Rosa Antico
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
Lei…
…voleva solo che io la
fermassi.
Io…
…mi pento irrimediabilmente
per non averlo fatto.
“E’ vero?”
domandai all’uomo con il camice bianco. Egli sostava davanti al mio sguardo
sconcertato o forse semplicemente inorridito da quanto appreso poco prima dai
miei superiori. Quell’uomo davanti a me e con il
camice bianco, si chiamava Hojo.
Non ho mai sopportato i suoi
modi di fare.
Quell’uomo davanti al mio sguardo inorridito, non mi è mai
piaciuto.
Mai.
“Cosa è vero?” mi rispose acido, fissandomi con una forma di ostile
disprezzo.
“Che Lucrecia… - trattenni il fiato mangiandomi quasi le ultime lettere di
quel nome, che riuscii soltanto a sfumare appena. Poi
mi corressi - che
la dottoressa Crescent parteciperà al progetto?”
“Sì, è vero. Perché sei così
sorpreso?” irruppe la voce di una
donna. Anch’ella indossava un camice bianco. Quella
donna si chiamava Lucrecia. Sì, era proprio lei, la
dottoressa Crescent.
Mi agitai. Mi voltai per
cercare il suo viso.
“Come si può usare il proprio
figlio come cavia?”
“Non capisco cosa tu stia insinuando, ma siamo
entrambi scienziati. Sappiamo cosa facciamo. Tu sei l’ultima persona ad avere
voce in capitolo. Ora sparisci subito, ragazzo!”
Lo sguardo di Hojo fu freddo, come altrettanto lo furono le sue parole.
Mi sentii ferito, ma poi,
più frustato che ferito.
Per il dottore, io ero solo
un insignificante ragazzo. E quel modo di parlare, fu
per lui una maniera come un’altra per deridermi d’innanzi alla donna che mi
stava di fianco. Una maniera per farmi capire che io, agli occhi di una
dottoressa capace e promettente come quella donna, ero solo un inutile ragazzo.
Mi sentii umiliato. Offeso.
Sempre più sconfortato.
Quell’espressione, mi aveva completamente tolto la volontà
di reagire.
Tentai di parlare.
“Ma…” dissi soltanto, e quasi subito, spostai lo sguardo
verso il basso per nascondere vilmente la mia insoddisfazione.
“Ma cosa? Se
hai qualcosa da dire, dillo.”
M’interruppe quella bella dottoressa in camice bianco. Aveva nella voce una
carezza d’amaro. Quelle parole mi punsero l'anima più di un fascio di spille.
Trattenni brevemente il fiato. Tentai un modo per articolare
delle parole. Quelle che realmente sentivo esplodermi
dentro.
Tentai.
“Tu sei… Sei sicura che questo è ciò che vuoi?”
Ma non ci riuscii.
La sua risposta mi tramortì.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!” La sua risposta mi tramortì,
crudelmente, e non fui più capace di reagire.
Quello…
…fu il mio più grande
errore.
Il fallimento, il mio, si
accanisce ancora oggi su di me, senza interruzioni.
Nella mia esistenza sono
destinato a rivivere instancabilmente quell’attimo. E tutte
le volte in cui rivedo i suoi occhi e risento la sua voce, provo solo un
inguaribile dolore.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
Quella frase… Non la riesco
a cancellare. Essa è qui, tatuata nella mia mente.
E’ un sogno angoscioso, che
mi tormenta quasi tutte le notti. E’ una scena che si offre a me con dovizia e all’infinito,
ogni qualvolta che, congiungendo le palpebre, resto solo in compagnia dei miei pensieri.
In quell’ istante ciò che vedo è
il suo viso amareggiato, e ciò che sento è la sua voce fredda e tesa. Ma non è tutto questo, che mi fa più male. Sapere ciò che
quella donna avrebbe voluto da me, in quel giorno
ormai troppo lontano da qualsiasi calendario, ma rasente qui, qui dentro, nel
mio cuore, è il mio tormento più grande.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
Io lo so.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
Io so perché l’inconscio mi ripropone quell’attimo.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
Ed ho capito…
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
…cos’è che mi tormenta.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
Io…
…mi sono limitato ad
assistere.
Non ho nemmeno cercato di
fermarla.
“Se sono sicura? Se sono sicura?! Se la domanda riguarda solo me, allora sì. Ne sono sicura!”
Lei…
…voleva solo che io la
fermassi.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?!”
Lei…
“Se la domanda riguarda solo me, allora sì. Ne sono sicura!”
…non era sicura.
“Sono sicura!”
No. Non sei sicura.
“Sono sicura!”
- Non sei sicura, Lucrecia!
- Eh? Cosa?
Chi? Vinci, sicuro di sentirti bene? Sei… così agitato!
Mi desto. Una voce mi
riporta con prestanza alla realtà. La mia difficile realtà. Quella in cui sono costretto a vivere.
A sopravvivere.
Non mi era mai successo
prima d’ora di essere aggredito da quel ricordo, anche lontano dal mio
giaciglio.
Forse… ho iniziato a pensare
troppo.
Ho iniziato a pensare a lei.
Ed i pensieri, i miei, fanno sempre troppo male.
Mi volto.
- Yuffie?
- Alzo gli occhi sul viso della ragazza che mi sta di fronte e che mi osserva
pensierosa. Avrò… urlato? – Io…
- Ok,
ok! No problem! E’ tutto
apposto! Sei solo un po’ stressato, no? – quest’ultima mi risponde con
sveltezza. Non sembra interessata a farmi delle domande.
Mi guardo intorno. Siamo
sull’altopiano delle cascate di Nibelhaim. Davanti
all’ingresso di una grotta. Quella in cui riposa il suo corpo.
- Cosa
ci fai qui? – le chiedo, aspettando una risposta. La giovane si mette
sull’attenti. Tra le mani ha qualcosa.
- Consegna speciale per il
signor Vincent Valentine! –
esclama a gran voce, con modi allegri. Solo un tipo come Yuffie
potrebbe esprimersi in quel modo. Mi porge una sfera.
- Cos’è? – chiedo perplesso.
Osservo l’oggetto che scintilla tra le sue mani. Ha una luce strana, eppure distensiva.
- Oh, beh… - la ragazza si
gratta la fronte con l’indice, si stringe nelle spalle come a dirmi “non lo
so”. Poi dichiara – Ma se la cosa può consolarti, a me sembra una Materia… ad
ogni modo, te la manda Shelke!
Mi sorprendo.
- Shelke?
- Esatto! Dice
che forse ti potrebbe servire.
- Servire? A cosa? - le
chiedo. Ricevo ancora quel “non lo so” fatto con le spalle.
- Mi ha detto
solo questo… Anche lei non è di larghe parole… Vero, Vinci?- commenta,
squadrandomi con un’occhiata, e sorridendomi poi con un ghigno.
Io non ho il potere di
esprimermi con autonomia.
Non sono in grado di
liberare i miei pensieri, come fanno molti altri. Sono venuto al mondo senza
portare con me questa capacità e...
Se l’avessi avuta, forse lei… Già, lei non avrebbe mai conosciuto questo lato così amaro della
vita.
E nemmeno io.
Quello…
…è stato il mio unico
errore.
E questa…
…questa…
…è la mia punizione.
I miei pensieri così
incessanti, sono bruscamente interrotti da Yuffie. Ancora
una volta.
- Beh, il mio compito qui è
terminato! La portalettere… o per meglio dire, la
portaoggetti Yuffie, toglie il disturbo! – facendo
dietrofront, la ragazza si allontana frettolosamente, portando con sé anche
l’oggetto inviatomi da Shelke. Accorgendosi
dell’errore, con passi rapidi e decisi si frena di
botto. Indietreggiando sempre con rapidità, mi raggiungere ancora. Ha un’aria
mortificata – Sorry, Vinci…! Sai, è davvero
complicato per me, mollare un oggetto così raro, andar via, e cercare di non
pensarci più… – Mi fa un sorriso. - Ci vediamo!
Quella sfera finisce così
nel palmo della mia mano sinistra.
Ha un colore strano. Brilla
di un rosa tenue che ha il sapore d’antico. Di molto antico.
Se si tratta davvero di una Materia, non credo che
appartenga al genere che noi tutti conosciamo.
Forse, fa parte del passato.
Se davvero così fosse, allora si tratta di un oggetto molto raro. Proprio
come specificato da Yuffie.
Neppure io conosco Materia
di questo colore. Eppure, la generazione da cui provengo,
è molto vecchia. Dovrei ricordarmela, essendomi risvegliato dopo quel lungo
sonno.
Un sonno, il mio, durato trent’anni.
Già.
Trenta.
Uno…
Dieci..
E poi cento.
Cento passi che mi conducono
da te.
Li conto nella testa, senza
una ragione. Forse lo faccio per tenere la mia mente impegnata. Per non
sentirmi solo lungo il tragitto.
Il terreno di questo posto è
molto roccioso. Ingannevole.
Più mi addentro
in quest’anfratto, più il conteggio sale. E poi… i
numeri s’interrompono.
Sono arrivato.
Lei… è qui davanti a me.
Racchiusa in uno scintillio di cristalli, con quell’abito bianco che ha il
gusto di una fine purezza, sono finalmente giunto ai suoi piedi.
Ti osservo. Ti regalo il mio
sguardo, ma ti regalerei anche i miei occhi, se ciò servisse
a far dischiudere i tuoi.
Ti donerei metà degli anni
che mi restano ancora da vivere, pur di finire i miei accanto a te, e lasciarmi
sfiorare dal tocco gentile delle mani tue, che ora hai
garbatamente appoggiato sul petto, in quella posa destinata a restare per
sempre tale.
Sono trascorsi trent’anni, dall’ultima volta in cui le tue mani tremanti hanno
sfiorato le mie in quel tardo pomeriggio.
“Lucrecia? Ci sei? C’è qualcuno qui?” dissi, scendendo nel tuo laboratorio. Desideravo
ardentemente vederti e sentire il suono della tua allegra risata,
ma… “Papà?” I miei occhi
caddero sullo schermo di uno dei tuoi elaboratori… E fu proprio lì, che vidi la
foto di mio padre.
“Chi c’è?”
esclamasti tu, arrivata all’improvviso alle mie spalle. Mi girai verso di te.
Forse con troppa fretta, con troppa… rabbia. Ma la
mia, era una rabbia debole come un fuscello mosso dal
vento.
Replicai subito.
“Lucrecia, questo file…” Volevo spiegazioni. Volevo solo sapere perché tu mi
avevi mentito.
“Non sono affari che ti riguardano!” tuonò la tua voce. Eri in preda alla collera. Così
come lo ero anch’io. Ma la mia, era una collera simile
a quel debole fuscello mosso dal vento.
“Invece sì!” sovrastai quasi subito le tue parole. Quella, fu la
prima volta in cui alzai la voce con te. “Perché
non mi hai detto che lavoravi con mio padre?”
E poi, per la prima volta, alzasti tu la tua voce con
me.
“Basta! Smettila!” Le tue mani ti coprirono il viso. Ti sentii singhiozzare. E
ancora per la prima volta, dal giorno in cui ti avevo conosciuto, ti vidi
piangere. “Io… è tutta colpa mia!” Ti
aggrappasti alle mie mani come qualcuno che, precipitando da un dirupo senza
fondo, tenta di afferrare anche la più piccola
sporgenza concessagli da quel baratro. “Non
volevo che tuo padre morisse. Io… Non
sono riuscita… Mi dispiace!” E poi, ancora, in un sussulto di rocambolesche
emozioni, quelle mani che prima stringevano con forza le mie, si staccarono con violenza, e tu scappasti via, via da me.
Per sempre.
Non ho mai pensato che fosse
colpa sua. Desideravo solo vedere un suo sorriso.
Ma…
Dopo quel giorno, la luce
abbandonò il suo cuore.
Fu così che tu andasti via
da me, rifugiandoti tra le braccia di quell’uomo con il camice bianco.
Lui…
…Hojo
non poteva…
Lui non poteva guadagnarsi
l’amore di un cuore puro come il tuo.
E tu… Tu non potevi accettare l’amore di quel suo cuore
troppo torbido e acre.
Lui, mosso dalla cupidigia
di un animo impuro e da una mente insincera, ti avrebbe condotta alla
rovina.
Ma…
Se questo era ciò che volevi, se tu eri felice, lo ero
anch’io.
E poi…
…quel giorno…
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
La colpa è solo mia. Non
sono riuscito a fermarti.
Ed ora…
…vorrei avere la capacità di
tornare indietro, per poterlo fare.
“Se sono sicura? Se sono
sicura?! Se la domanda riguarda solo
me, allora sì. Ne sono sicura!”
No. Non sei sicura.
“Ne sono sicura!”
Non sei sicura.
“Ne sono sicura!”
No, non sei sicura.
No, tu non lo sei.
Tu non sei sicura, Lucrecia!
- E
di che cosa non sarei sicura, eh Vincent?
Riapro gli occhi all’improvviso.
Mi guardo attorno nervoso, agitato.
L’atmosfera silenziosa e
l’odore di chiuso della grotta, non ci sono più. Sono scomparsi.
Sono all’aperto. Sono in un
grosso luogo all’aperto.
Sento il vento sopra la mia
pelle che soffia lieve lieve.
Sento erba sotto di me, e
non la dura roccia di quel posto nascosto e silenzioso.
Ho sentito perfino la sua
voce. Però, lei non c’è. Poi…
- Qui, sono qui, dietro di
te. – mi dice. Mi ha ancora parlato.
Vorrei voltarmi, ma qualcosa
in me mi trattiene, mi dice di non farlo. Mi dice di
non voltarmi.
Per la prima volta il mio
cuore, dopo tanto tempo, sta battendo all’impazzata. Provo paura. La paura che
lei, una volta giratomi, non ci sia.
Poi lo faccio. Mi volto
davvero. Senza riflettere. Ed assaggio per davvero la
paura.
- Allora? Cos’è che non
sarei sicura di fare? – Le mani sui fianchi, la voce gentile, lo sguardo vispo.
Ha l’aria sbarazzina. Quella sua bella aria
sbarazzina.
Quella che
ha sempre avuto prima…
…Prima di quel giorno.
La guardo fortemente come
qualcuno che ha appena visto una visione parvenza.
- Lucrecia?!
– la mia voce trema.
Lei dovrebbe essere un
ricordo che appartiene solo al passato. Quello di un uomo divorato dai
pensieri.
Questi miei occhi si fissano
sul suo viso.
I suoi lunghi capelli…
Il suo fine mento…
Quelle gote appena pronunciate
e delicatamente tinte di rosa…
Ed infine il suo immenso sguardo…
Occhi grandi e di un caldo nocciola,
che per troppo tempo mi hanno fatto battere il cuore, che
mi hanno tormentato, mi hanno emozionato… No, non può essere che lei sia qui.
Mentre la mia espressione è persa su quel viso, vedo la sua
contrarsi.
Io mi stupisco. Forse
sussulto.
Il modo di fare di questa
dottoressa, sembra pulsare di vita piena. Non è solo un freddo guscio vuoto, un
ammasso di dati virtuali che si muove e parla non per impulso naturale ma
perché pianificato da una serie di programmi informatici.
Lei, sembra davvero…
…Lucrecia.
La mia Lucrecia.
- Vincent,
tutto ok? Ti senti male? – domanda, con quella sua voce
apprensiva, premurosa,
estremamente dolce. SI stringe le mani al petto, china il capo
verso di me, mi fissa il volto ed io arrossisco – Forse… ti ho svegliato troppo
bruscamente? Se così fosse, allora perdonami. Ma, vedi… io ero laggiù, ti ho sentito urlare, chiamavi il
mio nome, e mi sono subito precipitata qui.
Le sue parole… Il suono
della sua voce… Perché tutto è così reale? Troppo, per
essere un semplice sogno.
Mi guardo attorno. Sono seduto sotto le fronde di un albero. La schiena
appoggiata al tronco forte e robusto, e le gambe distese lungo un folto manto di erba dal colore verde brillante.
Che cosa è successo?
Dove mi trovo?
E soprattutto… perché l’immagine di Lucrecia, mi sembra così incredibilmente viva?
Poi… guardandomi ancora
attorno, forse capisco.
Quest’albero, è il nostro albero.
E questo posto, è il nostro posto.
Quello in cui ho passato le giornate più felici della mia esistenza, lì
dove ho pranzato all’aria aperta in compagnia della persona più importante
della mia vita, insieme a lei, alla dottoressa Crescent,
nel tempo in cui io ero solo un agente incaricato di proteggerla. Nel tempo in
cui i suoi occhi riflettevano alla luce di questo meraviglioso sole, e… nel
tempo in cui quel progetto Jenova, per lei era solo
una nozione priva di fondamenti.
Ma… quegli attimi, appartengo al passato, giusto?
E allora, perché sono qui? E
come mai indosso i miei vecchi abiti da Turk?
Mi tocco il viso, poi i
capelli. Sono corti. Proprio come allora.
Esattamente come trent’anni fa.
- Vincent…
- Qualcuno mi chiama. E’ ancora lei, Lucrecia. Non si
è dissolta come un leggero manto di nebbia. - C’è qualcosa che non va? Se fai così, comincio sul serio a preoccuparmi. Vuoi che ti
visiti? Potresti avere la febbre…
- A dire il vero… -
pronuncio appena, faticando perfino a guardarle il viso- Vorrei che… - esito un
attimo. Avverto un po’ di imbarazzo in ciò che sto per
chiederle – Vorrei che lei mi desse un pizzico.
- Un… pizzico? – esclama. Mi
faccio forza, e finalmente riesco a guardarle il volto. Mi accoglie con
l’espressione incerta. – Mmh… - brontola appena, con
un suono impastato – Ti accontento solo perché mi hai fatto arrabbiare. Da
quand’è che mi dai del “lei”, eh? Lo sai che non mi piace!
Le sue dita, senza che io me
ne accorga, in un attimo carezzano e stringono forte
un lembo della mia guancia.
- Io… sento dolore. –
dichiaro agitato, palpandomi distinto la gota.
Perché? In queste circostanze, la sofferenza fisica non può
esistere. C’è solo quella mentale. Quella legata all’anima.
Se si tratta di una semplice visione, non dovrei percepire
male.
E’ forse la mia mente ad illudermi?
Oppure… lo è il cuore?
Lei, mi parla ancora. Io
sussulto.
- Sei pur sempre un essere
umano, e non un freddo Turk! – scherza
ironicamente, abbozzando un sorriso - Allora… adesso è tutto ok, Vincent?
Il mio nome…
Già. Il mio nome è Vincent.
Quante persone mi hanno
chiamato per nome, da quando i miei occhi hanno
ripreso a guardare questo mondo?
Non lo ricordo più.
Eppure… articolato da lei, quel nome sembra che abbia un
sapore più dolce. Il mio nome pronunciato dalla sua voce, è diverso. Proprio quella voce che avevo ormai perduto da tempo. Il tempo in cui quel dolce suono mi faceva sentire apprezzato,
elogiato. Quello in cui lei mi rendeva vivo.
Sì, proprio lei.
Quella
lei.
Ed ora, alla fine, dopo tutti questi anni, posso dire
di sentirmi nuovamente vivo?
Adesso, io, posso solo liberare
le emozioni che ho tenuto dentro di me, e fare in modo che esse arrivino finalmente
in cielo.
Adesso, posso finalmente
abbracciarla.
Le braccia…
…Sì, queste mie braccia, ora
possono.
Trent’anni.
Dopo trent’anni
io stringo a me quella donna.
Io sto stringendo al cuore Lucrecia.
La stringo per sentirla più
vicina a me, come se volessi colmare il vuoto di quei trent’anni
che non mi hanno più permesso di tenerla tra queste
braccia, di sfiorarle anche solo per un veloce istante un ciuffo dei suoi
lunghi capelli che ora sto trepidamente toccando con mano scossa ma piena di
desiderio, come chi è stato allontanato con la forza da colei che ha sempre
amato, come un cieco che riacquista la vista e, con frenesia, cerca di
osservare smanioso tutto ciò che gli sta intorno con una sola ed affamata
occhiata, per colmare un vuoto che lo ha obbligato al buio eterno, facendogli perdere
immagini preziose di un’esistenza tutta da vivere, e per colmare ciò che non ha
potuto godersi con i propri occhi, negli anni passati. Anni passati senza luce.
Come i miei.
- Vi-Vincent?-
balbetta la bella dottoressa, con voce sorpresa e forse un po’ scossa da questa
mia improvvisa reazione. Inaspettata reazione.
Un comportamento
che non rientra nel mio modo di fare. Ma… Io come potrei mai raccontarle dei trent’anni
vissuti senza lei? Come potrei mai raccontarle questa
storia? La mia… la nostra storia.
Non mi crederebbe. Così come
non ci credo io stesso.
Non capisco il perché. Perché sono qui…?
Chi mi ha fatto questo?
Cosa mi è successo?
Che sia… Sì, quella Materia… quella strana sfera che
sapeva d’antico, già, dov’è?
La mia mano sinistra, in
quella gelida grotta riscaldata solo dal sorriso di Lucrecia
imprigionato nella bara di cristallo, la stava stringendo forte. In
quell’attimo, però, mi si è stretto anche il cuore.
Che sia stata lei, la Materia misteriosa, a causare questo?
Però… può, una Materia, avere il potere di trascinarti
indietro nel tempo?
Se così fosse, allora perché?
Io… continuo a non capire…
…Perché
sono qui?
- Vincent?
Hai forse intenzione di rimanere attaccato a me per tutto il
pomeriggio?- La voce di Lucrecia attira la mia
attenzione. In imbarazzo, mi stacco da lei con maniere impacciate, ed abbasso
gli occhi verso il suolo.
- Io… - riesco solamente a
dire.
Ai suoi occhi, mi sarebbe sempre
piaciuto mostrare un’immagine di me più forte, più decisa, matura, ma… non ne sono mai stato capace.
Forse… Hojo
aveva ragione.
Ero, sono tutt’ora
solo un ragazzo. E nulla più.
Il suono dolce della sua
risata, poi, mi sorprende.
- Tu sei così. Proprio come
un bambino. – mi dice con più dolcezza. Il mio timido sguardo si posa su di
lei. Arrossisco ancora. Da quando sono qui, le mie guance non hanno mai smesso di essere calde. – Ma è proprio questo, che ti differisce da tutti gli altri e
ti rende una persona speciale.
Essere
speciali per qualcuno… Io… lo avevo
dimenticato.
Con quella frase, Lucrecia mi ha restituito una parte dei ricordi che per
lungo tempo avevo smarrito.
Io, speciale… Speciale per… lei? Non ho mai pensato di esserlo. Non per
lei.
E invece…
Ricredersi, fa parte del dna
degli esseri umani.
Forse… è
per questo che sono qui?
Per ricredermi?
Se imparare a ricredermi significa restare al fianco
della persona che desidero, allora io non mi stancherò mai di continuare a
sbagliare, pur di trattenermi ancora un po’ accanto a lei e rimediare ai miei
errori.
*****
Non so più ormai da quanto
tempo sono qui.
Non li conto più, i giorni.
Cerco di pensare solo a lei.
Cerco di immagazzinare più ricordi e più informazioni possibili, per potermi
saziare con queste memorie, nel tempo in cui tutto ciò mi verrà
nuovamente sottratto dalle mani. Perché questo
momento, infondo, non è immortale. L’effetto di quella Materia che sapeva d’antico, non durerà in eterno. Purtroppo.
Prima o
poi, giungerà il giorno in cui
dovrò dirle nuovamente addio. Spero solo che prima di quell’attimo, io sia
riuscito a capire. Capire… perché sono qui.
Finora, sono stato capace di
concepire solo inutili supposizioni. Ma ora, a dire il
vero, il perchè, per me, non ha più importanza.
Ciò che ne ha, invece, è
riuscire ad arrivare a quel giorno, prima che il potere di quella Materia
svanisca del tutto.
E quel giorno… è oggi.
Sono più nervoso del solito.
Inquieto.
Non riesco a smettere di
percorrere questo corridoio, con un andirivieni frenetico.
Mi sento rigido nei
movimenti, tuttavia, non posso cessare questa marcia che, in fin dei conti, mi
aiuta a scaricare la tensione.
L’agitazione che sento, in
realtà è solo lo sgradevole riflesso di un sentimento ben più profondo. Ciò che
si chiama “paura”. Ecco cos’è.
“Avere il coraggio di
ammettere che si prova paura verso qualcosa, significa avere il coraggio di
ammettere che quella cosa ci spaventa veramente.”
Era così che mi diceva
spesso mio padre.
E ciò che spaventa me, sono le mie stesse emozioni.
Già, proprio quelle che
avevo liberato ed innalzato verso il cielo con così tanta facilità, temo che
oggi mi tradiscano.
Ho il timore di non riuscire
a lasciarle andare un'altra volta verso quella brillante volta
celeste, e di fallire.
Ed è proprio la paura di fallire, che mi fa diventare rigido.
La porta alle mie spalle,
poi, all’improvviso si spalanca.
E’ arrivato il momento. Il
mio momento.
Un lungo tremito sembra
graffiarmi la schiena. Sento una pesantezza incredibile alle gambe, poi lo
stomaco quasi mi s’irrigidisce. Il battito del mio cuore, qui nel petto corre, corre come uno sciame di belve che attraversano una lunga
prateria al galoppo. Poi, d’improvviso io sento freddo. Gelido è il mio sudore,
e gelide lo sono anche queste mie tremanti mani. Come
farò a non fallire, se verso in questo pietoso stato?
Io… temo di ricadere in
quell’errore.
Entro nella stanza.
E’ gelida. E’ spoglia.
L’uomo con il camice bianco
parla.
Io reagisco proprio come allora,
forse con più foga, finché poi…
Arriva lei.
E’ alle mie spalle.
E per me… si ripresenta l’incubo.
-Sì,
è vero. Perché sei così sorpreso?
Mi agito. Ancora come quella volta. Non riesco
a trattenermi.
-Come si può usare il proprio figlio come cavia?
Come puoi, tu, accettare una
simile condizione?
Come hai
potuto, proprio tu, cortese dottoressa dal camicie bianco, sacrificare il tuo
stesso bambino?
E’ il turno del dottore
crudele. Inveisce su di me deridendomi con le sue pungenti parole cariche di
disprezzo. Hojo stavolta non mi intimidisce
più come un tempo.
Per me, adesso, ciò che
conta, è non fare più quello sbaglio.
Tuttavia… il solo errore che
commetto, è quello di lasciarmi sfuggire un accenno di
“ma”, lo stesso accenno che poi, immancabilmente, scatena la risposta della mia
triste dottoressa.
-Ma cosa? Se hai qualcosa da
dire, dillo.
Già…
Se ho
qualcosa da dire…
Io… avrei tanto da dire.
Eppure… se mi bloccassi adesso, se non le riuscissi a dire ciò che avrei
dovuto dirle molto tempo fa, concederei l’occasione ad un secondo sbaglio di
venire alla luce. E a quel punto per me, vivere diverrebbe
solo una pena insopportabile.
Le mie labbra si
dischiudono.
-Tu sei… Sei sicura che questo è ciò che vuoi?
-Se sono sicura? Se
sono sicura?! Se la domanda riguarda
solo me, allora sì. Ne sono sicura!
Quella frase…
…qui…
…nel mio petto…
…ora…
…mi riverbera proprio come
quella volta.
La volta
in cui commisi l’errore più grande della mia vita. Quell’errore che poi questa vita non mi ha più lasciato vivere.
Alla fine…
…ho capito.
Ho capito perché sono qui.
Per non commettere più quello
sbaglio.
Adesso…
… è arrivato il momento di
cancellare tutte le mie colpe…
…e
di vedere ancora una volta…
…il suo sorriso.
- No. Tu non lo sei, Lucrecia. Ed io… per non averti
saputo fermare, posso solo chiederti scusa.
Quante volte, lì, in quella
gelida caverna, le ho chiesto perdono…?
Ho pregato a lungo che lei
sentisse la mia voce.
Mi sono illuso, ed ho
sperato di ricevere una riposta.
Ma lei…
…racchiusa in quella fredda
bara di cristallo, con il viso sereno, a prima vista
semplicemente assopito, non mi ha mai risposto.
Ma ora, il suono di questa mia voce, proprio qui
davanti a lei, si è appena levato in volo, ed ha finalmente raggiunto il suo
cuore.
Le mie parole mi sembrano un
nugolo di uccelli che lasciano per sempre le loro gabbie
per non sentirsi più oppressi.
Ciò che avrebbe voluto
sentirsi dire quel giorno…
…ora l’ha udito.
- Sì, hai ragione. –
pronunciano le sue labbra. Quelle che ho desiderato per
un’eternità intera accostare alle mie. – Non lo sono mai stata, Vincent!
Il sorriso generato dalle
sue labbra…
… quel sorriso che per lungo
tempo ho atteso invano…
…mi libera dal pesante
fardello che mi ha accompagnato per tutto questo tempo.
Lei…
…ha finalmente capito.
Ed io…
… ho finalmente riparato al
mio errore…
…dopo una lunga
attesa…
… durata trent’anni.
*****
- Vincent
Valentine…?
Qualcuno che pronuncia il
nome…
… sento qualcuno che mi
chiama, ma…
… non è la voce di Lucrecia.
Le palpebre dei miei occhi
iniziano ad aprirsi sospinte dalla curiosità.
Io… sono ritornato nella mia
era?
Vedo davanti a me il viso di
una ragazza, ma… non sono i lineamenti di Lucrecia.
Anche se… per certi versi, questo volto le somiglia molto.
La osservo.
- Shelke?
Cosa ci fai qui?
- Sono venuta a controllare
che tu stessi bene. Tutto ok?
Mi guardo attorno. La bara
di cristallo che tiene Lucrecia sospesa in un limbo
eterno, è lì davanti a me. Ora che le sue orecchie hanno finalmente potuto
udire il suono della mia voce, dentro me c’è solo il
rumore di un cuore sereno.
- Adesso sì.
Shelke si osserva intorno, forse imbarazzata. Credo che lo
faccia per non guardarmi in viso.
- Quindi…
a quanto vedo, è andata bene.
Annuisco.
- Dove
hai preso quella Materia?
- Deepground.
L’ho trovata lì, molti anni fa.
- Perché
l’hai data a me?
- Perché tu ne avevi bisogno.
- Avresti potuto usarla per
ricostruire il rapporto con Shalua…
Shelke si ferma a fissare il suolo.
- A me non serve il potere
di una Materia che mi faccia tornare nel passato solo per
recuperare ciò che posso riconquistare anche in un futuro prossimo.
La sua frase è vera tanto
quanto sono reali questi attimi di vita che ora mi attorniano.
- Capisco. – le dico
osservandola. Poi, ancora una volta poso i miei occhi su quella teca di
cristallo. Lì, verso Lucrecia. Adesso, sarà
finalmente felice?– Lei… voleva solo che io la
fermassi.
- E
ci sei riuscito, Vincent Valentine.
Sento la necessità di
scuotere il capo.
- Non posso saperlo con
certezza.
Shelke, mostrandomi le spalle, s’incammina in direzione
dell’uscio.
- Forse… - prima di avviarsi,
però, si gira con un balzo sbarazzino ed un sorriso sulle labbra per fissarmi
in volto - dimentichi che io ho le sue memorie…!
L’espressione del mio viso
si distende armoniosamente.
Quella nota d’armonia, ora è
anche dentro di me.
Prima di lasciare questo
luogo, regalo un ultimo sguardo a quella donna lassù, incastonata tra i cristalli
sfavillanti, che, in un tempo tanto lontano, ha scaldato il mio cuore.
Quell’incantevole dottoressa dall’abito bianco, sembra
sorridermi.
Il suo, è il sorriso che per
lungo tempo ho atteso invano.
Questo cuore mio, ormai
vuoto d’amore, si rigenera.
Le ferite della mia anima
trafitta dai tristi ricordi, si risanano.
La curva della mia bocca, statica
come il piatto orizzonte, si piega in un sorriso.
Ho corretto il mio sbaglio
grazie al potere di una Materia tinteggiata di un rosa che sapeva d’antico.
Un rosa
antico, che mi ha fatto diventare nuovo.
Io…
…non potrò mai dimenticarmi di lei.
E forse…
…non smetterò mai di rimpiangere il giorno in cui non
le ho fatto capire i miei veri sentimenti, ma…
Prima o poi… Io so che…
Girando, i pensieri faranno sbocciare una nuova vita.
E forse…
…solo allora…
…il mio dolore…
…si trasformerà in dolcezza.
Fine
Questa piccola oneshot, basata su uno dei miei pairing
preferiti, è stata così dannatamente desiderata, che ho cominciato a scriverla
senza neppure rendermene conto!
Quando si è così presi a fare una cosa, le lancette
dell’orologio che c’è nel nostro cervello, si arruffano tutte!
Che altro aggiungere?
Per me, la coppia Vincent x Lucrecia ( e non me ne
vogliano i fans delle numerosissime yuffentine!), è il massimo del massimo!
L’ho detto e lo ripeto… sarà
perché io in Vincent ci vedo il classico uomo che ama
incondizionatamente la sua donna anche quando questa purtroppo lo lascia da
solo e si addormenta per sempre in una fredda teca di cristalli scintillanti
(il che fa molta poesia, c’è da ammetterlo!), o sarà perché le yuffentine non mi convincono tanto (la principessina di Wutai è proprietà privata di Reno ^-^), ma per me, il
vampiro occhi rossi e la sua bella dottoressa, sono un abbinamento più che
azzeccato.
Detto questo, ci terrei tanto
a precisare un paio di cose:
La prima, è che il pezzo che
c’è verso la fine del racconto, quello in cui Vincent
dice “Girando, i pensieri faranno sbocciare una nuova vita. E
forse, solo allora, il mio dolore si trasformerà in dolcezza”, è la traduzione
del ritornello di una canzone di Koji Wada, che a me piace moltissimo. La melodia è tanto dolce
quanto malinconica. (http://www.youtube.com/watch?v=YNiMM2D-fj8
Questo link è per
tutti coloro che volessero ascoltare la canzone!)
La seconda, nonché
la più lunga e importante, è che in alcune parti del racconto, ho immesso i
testi originali dei dialoghi di quelle stesse scene riviste già in Dirge of Cerberus.
Per esempio, la parte in cui Vincent chiede delucidazioni ad Hojo e a Lucrecia stessa riguardo
l’esperimento che vedrà il figlio di quest’ultima
sottoposto come cavia, è stata tratta da una scena originale del gioco.
Infatti, l’idea
della fanfic nasce proprio da questo pezzo.
L’attimo in cui lui le chiede se è davvero sicura di volerlo fare, e lei, quasi
infastidita da quella domanda, per dispetto gli dice
che lo è, ha dato vita al mio racconto. Il Dirge of Cerberus ci racconta del dolore di un uomo che in più
volte, durante il gioco, parla delle proprie colpe, dei suoi errori, in
particolare di quello che gli ha portato per sempre via la sua donna. Lui
avrebbe dovuto dirle di non farlo.
E secondo me, ciò che voleva Lucrecia, era trovare qualcuno che le dicesse
proprio di non farlo. Qualcuno come Vincent. Lei
voleva solo che Vinci, in quel momento, le dicesse di
fermarsi e la facesse ragione, ma… quell’ex-Turk,
purtroppo, per una serie di circostanze, non è stato capace di prenderla per
mano, e portarsela via, lontano da quel perverso omuncolo di un Hojo maledetto, e dal progetto Jenova.
Oltretutto, io penso che Lucrecia si sia indispettita anche per un altro motivo…
La mia tesi è questa:
Quando lei dice a Vincent
“se hai qualcosa da dire, dillo” e
lui, da bravo bambino, come uno scemo le risponde “Sei sicura che questo è ciò che vuoi?”, Lucrecia
a quel punto si altera dicendogli “Se sono sicura? Se sono sicura?! Se
la domanda riguarda solo me, allora sì. Ne sono sicura!”. Ecco, quella parte che ho sottolineato, mi fa riflette su parecchie cose. La più
importante, comunque, è questa: per me, il figlio che Lucrecia portava in grembo, vale a dire colui che tutti
conosciamo con il nome di Sephiroth, non poteva
essere di Hojo.
Anche perché,
quando lei gli ripete “se sono sicura? Se
sono sicura?!” è un po’ come dire “cioè, tu mi chiedi se io sono sicura? Me lo chiedi solo a me? Perché
non provi a chiedertelo anche tu, Vincent?” suona un po’ come un palesamento, come una
realtà tenutaci nascosta, rivelata solo in quell’attimo da quella frase talmente
sottile e sibillina... A cosa alludo? Beh… se il figlio di Lucrecia
non è di Hojo, e se Lucrecia (come fatto capire nel Dirge
of Cerberus quando Hojo le
dice “Finalmente sei rinsavita e hai
scelto me” alludendo a Vincent), era innamorata
di Vincent (“Ti
ho spinto via” dice lei in una scena, verso la fine del gioco “Ma… ora mi rendo conto che… non ho mai
voluto perderti.”), allora quel bambino potrebbe essere proprio del nostro Vincent Valentine. Anche se quest’ultimo, non lo ha
mai saputo. Credo che Vincent e Lucrecia
si siano amati veramente, prima che lui non la facesse soffrire tirando in
ballo la storia del padre. E difatti, qui poi si ricollega alla scena in cui
lui dichiara “dopo quel giorno
(riferito al giorno in cui ha scoperto che Grimoire lavorava con Lucrecia), la luce abbandonò il suo cuore”, e
infine lei decide di gettarsi tra le grinfie di Hojo.
Quando Lucrecia si è messa con quel brutto nano orripilante, molto
probabilmente era già incinta. Da lì poi, è subentrata la possibilità di
partecipare al progetto Jenova, e quindi di usare
quel figlio che Hojo credeva suo,
come cavia.
Questo, più o meno,
è quanto… ^_^
Finalmente mi sono sfogata! Nel senso
che, alla fine, ho espresso la mia tesi personale su
questa vicenda tanto complicata quanto interessante, che sgambettava lì nella
mia mente, senza più trovare pace.
Ci tenevo particolarmente a farvi capire
il mio punto di vista, anche perché me lo stringo dentro
da quando ho portato a termine il DOC, vale a dire nel lontano novembre 2006.
Perché mi accanisco così tanto a capirci qualcosa di più su questi due?
Beh… Forse perché le memorie di Lucrecia, personaggio della serie ingiustamente bistrattato
(molti la odiano solo perché- motivo futile-
preferiscono che Vincent sia innamorato solo di Yuffie, oppure perché- motivo più
concreto- abbia utilizzato il proprio figlio come
cavia), esattamente come dice Shelke, sono anche
dentro di me!
Grazie infinite a tutti voi! SEMPRE!
Botan