
avevano.
“Che
scemo sei
– replicò la ragazza, assestandogli un pugno sulla
spalla
– ci sta, ordiniamo a domicilio?”
Boruto la
guardò
come se stesse dicendo una cosa scontata: “Ovvio! Altrimenti
che
pizza sarebbe? Suggerisco un film trash d’alto livello
culturale
per coronare la serata in bellezza.”
Sarada si
grattò il
mento, fingendosi pensosa, quando in realtà sapevano
benissimo
entrambi quel era il loro preferito: “Sharknado?”
“Ti
adoro!” esclamò Boruto, per poi scoppiare a ridere.
Sarada si
lasciò
abbracciare, un po’ impacciata. Prese il taccuino in modo da
mettere a posto e nascondere tutte le tracce del suo operato:
fissò la scritta e le lettere malamente scribacchiate, poi
fece
per strappare la pagina e gettarla nel cestino.
Ma
all’ultimo… ebbe un ripensamento.
Richiuse il
blocco di fogli
e lo infilò tra un libro e l’altro dello scaffale
pieno di
oggetti; infine, scese di corsa le scale assieme all’amico,
mentre le parole provenienti da un’entità
sconosciuta
giacevano, intoccate, tra le pagine di un taccuino, risparmiate dalla
distruzione.
*
Sarada non riusciva a
dormire. Era distesa sul suo letto, con il piumone caldo per le notti
d’inverno, il comodino su cui era appoggiato un bicchiere
d’acqua, il telefono e la lampada, al fianco
l’armadio
angolare capace di contenere tutti i libri, più che i
vestiti,
per i quali la sua colorata libreria non era sufficiente.
Rivolta verso
il soffitto
mansardato, cercò di smettere di pensare alle parole e a
quell’inconcludente pomeriggio, per ricordare qualcosa di
più scanzonato, come gli squali che turbinavano in un
tornado,
appunto. Ma… nulla, la sua mente proprio non voleva
collaborare
per renderle la nottata più semplice da gestire, mentre il
peso
di qualcosa lasciato inconcluso, come da portare a termine,
l’attanagliava fin dentro le viscere.
Nella penombra
della stanza, all’improvviso, avvertì qualcosa.
Non un suono o
un
movimento, semplicemente la percezione di due pesi, consistenti eppure
non invadenti, che si misero ai suoi fianchi, con delicatezza, simili a
un gatto che si adagi nel letto prendendo il proprio posto o a sua
madre, quando si sedeva mettendosi al suo lato per accarezzarle i
capelli se lei era malata e aveva la febbre, oppure tutte le volte che
si sentiva triste prima di un suo viaggio lontano.
Poi, avverti
una sensazione
di calore. Partì dal petto e risalì su, fino alla
gola. A
un certo punto fu come se due mani le stessero avvolgendo il collo,
senza stringere, bensì proteggendolo simili a una sciarpa
calda
o, ancora, al tocco di una madre.
Sua mamma.
Cercò
di muoversi ma… non ci riuscì.
Fu allora che
sentì una voce. La voce di sua madre. La chiamava dal fondo
delle scale.
“Sarada,
gli spiriti stanno arrivando.”
Improvvisamente,
con il
cuore che prese a battere più forte, mentre il resto del
corpo
era come bloccato, i muscoli paralizzati, Sarada cercò di
aprire
gli occhi e allo stesso tempo parlare, gridare; qualcosa, qualsiasi
cosa pur di fermare la sua mamma e chiederle di aiutarla, di non
lasciarla sola al buio.
Non voleva che
i fantasmi
arrivassero, né che la trovassero, ma soprattutto aveva
bisogno
di lei al suo fianco, perché non sapeva cosa fare
per
combattere la solitudine di suo padre e la propria.
Ma la bocca
era sigillata:
non riuscì né a spalancarla, né a
emettere un
suono, mentre il cuore le rimbombava fin dentro la testa e il corpo non
rispondeva ai comandi.
Fece fatica a
respirare, le
mani non sue sul collo emanavano più calore e stringevano
con
forza maggiore, inchiodandola sul materasso.
All’improvviso,
udì un suono.
Sembrava
vento. Un vento
furioso, potente, scatenato contro di lei. Fu talmente tanto vicino da
farle credere che le fosse finito addosso sbattendo violento, ululante
come un qualcosa di feroce, arrabbiato e terribile; un urlo grottesco
che si mischiò con quello del vento micidiale capace di
schiacciarla contro il materasso.
In un fruscio
impetuoso le
lenzuola e il piumone si sollevarono, agitandosi come un mare in
tempesta, lasciando le sue gambe scoperte, vulnerabili a ciò
che
le stava scagliando contro la sua rabbia.
Maledizione.
Lo sapeva, lo
sapeva. Quel
pomeriggio era successo qualcosa. Un’entità era
entrata,
agganciandosi disperatamente alla sua vita. Ed era lì,
davanti a
lei.
A quel punto,
terrorizzata,
paralizzata, Sarada aveva paura ad aprire gli occhi, perché
non
sapeva cosa avrebbe visto. Qualsiasi cosa con cui si fosse trovata ad
avere a che fare era forte, travolgente e lei non sentiva
più il
letto circondarla: solo oscurità, oscurità e caos
nelle
sue orecchie, sul volto contratto dallo sforzo di non vedere e, allo
stesso tempo, spalancare la bocca per urlare con tutto il fiato che
aveva nei polmoni.
Poi,
all’improvviso, ogni rumore cessò.
Le coperte
tornarono ad
adagiarsi su di lei, quasi come se l’aria ora amorevole
avesse
deciso di sistemare il letto disfatto, mentre il suo corpo si
afflosciò, abbandonando ogni tensione che l’aveva
agganciato al materasso.
Solo allora
Sarada
aprì le palpebre, di scatto, trovandosi nella sua stanza
avvolta
d’oscurità, faticando a respirare.
Annaspò, aprendo
la bocca, con gli occhi sbarrati e le orecchie che quasi fischiavano in
cerca di rumori, di altri respiri o passi.
Ogni ombra le
sembrò più grande, capace di muoversi, subdola,
creatura oscura acquattata in un angolo.
A tentoni
cercò la
luce sul comodino. La accese, faro di speranza in quel mare di nero,
mentre il cuore come il respiro non smetteva di galoppare rapido,
selvaggio, pronto a schizzarle fuori dalla gola.
Fu allora, in
quel momento di assoluto silenzio, di stasi dopo tempestoso terrore,
che... l’anta
dell’armadio si aprì.
Un movimento
lento ma
inarrestabile, con il legno e i cardini che cigolavano, in un suono
così definito da sembrare in grado di piantarsi direttamente
nella testa.
Parzialmente
rischiarata
dalla luce giallognola, con le ombre che correvano rapide attorno a
lei, Sarada vide la porta spostarsi. E gli occhi, allora, si dilatarono
di più, inconsapevolmente, con la stessa progressiva
disperazione di quell’anta.
Sarada non
sentì
ancora il cuore batte, le orecchie fischiarono più forte e
la
bocca si mosse appena, boccheggiando. Il corpo tornò a
immobilizzarsi, incapace di muoversi o reagire.
Ebbe voglia di
piangere,
nemmeno di urlare, solo piangere e chiamare suo padre, ovunque egli
fosse, per chiedergli di tenerla vicino e stringerla, dicendole che
tutto alla fine sarebbe andato bene.
Non
deglutì, non aveva saliva.
Improvvisamente
sollevò le coperte e, con i piedi nudi, addosso una
maglietta
slargata di un gruppo riciclata da qualche concerto, Sarada corse.
Corse sul
pavimento gelido,
ma non così gelido quanto i suoi arti, poi giù
per le
scale, i gradini che sembravano scivolare e lamentarsi sotto il suo
peso leggero eppure deciso, infine il salotto, ampio, con il tavolo, i
libri e le poltrone.
Fu allora che
con un movimento rapido qualcuno la prese per le spalle e la
bloccò.
Lei fece per
gridare
qualcosa, sentendo il cuore esploderle e gli occhi secchi, incapaci di
chiudersi, ma ogni parola le morì sulle labbra.
Intravide,
nella penombra, il volto preoccupato e spaventosamente serio di suo
padre.
Boccheggiò
un
istante, rendendosi scioccamente conto di non indossare gli occhiali,
di avere freddo ed essere stanca, così tanto stanca, quasi
avesse corso per valli, città e montagne.
“Papà…”
sussurrò.
Poi, lo
abbracciò.
Affondò
nel suo
petto asciutto ma definito, oltre il tessuto di un’anonima
maglietta a maniche corte, al di sopra dei pantaloni scuri e larghi di
una tuta, mentre i capelli scuri come i suoi emanavano odore di buono,
di casa, di qualcosa capace di proteggerla.
Sasuke Uchiha
non le chiese
nulla. L’abbracciò a sua volta, avvertendo il
cuore
giovane, d’adolescente, rimbalzargli contro nella cassa
toracica.
Infine le
parole di sua
figlia, rauche, schiacciate contro la spalla scaldata dal respiro
bisognoso di riprendere a funzionare correttamente:
“Papà
io… ho fatto un casino tremendo.”
Lo strinse
più forte, come temendo che Sasuke andasse via.
Questi
occhieggiò istintivamente i suoi libri, le ombre dei dorsi e
dei titoli. Sospirò.
“Ora
sono qui.”
Le disse a
voce bassa. Si
stupì di come per sua figlia, alla fin fine, sapesse ancora
fare
dei gesti d’affetto e protezione, dopo aver creduto di non
esserne più capace.
*
Con le mani nella tasca del
cappotto, Naruto guardò la casa appartenente a Sasuke e a
sua
moglie Sakura. Provò una fitta al petto, provocata dal
dolore e
dalla nostalgia: sembrava infatti fossero passati anni da quando Sakura
li aveva lasciati, cessando la sua esistenza sulla Terra.
Lungo il viale
avvertì un senso di pesantezza maggiore, segno che le cose
stavano inesorabilmente procedendo come previsto.
Bussò
alla porta di
casa e dopo un istante gli venne ad aprire Sasuke. Aveva i capelli
lunghi fino quasi alle spalle chiaramente non pettinati, nonostante la
gravità contribuisse a tenere quella ribelle massa scura
più o meno al suo posto.
In
quell’istante,
Naruto fu tentato di rassicurare Sasuke, di dirgli che tutto sommato
aveva già ottenuto dei risultati, ma tacque, consapevole che
parlando avrebbe rovinato ogni cosa, distruggendo quel mondo di
auto-convincimenti che entrambi avevano contribuito a creare.
“Entra.”
Gli disse
l’altro con un mezzo sorriso, intimamente felice di vedere il
collega e amico storico.
Naruto si
pulì i
piedi su un tappeto perfettamente pulito e oltrepassò la
soglia,
guardandosi attorno con i chiari occhi azzurri attenti, come capaci di
cogliere dettagli a cui Sasuke non aveva pensato.
“Credevo
mi sarei
lasciato questa merda alle spalle – disse improvvisamente
Uchiha,
mentre Naruto appendeva il cappotto – ma evidentemente il
passato
continua a ritornare. Sarada…”
L’amico
lo guardò, sentendo il petto fargli male.
Dopo un
istante, Sasuke
proseguì: “Ha fatto entrare
un’entità.
Un’entità forte. Mi spiace coinvolgerti nuovamente
ma non
posso permettere che qualcosa di oscuro distrugga ancora la mia
famiglia.”
L’uomo
gli
appoggiò una mano sulla spalla, i capelli biondi sembravano
più luminosi investiti dal sole della mattina che filtrava
attraverso le ampie finestre del soggiorno, il suo sorriso
più
incoraggiante e in qualche modo meno stanco:
“Se
non fossi stato
tu a coinvolgermi, Sasuke, ci avrei pensato io stesso. Insomma, sono
pur sempre un medium, avrei percepito che qualcosa non
andava.”
Per un
istante, Sasuke
colse uno sguardo diverso in Naruto, qualcosa che non comprese ma gli
sembrava ugualmente che avrebbe dovuto. C’erano dei dettagli
che
gli sfuggivano e che non riusciva ad afferrare.
Si
limitò a
occhieggiare un istante la mano del medium, avvertendo il suo contatto
deciso eppure capace di trasmettere il suo totale e incondizionato
supporto.
Annuì,
per poi fare un cenno con la testa a Naruto, invitandolo a seguirlo su
per le scale che conducevano alla soffitta.
In quegli
istanti di
salita, gradino dopo gradino, i due uomini percepirono
l’atmosfera cambiare, la luce farsi più fredda,
come se un
evento cosmico fosse stato in grado di togliere l’oro dai
raggi
del sole.
Faceva freddo,
tipico di
tutte le soffitte nelle giornate d’inverno, appendici
dimenticate
di un corpo incapace di distribuire il proprio calore.
Gli oggetti di
Sarada, i suoi libri, i videogiochi, i cuscini colorati erano al loro
posto, immutati nel tempo.
Naruto si
guardò
attorno, concentrato. Il suo sguardo finì sul cestino vuoto,
poi
si spostò sulla libreria; mentre Sasuke scrutava
l’armadio
chiuso, il medium afferrò d’istinto un blocchetto
per gli
appunti infilato tra i libri e lesse una frase scritta in maniera
incerta.
Quando
l’altro si
voltò, di fretta Naruto nascose il taccuino in una tasca,
finendo per incrociare gli occhi con Sasuke.
Questi
domandò: “Senti niente?”
Naruto si
morse un labbro.
Aprì la bocca, fece per dire qualcosa ma… i
muscoli del
volto furono incapaci di articolare un suono concreto.
Sasuke lo vide
esitare e,
poi, il suo sguardo. Gli occhi azzurri non lo vedevano più,
si
erano mossi oltre, alle sue spalle.
Aggrottò
le sopracciglia e sentì l’amico dire:
“L’armadio. Dietro di te.”
Sasuke si
voltò di
scatto. E, in quell’istante, vide che l’anta si era
aperta,
senza emettere un suono o un lamento, come se il mobile fosse stato
sempre in quel modo, ma lui non era stato in grado di rendersene conto.
“Naruto…”
Naruto,
invece, non c’era più.
All’improvviso,
non ci fu nemmeno più la luce.
Come in un
palcoscenico, le
luci si spensero, il sole tramontò, calando il sipario sulla
soffitta e regalando invece la notte, con la penombra della luna.
Esisteva solo
il silenzio, rotto dal respiro all’improvviso difficoltoso di
Sasuke.
Con i sensi
all’erta,
egli si guardò attorno: non vide i contorni dei mobili tanto
famigliari, nemmeno l’armadio che sembrava contenere al suo
interno un pozzo d’oscurità capace di
inghiottirlo,
trascinandolo verso di sé.
“Dannazione.”
Sussurrò, sentendo una paura incomprensibile cominciare ad
attanagliargli la mente.
Aveva visto
tante cose,
nella sua vita: Cultisti invocare Antichi senza conoscere la portata
distruttiva di ciò che avevano invitato su quel Piano
dell’Esistenza, aveva avuto contatti con entità
potenti,
senza forma, inadatte per essere imbrigliate nella descrizione che un
uomo poteva creare e riprodurre a parole.
Eppure, per
del buio, per
la mai troppo famigliare assenza di orientamento e di confini, Sasuke
provò irrimediabilmente angoscia.
Un’angoscia
che
partiva dalla gola e stringeva le viscere, cordoni sanguinanti di paure
primordiali, consapevole che in quella stanza, tra quelle pareti,
c’era qualcosa di più grande della sua esperienza
e della
sua maturità di uomo.
Un fiotto di
luce lunare si
dipinse attraverso le finestre reclinate del tetto alto, scintillando
quasi azzurra sul pavimento bianco.
Eppure Sasuke,
incapace di
battere ciglio, guardò l’armadio, che era rimasto
aperto,
notturno nel suo vuoto opprimente.
Fu allora che
sentì bussare.
Un colpo, uno
solo. Il suo cuore batté veloce nel petto.
Tese le
orecchie,
all’erta, come tutti i suoi sensi. Il rumore, nel silenzio
assordante, sembrò più forte, come una martellata
sulla
tempia.
Il battito fu
frenetico,
quando Sasuke realizzò che chiunque volesse entrare, non
stava
bussando alla porta d’ingresso.
Voltò
la testa e vide, parzialmente rischiarata dalla luce della luna, la
porta bassa dello sgabuzzino.
Toc.
Un altro
colpo. Netto, deciso, come se chiunque fosse dall’altra parte
avesse diritto a entrare.
Toc.
Ci fu
più forza e
rabbia, quella stessa rabbia che aveva investito Sarada e la loro vita.
Il cuore scalciò impazzito, il respiro accelerò.
Sasuke
indietreggiò
di un passo, occhieggiando le scale. C’era qualcosa che non
andava, quella non era casa sua, c’era troppo buio e vuoto
e… le formule. Quali erano le forumule? Perché,
all’improvviso, sentiva di averle dimenticate?
Ritornò
il silenzio. Interminabili, agonizzanti, secondi di silenzio.
Poi…
dei passi, metallici: no, non erano solo delle gambe umane a toccare la
terra.
Inconsapevolmente,
Sasuke
tornò a voltare lo sguardo verso la porta, incassata nelle
pareti basse dello spiovente del tetto,
l’immobilità del
legno, reso più chiaro dalla luna.
Attese,
smettendo di respirare.
Finché,
all’improvviso, la porta vibrò; vibrò,
colpita da
qualcosa di più forte, di inumano, capace di contenere la
rabbia
di un tornado.
E i
colpi… i
colpi.
TocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocTocToc.
Rapidi,
violenti, incessanti.
E il suo
cuore, più rapido, veloce, Sasuke lo sentiva contorcersi e
poi esplodere nel petto.
Un martello
sull’asse
di legno e sulle ossa del torace che vibrò, così
come
vibrò la serratura metallica e i cardini e la paura
strisciante.
Il rumore era
assordante,
talmente totalitario da riecheggiare per la mansarda, tra i vetri e i
mobili, riempendo le orecchie di Sasuke che indietreggiò,
stordito, sopraffatto, la mente che sembrava non riuscire a collegarsi
con il corpo.
Corse verso le
scale,
mentre il rumore continuava; qualcuno, qualcosa,
l’entità
bussava insaziabile del tempo dall’altra parte, pretendendo
di
entrare quando quella casa già gli apparteneva.
Sasuke scese
in strada,
ansimando, continuando a correre, i capelli schiacciati dal vento,
rischiarati dalla luna e dai pochi lampioni del marciapiede. I suoi
libri, i ricordi, ciò che aveva visto e provato erano stati
inutili. Lui, senza Naruto, senza Sakura, era inutile. Si
odiò
per questo e per il sentimento di terrore che non voleva andarsene.
Corse, per
poco non
inciampò in un deambulatore abbandonato,
oltrepassò un
incrocio, un cassonetto dal quale fuggì un gatto e
arrivò
al fondo della strada, dove vide un’ombra.
Che riconobbe.
Naruto.
Lo sapeva,
sapeva che si sarebbero ritrovati.
Camminò
più
piano, ma a falcate decise, navigando sui marciapiedi dissestati, fino
ad arrivare davanti al medium che sembrava così
fastidiosamente
calmo, mentre lui non aveva mai sentito il proprio cuore battere
così forte, al punto da fargli provare l’impulso
di
odiarlo e poi desiderare stringerlo, per attingere dalla sua forza e
sentirsi più vivo.
Gli
afferrò il
bavero della giacca e lo piegò, portando la faccia
dell’amico a pochi centimetri dalla propria; gli
sussurrò
con rabbia letale, il respiro che faticava a normalizzarsi:
“Dov’eri?
Dove cazzo eri?”
Naruto non
indietreggiò, né lo spinse via, lo
afferrò invece per un polso e gli disse:
“Scusami,
Sasuke. Non
sempre riesco ad avere il controllo su quello che mi circonda. Ma ora
sono qui e intendo restare. Andiamo, ti accompagno in
macchina.”
Una parte di
Sasuke fu
confusa, confusa da quelle parole e dalla determinazione che
c’era dietro. Sentì che avrebbe dovuto domandargli
quale fosse la loro destinazione, ma allo stesso tempo percepiva anche
che
doveva ciecamente fidarsi di Naruto e lasciare da parte
l’orgoglio, per farsi guidare.
L’unica
cosa che
fece, una volta salito in macchina, fu afferrare il medium per il
braccio e fissarlo negli occhi, ribadendo:
“Io
devo proteggere
Sarada, Naruto. Devo combattere qualsiasi cosa sia entrata nella mia
casa e l’abbia resa sua.”
“E’
per questo
che sono qui. Per aiutarti a proteggere Sarada, ma anche te stesso.
Andiamo a cercare le risposte che ci servono e a chiudere per sempre
questa faccenda. Assieme.”
Sasuke
annuì, con un cenno del capo.
Poi si
allacciò le cinture e Naruto avviò il motore,
immettendosi nella strada buia.
*
Parcheggiarono sul vialetto
che dava accesso a una villetta di dimensioni modeste, con un piccolo
appezzamento di terra dove c’era qualche albero privo di
foglie;
più in lontananza, una siepe recintava il giardino tinto da
colori invernali e dall’uniformità della notte.
Sasuke
scrutò la
casa. Qualcosa nella memoria gli riecheggiò un vago ricordo,
ma
nulla di più. Naruto lo guardò un istante poi gli
disse,
prima di avviarsi e fare strada:
“Da
qui in
avanti… non posso prevedere come andranno le cose, ok? Ma ci
sarà un momento, un momento ben specifico, in cui dovrai
tornare
indietro. Per allora io ti dirò cosa fare.”
Sasuke
assottigliò gli occhi, aggrottando le sopracciglia
così da indurire lo sguardo tagliente:
“Cosa
stai dicendo?
– all’improvviso, una consapevolezza –
C’è qualcosa che tu sai e di cui io non sono a
conoscenza.
Cos’è? Dimmelo!”
Alzò
il tono di
voce, spezzando il silenzio della strada, persino il lontano ronzio dei
lampioni e del motore della macchina a riposo.
Naruto si
morse un labbro, per poi scuotere la testa:
“Nulla
Sasuke, non so
davvero nulla. Sento solo che accadrà quanto ti ho detto,
niente
di più – gli afferrò un braccio
– dobbiamo
entrare.”
Se
aspettiamo ancora… sarà troppo tardi.
Sussurrò
una voce dentro di sé.
Per qualche
istante ancora
Sasuke fissò l’amico e collega storico,
scrutandone gli
occhi onesti e persino preoccupati, nonostante in fin dei conti il
medium si fosse ritrovato coinvolto in quel casino per colpa sua. Alla
fine annuì, assottigliando impercettibilmente le labbra.
La porta
d’ingresso
era illuminata dalla luce giallastra di una lampada appesa al muro
bianco, mentre il legno era stato verniciato di recente, anche se
c’erano dei segni simili a nocche affondate
nell’apparentemente robusto pannello.
Affiorarono
altre
perplessità, ma si conclusero nel nulla. Era come se la sua
testa si fosse sigillata in qualcosa di profondo e altrettanto oscuro.
Vide un
campanello, il cui cognome era stato cancellato.
Suonò
e ne uscì un trillo meccanico.
Attesero
qualche istante,
Naruto con le mani nella tasca del cappotto e i loro respiri che si
mischiavano nell’aria notturna, soffocati dalla luce
elettrica.
Poi, la porta
si aprì.
E Sasuke
credette di essere morto, perché il suo cuore aveva smesso,
per un istante durato minuti, di battere.
Guardò
la donna davanti a sé, i suoi occhi, il volto, le mani che
sparivano sulla maniglia dietro la porta.
“Sakura.”
Disse in un soffio.
Sua moglie.
Ma sua moglie
era morta, anni fa.
Si
voltò verso
Naruto, come se gli avesse architettato uno scherzo elaborato, ma vide
perplessità nel suo sguardo, anche se non la stessa
sensazione
di tragedia e sconvolgimento che avvertiva Sasuke.
Rimase
immobile,
apparentemente inespressivo, mentre i suoi occhi scuri dardeggiavano
sulla figura in piedi presso la soglia d’ingresso. I capelli
ribelli con quell’eccentrica ma tenue tinta rosa, gli occhi
verdi
carichi di energia vitale, le guance leggermente accaldate di chi aveva
letto un libro vicino al camino, studiando, mentre lui ogni tanto la
guardava. Ricordava, sì, ricordava distintamente quanto lui
aveva amato il suo sguardo curioso, nel momento in cui smetteva di
leggere che chiedeva a Sasuke se avesse inventato qualche nuovo gioco
di parole, un rebus, un enigma, prova del suo genio elettivo.
“Sei…”
Viva.
Non
riuscì a dirlo.
Era una parola troppo forte e lui, così razionale nonostante
tutto, incapace di emotività caotica come Naruto, era
destabilizzato.
Sakura gli
sorrise:
“Dai,
entrate, non state fermi sulla porta.”
In lontananza,
Sasuke
avvertì un ticchettio metallico sull’asfalto ma
non ci
fece caso, troppo intento a scrutare la moglie, la sua presenza, i suoi
gesti. Naruto, invece, si era voltato, occhieggiando la strada
all’apparenza deserta, per poi entrare a sua volta in casa e
chiudere la porta alle sue spalle con uno scatto secco.
La donna li
condusse oltre
il breve corridoio d’ingresso – camminando sul
pavimento
per un istante Sasuke ebbe l’impressione di appoggiare il
piedi
su qualcosa di liquido, ma non capiva come fosse possibile.
Proseguirono fin verso una cucina dalle finiture eleganti e
un’isola al centro, dove c’era un infusore con del
the
bollente e delle tazze. Come lei se li stesse aspettando.
Sakura si
posizionò dietro l’isola, invitando i ragazzi a
sedersi sulle sedie alte dal lato opposto.
Perplessi,
spinti da
qualcosa, si sedettero entrambi, incapaci di parlare. Sasuke aveva uno
sguardo serio, riflessivo, mentre la sua testa gli mandava impulsi,
ricordi, dolorosi e splendidi di quella che era stata la sua vita con
Sakura.
Quest’ultima,
intenta ad avvicinare le tazze, lo guardò negli occhi e
osservò con voce serena:
“Dev’essere
stata una notte pessima. The? – domandò e i due
uomini
annuirono, senza smettere di fissarla, poi lei aggiunse con voce
intrisa di una sorta di malinconia – Lo prendevamo sempre
quando
discutevamo dei nostri viaggi, delle scoperte e degli studi. Anche se a
volte io e Naruto ti coinvolgevamo in campi che non ti
riguardavano.”
Sorrise,
guardando suo marito.
Ricordò…
sì, ricordò che Sakura sarebbe stata
un’eccellente
esperta d’occultismo; o forse, forse lo era già?
Però
rammentava con
certezza il the, l’odore che scaturiva dalle foglie in
infusione,
le parole scambiate assieme al tavolo e poi vicino al camino, il modo
in cui lui entrava a conoscenza di tutto ciò che sua moglie
aveva fatto e compiuto.
Cose che
avrebbero
devastato chiunque, ma non Sakura. Era forte, determinata e combattiva.
Forse era per questo che era ancora in vita e gli parlava, capace di
attingere al passato meglio di lui.
Sasuke
guardò la
tazza di the e sfiorò, senza rendersene conto, le dita della
moglie che gli sembrarono così calde da poter essere fuoco e
vita, racchiusa sottopelle.
“Non
ho mai parlato abbastanza con te, Sakura.” Ammise alla fine.
Sentì
le spalle
farsi più pesanti, schiacciate dalla consapevolezza della
sua
inadeguatezza come marito e come essere umano, incapace di dare un
affetto schietto e sincero alla stregua di Naruto.
“Mi
hai parlato
più di quanto tu creda, salvandomi. Perché ogni
volta che
ti vedevo, che mi guardavi sussurrandomi in un gesto quanto ti fossi
mancata, mi riportavi a casa.”
“Perché
allora
non sei a casa? Perché… qui?”
domandò di
getto Sasuke. Ci fu una nota di disperazione e quasi di apparentemente
immotivata nostalgia.
Sakura
sembrò più triste. Ma nei suoi occhi
c’era amore, nonostante tutto.
Sospirò,
per poi dire con voce calma:
“Non
sarà
facile, da ora in poi. Però… proteggi Sarada,
Sasuke.
Proteggila e tienila al sicuro, perché il mondo, la fuori,
è pieno di
orrori.”
Sasuke si
alzò in
piedi. Fece per prenderle il braccio, per parlarle ancora, spinto
dall’impulso di stringere quella donna che credeva di aver
perso
per sempre e non c’era giorno, non uno, in cui smettesse di
mancarle.
Ma Sakura si
portò
le mani sulla testa, una alla base della mandibola, l’altra
all’altezza della tempia, in una torsione fluida delle
braccia.
Gli sorrise.
Poi…
fece uno
scatto. Uno solo, rapido, violento e pulito nella sua
velocità:
con le sue stesse mani, senza smettere di guardare Sasuke, Sakura si
spezzò il collo.
Un rumore di
ossa rotte, di
legami infranti, la colonna vertebrale scricchiolante e calpestata come
briciole su un pavimento. La vita, oltre gli occhi spenti che fissarono
il vuoto.
Il corpo,
inanimato, cadde.
La fronte, priva di sostegno, sbatté contro
l’isola
intonsa della cucina, in un tonfo sordo, inumano, schizzando sangue dal
naso e dalle ossa spaccate; poi un altro tonfo ancora: il corpo,
crollato a terra.
Sasuke aveva
rovesciato la
tazza, il the bollente, il fumo del vapore, nel tentativo istintivo di
raggiungere Sakura e fermarla, per riportarla a sé. Ma...
non
c’era riuscito.
Sakura si era
tolta la vita, in un gesto rapido, brutale, senza dargli tempo o
possibilità di rimanere ancora lì.
Il the
gocciolava, mentre Naruto al fianco di Sasuke era scattato in piedi,
trascinando la sedia a terra.
“No.”
Disse solo Sasuke.
Poi
girò in uno
scatto l’isola, affondò le dita tra i capelli rosa
di
Sakura, dietro il collo, per sostenere un peso inanimato, mentre gli
occhi verdi che prima gli avevano regalato dei ricordi fissavano il
vuoto e le guance accaldate avevano smesso di pompare vita, rigate dal
sangue della fronte.
Sua moglie, la
sua compagna, era morta e lui non poteva più raggiungerla.
Sasuke le
chiuse gli occhi.
Le asciugò con la manica della maglia il sangue, in un gesto
quasi meccanico, poi si alzò in piedi, mentre la sua mente
logica si avviava per pensare alla mossa successiva, a coprire il
corpo, a chi contattare, nonostante il dolore e il caos che gli faceva
salire un violento senso di nausea, alimentato dall’odore di
sangue e della morte.
Allora…
ci fu un rumore metallico.
Sembrava di
passi, di qualcosa che avanzava sul vialetto asfaltato, strascicando un
peso inutile.
Un istante di
silenzio; Sasuke guardava Sakura, Naruto invece fissava la porta, senza
battere ciglio.
Toc.
Un colpo netto.
Naruto
sussultò.
Sasuke si
voltò di scatto. Quel
rumore.
Istintivamente
gli occhi di Sasuke cercarono quelli di Naruto che, per contro, aveva
mosso un passo avanti.
“Fermati!”
gli gridò Uchiha.
Il medium
sembrava afflitto: “Mi spiace, Sasuke. Mi spiace davvero. Ma
devo aprire o… non finirà mai.”
“No!
Smettila! Quel
suono era anche a casa, tu… tu non sai con cosa hai a che
fare!” gridò, quasi minaccioso, per poi correre e
bloccare
l’amico.
Ma questi non
lo ascoltò.
Spalancò
la porta, di scatto.
Sotto la luce
gialla, malata, un’ombra.
Un uomo,
incurvato,
accartocciato su se stesso, il volto rugoso, scavato, consumato da
qualcosa. Le mani callose deformate forse dall’artrite erano
strette su un deambulatore metallico, mentre gli occhi… gli
occhi erano bianchi, vacui, senza pupilla.
“Ward.
Charles Dexter Ward.”
Sasuke nemmeno
si rese conto di aver aperto la bocca e pronunciato quelle parole.
L’Africa.
Lo
assalì un forte
odore di sigaro. E poi… di putrefazione, di qualcosa
proveniente
dalle viscere di un cadavere assalito dall’abbraccio della
terra
umida.
La nausea lo
assalì
con più forza e l’odore, quell’odore di
morte, che
sovrastava quello dolciastro emanato da Sakura, gli aggredì
le
narici.
Non era
vecchio,
l’uomo sulla porta. Era consumato, marcio, al di sotto della
pelle sottile che sembrava sgretolarsi alla luce gialla della lampada.
Ward
rantolò, una sola volta.
Non emise una
parola.
Poi,
lentamente, avanzò. Un passo, seguito dal clack metallico del
deambulatore sul pavimento.
Entrò
in casa e le
luci si abbassarono, il the smise di gocciolare, la lampada
all’ingresso si spense. Un alone lunare, poi… il buio.
Le mani
dell’essere
si avvinghiarono più forte. Piegarono il metallo, lo
torsero,
flettendolo come se ci fosse un peso impossibile da reggere. Le unghie
non tagliate, sporche, affondarono fin dentro la pelle dei palmi
rugosi, macchiati, con una leggera peluria bianca intinta dalla luce
lunare.
Poi la bocca
si aprì, priva di denti e tirò fuori una lingua,
malata, coperta da una patina biancastra.
L’uomo
rimase
immobile. Sasuke non indietreggiò di un passo e nemmeno
Naruto,
anche se il cuore batteva troppo forte e respirare era difficile, per
l’odore e per un terrore ancestrale, lontano, profondo che
attanagliava le viscere.
La memoria di
Sasuke
ricordava immagini sempre più nette, di un orrore
indescrivibile, vicino, più vicino nel tempo di quanto
avesse
creduto.
All’improvviso…
ricordò. Ricordo che quell’uomo aveva accompagnato
Sakura
in Africa, era con lei, in quel villaggio. E qualcosa, c’era
qualcosa di antico, che l’uomo non era mai riuscito a
tramandare.
Lui…
l’aveva uccisa.
Ed era dentro
quel corpo
marcio, cadente, dentro quella lingua bianca come coperta di muffa,
dentro i bulbi oculari vacui di gelatina e acqua.
“Che
cosa sei?
– gridò Sasuke, all’improvviso
– Me
l’hai già portata via! Non avrai più
nessun
altro!”
La voce era
minacciosa, altrettanto oscura e attaccata alla vita.
Naruto, con le
mani
tremanti, la testa spaccata da un dolore acuto, tirò fuori
il
taccuino, quel taccuino che era stato suo tutto quel tempo.
Cercò la pagina, frenetico, in un mare di fogli bianchi.
Ma colui che
un tempo era
stato Charles Dexter Ward, rinomato esperto di esoterismo,
aprì
di più la bocca. In quell’istante, la lingua si
staccò: cadde a terra, liquida, schiantandosi sul pavimento.
Poi un
lamento, continuo, basso, che crebbe fino a diventare un urlo.
All’improvviso
quel
corpo emaciato, incapace di reggersi sulle proprie ossa di polvere
eppure in grado di schiacciare il metallo, abbandonò la
presa,
con i palmi feriti dalle unghie coperte di sangue, e in uno slancio
animale, terribile, distorto nell’angolazione delle giunture
e
dei movimenti, scattò verso Sasuke, investendolo.
Uchiha cadde a
terra,
sbattendo il braccio contro la penisola, e si sentì addosso
le
mani dalle unghie lorde di sangue e la carne squarciata: gli
graffiavano il volto, cercando di entrargli dentro, fin nella testa,
divorandogli gli occhi e il cuore.
Venne inondato
da un alito
di morte e sopraffatto da urla inumane, fatte di vento e odio, capaci
di schiacciarlo e di coprire ogni altro suono.
Sentì
Naruto
chiamarlo, dirgli di combattere, esortarlo perché lui non
era
ancora morto, lui doveva tornare e proteggere Sarada, la sua famiglia,
ciò che aveva. Era quello che avrebbe voluto Sakura. Era il
suo
amore di padre.
Sasuke
urlò a sua
volta, poi contrasse i denti, ignorando l’odore di morte,
l’idea del Male che lo stava attanagliando, le ferite che gli
scavavano il volto e il terrore nel petto.
“Non
mi avrai! Non toccherai mia figlia!”
Non
sentì nemmeno la sua stessa voce.
Sollevò
le mani e le
affondò sul cranio della creatura; sotto i suoi
polpastrelli,
avvertì la pelle marcescente muoversi, tendersi e spaccarsi,
i
capelli che perdevano la presa sul cuoio capelluto, poi la scatola
cranica, gli occhi bianchi più sgranati, la bocca priva di
lingua che perdeva saliva e sangue.
Infine, in un
movimento
disperato, carico di violenza, Sasuke sbatté quella testa a
terra: la schiantò sul pavimento, schizzando sangue; una
massa
oscura, dall’odore rivoltante si frantumò a terra
assieme
alle ossa craniche.
Sasuke
ansimò,
rantolò, udendo sopra i battiti del cuore il suo respiro
affannato e quello di Naruto. Paralizzato, con ancora tra le mani
ciocche bianche di capelli, fissò quell’orrido
residuo di
essere umano che giaceva a terra, gli arti scossi in un ultimo spasmo
di morte.
Sakura, alle
sue spalle, era riversa a terra priva di vita.
Sanguinante,
sporco,
sconvolto ma soprendentemente razionale, Sasuke cercò di
alzarsi
in piedi. Naruto arrancò verso di lui per sorreggerlo e
tenerlo
stretto a sé.
“Devo
tornare, Naruto. Io… devo tornare.” Gli disse
d’istinto, guardandolo fisso.
Dei secondi,
passarono degli interi secondi.
Respirarono
più piano.
Poi,
all’improvviso,
l’oscurità sembrò espandersi. La luna
smise di
irradiare la sua luce e la notte fu più fredda. Ombre dagli
angoli della cucina iniziarono a scivolare sul pavimento, circondando
seducenti i due uomini, in un abbraccio fatto di spire notturne.
Naruto
occhieggiò il
taccuino, lasciato sull’isola per sorreggere Sasuke.
Lasciò l’amico e afferrò il blocco, per
poi girarlo
e portare agli occhi dell’uomo le parole scritte con la
calligrafia incerta di una mano non abituata a scrivere o…
in
stato di trance.
“Non...
non è
la scrittura di Sarada.” Disse in una lucidità
incomprensibile Sasuke. Perché era Sarada ad aver evocato lo
spirito. Era lei ad aver scritto, giusto?
All’improvviso,
non ne fu poi così certo.
“Non
c’è tempo adesso, Sasuke – gli disse
Naruto – le parole, leggile.”
L’latro
fissò
un istante l’amico, mentre le ombre si avvicinavano,
inesorabili.
Sentì un nuovo vago rumore, come di zampe, di tante,
minuscole,
infinite zampe. Erano nei muri, sui soffitti, sotto il pavimento.
“Nulio…
bonus omoreo.”
Tacque.
Naruto
ansimò,
guardandosi attorno. Ma con suo orrore si rese conto che non stava
funzionando. Quelle parole… quelle parole, dannazione, non
andavano bene.
“No,
no, cazzo, no.” Mormorò scuotendo la testa.
Rigirò
il blocchetto, guardandolo, poi fu colto da una folgorazione.
Afferrò
Sasuke per
una spalla. Le ombre avevano divorato Sakura, facendola sparire nel
buio più totale. Pochi centimetri e sarebbe toccato a loro.
“Un
anagramma.
Sasuke, tu adori i giochi di parole. Dev’essere un
dannatissimo
anagramma, così funziona la tua testa, non rende mai le cose
semplici – gli riportò il blocchetto sotto gli
occhi
– pensa, pensa a ricreare le parole. Cosa vogliono
dire?”
Aveva parlato
con tono
concitato, il respiro affannato, il cuore che scalpitava per il terrore
e il tempo che correva, veloce, inesorabile, al pari delle ombre, delle
zampe dei ratti nei muri e della morte che li voleva trascinare con
sé.
Sasuke
espirò attraverso le labbra. Lesse, rilesse e lesse ancora
quelle parole.
Quando? Quando
aveva fatto quell’anagramma? Perché?
Smise di
pensarci. Una
parte di Naruto, la schiena, venne avvolta dall’ombra. Lo
strinse, come per trascinarlo verso di sé.
Gli
sfrecciarono per la testa mille parole, significati, combinazioni.
Poi,
all’improvviso, lo seppe. Seppe cosa doveva dire.
“Sono un uomo libero.”
Lo disse con
voce decisa,
senza esitazione e il suono di quelle parole riecheggiò
nell’oscurità che aveva assorbito ogni altro suono.
Infine, ci fu
il nulla.
*
Sasuke aprì gli
occhi. Cercò di mettere a fuoco la vista annebbiata,
sentendosi
le labbra secche, la salivazione assente e un forte senso di nausea.
Vide Naruto seduto davanti a sé e allora prese
consapevolezza
del proprio corpo, rendendosi conto di essere sdraiato su un divano.
Spostò
stancamente
lo sguardo: scorse sull’orlo imbottito e poi sicuramente a
terra
una massa scura che sembrava vomito, poco distante un blocco per gli
appunti usurato. Avvicinò un dito alle labbra, avvertendo
qualcosa di rappreso vicino alla bocca: fu allora che
realizzò
di essere sporco di sangue, le mani, il petto, persino i pantaloni.
Provò
ad alzarsi e una fitta alla testa lo fece ricadere, portandolo a
chiudere un istante gli occhi.
“Dove…
dove sono? Sarada sta bene? E Sakura...”
Non
riuscì a parlare oltre, aveva sete e la gola, lo sentiva,
era un disastro.
Naruto gli
afferrò un braccio, per poi dirgli con quel fare
rassicurante e vitale che aveva:
“Sei
tornato, Sasuke.
Sarada sta bene, è con Boruto – dopo un istante
aggiunse
– è sempre stata con Boruto.”
Uchiha
riaprì gli
occhi e, inarcando un sopracciglio, scrutò il volto
dell’amico. Lo vide segnato da delle occhiaie, era stanco e
provato, ma in qualche modo stava sorridendo.
Lentamente si
mise seduto,
ignorando il senso di malessere ed estrema spossatezza, per spostarsi
sul ciglio non sporco e appoggiare i piedi a terra.
All’improvviso
l’ambiente gli sembrò famigliare: vide il
corridoio e
dalla parte opposta una cucina con un’isola. C’era
odore di
morte, quello era rimasto, esattamente come era successo... quando?
Quella notte? Albeggiava. Aveva sognato?
Si
portò una mano
tra i capelli, confuso, stanco, la testa vorticante e mille pensieri,
immagini, orrori che gli affioravano in testa. Naruto lo
afferrò
per le spalle, chinandosi per arrivare alla sua altezza.
“Sasuke,
ehi, guardami.”
Questi lo
fissò, con la bocca secca chiusa e gli occhi spiritati.
“Qualcosa...
qualcosa è entrato, Sarada ha evocato qualcosa e... Sakura
è morta.”
Vide che
Naruto aveva il
volto sudato, gli occhi affossati da pesanti occhiaie erano arrossati,
come di chi avesse pianto e gridato.
All’improvviso,
le
mani di Naruto scivolarono dalle spalle alla schiena
dell’amico,
per stringerlo in un abbraccio. Sasuke, poco abituato al contatto anche
con l’amico di sempre, per un attimo rimase interdetto da
quel
gesto quasi disperato, come di chi avesse bisogno di sentire che erano
ancora vivi entrambi.
“Ho
fatto tutto quello che era in mio potere.”
Gli disse,
appoggiando la
fronte sulla sua spalla, quasi come se si stesse confessando e Sasuke
potesse in qualche modo giudicarlo, dopo ciò che aveva visto
e
fatto.
L’uomo
dai capelli
scuri, sporchi per il sudore esattamente come quelli più
corti e
spettinati di Naruto, si limitò ad annuire, appoggiando una
mano
sulla testa dell’amico, in un sacrale gesto di perdono. Anche
se
non c’era nulla, davvero nulla da perdonare.
Forse era
realmente un
sogno, profondo, devastante. Si alzò in piedi, sentendo i
muscoli doloranti e pesanti. Poi prestò più
attenzione,
anche se in maniera vaga, confusa, a ciò che lo circondava e
vide dei libri accatastati in maniera un po’ disordinata, poi
delle porcellane tenute con cura da qualcuno che amava, infine delle
fotografie nelle quali Sasuke si riconobbe, accanto al migliore amico e
a Sakura. C’era nuovamente Naruto, assieme a una donna dai
capelli scuri, lisci e lunghi… Hinata, lei era Hinata.
Accanto,
i due figli, ricordò anche loro.
“Questa
è casa tua.”
Ammise alla
fine Uchiha, voltandosi verso il medium che nel frattempo si era alzato
in piedi a sua volta.
“Sì,
è casa mia. E’ sempre stata casa mia.”
Sasuke mosse
un passo verso
di lui e gli prese la maglia sporca; lo realizzò solo in
quel
momento: anche quella di Naruto era coperta di sangue, sebbene
l’uomo non fosse ferito.
“Perché
Sakura era a casa tua? Cos’hai fatto?”
Sibilò,
con la gola che faceva male, quasi come se avesse urlato fino a gettare
fuori i polmoni.
Naruto
sembrò
arrabbiarsi e la rabbia andò a mischiarsi con la tristezza.
Afferrò Sasuke per il polso della mano con cui lo teneva,
ribattendo:
“Davvero
non ricordi
nulla di ciò che è veramente successo?
– poi, nel
vedere gli occhi vuoti, persi nonostante l’ombra di
serietà così tipici di Sasuke, Naruto
allentò la
presa – Sakura è morta e nessuno di noi ha potuto
evitarlo. Ma ho rischiato di perdere anche te; non potevo permetterlo,
capisci?”
Sasuke a sua
volta
allentò la presa e guardò l’amico, i
suoi occhi, il
volto, il modo in cui la luce dell’alba andava a plasmare le
ombre e poi i colori della sua pelle.
Vide dei
bicchieri sul
tavolino di fronte al divano, ancora fieramente non rovesciati
nonostante il mobile fosse stato bruscamente spostato;
c’erano
anche delle ciotoline con delle arachidi e delle patatine, quasi si
stesse festeggiando qualcosa di bello.
Lentamente,
affiorarono altri dettagli, memorie e immagini, l’idea di
qualcosa di felice, assieme, di un ritorno e poi…
l’imprevedibilità della vita. E del Male.
Allora, Sasuke
Uchiha ricordò. Com’era morta sua moglie e come
aveva rischiato di perdere se stesso.
*
L’aria sapeva di
cibo, di aperitivo, accompagnata da un vago odore di profumatore per
ambienti che di tanto in tanto spruzzava la sua scia floreale nella
stanza.
Naruto aveva
appena finito
di controllare l’arrosto in forno, le patate erano dorate e
Hinata aveva portato di là qualche salatino da spiluccare in
attesa che fosse pronto, davanti a un bicchiere di vino. Ascoltava le
chiacchiere di Sakura, intenta a raccontare la loro ultima spedizione
voluta dal governo.
In piedi, con
una spalla
appoggiata allo stipite della porta che dava sul soggiorno, Naruto
notò il modo in cui Sasuke, dietro i suoi silenzi, lo
sguardo
apparentemente distaccato, osservava sua moglie. E fu felice di leggere
amore, nei suoi occhi.
Mentre Sarada
intimava a
Boruto di non strafogarsi, per poi scoppiare a ridere nel vederlo
coperto di briciole sul mento e sul petto.
Nel frattempo,
Sakura
narrava delle tribù presenti nel cuore
dell’Africa, delle
loro tradizioni ritualistiche che aveva osservato come antropologa e,
con maggiore discrezione, come esperta in esoterismo assieme al suo
collega Charles che doveva ancora arrivare. Raccontava dei villaggi,
dei loro modi di vivere e degli sciamani, zoppi, esiliati, eppure parte
intrinseca della società: su di loro cadevano le
maledizioni,
così come le richieste, le paure e i sacrifici.
Rappresentavano
una connessione con la Natura, con ciò che l’Uomo
non
poteva vedere, né percepire, anche se a volte quel Nulla,
l’Inafferrabile per mente umana, lo scavava dentro, fin nelle
viscere e fin nella la testa.
Era stata
un’esperienza sconvolgente, li aveva segnati, ma soprattutto
aveva segnato Charles che durante la marcia di ritorno attraverso una
giungla dagli alberi alti, così fitti da non far vedere il
cielo, aveva preso una storta. Poi, inspiegabilmente, avevano
realizzato che la caviglia era fratturata, sconquassata, come se
l’uomo, cadendo, fosse stato afferrato per il piede da
qualcosa
che gli aveva sbriciolato con una presa inumana le giunture.
La
conversazione lentamente
si estinse. Ciascuno guardava i propri bicchieri e non sapeva cosa
leggervi; Naruto sospirò, abituato ad avere a che fare con i
casi paranormali portati alla sua attenzione da Sakura e Charles. Da
una parte era rammaricato di non essere potuto andare con loro due in
Africa, dall’altra sapeva che probabilmente ne sarebbe uscito
cambiato: gli spiriti e le entità provenienti dal cuore del
mondo erano antiche, capaci di devastare anche una mente recettiva e
temprata come la sua.
Spostò
nuovamente il
suo sguardo su Sasuke, silenzioso ma capace a modo suo di ascoltare; il
professore di matematica più geniale di sempre, dotato di
un’intelligenza sopra la media e con una passione per
l’enigmistica che a volte sconfinava nel masochismo, quando
per
esasperazione finiva a dover spiegare procedimenti secondo lui
perfettamente logici a quel testone del suo amico Naruto. Eppure,
nonostante né l’esoterismo, né
l’antropologia
o il paranormale fossero decisamente il suo campo, conosceva
praticamente ogni dettaglio dei viaggi e degli studi che avevano
portato avanti sua moglie e i colleghi.
Naruto
sorrise, felice per quel momento di ritrovo.
In
quell’istante, qualcuno bussò alla porta. TocTocToc.
Preciso, persino ritmico nella sua cadenza ponderata. In seguito ci fu
un trillo meccanico, rasposo nei suoi suoni metallici. I presenti
sussultarono, per poi scambiarsi un’occhiata perplessa.
Sakura si
alzò in piedi, portandosi le mani ai fianchi:
“Sarà
quel
ritardatario di Charles – Naruto fece per andare ad aprire,
ma
lei lo anticipò – stai tranquillo, sei stato a
preparare
fino ad adesso, ci penso io.”
“Ok,
ok, ma solo
perché per una volta mi chiedi una cosa
gentilmente.”
Scherzò Naruto, per poi avvicinarsi alla moglie che
ridacchiò.
Sakura gli
fece una
linguaccia, poi corse ad aprire la porta, contenta che anche Charles si
fosse unito alla cena, nonostante in quei giorni l’avesse
visto
sempre più provato e smagrito. L’Africa, quello
che
avevano visto, l’aveva invecchiato e la caviglia non era
ancora
tornata a posto.
Fu allora che,
quasi senza rendersene conto, Naruto scattò in piedi, la
mente travolta da qualcosa di oscuro.
Sakura vide
gli occhi, lo sguardo, di Charles Dexter Ward.
Ma Charles
Dexter Ward non
vide lei: dell’uomo che era stato, infatti, non esisteva
più traccia. Era morto, e camminava, trascinato dalla Morte
stessa.
*
Naruto aveva guardato
Sasuke, scattando in piedi. Recettivo, l’uomo si era alzato e
nel
sentire la moglie aprire la porta corse, per fermarla, non sapeva
nemmeno lui per quale istinto.
Il medium
invece aveva
afferrato Hinata per le spalle, mentre la testa gli stava esplodendo
per il male e l’oscurità opprimente che cercava di
lambirgli il cuore:
“Hinata
andatevene,
ora! – lei cercò di dire qualcosa, ma
l’uomo le
parlò sopra – non c’è tempo,
porta i ragazzi
dai tuoi. Correte verso il retro.”
Sentì
un sussulto,
dei passi metallici e poi un tonfo. Le parole di Sasuke, piene di
rabbia primordiale, poi qualcosa che sembrava una colluttazione. Sarada
urlò e fece per scattare, imitata da Boruto, ma Naruto li
bloccò, furente, come mai lo avevano visto:
“No!
Fate come vi ho detto, dannazione! La porta sul retro, ora!”
Li spinse, con
disperazione
e istinto di protezione, e loro malgrado, terrorizzati, confusi, Sarada
e Boruto passarono attraverso la lavanderia che dava sul retro, seguiti
da Hinata che teneva per mano la figlia minore scoppiata a piangere.
Si guardarono,
moglie e marito, per poi separarsi.
Pochi minuti,
ed era accaduto così tanto.
Naruto si rese
conto,
entrando nel corridoio di casa propria, dove fino a poco fa Sakura
camminava, sorrideva e parlava, quanto il tempo fosse subdolo.
Perché
ora davanti a
sé aveva Sasuke, con le mani sporche di sangue, che
respirava
affannato, mentre teneva con il palmo la testa di colui che un tempo
era stato Charles Dexter Ward, il cranio schiacciato da ripetuti colpi
contro il muro. Il deambulatore era finito a terra.
Ai piedi di
entrambi c’era Sakura, con il collo spezzato in una posizione
innaturale, gli occhi che guardavano il vuoto.
“Me
l’ha portata via!” urlò Sasuke.
Fece per
tirare ancora
indietro la testa e frantumare ciò che rimaneva del capo
contro
la parete sporca di sangue, ossa e materia cerebrale, ma Naruto lo
bloccò, gli occhi sgranati, la respirazione assente, un
senso di
nausea che gli faceva venire voglia di vomitare anche l’anima.
C’era
un odore di
morte, un senso di marcio nauseabondo, antico, persino secolare,
mischiato a quello di sigaro, come se il cadavere di Ward stesse
fumando un’ultima volta.
Poi Sasuke
spinse via
Naruto, lo allontanò, e per un istante i suoi occhi furono
bianchi, vacui, senza l’iride scura. Cadde in ginocchio,
portandosi una mano alla testa.
Quel male,
quella morte… erano lì, nella sua casa.
Sakura era
morta, uccisa da
quel qualcosa proveniente da lontano, dalle foreste indigene, da
rituali e sacrifici ancestrali, che loro si erano trascinati dietro,
nel corpo morente di Ward, per bramare la vita di Sasuke.
Avvolto da
quel dolore e da
quella consapevolezza, Naruto lottò. Non aveva potuto
difendere
i suoi amici, la sua famiglia, da ciò che li aveva travolti,
ma
avrebbe salvato Sasuke. Non avrebbe lasciato che qualsiasi
entità fosse entrata nelle sue mura, prendesse anche il suo
migliore amico.
Lo
afferrò per le spalle e lo trascinò di peso fino
al divano, scostando il tavolino con un calcio.
Lo costrinse a
stare
sdraiato, nonostante il male e la forza oscura che cercava di
possederlo tentassero di farlo andar via, lontano, da chiunque come
Naruto fosse in grado di avere un così eccezionale controllo
psichico.
“Sasuke!
– gli
urlò, bloccandolo, vedendo i suoi occhi che ogni tanto
tornavano
a essere bianchi – ora ascoltami! Ascoltami, okay? Sverrai ed
entrerò in contatto con te, con la tua coscienza. Mi
segui?”
Sasuke
annuì a fatica, mordendosi un labbro a sangue, per poi
chiedergli quasi in un ringhio di sbrigarsi.
Il medium
scattò
verso la libreria, afferrò di fretta una penna e un blocco
per
gli appunti, poi aggiunse, mettendo gli oggetti tra le mani:
“Entreremo
in una
proiezione del tuo mondo, della tua coscienza. Dovrai produrre
qualcosa, un ricordo, un’immagine plausibile: se la tua mente
razionale realizzerà che tutto ciò che stai
immaginando
non è reale, perderai il contatto con la coscienza e non
potrò aiutarti a vincere qualsiasi cosa stia tentando di
prendere possesso di te. Arriveremo a trovare il fulcro dove si annida
l’entità, il tuo punto più forte ma
anche
più debole: farà leva sulle tue paure, per
uccidere la
tua coscienza.
Finché
non troverai l’entità non puoi tornare indietro,
né concederti dubbi o è finita.”
“Come
faccio a tornare?” domandò.
Sentì
le forze
cominciare a mancare e il sonno… erano sempre stati
così
magnetici, forti, totalitari gli occhi di Naruto?
“Un
codice. Il tuo
subconscio produrrà delle parole che dovrai pronunciare,
nella
trance le scriverai su questi fogli. Ma non le potrai dire
finché non sarà il momento: le
custodirò io per
te.”
Non
batté ciglio,
fino a quando Sasuke chiuse gli occhi. Solo allora, Naruto
appoggiò una mano sul suo petto e l’altra sulla
fronte.
Sto
arrivando a salvarti, Sasuke.
Poi…
gli occhi di Naruto si girarono, riversi, e il suo io cosciente smise
di calcare il suolo del suo tempo.
*
Sasuke guardò Naruto e ogni cosa gli fu più
chiara.
Aveva illuso
se stesso che
l’entità fosse stata evocata da Sarada e Boruto:
si era
immedesimato in loro, era affogato in quello che Sarada avrebbe potuto
provare alla notizia che la mamma, la sua mamma, non c’era
più; poi, aveva creduto di possedere le conoscenze di
Sakura,
per essere più forte e preparato. Il cuore di Sasuke perse
più di un battito, il dolore sembrò divorarlo.
In seguito il
subconscio
aveva abilmente ricamato sul resto, ricreando ciò che aveva
vissuto, per giungere fino all’essere che stava cercando di
divorarlo e farlo suo.
Lo aveva
ucciso, alla fine,
esattamente come aveva ucciso quell’involucro di carne che
aveva
a sua volta privato della vita sua moglie, mentre lui non aveva potuto
fare nulla per difenderla.
Sapeva che in
corridoio c’era Sakura, il suo cadavere: avrebbe dovuto dirle
addio, per sempre.
“Non
l’ho salvata, Naruto. E’ morta davanti ai miei
occhi.”
Gli disse,
fissandolo.
A Naruto
tremò un labbro, non riuscì a sorridere come
avrebbe voluto:
“Come
potevi? Come potevamo, tutti, aspettarci un Male così
subdolo?”
Sasuke non
parlò. Si
diresse verso il corridoio, chinandosi sulla propria moglie che
trovò pallida ed eterea, forte, anche nella morte. Le chiuse
gli
occhi, come aveva fatto la sua mente quella notte.
Rimase
così per
diverso tempo, mentre Naruto trascinava il cadavere di Ward,
consapevole di non poter chiamare alcuna polizia, né
ambulanza. Il governo.
Quella era tutta merda loro, loro e di quella spedizione.
Infine Sasuke
si alzò in piedi e cercò il telefono.
Scoprì
di averlo in tasca.
C’erano
delle chiamate, dei messaggi, di Sarada. Ma anche di Hinata e di Boruto.
Chiamò
sua figlia,
in mezzo al corridoio, con il cadavere della donna amata e della madre
dell’unica altra donna che lui amasse.
“Papà!”
la sua preoccupazione, la voce rotta dal pianto. Sebbene lei non
l’avrebbe mai ammesso.
“Sto
bene, anche Naruto. Dillo… dillo a Hinata e a
Boruto.”
Tacque. La sua
voce era così distante.
Ci fu
silenzio, dall’altra parte del telefono.
Prima che
Sarada potesse
dire altro, domandare, Sasuke aggiunse, con l’affetto di un
padre: “Sto arrivando, Sarada.”
E lei, in un
sussurro che sfociò in lacrime, parve capire.
La
cucina.
Perché
nella mia testa ho incontrato Sakura, un’ultima volta, in
cucina?
Il
the
caldo davanti a un tavolo. La casa. Le ultime frasi d’amore.
Noi
non meritavamo un corridoio e la porta aperta sulla notte.
*
Anni dopo
Boruto
lanciò una
breve occhiata all’ampia libreria del salotto, scorrendo i
vari
romanzi storici, fantasy e qualche thriller, per poi soffermarsi come
d’abitudine sugli scaffali dedicati all’esoterismo
che
avevano da sempre catturato la sua attenzione.
Si
voltò verso Sarada, seduta al tavolo con un foglio, una
penna e un bicchierino, per poi domandarle dubbioso:
“Ehr...
sei sicura di voler fare questa cosa?”
La ragazza
sollevò
lo sguardo, si aggiustò con aria professionale gli occhiali
e
dopo aver emanato un breve sospiro annuì: “Certo
che ne
sono sicura – accennò a un mezzo sorriso
provocatorio
– non dirmi che proprio tu vuoi tirarti indietro.”
Boruto
aggrottò le sopracciglia e sbottò, ferito
nell’orgoglio di quindicenne:
“Non
dire stronzate,
io di sicuro non ho paura. Mi stupivo solo che tu, dopo tutti questi
anni in cui mi hai vietato anche solo di toccare i libri di tuo padre,
te ne esci con sta storia della... cosascrittura, o come si
dice.”
Borbottò,
grattandosi il naso dopo aver appoggiato una mano sul tavolo.
Sarada, che
aveva finito di
disegnare le lettere dell’alfabeto sul foglio, inserendo
anche
voci di comodo quali si, no e il punto interrogativo, chiuse la penna
per replicare con aria tranquilla:
“Telescrittura,
Boruto, si chiama telescrittura. Guarda che la questione dei libri di
papà rimane: l’esoterismo è una materia
da non
prendere sottogamba, in nessun caso.”
“Oh,
beh, alla faccia
del divieto! Perché quello al tuo fianco mi pare proprio un
libro esoterico di tuo padre! Oppure lo davano in edicola in comode
uscite settimanali nella raccolta Evocazioni, impara anche tu a parlare
con gli spiriti?”
Replicò,
puntando un dito contro l’oggetto incriminato.
Sarada,
nonostante
l’aperta ironia del commento, arrossì e
aggrottò le
sopracciglia assumendo un’aria indignata, per poi ribattere
asciutta:
“In
questo caso
è diverso. Mi sono dovuta documentare, la telescrittura non
è una cosa da affrontare alla leggera e – tacque
un
istante, mordendosi un labbro – era l’unico modo.
Per
parlare con la mamma, visto che papà dopo tutti questi anni
sembra averci rinunciato.”
Siamo
davvero uomini liberi?
Sproloqui
di una zucca
Eccomi qui con
quest'ulteriore strana storia. L'ispirazione iniziale
è arrivata dalla Halloween Challenge indetta dal gruppo fb
Sasunaru FanFiction Italia, con il prompt "se non conosci il latino,
non leggerlo ad alta voce".
In passato, ho
sperimentato la telescrittura perché mio papà
aveva interessanti letture sull'esoterismo e, appunto, relative alla
telescrittura. Mi affascina l'idea che il nostro cervello è
una sorta di radio capace di captare determinate stazioni; con la
telescrittura riusciamo a percepirne di nuove e se si è in
due risulta più immediato muovere il bicchierino, entrando
in contatto appunto con questi canali. Non è detto che siano
necessariamente spiriti, ma sicuramente forme di energia o memorie
tramandate di persona in persona. Si possono realizzare cose
impensabili, ad esempio chiedere allo 'spirito' di pronunciare un verso
di una determinata poesia mai letta; io e mia sorella (lei all'epoca
aveva circa dodici anni e di sicuro non si era interessata ad argomenti
simili) avevamo chiesto di conoscere il quarto verso della poesia Bruto
Minore di Leopardi e, come se nulla fosse, il bicchierino si era mosso
componendo le lettere che davano origine al verso preciso, confrontato
a posteriori.
Idem per l'incubo: ho
vissuto precisamente l'incubo di Sarada e ho visto in diretta, nel
cuore della notte, l'armadio a fianco del mio letto aprirsi da solo.
Tutto quello che segue è invece frutto di mia personale
invenzione, per quanto resti convinta che, filosoficamente parlando, se
si crede nel bene o in qualcosa di positivo, affinché quel
qualcosa esista deve esserci anche il suo opposto, quindi il male. Poi,
che vi siano tante forme di male questo per me è indiscusso.
Concludo con i
riferimenti a Lovecraft e a topoi ricorrenti della letteratura di
genere.
Gli
Antichi (Elder Things o Elders Ones): sono delle sorta di alieni o
creature provenienti da altri mondi che compaiono in molti racconti
lovecraftiani; crearono gli Shoggoth, delle creature senza una forma
definita (da qui la concezione che ci sono cose non descrivibili a
parole ma che Lovecraft, comunque, riesce lo stesso a farti immaginare)
con occhi fluttuanti e corpo amebico catramoso.
Africa: spesso nell'immaginario
narrativo l'Africa è luogo da cui provengono cose e creature
ignote (basti pensare al pigmeo de "Il Segno dei Quattro" di Doyle, o
le strane ereditarietà familiari di Arthur Jermyn nel Congo
narrate da Lovecraft).
Ward: Proprio lui, puro e semplice
omaggio affettuoso (mica poi tanto, dato quello che gli capita XD) a
Charles Dexter Ward (Il Caso di Charles Dexter Ward) che aveva un
simpatico antenato negromante e decide dunque di intraprendere la
stessa strada, arrivando alla follia.
La paura strisciante:
ispirata alla definizione del racconto La Paura in Agguato, in inglese The Lurking Fear.
Mi piace creare una personificazione della paura.
I
ratti:
citazione del bellissimo racconto i Ratti nel Muro, dove si sentono
passare i ratti con le loro zampette tra le mura. Quest'animale
è ricorrente anche in altri autori, come nel Pozzo e il
Pendolo di Poe o in 1989 di Orwell. Usati come strumenti di morte (il
ratto chiuso contro la cassa toracica da un secchio mangerà
l'uomo per fuggire) e di tortura psicologica
Sciamano: contrariamente alla visione
romantica, lo sciamano in molte culture era spesso un esiliato, uno
storpio o un deforme e veniva allontanato dalla tribù,
isolato, per poi venire usato appunto come canale/valvola di sfogo per
le disgrazie.
Concludo tutto questo
pippone sperando che la storia vi abbia acchiappato, a partire dalla
conclusione con un senso ciclico, di condanna, oppure di premonizione
(ciascuno è libero di interpretare le ultime righe come
meglio crede) e che lo stile, la successione di eventi e i personaggi
siano stati di vostro gradimento. Che dire... grazie per avermi seguito
fino a qui e Buon Halloween!
Ps: l'immagine
è di Damien
Mammoliti - Portrait of a Dead Man.
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