Egitto,
?
“L’amore
fraterno è il più durevole; assomiglia a una
pietra preziosa che
resiste ai più duri metalli e il cui valore si accresce con
gli
anni.”
Hector
Carbonneau
Gemelli.
Due gemelli furono quelli dati alla luce da Tia, ventuno anni di
età
con un nome semplice, derivante dalla sposa di uno dei precedenti
faraoni, Amenofi II, uno dei parenti più stretti di Amenofi
IV, poi
conosciuto con il nome di Akhenaton, il faraone eretico. Insomma, un
collegamento con una serie di nomi, dinastie e reali di nobili
origini, con cui la giovane donna non aveva assolutamente nulla a che
fare.
Nulla
se non un nome. Poichè il significato di un nome, secondo
diverse
credenze, è quello che non solo ci guiderà per
tutta la vita, ma
anche quello che in parte determinerà chi siamo, per
renderci le
persone che siamo.
Non
aveva importanza se in quella notte di una giornata non ben definita,
in un mese dell'anno altrettanto non ben chiaro, come del resto
l'anno stesso, vista la complessità del tempo e delle sue
registrazioni, la ragazza si rese conto che i bambini appena avuti
erano due gemelli. Due maschietti. Sani e forti, perfettamente
paffuti, normali se non fosse stato per piccoli segnali visibili sin
da subito.
Dopo
essere stata assistita da una ex balia, nella periferia del
villaggio, al momento di lavare e fasciare i piccoli, subito erano
saltate all'occhio delle piccole scaglie sulla parte bassa del collo
e sui fianchi, come limitate a macchie, porzioni di si e no una
decina di centimetri di diametro massimo. Per non parlare della cosa
che fece quasi fare un infarto all'anziana signora: quegli occhi
rossi come il sangue.
In
un primo momento, dopo essersi riprese entrambe, le due si guardarono
e osservarono quelle strane creature, sebbene fosse chiaro a tutte e
due che non potevano essere altro che il frutto del demonio. Non
tanto perché avessero un aspetto bizzarro o simili, si
trattava pur
sempre di bambini e come tali la giovane Tia era intenzionata a
trattarli, ma perché la donna prima di rendersi conto di
essere
incinta, era vergine.
Se
le vie del Signore sono infinite, lo sono altrettanto quelle
dell'Angelo Caduto e delle sue schiere demoniache e così
come il
tempo si porta via eventi precisi, nomi e oggetti, allo stesso tempo
il modo o il perché uno dei demoni avesse scelto lei come
proprio
incubatrice personale, ci è tutt'oggi sconosciuto.
“Vi
prego, non dite nulla. Se si venisse a sapere in città, li
condannerebbero a morte e direbbero che sono figli di Apopi! E io non
voglio che muoiano...” disse Tia, rivolta all'anziana.
Presi
tra le braccia i bambini infatti, non era riuscita a resistere dal
coccolarli, stringerli, nutrirli dal proprio corpo appena avessero
reclamato, come una qualsiasi madre si sentirebbe in dovere e diritto
di fare.
La
donna anziana la guardò con una certa apprensione, come
fosse potuta
essere lei stessa la madre di Tia, benché fosse solamente
una balia
ormai al limite delle proprie forze, che con l'età aveva
deciso di
dedicarsi a soccorrere le giovani donne durante il parto. Ormai il
suo nome per tutti era diventato “nonna”, per la
sua propensione
a prendersi cura delle donne, delle neo mamme e dei loro figli, ma
anche di malati e bisognosi, un po' come un piccolo angelo custode a
girovagare per la città, nonostante l'età
avanzata.
Piegata
su un bastone piuttosto resistente dalla forma affusolata, ricurva
sulla cima, in un primo momento guardò Tia con fare severo,
arrendendosi poi alle sue suppliche.
“Farò
come dici, mia cara, ma tu dovrai restare nascosta per un po'. Se si
fosse trattato solo della pelle, per cui cercheremo un rimedio,
avresti potuto coprirli con i vestiti, ma quegli occhi non possono
essere coperti, a meno che tu non li finga ciechi.” disse poi.
Fingersi
ciechi in quel periodo, non era certo semplice come lo sarebbe stato
nell'epoca moderna. Niente lenti contatto, nemmeno quando e se
fossero stati più grandi. Avrebbero potuto impiegare le
terre per
coprirne le scaglie, più scure rispetto alla pelle e appena
rialzate, facenti spessore, più rigido, come vere e proprie
squame,
tingere i capelli con del hennè scuro, misto a kajal o
sostanze
simili, ma per gli occhi non ci sarebbe stato verso. Così
come non
ci sarebbe stato per la lingua. Nel sentirli mugolare, aprendo la
bocca di tanto in tanto per emettere qualche vagito, Tia aveva notato
quel color argento vivo e la biforcazione alla punta, ma non aveva
detto nulla.
Avrebbe
trovato una soluzione, quei bambini erano suoi.
“Se
entro un mese non sarà cambiato nulla o non avremo trovato
una
soluzione, dovrai separartene. Trovagli una sistemazione in caso di
emergenza, e in fretta, o sai anche tu che saranno condannati.
Bambini serpente non potranno mai essere accettati dalla
società,
già è uno scandalo che tu sia rimasta incinta. Lo
dico per te,
bambina mia, avrai bisogno di un marito, non puoi stare da
sola.”
sottolineò la nonna.
Per
i tempi che correvano, avere due bambini senza saperne chi fosse il
padre, senza essere già sposata e accasata, sempre ammesso
che
quella baracca in legno si potesse chiamare “casa”,
era
scandaloso. Per necessità, mica per altro. Non che Tia fosse
una
brutta ragazza, il tipico stile egizio nei tratti del viso, la pelle
color miele e dei lunghi e fluenti capelli neri a incorniciarle il
volto, ma se la si dovesse immaginare come uno di quegli affreschi
dipinti sulle pareti interne delle camere di sepoltura delle
piramidi, nulla sarebbe più sbagliato. Quegli affreschi
rappresentavano i nobili, non una popolana come lei. Sprovvista di
trucco, fatta eccezione per del kajal nero che riusciva a comprare al
mercato di tanto in tanto, perennemente con un cesto o un vaso pieno
d'acqua sulle spalle o intenta a comprare oggetti utili alla propria
aspirazione professionale. Il suo sogno era diventare un'artista
tanto brava da poter decorare le prestigiose case di benestanti e
nobili, così come artefatti quali vasi o arazzi in stoffa,
purchè
di arte si trattasse. E dire che era brava, era poco.
Era
difficile, non avendone i materiali e talvolta nemmeno il tempo
fisico, impegnata a lavorare nei campi quando possibile, per
mantenere una sorta di lavoro stabile quando il Nilo non esondava,
allagando le terre per ricoprirle di limo, fertilizzante naturale dal
colore scuro. Chiamata “la terra nera” dallo stesso
popolo
egiziano, l'Egitto era un paese di vita e morte allo stesso tempo, in
cui la giovane donna non aveva vita facile con il suo status di
popolana semplice.
A
volte le capitava di sognare una vita più agiata, dove poter
rientrare a casa al caldo tra le comodità, possibilmente a
doversi
preoccupare meno della sabbia costantemente presente all'interno
dell'abitazione. Ma chi lo sa, forse anche i nobili avevano lo stesso
problema. A differenza sua però, loro avevano servitori
intenti a
spazzare e pulire tutto il giorno.
Persa
in quei pensieri, Tia passò lo sguardo dapprima sui propri
figli,
poi sull'anziana signora, le cui nocche della mano posta sul bastone,
comunicavano da sole quanti anni potesse avere, così come la
pelle
raggrinzita e i capelli sale e pepe, nonostante tutto. Annuì
semplicemente, ben sapendo cosa comportasse voler tenere con
sé due
bambini simili e potenzialmente pericolosi, se davvero generati da
una forza oscura, ma la cosa sembrava non importarle più di
tanto.
Quella
notte fece un sogno bellissimo e terribile allo stesso tempo.
Un'entità fatta di luce le comunicò i nomi dei
figli, che tali
sarebbero dovuti essere per la loro natura, sebbene l'entità
non
specificò quale fosse o quale sarebbe stato il loro destino.
Solo
due nomi: Achashverosh per il più piccolo e Abiyshalowm, per
il
maggiore.
Le
venne promesso che se l'avesse fatto, gli dèi avrebbero
protetto i
due bambini nei primi anni dell'infanzia e in un primo momento la
donna non comprese le parole della creatura, così come i
nomi
talmente strani da risultarle perfino ridicoli, ma nel sentire quel
calore nel cuore, quella vicinanza all'entità che al solo
pensarla
nel sogno le trasmetteva un senso di pace, decise di obbedirvi. C'era
qualcosa di rassicurante e inspiegabile in quell'entità non
ben
definita, qualcosa che andava oltre alle divinità del
politeismo,
oltre alle moderne religioni, oltre alle credenze stesse.
Non
fu ben chiaro perché o cosa spinse Tia a fare quella scelta
alla
fine, poiché pur sempre di un sogno si era trattato, ma per
le
credenze dell'epoca sogni, visioni e quant'altro avevano enorme
rilevanza e sebbene la questione sarebbe suonata controversa anche
nel corso dei secoli, questo è ciò che accadde.
Il
giorno dopo infatti, i bambini sembravano come protetti da qualcosa
che ne celava la vera natura, quello che al giorno d'oggi chiameremmo
“velo” o “glamour”, una specie
di patina sottile dettata
dalle leggi della magia, per far sì che i comuni mortali, i
Mondani,
non vedano ciò che invece all'occhio di altri, era
così comune
quanto scontato.
Bambini,
egiziani, stregoni. Che coperti dall'incantesimo apparivano come due
semplici neonati dai capelli scuri, neri come la pece, i due occhioni
castani anch'essi piuttosto scuri, ma dolci come poche altre cose e
nessun segno visibile sulla pelle. La loro lingua sembrava essere
tornata normale e la giovane donna ringraziò gli
dèi per averli
resi tanto normali, non scoprendo mai cosa si celasse realmente
dietro a tutta quella storia.
16
anni dopo
Tia
non si fece troppi problemi a trattare i propri figli come bambini
normali, almeno finchè non si rese conto di ciò
che erano in grado
di fare. In un primo momento si spaventò molto, ma col
passare delle
settimane e dei mesi, pensò che quei bambini dovevano essere
speciali e non solo perché erano i propri. Troppi fattori
strani
avevano influenzato la loro nascita, il loro crescere in casa come
semplici bambini egiziani, successivamente come bambini magici,
egiziani. Vietò loro la magia nei luoghi pubblici, compresi
i templi
in cui regolarmente prestavano servizio come aiutanti, ricevendo in
cambio l'unica educazione che la madre fosse in grado di fornirgli,
non potendosi permettere scuole di grande prestigio, ma i due si
rivelarono ben presto poco interessati agli insegnamenti di scribi e
sacerdoti, molto più propensi alla magia autodidatta. Non
conoscevano nessuno come loro, quindi il più delle volte
passavano
il tempo al fiume o nei campi a farsi scherzi tra loro.
Dispettosi
sin da piccoli, Achashverosh, che successivamente nel corso dei
secoli mutò per comodità in
“Ash”, era il più testardo, restio
all'idea di farsi insegnare da “quei vecchi balordi che non
capiscono nulla!”, più dedito alla conoscenza per
conto proprio
dell'astronomia, della medicina e di tutto ciò che riguarda
la sfera
emotiva delle persone. Sarebbe voluto diventare un medico, ma come
capita spesso, il destino sembrava avere altri piani per lui.
A
differenza del fratello, Abiyshalowm, anch'esso poi modificato in
“Salem”, sembrava il più aperto all'idea
di vivere nuove
avventure, scoprire il mondo e uscire dagli schemi, nonché
dal
paese, alla scoperta di chissà quale meraviglia assoluta.
Dopo aver
scoperto di poter aprire degli squarci nello spazio, quelli che oggi
sono comunemente chiamati “portali”, li utilizzava
assieme al
fratello per spostarsi sulle lunghe distanze. Una volta
pensò pure a
un luogo molto distante, ma capì che gli sarebbe stato
impossibile
raggiungerlo per mezzo di un portale, se prima non ci fosse
già
stato fisicamente. A differenza del fratello, più
coscienzioso,
sebbene vivace allo stesso modo, lui si poteva definire quasi un
“irresponsabile”.
“Ti
farai ammazzare.” esordì Ash, scuotendo la testa
nell'osservare il
fratello, intento a fare i bagagli.
Un
panno di lino grezzo riempito con alcuni oggetti di base, giusto per
la sopravvivenza, nulla di più, per ciò che
concerneva il bagaglio
di Salem.
“Fratello
mio, ti preoccupi troppo. Pensa che potremmo fare con i nostri
poteri! Potremmo creare vie di comunicazione, spostarci dove
vogliamo, fare quello che vogliamo! Mamma ci ha raccontato spesso
ciò
che ha sognato su di noi e il faraone ha rivoluzionato l'intero
pantheon delle divinità! Lo sanno tutti che l'arte di Cnosso
sta
decadendo, ormai è sempre più evidente e i
Micenei dilagano per il
Mediterraneo. In più sembra che i caldei si stiano
stabilendo a
Uruk, la città più grande del mondo! Non sei
curioso?”
Salem
lo guardò con due occhi enormi, come fosse un gatto in cerca
di un
nuovo giocattolo, mentre Ash sembrò spazientirsi, sospirando
nel
tirar giù dal tavolino i piedi, finora comodamente poggiati,
le
gambe una sopra all'altra. Entrambi con solo un telo di stoffa in
lino grezzo a coprire la parte inferiore del corpo, indossavano
sandali alla schiava del materiale più economico. Salem a
differenza
del fratello indossava una cintura diagonale che collegava
l'indumento da parte a parte, attraversando schiena e petto
diagonalmente, come avesse una moderna borsa a tracolla, con l'unico
scopo di tenere su meglio il vestito e rimanere il solito
“diverso”.
Perché dei due quello eccentrico era decisamente lui.
Non
era cambiato poi molto da quando erano nati, certo con il loro aiuto
a lavorare nei campi o per i nobili, erano riusciti ad ampliare la
casa di qualche metro e a comprare qualche oggetto in più,
ma il
tenore di vita rientrava comunque in quello del popolo comune, nulla
di eclatante.
“No,
non sono curioso.” in risposta a Salem “Babilonia e
Uruk distano
diverse settimane di viaggio e tu non sei mai uscito dal villaggio se
non per raggiungere qualche città vicina e i loro templi. E
francamente non m'interessa quello che dice il faraone o nostra
madre. Siamo nati per lavorare nei campi, dovresti aiutarla come
faccio io, invece di pensare a girare il mondo alla ricerca di
chissà
quale avventura.”
“Tu
non capisci, non è solo l'avventura, potremmo diventare
ricchi e
aiutare la mamma.”
“In
che modo, facendoti ammazzare? Siamo popolani, Shal, pensi che
potremmo davvero capitare in una città così
grande e metterci in
piazza come se niente fosse?”
“E'
questo il punto! Andrò dal faraone e gli mostrerò
cosa sappiamo
fare. Lui ci ascolterà. E quando avremo abbastanza soldi per
partire, partiremo.”
La
sua idea fece fare una smorfia ad Ash, che scosse la testa,
preoccupato. Entrambi non ci capivano nulla di politica, relazioni
tra i cortigiani così come tra parenti ed eredi al trono, o
simili.
Due semplici contadini che lavorano per lo stato, per l'Astro
dell'Egitto, per costruire qualcosa di più grande, che il
mondo non
aveva mai visto prima e mai avrebbe dimenticato. Non solo le
piramidi, che oggi pare non siano mai state costruite da schiavi,
bensì da lavoratori impossibilitati ad arare i campi durante
le
piene del fiume e ripagati dallo Stato, ma una serie di cose atte a
mantenere l'ordine della scala sociale, al cui picco sorgeva il
faraone, in tutta la sua maestosa possenza.
“Non
posso obbligarti a vederla come me, ma se vorrai fare questa pazzia,
la farai da solo. Non siamo persone normali, ma questo non giustifica
le tue azioni e non ti rende nemmeno un Dio. Nostra madre è
preoccupata, ci ha sempre detto di stare al sicuro e di non dare
nell'occhio...e tu vuoi andare a dire tutto al faraone! Primo, non ti
riceverà mai, e secondo, anche se riuscissi a entrare al
palazzo
reale di soppiatto o con la forza, s'inventeranno qualcosa e finirai
incastrato! Ora va di moda questo Aton, questa divinità
solare che
lui ha...scoperto, inventato, non so bene a cosa credere e tu glie la
servi su un piatto d'argento. Ti userà per il suo culto, non
abbiamo
bisogno che tu perda tempo, ma che porti a casa qualcosa di cui
sfamarci. Se non lo fai per me, fallo per nostra madre.”
concluse
Ash, seccato, alzandosi per andare a prendere dell'acqua all'esterno
dell'abitazione.
Nell'uscire
vide sua madre in procinto di entrare e le cedette il passo senza
troppe remore, nervoso per le solite idee dell'ultimo minuto del
fratello. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di farsi tirare
dentro in quel modo da lui, in una delle sue ennesime stupidate, no,
questa volta se la sarebbe sbrigata da solo! Un conto era prendere in
giro il sacerdote del tempio, spaventare i popolani con ombre
inquietanti e racconti dell'orrore o simili, un altro fare coming out
magico davanti al faraone! Non avrebbe voluto lasciarlo solo, lui e
il fratello avevano un rapporto speciale, come ogni coppia di
gemelli, ma forse Salem avrebbe dovuto prendere un'altra strada da
solo, questa volta.
Recuperata
l'acqua al pozzo più vicino, rientrò a casa, i
sandali pieni di
sabbia che con il calar del sole iniziava a raffreddarsi sempre di
più, trasportata dalla sottile brezza serale proveniente da
ovest.
Rientrato
a casa, li trovò a discutere sull'eventuale partenza
imminente del
fratello, mentre lui da bravo figlio, sarebbe rimasto lì
senza
muovere nemmeno un muscolo, limitandosi ad ascoltarli parlare con
apparente noncuranza. Rimarrebbe fermo sul posto un secondo
nell'udire la voce della madre rivolgersi proprio a lui, cercando un
suo parere.
“Achashverosh,
tu vuoi andare assieme a lui?” chiese Tia, mostrando un dolce
sorriso a entrambi i figli, dapprima rivolta ad Ash, solo poi
spostando lo sguardo su Salem.
“No,
io resterò qui, madre.” tagliando corto. Avrebbe
voluto aggiungere
qualche frecciatina, ma l'arroganza non rientrava nei suoi difetti e
tutt'oggi è ancora così.
“Ne
sei sicuro? Non vuoi andare a vedere la grande Uruk di cui tutti
parlano? Forse potreste trovarci qualcosa di interessante, farvi una
vita migliore...” non fece in tempo a finire la frase.
“Ma
che avete tutti quanti?!” sbottò Ash.
“Il nostro posto è qui,
accanto a voi! Se non ci aveste cresciuti voi, madre, saremmo morti!
E Shal vuole andarsene via a cercare chissà cosa
lì fuori. Non è
giusto!”
Agitato,
non poteva sapere che parte di quel sentimento gli arrivava
automaticamente senza che se ne rendesse conto. Oltre a essere un
adolescente in piena crisi ormonale, non aveva il controllo totale
della propria magia, non ancora almeno, e quel senso di angoscia,
preoccupazione e tristezza non poteva sapere venissero proprio da Tia
stessa.
Negli
ultimi giorni era parsa più preoccupata del solito, come se
fosse
stanca, spossata. Ma d'altra parte nelle condizioni lavorative in cui
vertevano all'epoca, non ci si poteva aspettare di meglio. Per
qualche tempo era anche riuscita a lavorare come artista in proprio,
ma a lungo andare le spese erano dure da affrontare senza un mecenate
che le garantisse almeno uno studio fisso in cui potersi dedicare
alle proprie opere, oltre a poterle vendere. E con due bambini
piccoli a cui badare, figli del demonio, per quel che ne sapeva la
gente, se solo li avessero scoperti, sarebbe stato pressochè
impossibile. Quindi era tornata ai campi, alla manovalanza non troppo
pesante poiché pur sempre donna o a cose come il carico e
scarico
delle merci per una paga misera.
Eppure
eccoli lì tutti e tre, a discutere sul da farsi.
“Acha,
non puoi pretendere di rimanere qui per tutta la vita, non abbiamo
abbastanza di che sfamarci.” disse Salem, sospirando.
L'altro
in risposta prese un piatto in terracotta e glie lo lanciò,
ritrovandosi ben presto ad alzare la voce. Il piatto nello schianto
prese Salem solo di striscio, fracassandosi a terra.
“Allora
rimboccati le maniche e lavora di più invece di andare in
giro a
farti la tua stupida vita da solo!”
Emotivo,
Ash rimase a fissare il gemello per trenta secondi buoni, nessuno dei
due senza professar parola, gli occhi scuri a fissarsi come se non
fossero uno l'esatto riflesso dell'altro in quanto a fisionomia,
colore di occhi e capelli, solo il taglio era differente. Il
caschetto al mento ordinato di Ash infatti, cozzava pesantemente con
il corto sbarazzino del gemello, più corto e sempre
selvaggio.
Fu
Tia a interrompere quel silenzio imbarazzante, alzandosi in piedi in
tutta la sua grazia, il vestito in lino bianco a fasciarle i fianchi,
coprendo il seno per fissarsi sul retro del collo in un nodo, lungo
fino alle caviglie, ai piedi un paio di sandali uguali a quelli dei
figli. Tranquilla nel modo di porsi, un sorriso dolce stampato in
volto come a volerli rassicurare, nonché sistemare le cose.
“Su
ragazzi, datevi una calmata e vediamo di gestire questo pasticcio.
Abiyshalowm, non puoi andare dal faraone a parlargli di ciò
che sei
e lo sai. Ti ucciderebbe probabilmente e metteresti in pericolo tuo
fratello, oltre che l'intera famiglia.” Categorica in merito.
“Ma
puoi partire, se lo desideri.” disse poi, senza smettere di
sorridere.
Un
sorriso caldo il suo, sebbene qualcosa della solita giovane, donna,
sembrava non essere al proprio posto. La pelle abbronzata presentava
un colore a tratti spento, gli occhi segnati da qualche occhiaia di
troppo per l'età che aveva, a entrambi i figli fece pensare
che
doveva essere molto stanca. Ciò spingeva Ash a impegnarsi di
più,
dando il proprio meglio sul posto, mentre Salem sembrava sempre
più
deciso a partire, volendo trovare quel qualcosa che a loro mancava,
qualcosa in grado di rivoluzionare le loro vite a tal punto da
potersi permettere di far smettere di lavorare la madre per
concederle il tanto meritato riposo. Oggi la si chiamerebbe
“migrazione lavorativa” o qualcosa di simile, molto
comune e
sempre più frequente, ma al tempo sarebbe bastata una ferita
seria
per far sorgere delle complicanze durante il tragitto. A piedi o in
groppa a qualche animale, è chiaro che con la mancanza dei
mezzi
moderni, la cosa fosse molto più faticosa.
Il
fatto che la madre avesse consentito al fratello di partire,
lasciò
male Ash, che così su due piedi si sentiva troppo arrabbiato
per
continuare il discorso, mettendosi in disparte per far sì
che il
gemello e lei potessero concordare i termini della cosa. Non era
felice che l'altro partisse, glie lo si poteva tranquillamente
leggere in faccia con quell'espressione corrucciata ai limiti della
decenza, come fosse un bambino. Non che sedici anni facessero di lui
un adulto, ma per l'epoca di fatto lo era già.
In
compenso Salem finì di preparare le quattro cose che si
sarebbe
dovuto portare dietro, una sorta di kit di sopravvivenza del tempo,
con tanto di otre e simili per non morire di fame o di sete nel bel
mezzo del deserto. Vestiti pesanti per la notte, viste le temperature
ad abbassarsi quando il sole tramontava e una tenda montabile in caso
di tempeste di sabbia. Per non parlare della magia.
Quella
faceva testo a parte, gli permetteva di cavarsela anche nelle
situazioni meno ottimali, sfruttando le proprie caratteristiche
simili a quelle di un serpente per facilitarsi gran parte dei
compiti, sebbene tante di esse le avrebbe scoperte solo più
avanti.
Ultimati
i preparativi, decise che sarebbe partito la mattina del giorno
seguente, un po' per la sicurezza di non incappare in minacce di
sorta alcuna, un po' per la luce e la giornata che in quel modo
sarebbe durata di più, in un certo senso.
Ash
non fu contento per la partenza del fratello in mattinata, ma in
fondo non avrebbe certo potuto fermarlo o limitarlo più di
tanto.
Avrebbe voluto, ma dopo aver capito che non ci sarebbe stato verso di
fargli cambiare idea, aveva accettato la cosa senza troppe remore,
limitandosi ad augurargli buon viaggio, assicurandosi che sarebbero
rimasti in contatto con la magia in un qualche modo. I messaggi di
fuoco ancora non erano usati dai due, ennesima comodità che
avrebbero dovuto scoprire, di conseguenza avevano trovato un sistema
tramite l'empatia di Ash stesso, in modo che quando lui fosse stato
in pericolo o talmente scosso da provare una forte emozione, il
gemello lo avrebbe saputo all'istante.
Quindi
una volta rientrato a casa dopo il lavoro, lo stregone andò
a
sedersi, esausto, la testa tirata indietro come potesse prendere
più
aria in quel modo, in attesa del rientro della madre, che sarebbe
rincasata di lì a poco. In effetti Tia non
impiegò molto a
comparire sulla soglia, stanca per la giornata di lavoro, sorridente
per poter essere rientrata anche quella sera ritrovandosi in
compagnia del figlio.
“Com'è
andata la giornata?” chiese Ash, curioso.
Tia
gli sorrise, avviandosi verso la cucina, decisa a iniziare a
preparare la cena.
“Bene,
sono un po' stanca, ma credo sia normale.”
Lo
stregone si alzò a sua volta per andare ad aiutarla,
seguendola
nella cucinetta con lo stretto indispensabile, premurandosi di
accendere il fuoco per poter cuocere alcune cose. Come da usanza,
spesso potevano cuocere le pietanze sotto alla sabbia, tecnica
impiegata tutt'oggi in alcune zone desertiche, ma con il calar del
sole, la sabbia si sarebbe raffreddata man mano e si sa quanto le
zone desertiche possano diventare fredde di notte.
Armatosi
di pazienza e di un pizzico di magia, sempre dopo essersi assicurato
che non ci fosse nessuno nei paraggi, Ash lasciò le
fiammelle
crepitare nel forno, se così si poteva chiamare quell'incavo
adibito
a tale.
Nel
frattempo Tia si avviò verso la dispensa per recuperare il
necessario per la cena e fu poco dopo che si udì un tonfo
secco,
seguito da un rumore di cocci in frantumi.
“Madre,
state bene?” chiese Ash, preoccupato.
Nessuna
risposta. Non un accenno, né un rumore.
Quindi
l'egiziano si precipitò in dispensa, preoccupato per le
condizioni
della madre, che trovò a terra, priva di sensi.
Inutile
dire quanto lui si preoccupò, provando un senso di vuoto
allo
stomaco, un tuffo al cuore nel pensare al peggio, non sapendo di
preciso cosa avrebbe potuto portarla a svenire in quel modo. Sebbene
fosse preso dal panico, non rimase con le mani in mano, dandosi da
fare per prenderla in braccio e portarla nell'unica altra stanza,
dove di solito erano sistemati i loro giacigli su cui dormivano.
Oltre a non pesare troppo di suo lei, non avrebbe fatto fatica a
spostare la madre anche con l'uso della magia, ma al momento la
priorità andava alla ricerca di acqua in cui impregnare
della stoffa
da porle sulla fronte, cosa che fece pochi istanti dopo.
Ash
non era un guaritore e le conoscenze dell'epoca circa il
funzionamento del corpo umano forse non sarebbero state sufficienti a
diagnosticare certi tipi di malattie. Di conseguenza cercò
una causa
a modo proprio, schermando il suo corpo con la magia, come a
ricercare qualcosa che gli lasciasse intendere quale fosse il
problema. In quel modo avrebbe potuto trovare ferite aperte, per i
termini quali “batteri” o
“virus” si sarebbe dovuto aspettare
ancora molto.
Per
ora di conseguenza si limitò a osservare il suo viso e il
suo corpo
per cercare di capirne le condizioni. Che fosse stanca e avesse
febbre alta era evidente dopo un contatto stretto, ma lei non si era
mai lamentata finora, rimanendo sorridente e all'apparenza
spensierata per infondere forza in tutta la famiglia.
Rimase
in attesa che lei si svegliasse, vedendola pian piano aprire gli
occhi, boccheggiando appena per la febbre alta, come se volesse far
fuoriuscire dal proprio corpo tutto quel calore. Sembrava volesse
dirgli qualcosa con quel boccheggiare.
“Non...chiamare
tuo fratello” disse a un certo punto, provando a sorridere.
Ash
serrò i denti, rabbioso. Un tipo di rabbia struggente e
dolce allo
stesso tempo, poiché si trattava pur sempre della propria
famiglia e
non sarebbe mai riuscito a essere davvero arrabbiato con loro.
“Lui
va in giro mentre voi state male e non dovrei riportarlo a casa
all'istante? Con tutto il rispetto, madre mia, ma a volte davvero non
vi capisco.”
Tia
sorrise, rimanendo a guardarlo con una certa dolcezza, annuendo,
senza smettere di spegnere il proprio modo di fare luminoso e
gentile. Sapeva bene quanto i figli la ritenessero un punto fermo
nella loro vita, glie lo si leggeva in viso, ma nonostante
ciò, Ash
non riusciva a capacitarsi di come riuscisse a essere sempre
così
calma e determinata, positiva nonostante le complicanze che avrebbe
scoperto ben presto essere presenti.
Questi personaggi appartengono
alla sottoscritta, gradirei che non infrangeste il copyright e non li
riutilizzaste nelle vostre storie, salvo permesso.
L'opera originale
"Shadowhunters" e personaggi annessi, sono di proprietà di
Cassandra Clare. Ogni riferimento a luoghi, fatti e persone
è puramente casuale, mi scuso in caso di omonimia.
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