High dive into frozen waves where the past
comes back
to life
Fight fear for the selfish pain, it was worth it every time
Hold still right before we crash 'cause we both know how this ends
A clock ticks 'til it breaks your glass and I drown in you again
'Cause you are the piece of me I wish I didn't
need
Chasing relentlessly, still fight and I don't know why
If our love is tragedy, why are you my remedy?
If our love's insanity, why are you my clarity?
Era
sempre la stessa
sensazione che lo prendeva quando rivolgeva uno sguardo al panorama che
si
estendeva sotto di loro, alla città che sembrava ugualmente
così piccola appena
prima dell’atterraggio. Aveva camminato sotto quei
grattacieli da quando ne
aveva memoria, gli sembrava quasi di essere nato tra quegli edifici
immensi e
cupi, e si era sentito spesso sommerso dalla loro altezza. Si sentiva
così
piccolo mentre percorreva le vie oscurate dagli edifici che in parte
portavano
il nome della famiglia nelle loro fondamenta. Lui era un piccolo
puntino messo
a confronto con quelle strutture che pareva toccassero il cielo. Poi
tutta
quell’immensità che aveva temuto fin dal principio
svaniva in un breve istante
mentre il jet senza alcuna fatica prendeva quota e si staccava da terra
per
attraversare il cielo e le miglia. L’altezza di quei
grattacieli, quelli che da
terra sembravano costruzioni immense, diventava effimera una volta le
ruote del
jet si staccavano dalla pista e lui non riusciva a scacciare la
sensazione di
nausea che gli s’insediava nelle viscere.
Avrebbe
dovuto
abituarsi a quello dopo tutti i viaggi d’affari cui era stato
obbligato a
partecipare per essere pronto eventualmente a seguire le orme del
padre.
Eppure… eppure era sempre la stessa sensazione che seguiva
al vuoto allo stomaco
provocato dal decollo; la terrificante evidenza di quanto fosse
piccolo, messo
a confronto a quei grattacieli immensi che svanivano in pochi secondi
dal
decollo.
-
Liam, siamo arrivati.
Tua madre ci sta aspettando.-
Si
slacciò la cintura
con un gesto meccanico, così preso dai pensieri da non
essersi reso conto
dell’atterraggio, si sistemò gli occhiali dalla
montatura spessa con un sospiro
e seguì la figura del padre che si muoveva lungo il
corridoio e verso la scala
d’uscita anteriore. Rivolse solo un cenno alla hostess dal
sorriso smagliante e
prese un respiro profondo una volta l’aria fresca di Toronto
lo colpì in viso,
scendendo poi velocemente dalla scala per raggiungere il padre che
parlava con
l’autista fermo di fronte alla limousine nera che li
aspettava come dopo ogni
viaggio per riportarli a casa.
-
Questa mattina l’ho
accompagnato in aeroporto.-
Increspò
le labbra in
una smorfia quando la conclusione del discorso gli fece intuire per
quale
motivo il padre avesse voluto ritardare di un giorno il rientro,
puntò lo
sguardo verso la struttura fatta di vetrate dell’aeroporto e
restò impassibile
mentre la risposta del genitore riecheggiava sadicamente nella mente
– “Suo figlio è
una persona intelligente. Sono
sicuro questa sia la soluzione migliore per tutti”.
Quelle
due settimane
che aveva passato in prossimità del padre erano servite a
contenere qualsiasi
reazione del corpo; il “Sì,
signor Payne”
che un tempo avrebbe commentato con uno sbuffo o un movimento annoiato
degli
occhi lo lasciò totalmente indifferente mentre si teneva
impegnato con il
ricordo dell’ultima conversazione avuta sotto il cielo
stellato. Imitò il padre
che prendeva posto all’interno della vettura e
riportò alla memoria tutti i
nomi che aveva sentito elencare dal ragazzo che con un braccio
sollevato aveva
indicato con cura meticolosa i puntini luminosi in cielo.
“Passeranno in fretta questi anni, Liam. Cerca di
non metterti nei guai
mentre sono via”
“Se finisco nei guai è solo per colpa
tua, Zayn”
“Tuo padre non pensa la stessa cosa. No. No. No, non
fare quella faccia,
Liam. Non m’importa, capito? Ora mi costringe ad andare via e
nessuno di noi
due può opporsi, ma quando tornerò…”
“Quando tornerai?”
“Nessuno potrà impedirci di essere felici”
“O di combinare un disastro”
“Anche quello, sì. Non è male
combinare disastri con te”
Non
riuscì a fermare il
sospiro quando si ricordò di non aver salutato decentemente
il suo amico
d’infanzia, il suo compagno di avventure, il coetaneo che
toglieva la sfumatura
di prigionia alla villa che avrebbe dovuto considerare casa. Intravide
il padre
rivolgergli un’occhiata irritata, come se l’avesse
deluso ancora una volta con
quel mostrare un’emozione, e preferì spostare lo
sguardo verso il finestrino,
ripetendo nella mente tutti i nomi delle costellazioni come se potesse
in quel
modo averlo più vicino.
///
Era
una giornata di
ottobre quando davanti ai cancelli di villa Payne comparve per la prima
volta
quel bambino, tanti ricci a incorniciare il suo viso e un paio di
occhioni
marrone che si guardavano attorno con curiosità. Non si era
mai vista, da quel
che ricordavano i domestici, una visita stramba quanto quella della
donna con
un cappotto elegante, una cartella sotto il braccio che avanzava lungo
il viale
tutta presa nella conversazione che stava avendo tramite cellulare
collegato
con una cuffia all’orecchio. Aveva terminato la chiamata con
uno sbuffo,
l’indice a premere contro il tasto dell’auricolare,
quando aveva raggiunto con
il bambino al seguito il portone d’ingresso, aspettando non
troppo pazientemente
che qualcuno le aprisse mentre muoveva ritmicamente il piede quasi a
mostrare
la fretta di avere l’incontro richiesto. Aveva piegato il
braccio con un verso
seccato, controllando l’orologio stretto al polso, si era
guardata attorno con
attenzione e aveva fatto un cenno al bambino, rivolgendosi a lui in una
lingua
straniera, per invitarlo a seguirla mentre lei si avvicinava alla zona
da cui
provenivano rumori.
-
Il signor Payne?-
chiese con un tono di voce alto per sovrastare il baccano degli
attrezzi una
volta raggiunto lo spiazzo in cui stava una macchina di un vecchio
modello che
quello sdraiato a terra sembrava stesse riparando. - Lei è
il signor Payne?-
domandò ancora una volta, spinse appena il piede contro la
gamba che sbucava da
sotto la carrozzeria per ottenere la sua attenzione e curvò
un sopracciglio
verso l’alto quando da sotto la vettura si mostrò
finalmente un viso, anche se
sporco di grasso e olio come tutto il resto di lui e del suo
abbigliamento.
Aspettò si pulisse le mani in uno strofinaccio, sporco quasi
quanto la
canottiera che indossava, e cercò di non spazientirsi quando
si rivolse a lei
con curiosità per sapere il motivo della visita.
-
La questione è
delicata e privata.- rispose con un tono fermo, indicò con
la cartelletta che
teneva ora stretta in una mano verso il portone
dell’abitazione da cui veniva e
ripeté: - Non ha risposto nessuno. Lei è il
signor Payne?-
Rilasciò
uno sbuffo
l’attimo in cui vide il suo capo muoversi in una negazione,
strofinò due dita
contro la tempia per calmare l’emicrania provocata da quella
giornata frenetica
e con un tono deciso tornò sul motivo che l’aveva
portata a quella villa,
dicendo: - Quando posso trovare il signor Payne?-
Non
sembrava aver
mostrato a sufficienza la fretta che aveva perché quel
giovanotto che non
doveva arrivare ancora ai trent’anni si era stretto nelle
spalle, aveva
aggrovigliato lo strofinaccio sporco e l’aveva lanciato
contro il tavolo poco
distante, pieno di qualsiasi tipo di attrezzo meccanico.
-
Dovrebbero tornare
tra un’oretta, traffico permettendo.- si decise a usare le
parole quello che
strofinava un palmo contro la guancia, andando a peggiorare
ulteriormente la
situazione, abbassò lo sguardo sul bambino che teneva le
manine strette sui
lacci dello zainetto e riportò gli occhi sulla donna,
increspando la fronte
mentre mormorava: - Può tornare più tardi. O
lasciare un biglietto. Se mi dice
come si chiama riferirò io e la farò contattare
appena rientrano. Mio padre è
andato a prenderli, ma non credo suo figlio voglia attendere per
un’ora intera
o più.-
-
Aspetteremo, la
ringrazio.- ribatté con un tono fermo la donna che
recuperò il telefono dalla
borsa e digitò frettolosamente sulla schermata prima di
riporlo ancora una
volta con uno sbuffo spazientito. - Non c’è nessun
altro in questa casa? Una
signora Payne?- domandò ancora dopo pochi secondi di
silenzio teso, passati con
il giovane che studiava attentamente il bambino intento a nascondersi
dietro il
cappotto della donna.
-
La signora Payne l’ho
accompagnata questa mattina in aeroporto.- rispose prontamente quello
che
sembrava trovare ora più interessante la figura del bambino
che la macchina in
attesa delle riparazioni, e prima che potesse aggiungere altro, solo
un’altra
domanda curiosa per capire, furono
raggiunti da una delle domestiche che tra scuse ripetute e inviti ad
accettare
qualcosa da bere aveva convinto la donna a seguirla e con lei il
bambino che
non sembrava volesse mettere troppa distanza tra loro per come
stringeva con
una mano un lembo della giacca.
Il
giovane aveva
seguito con attenzione lo strambo duo che camminava alle spalle di
Sasha, la
domestica, poi quando si era deciso ad accantonare la
curiosità e rimettersi al
lavoro, aveva dovuto imitarli per rientrare nell’abitazione
al suono del “Lascia tutti quegli
attrezzi e vai a darti
una ripulita, tua madre ha bisogno di aiuto”.
Sollevò
la canottiera
per usare le parti meno sporche per pulirsi il viso, sfregò
i palmi contro i
pantaloni e con una camminata veloce raggiunse il trio mentre entravano
nella
zona dell’abitazione dedicata al personale, rivolgendo un
cenno a Maurice,
l’anziano maggiordomo che aveva dovuto sopportarlo fin da
bambino, e
rispondendo agli inviti della madre a darsi una ripulita con le braccia
sollevate in segno di resa.
-
Non stavi perdendo tempo
con quella moto, vero? Tuo padre ha detto che non
c’è nulla da fare e devi
portarla in discarica. Perché sprechi tante energie in
quell’arnese senza più
speranze?- si fece sentire la voce della donna che seduta al tavolo
accanto al
maggiordomo stava ripulendo le verdure, diede un’occhiata al
figlio e dopo un
sospiro sconsolato mosse il capo per indicargli la direzione da
prendere
immediatamente verso la camera e il bagno per sistemarsi.
-
Non c’è niente senza
speranza. Può essere riparata. Ha solo bisogno di qualcuno
che creda in lei.-
s’impuntò quello che ignorò le
lamentele della madre, recuperò una mela dal
cesto e diede un morso mentre con gli occhi tornava sul bambino che
accettava
un bicchiere di succo d’arancia e lo beveva con piccoli sorsi.
Aveva
una strana
sensazione, forse dovuta al portamento così educato del
bambino o al profilo
del suo naso. O la somiglianza esisteva davvero, anche se con la
tonalità
diversa di pelle, o la situazione stava diventando insostenibile con
quei
ricordi d’infanzia che tornavano ancora una volta a dominare
la mente.
-
Io ho bisogno di te,
Zayn.-
Scosse
il capo con uno
sbuffo divertito, quasi a sbeffeggiarsi da solo per certe fantasie, e
rispose
alle richieste della madre con un pollice sollevato, lasciando la mela
sul
bancone per andare in fretta a farsi una doccia e togliere tutta la
sporcizia
dovuta al lavoro faticoso per sistemare il modello preferito di
automobile di
uno dei signori Payne. Non lo stava facendo per compiacerlo, anche se
forse il
sorriso che poi gli avrebbe rivolto valeva tutta la fatica, ma le
riparazioni
per la moto avevano raggiunto un punto morto e lui voleva tenere le
mani
impegnate.
///
-
È lei questo?-
Sistemò
gli occhiali
sul naso con il medio e fissò la fotografia che la donna dal
tailleur elegante
gli aveva mostrato; era vecchia di qualche anno, probabilmente scattata
durante
una festa della confraternita, ma si riconosceva perfettamente nella
persona
all’interno del gruppo che indicava l’unghia
laccata di rosso. Sollevò gli
occhi sulla donna che aveva lasciato la fotografia poggiata sul
tavolino e
mosse il capo in un cenno per rispondere con quel gesto alla domanda,
confuso
dal motivo che aveva portato quella persona misteriosa sul divano della
villa
Payne a chiedere di lui e del suo passato da studente alla Wharton.
-
Questa allora è sua.-
Spostò
di nuovo gli
occhi sul tavolino, sulla lettera chiusa che copriva la fotografia, e
seguì per
un momento il suo alzarsi dal divano per raggiungere il bambino che
l’aveva
chiamata “signorina Spencer?”, ricordandogli
l’infanzia in cui aveva il timore
di rivolgersi alla madre con epiteti affettuosi. Gli faceva pena per
come
stavano entrambi rigidi nella loro posizione, nemmeno un abbraccio o
un’espressione dolce in viso, e quando dopo un discorso fitto
e in una lingua
straniera con la madre si era trovato ad affrontare i suoi occhi grandi
marroni
aveva distolto in fretta lo sguardo; rifletteva troppa
serietà e timore sul suo
viso da bambino e a Liam sembrava improvvisamente di essersi intromesso
in un discorso
privato. Recuperò la lettera dal tavolino per trovare una
distrazione e se la
rigirò tra le dita, riflettendo se fosse sgarbato aprirla
subito per conoscerne
il contenuto o se dovesse accompagnare la donna e il figlio alla porta
come un
vero padrone di casa.
-
Ora devo proprio
andare, signor Payne.-
Si
alzò dal divano,
lasciando la busta sul tavolo con la fotografia, e le fece cenno di
seguirlo,
camminando nell’atrio per raggiungere il portone
d’ingresso mentre si scusava
dell’averla fatta attendere tanto e introduceva un discorso
sul traffico
dell’ora di punta cui lei aveva risposto con una risata
civettuola, una mano
sul braccio e un commento sull’utilità dei mezzi
pubblici. La fissò confuso
quando uscì dal portone senza il figlio, spostò
lo sguardo lì attorno per
cercarlo e lo trovò fermo a qualche metro di distanza da lui
con una smorfia
preoccupata in viso, come se fosse in procinto di piangere ma si stesse
facendo
forza per sembrare forte e grande. Odiava quell’espressione,
l’aveva avuta lui
stesso in troppe occasioni durante tutta la sua infanzia e crescita.
-
Sta dimenticando suo
figlio!- gridò nella direzione della donna che ormai aveva
già percorso quasi
cinque metri nel giardino, indicò alle proprie spalle con un
movimento del
braccio e inarcò un sopracciglio alla scossa del suo capo,
al negare qualsiasi
parentela con il bambino che gli aveva lasciato in salotto e accenni
alle
informazioni contenute nella lettera e tutti i recapiti segnati sul
biglietto
per contattarla in caso di bisogno.
Spostò
più volte lo
sguardo dalla schiena della donna che si allontanava al bambino che
sembrava
essere ad un passo dal rannicchiarsi in un angolo per trovare riparo,
quasi
temesse la reazione dell’unico adulto rimasto e volesse allo
stesso tempo
dargli una buona impressione con tutta quella dose di coraggio.
Marciò verso il
salotto con uno strano presentimento addosso, era stata la maglietta di
Batman
a far partire gli ingranaggi della testa oltre che la fisionomia del
suo viso,
afferrò la busta e quasi la strappò dalla fretta
che stava mettendo
nell’aprirla.
Trattenne
il fiato e
poi distese il foglio scritto con una grafia ordinata, preparandosi a
leggere
quel che era certo avrebbe sconvolto la sua vita.
«
Caro Liam, probabilmente
non ti ricorderai di me. Saltare fuori dal tuo passato con una lettera
era
l’ultima delle mie intenzioni, un poco me ne vergogno mentre
ti scrivo. Ci
siamo conosciuti alla Wharton, a una delle tante feste delle
confraternite. In
allegato c’è una fotografia che ci ritrae assieme,
se sei ancora lo stesso
cocciuto in cerca di prove per tutto. Ti ho cercato qualche giorno dopo
il
diploma per spiegarti la situazione e prendere una decisione con te. Mi
ha
trovato prima tuo padre. Forse avrei dovuto trovare più
coraggio, cercare di
mettermi in contatto con te in un altro modo. Le cose sarebbero state
molto
diverse. Mi ha offerto dei soldi per sparire, si è persino
reso disponibile a
portarmi in clinica. Nessuno sa nulla di tutto questo, ho tenuto il
segreto per
questi quattro anni. L’ho cresciuto da sola con la paura di
essere scoperta da
tuo padre. Deve essersi persino dimenticato di come mi ha trattato, di
come mi
ha fatto sentire… di come voleva sbarazzarsi di
un elemento che avrebbe scombinato il suo mondo perfetto.
Continuerei a
crescerlo nel silenzio, non ho problemi di denaro e non li verrei certo
a
chiedere alla tua famiglia. Purtroppo non mi è rimasto
più molto tempo da
passare con lui. Ho cercato famiglie disposte ad adottarlo ma poi ho
capito che
non era giusto tenerti ancora questo segreto, voglio liberarmi di
questo peso
sulla coscienza che mi sta lentamente corrodendo. Sei suo padre e hai
tutto il
diritto di conoscerlo. Se per qualsiasi motivo non dovessi volerlo, ti
prego di
contattare la signorina Spencer. Le ho lasciato tutti i nomi delle
possibili
famiglie cui affidarlo. Spero un giorno troverai la forza di
perdonarmi. So che
ti prenderai cura del mio angelo. Con affetto, Leah. »
Arrivò
al saluto
conclusivo con un vuoto nella testa, fin troppe informazioni e
rivelazioni in
quelle poche righe l’avevano sconvolto. Era assurdo che suo
padre potesse
nascondergli qualcosa di tanto importante, che potesse costringere una
ragazza
al silenzio per non rovinare il nome della famiglia. Eppure quanto
stava
scritto nella lettera dal loro incontro a una festa di cui aveva vaghi
ricordi,
partecipazione confermata nella fotografia allegata, al carattere
burbero del
padre davano una veridicità a una situazione che aveva un
che di assurdo. C’era
poi l’incredibile somiglianza di quel bambino a vecchie
fotografie dell’unico
figlio della coppia Payne; il nasino a patata, due occhioni marroni e
la forma
delle labbra. Gli unici particolari che li distinguevano erano la
chioma di
ricci fini e la tonalità più scura di pelle,
ereditati sicuramente dalla parte
materna della coppia.
-
Cosa voleva quella
donna da te?-
Liam
sollevò lo sguardo
dalla lettera su cui era ancora concentrato, come se la grafia curata
potesse
nascondere altri segreti, verso il padre che varcava la soglia del
salotto con
un bicchiere di whisky in una mano e un sigaro spento tra le dita.
Portò
nuovamente gli occhi sulla lettera, sul padre che lo fissava con
un’espressione
scocciata e sul bambino che non si era spostato di un centimetro da
dove
l’aveva lasciato la signorina Spencer, sicuramente
terrorizzato in una casa
estranea che avrebbe dovuto contenere una famiglia. Notò
subito gli occhi del
capostipite focalizzarsi sul piccolo e si schiarì la voce
per liberarlo dalla
sua occhiata truce, indicandolo con la lettera stretta nella mano e
pronunciando la frase che fece lasciare al padre la presa sul bicchiere
che si
spaccò al contatto con il pavimento ‒ “Lui
è mio figlio”.
Il
rumore dell’impatto
attirò subito il personale che dopo un momento di
smarrimento si organizzò per
raccogliere i pezzi di vetro e pulire il pavimento
dall’alcool; occhiate
preoccupate che continuavano a passare dai due padroni di casa al
bambino che
sembrava desiderare correre alla porta e fuggire.
-
Ancora non hai capito
che c’è gente disposta a inventarsi qualsiasi cosa
pur di avere soldi?- riprese
a parlare il più anziano tra i due, un verso sprezzante per
il personale che
l’aveva costretto a spostarsi per permetter loro di pulire,
indicò il bambino
con un gesto della mano e borbottò: - Sta mentendo,
è ovvio. Quanti soldi vuole
per lasciarci in pace?-
-
Non sta mentendo.-
s’impuntò Liam con un tono fermo, si
alzò dal divano per avere la differenza
d’altezza a suo vantaggio in quell’imporsi
sull’altro e passò la lettera al
padre con una smorfia, dicendo: - C’è scritto che
tu sapevi tutto.-
Cercò
subito con gli
occhi il bambino quando sentì una delle domestiche
rivolgersi a lui per
accertarsi stesse bene, increspò la fronte con nervosismo
all’incrociare il suo
sguardo triste e tornando a rivolgersi al padre domandò: -
Come hai potuto
nascondermi qualcosa di così importante tutti questi anni?-
Si
sorprese quando il
padre si rivolse a lui con un tono rabbioso, anche se ormai doveva
esserne
abituato, e tentò di mantenere un’espressione
impassibile mentre riversava su
di lui ancora tutte le colpe ‒ “Come
ho
potuto? Tu come hai potuto! Cerchi sempre di sabotare il successo della
nostra
famiglia con scandali! Prima il figlio del nostro autista e poi una
puttana che
chiede soldi! Devo sempre riparare ai tuoi errori! Ti ho cacciato fino
in
Pennsylvania per allontanarti da uno scandalo e sei tornato con uno
ancora più
grande! Riesci a compiere solo disastri! ”
Liam
passò una mano sul
volto per scacciare il senso di colpa dall’emergere ancora
una volta, evitò di
soffermarsi sulla presenza del personale e del bambino che non avrebbe
dovuto
assistere a una scena simile e allargò poi le braccia con un
sospiro; inutile
tentare di difendersi da quelli che a lui non sembravano scandali. Suo
padre
non avrebbe mai capito.
-
Non riesco a ragionare
in questo momento.- farfugliò dopo aver sfregato la mano
contro le palpebre,
puntò gli occhi sul quadro di famiglia che li ritraeva in
una posa rigida. Era
la perfetta rappresentazione di tutto quel che stava tra quelle mura,
solo
bugie mascherate dietro un sorriso. Riprese parola per dire: - Mi
sembra
assurdo che tu abbia potuto costringere una ragazza a fare qualcosa del
genere
per soldi e per il nome della famiglia.-
Passò
qualche secondo
di silenzio mentre il capostipite stava a capo chino a consultare con
minuziosa
attenzione la lettera, forse inventare una qualche scusante per il
comportamento avuto anni prima, poi quando sollevò gli occhi
su Liam aveva
ancora la stessa espressione scocciata e pronunciò solo: -
Immagino ora
contatterai la signorina Spencer per chiarire quest’errore.-
Avrebbe
dovuto
aspettarsi una frase di quella portata, con tutte le implicazioni
possibili, da
parte del padre che ancora una volta si teneva alto sul piedistallo che
si era
costruito dove la ragione stava solo dalla sua parte, collocando tutto
il
restante pubblico nella menzogna. Riuscì a tenere una
postura fiera, forse
merito di come quel bambino l’aveva studiato per un attimo
impaurito da quel
che sarebbe potuto accadere a lasciar vincere il capostipite di quella
strana
famiglia.
-
No.- rispose secco
all’ordine presente nell’affermazione del padre,
deglutì il nervosismo
all’occhiata delusa che gli rivolse e specificò: -
Non ho alcuna intenzione di
contattare la signorina Spencer o qualsiasi altro assistente mandato da
te per
farlo portare via. Lui è mio figlio e starà in
questa casa. Che tu lo voglia o
no, lo riconosco come mio figlio.-
Strinse
forte i pugni
quando nel silenzio suonò la risata del padre,
raddrizzò la schiena per
affrontarlo con la postura del corpo ai suoi passi in avanti e
socchiuse gli
occhi quando lo trattò come un bambino. Un palmo contro la
guancia e la sua
voce che mormorava: - Non c’è bisogno che lo
riconosci per fare un torto a me.
Risolveremo tutto. Posso mettere una pietra sopra questo tuo
comportamento.-
-
Non risolveremo
proprio nulla.- ribatté con voce inflessibile, solo il
tremolio dei pugni
davano un’idea dell’emozione contenuta nel corpo,
puntò gli occhi in quelli del
padre e ripeté: - Io lo riconosco come mio figlio
perché è mio figlio.-
Seguì
con la coda
dell’occhio il gesto del padre di lanciare il foglio di carta
sul tavolino ma
per il resto continuò a mantenersi nella postura che il
padre gli aveva
insegnato, arricciando solo un attimo le labbra in una smorfia alla
velata
minaccia contenuta nel sibilo “Questa
storia non finisce qui, Liam”. Abbassò
le spalle con un sospiro quando la
sua aurea scura sparì dal salotto, probabilmente per
chiudersi nello studio
personale a meditare sul modo migliore per risolvere lo scandalo, e
deviò l’attenzione
sul bambino che tra le braccia di una domestica si stava facendo
consolare nel
pianto.
Si
avvicinò loro con
pochi passi e cercò con lo sguardo quella gli aveva passato
il bambino e gli
sorrideva incoraggiante, si mosse con il corpo in modo impacciato per
confortarlo e increspò la fronte confuso quando dopo un
momento di incertezza
percepì le sue braccia sottili avvolgersi attorno al collo
per sorreggersi a
lui. Mimò un ringraziamento per la domestica e premette un
bacio tra i ricci
folti sul capo del bambino, sussurrando: - Non ti succederà
nulla. Te lo
prometto.-
///
-
Non avrei mai pensato
che la sua Bessy potesse essere così stracolma di problemi.-
si lamentò da
sotto la vettura, il braccio proteso mentre indicava alla compagnia
persistente
quello di cui aveva bisogno, strinse i denti in una morsa tutto
concentrato ad
avvitare meglio i bulloni e tornando sul discorso precedente
continuò: - Solo
lui può dare un nome a una macchina. Bessy ricorda tanto una
vecchietta e
questa macchina, caro mio, è un rottame.-
Sbucò
da sotto la
vettura con le mani contro l’asfalto, le rotelle del carrello
che scorrevano
con qualche difficoltà e richiedevano un trattamento di
olio, sollevò l’indice
verso il bambino silenzioso e mormorò: - Ricorda di non
raccontare nulla al tuo
papà.-
Ridacchiò
tra sé e sé
dopo essersi alzato in piedi, sfregò l’avambraccio
contro la fronte e con un
sorriso pronunciò: - Sono sicuro non me lo perdonerebbe, se
dovesse scoprire
che ho insultato la sua automobile preferita.-
Poggiò
un palmo contro
il cofano con un sorriso e diede delle pacche leggere contro i fanali
sporgenti
e tondeggianti; parevano davvero grandi occhi ma era esagerato il
legame
affettivo che correva tra quella vecchia vettura e il proprietario.
-
Cosa non dovrebbe
raccontarmi?-
Si
voltò di scatto
nella direzione da cui era suonata la voce, notando il bambino fare lo
stesso
con un sorriso luminoso che aveva presto nascosto, allargò
le braccia con un
ghigno e strizzò un occhio per quello che si manteneva
impassibile con la manina
stretta attorno al dado a farfalla che gli aveva concesso di prendere
da tutti
gli attrezzi.
-
È un segreto tra noi
due, vero campione?- si rivolse con un sorriso incoraggiante al piccolo
che
stava tenendo gli occhi fissi sull’oggetto dorato,
passò una mano tra i capelli
tinti biondi con un sospiro e cercò lo sguardo di quello che
era concentrato
quanto lui su quella scena con una smorfia insoddisfatta sulle labbra.
Lo
seguirono entrambi
con attenzione quando si allontanò da loro per seguire il
consiglio del padre
di lavarsi le mani e prepararsi per la cena, poi sospirarono allo
stesso modo
compiendo un passo indietro per poggiarsi contro il cofano della
vettura.
-
Ha detto qualcosa?-
Scosse il capo con una stretta nelle spalle e tenne gli occhi fermi
sullo
strofinaccio con cui si stava pulendo le mani dal grasso, ignorando
quello che
stava accanto a lui con abiti eleganti in mezzo a tutta la sporcizia. -
Almeno
il suo nome?- Negò ancora una volta e tentò di
non prenderla come sconfitta
personale il suo sospiro e “Speravo
avrebbe funzionato, riesci sempre a fare parlare tutti”.
Spinse
un gomito contro
il suo fianco in un momento di coraggio e borbottò: - Solo
perché ho fatto
parlare te, non vuol dire che riesco a far parlare tutti. Sei stato una
spina
nel fianco i primi anni, sai?-
Trattenne
il labbro
inferiore con i denti per vietarsi di aggiungere altre parole,
mantenere
quell’aria scherzosa tra loro che era proibita, e strinse lo
strofinaccio nel
pugno quando il coetaneo si mosse fino a premersi con un lato del corpo
contro
il suo.
-
Se sei riuscito a far
parlare un riccone viziato con la puzza sotto il naso…-
Fissò
di fronte a sé
con l’angolo delle labbra che tendeva già in un
ghigno, ricordandosi le parole
esatte dello sfogo avuto a cinque anni con l’unico bambino
presente nella villa
che non voleva giocare con lui, e abbassò poi lo sguardo
sulle unghie sporche
di grasso e olio. Se c’era un momento che poteva mostrargli
chiaramente quanto
fossero incompatibili era proprio quello; lui con una camicia sporca
dello
scarico del motore e Liam con l’impeccabile completo ancora
profumato.
-
Dovresti arrenderti
su certi progetti ambiziosi.- Puntò gli occhi su di lui solo
dopo averlo
sentito pronunciare con cautela quell’affermazione,
sporgendosi per un istante verso
il suo viso e bloccandosi subito dopo con un’espressione
colpevole. Abbassò le
palpebre con un sospiro quando il suo pollice sfregò contro
la guancia e le
sollevò l’attimo dopo quando lo sentì
dire con fermezza: - Certe cose dovresti
lasciarle come sono. Non puoi aggiustare tutto.-
-
Stiamo parlando della
macchina ora?- riuscì a pronunciare a fatica dopo essersi
specchiato nei suoi
occhi marroni, curvò le labbra in un sorriso e
percepì il cuore stringersi in
una morsa quando ricambiò con uno fin troppo dolce prima di
ripetergli: -
Stiamo parlando della macchina, Zayn?-
Spinse
il pugno contro
la sua spalla con una risata, riuscendo a distrarsi a sufficienza dalla
voglia
di fare qualche sciocchezza e annullare la distanza tra le loro labbra,
e con
una caricata smorfia offesa borbottò: - Sono stato il primo
a farti la
domanda!-
Per
buona misura,
distrarsi ancora dalla voglia di tenerlo tra le braccia quando
sghignazzò
divertito, fece cozzare di nuovo il pugno contro la sua spalla e lo
colpì una
terza volta quando gli ordinò di tenere le mani per
sé, ribattendo: - Tu
smettila di cambiare discorso.-
Con
la risata che
lasciarono risuonare insieme avevano tentato di spezzare quel momento
carico di
tensione. Era inutile, non sarebbero mai riusciti a tornare
all’equilibrio. Il
rapporto che li legava prima della partenza, rispettivamente per il
Pakistan e
il Pennsylvania, non esisteva più. Restava di esso solo
un’apparenza e più
tentavano di recuperarlo, più sfuggiva dalle loro mani. Gli
anni di separazione
avevano fatto imboccare loro due strade che non avrebbero
più dovuto
incrociarsi. Zayn lo sapeva, eppure dopo quattro anni di studio con il
sogno a
portata di mano aveva impiegato meno di due secondi a prenotare il
biglietto
per tornare a Toronto. Tornare da lui. L’aveva fatto per il
padre ormai avanti
con l’età, per la sua famiglia che aveva bisogno
di aiuto. A condizionare per
ultimo quella scelta era stata l’illusione di un
ricongiungimento con il suo
amico d’infanzia. Non c’era bisogno che si mentisse
ancora.
-
Liam?- Tenne gli
occhi puntati di fronte a sé, il sedere contro i fanali e le
braccia incrociate
attorno all’addome. Lo sguardo rivolto all’immenso
giardino, all’erba curata
che da bambini avevano pestato, ai fiori che stavano al sicuro
così chiusi in aiuole
geometriche e alla quercia che si estendeva con i suoi rami carichi di
foglie
rosse per più di venti metri, prendendosi il suo spazio ed
ergendosi maestosa
al centro del prato. Stava ferma, il vento aveva creato con le sue
foglie un
tappeto tutto attorno, opposta alla villa dalle forme rigide, decise,
bianche.
Pareva quasi una madre con quei rami che sfioravano la terra;
invitavano a
essere raggiunti, offrivano un riparo dagli sguardi, celando ad occhi
malvagi
quel che avveniva tra le sue fronde.
Perché
era impossibile
riavvolgere il tempo? Perché non potevano tornare bambini?
Arrampicarsi sulla
quercia e sfidarsi a chi avesse più coraggio di raggiungerne
la cima. Era più
semplice essere bambini in quella villa e ignorare le distinzioni tra
loro.
-
Il tuo personale è
pettegolo.- pronunciò dopo aver fissato a lungo
l’albero ed essersi perso tra i
ricordi dell’infanzia condivisa, spinse un gomito contro il
suo fianco per
bloccare la sua risata e mandò al diavolo lo status quo
dicendo: - Sai che
quando entro in cucina cambiano completamente discorsi? È
stata una fatica
mettere assieme tutti i pezzi. Sono riuscito a captare qualche accenno
alla
discussione con tuo padre.-
Bastò
l’introduzione di
quell’ultima persona per portare tutto all’ordine.
Liam aveva smesso di ridere,
le rughe gli scavavano la fronte e i suoi grandi occhi erano privi di
qualsiasi
emozione.
-
Non voglio parlarne,
per favore.-
La
voce soffocata,
quasi stesse annaspando tra discorsi trattenuti, i pugni stretti che
premeva
contro il cofano dell’antica vettura e le sopracciglia
aggrottate che rendevano
le sue rughe ancora più profonde.
Decise
di ascoltare la
sua supplica con un cenno del capo e un sospiro.
-
Puoi parlarmi di
tutto, lo sai?-
Inclinò
appena il viso
per osservare di sfuggita l’uomo che stava seduto sul cofano,
gli occhi bassi e
le spalle ricurve mentre annuiva piano ma non parlava. Aveva bisogno di
tempo?
O forse certe informazioni era meglio lasciarle non dette? Fingere che
non
esistesse la scintilla che li aveva costretti a prendere due direzioni
opposte,
a essere intrappolati in due continenti opposti. Liam non era mai stato
bravo a
fingere, lo sapevano entrambi, ma si sforzava più del dovuto
per calzare al
meglio i doveri di famiglia. Si rovinava pur di ottenere la loro
approvazione e
Zayn lo odiava, odiava quel Liam che s’impegnava a fingere, a
nascondersi. Si
preoccupava per lui e lo odiava. Il loro rapporto vacillava al
rafforzarsi del
presentimento che era ad un passo dal perderlo. Diventava sempre
più bravo a
mentire, a negarsi ai sentimenti. Il suo sguardo si oscurava appena
quando
succedeva e i momenti in cui Zayn riusciva a superare quella corazza
pensierosa
si facevano sempre più radi. Zayn odiava assistere
all’allontanamento del suo
migliore amico ma non sapeva come trattenerlo senza fare del male a
entrambi.
Agì
d’istinto,
lasciandosi guidare da quella cruda paura, sollevò un
braccio e posò con
delicatezza il palmo sulla sua guancia. S’immerse nei suoi
occhi grandi, nelle
sue incertezze, poi ruppe il contatto con un pugno contro la sua spalla
alla
sua accusa scherzosa di stargli sporcando il viso di grasso. Era stato
solo un
attimo ma il suo migliore amico era lì. Non poteva
arrendersi, non poteva
lasciare che il piano di renderlo un insensibile uomo
d’affari venisse portato
a termine. Doveva convincerlo a lottare contro il padre e le sue paure
ma era
difficile chiedergli di essere forte quando lo vedeva stendersi lungo
il cofano
con un sospiro stanco.
-
Avresti bisogno di
rilassarti.- Incrociò il suo sguardo confuso e si
sdraiò accanto a lui. Le dita
pizzicavano dalla voglia di accarezzare il dorso della sua mano, stava
lì ferma
a pochi millimetri da lui e non poteva.
- Dovremmo fuggire in uno degli alberghi di tuo padre.-
continuò a
parlare perché era molto più semplice trasformare
i pensieri in parole che
mantenere il silenzio e far crescere il desiderio di rischiare.
Fissò le nuvole
grigie, ignorò la pesantezza dei suoi occhi addosso e
poggiò i palmi sullo
stomaco per non essere tentato, mormorando: - Prenotare una delle suite
esclusive e spaccare tutto quanto.-
Curvò
gli angoli delle
labbra verso l’alto quando la sua risata seguì
alla proposta fatta con la
malizia che aveva deciso di non nascondere. Non aveva ancora fallito
con lui,
una speranza persisteva.
-
Prenderò in
considerazione la sua offerta, signor Malik. Se volessi intraprendere
la via
della criminalità, lei sarà il primo che
cercherò.-
-
Lusingato, signor
Payne.-
Il
cofano freddo della
vettura contro la guancia servì a scacciare il rossore, le
interiora invece si
sciolsero in una pozza al sorriso che riempiva le labbra di Liam, al
colore dei
suoi occhi che nella luce autunnale trasmetteva calore, dolcezza,
affetto. O
forse non era merito della stagione, forse quei momenti erano destinati
solo a
lui.
Seguì
i suoi movimenti
quel mettersi seduto, saltare giù dalla vettura e
agitò un braccio quando
spiegò: - Sarà meglio che io rientri. Non voglio
lasciarlo solo e rischiare che
abbia uno spaventoso incontro con il buon paparino.-
Erano
stati pochi e
brevi momenti in cui si era permesso di lasciar andare qualche
emozione.
Sarebbe capitato presto? O il Liam freddo e triste avrebbe fatto di
nuovo la
sua comparsa con tutti gli obblighi e gli impegni? Quanto ancora poteva
resistere quell’atmosfera tra loro? Era già
scomparsa?
-
Liam!-
Vieni
via con me.
Sostenne
il suo sguardo
quando si voltò per rispondere al richiamo, si arrese dopo
poco e sfogò il
nervosismo con le unghie che grattavano la verniciatura. Un altro
lavoro da
fare a Bessy era sicuramente quello, richiedeva un’immediata
rinfrescata prima
di sfrecciare per le vie di Toronto.
Possiamo
lasciarci tutto questo alle spalle.
-
Sono sicuro sia in
cucina.- pronunciò con l’accento più
marcato sull’ultima parola, passò le dita
sporche di grasso tra i ciuffi biondi e dopo un’alzata di
spalle continuò: -
Trisha gli ha promesso un paio di biscotti prima della cena.-
Il
suo corpo non
avrebbe dovuto rispondere al sorriso di Liam e neppure alla sua risata.
Eppure,
traditore, aveva riconosciuto subito la familiarità di quel
suono.
-
Maledetta Patricia
che corrompe ancora una generazione con i suoi magici biscotti.-
Ricambiò
il sorriso,
mosse una mano in un cenno e aspettò la chiusura del portone
d’ingresso prima
di voltarsi verso la vettura e dare un calcio al parafanghi che
cigolò
minaccioso.
-
Scusami, Bessy.
Riuscirò a rimetterti in tiro, te lo prometto.-
Picchiettò
un palmo
contro il fanale e si sdraiò di nuovo sul carrello,
scorrendo sotto la vettura
mentre sfiorava con i polpastrelli i suoi tubi e ingranaggi.
///
La
luce lampeggiante si
stabilizzò, le porte meccaniche si aprirono e
dall’interno del cubicolo ne uscì
un giovane uomo. Il braccio piegato per controllare
l’orologio dorato al polso,
le labbra curvate in una smorfia nel notare il ritardo e le
sopracciglia corrugate
per i pensieri che erano seguiti a quella novità.
Cercò con lo sguardo lo
specchio all’interno dell’ascensore e
riuscì a mantenere il contatto visivo per
non più di qualche secondo. Le porte si chiusero di fronte a
lui, negandogli di
proseguire oltre con l’ispezione a quella persona che non
riconosceva. Un solo
istante gli era bastato per cogliere i soliti particolari: il colorito
un poco
più scuro sotto gli occhi, sintomo di mancanza di un buon
riposo, la ruga ormai
impressa al centro della fronte, scavata nella pelle con la maledizione
del
nome della famiglia, e le guance libere dalla barba non lo
ringiovanivano bensì
caricavano l’espressione del suo viso di un malanno
intangibile.
Spinse
con l’indice gli
occhiali sul naso e diede le spalle all’ascensore e allo
sconosciuto di cui
vestiva i panni. Come ripeteva suo padre, non aveva tempo per
filosofeggiare.
Tutto quel che non concerneva le azioni in borsa, gli investimenti e
nuovi
affiliati per la loro impresa non erano una necessità, solo
un peso. Prima veniva
la famiglia, i doveri, il lavoro.
-
Signor Payne?-
Nel
riflesso della
porta di vetro dell’ufficio riconobbe la figura della
neo-segretaria. Era
giovane, la più giovane nella lista che Dorothy aveva
compilato prima di
lasciarlo per accettare la pensione. Il tailleur elegante non riusciva
nell’intento di aggiungerle qualche anno e accreditarle
esperienze lavorative
in più nel curriculum. La collana di perle serviva solo ad
appesantirle il
collo e forse insisteva a portarla solo perché era il regalo
che la vecchia
segretaria le aveva fatto come portafortuna per il primo giorno in
ufficio.
-
Signor Payne, il
signor Payne vuole vederla nel suo ufficio.-
Diede
le spalle alla
porta di vetro in tempo per vedere le sue labbra rosse curvarsi in un
sintomo
di nervosismo. Inarcò un sopracciglio, tenendo per
sé il divertimento creato
dal gioco di parole, e aspettò ordinasse i pensieri che
rielaborò in un
semplice “Suo padre vuole vederla in
ufficio”.
-
Ha detto di che si
tratta?-
La
risposta fu una
scossa del capo, l’increspatura delle labbra e “Sembrava essere una questione urgente”.
-
Sarà meglio non farlo
attendere oltre.- borbottò tra sé e
sé, superò la segretaria che aveva
approfittato di quel momento per elencare i successivi impegni della
giornata e
non si preoccupò di essere stato scorbutico mentre
percorreva il corridoio con
lunghi passi per raggiungere prima l’ufficio e ridurre
così il tempo
all’interno.
Svoltò
a destra, seguì
il corridoio spazioso e sollevò un braccio, preparandosi a
bussare alla porta
di legno scuro che lo separava dal padre e dalla pessima giornata che
sarebbe
seguita a quell’incontro. Si spostò su un lato per
permettere alla donna di
uscire dall’ufficio e come d’abitudine vi
entrò con un lungo passo, chiudendosi
la porta alle spalle. Si fermò al centro della stanza, i
piedi si erano mossi
meccanicamente sulla moquette blu, e concentrò lo sguardo
sulle iniziali “SP”
impresse su uno scudo in rilievo al centro del portapenne cilindrico
nero. La
lettera S in quello stemma l’aveva sempre collegata a un
serpente che con le
sue spire soffocava la P del loro cognome. Era una fantasia che aveva
da
bambino e l’aveva disegnata un giorno nei dettagli per
spiegarla al suo amico.
Zayn ne aveva riso fino alle lacrime e aveva poi tracciato con cura una
L per
creare un leone rampante che con artiglio strappava la lingua biforcuta
e
velenosa.
Venne
naturale a Liam
sorridere per quel ricordo. Si accorse tardi di quell’errore
quando sollevò il
viso e trovò gli occhi grigi del padre. Unì i
palmi dietro la schiena, prese un
respiro e sfregò il pollice sul laccio freddo
dell’orologio che gli stringeva
il polso.
-
Volevi parlarmi?-
La
calma nella stanza
durò poco. Ignorò il movimento della mano del
padre che lo invitava a sedersi
su di una poltrona di pelle nera e increspò le sopracciglia
all’unica frase che
pronunciò – “Quel
bambino”.
-
Mio figlio.-
Erano
solo due parole:
nome e aggettivo. Le pronunciò con fermezza, non voleva
lasciare alcuna ombra
su quel concetto. Sembrarono agire sull’uomo di potere dietro
la scrivania come
una bomba. Lo stava fissando con gli occhi assottigliati, le rughe
scavate
sulla fronte e ai lati della bocca, un guizzo della palpebra che aveva
tentato
di nascondergli con i polpastrelli premuti un istante contro gli occhi.
Non gli
era sfuggito, non poteva mai sfuggirgli nulla delle sue reazioni. Era
sempre
focalizzato sul suo corpo perché una parte di lui non
avrebbe mai smesso di
temerlo.
-
Tuo figlio…- lo
pronunciò con del sarcasmo nella voce che Liam
tentò di ignorare mentre nella
testa ripeteva l’elenco delle lune attorno a Giove.
-… dobbiamo decidere come
presentarlo a…-
CaldeneCarpoCalice…
câlisse.
-
Non esiste alcun modo
corretto per presentarlo ai tuoi investitori.- riuscì a
rispondere con un
controllo nella voce che era estraneo al tremolio delle mani serrate
dietro la
schiena. - Lui è mio figlio e basta. Non voglio che lo usi
per…-
-
Che io lo usi?!-
Era
così preso a
ricordare un nome di un satellite, quello su cui si bloccava sempre, da
aver
accolto impassibile lo scatto di rabbia del padre. I suoi pugni che
sbattevano
contro la scrivania, la pila di carte che scivolava in obliquo e la
penna
stilografica che rotolava e si fermava contro le nocche del padre.
-
Lui sta usando noi,
Liam! Chi ti ha insegnato a essere tanto ingenuo? Non ti ho cresciuto
per
essere debole! La tua amicizia con quel…-
Callisto.
No, era una
delle prime dell’elenco. Europa. Europa conservata nel
ghiaccio. Europa che si
proteggeva con uno scudo di ghiaccio.
Prese
un respiro,
strinse le dita attorno al polso sopra il laccio
dell’orologio e domandò: -
Volevi parlarmi di questo?-
Era
troppo stanco e non
riusciva a ricordare il nome successivo nella lista che aveva chiesto a
Zayn
d’insegnargli. Arpa… Arpa…
Seguì
il cenno del
padre ad accomodarsi e si abbandonò contro la pelle nera
della poltrona,
ascoltando l’invito fatto a parlarne perché si
trovava senza forze per
ribattere ancora. Posizionò i gomiti sui braccioli in
plastica e sfregò il
pollice contro il vetrino del Rolex. Doveva solo resistere cinque
minuti, lasciarlo
parlare, annuire di tanto in tanto e poi negare tutto, alzarsi e uscire.
-…
la signorina Spencer
ha detto che è solo una procedura burocratica -, la cadenza
della sua voce
andava in sincronia con il picchiettare delle dita sul bordo della
scrivania, -
noiosa ma necessaria. Devi solo mettere la tua firma su alcuni fogli e
l’affidamento sarà totale.-
-
Cosa c’entra tutto
questo con il tuo discorso sul presentarlo in società
e…-
Focalizzò
l’attenzione
sul biglietto rettangolare che il padre aveva fatto scivolare sulla
scrivania
con il presentimento insediato nelle viscere. Il nome completo Anne
Meredith
Spencer, il numero di un cellulare, la mail in corsivo e
l’indirizzo
dell’ufficio dell’assistente sociale che spiccavano
sul bianco del foglio.
-
Devi solo chiamare e
rimandare l’appuntamento.-
Il
foglietto lo teneva
ora tra il pollice e l’indice, le parole del padre che
sentiva ma non
comprendeva. Gli sfuggiva il significato ultimo di tutto quello.
-
Solo in quel modo
avremo più tempo per riflettere e agire. Siamo davvero
sicuri la madre del
bambino sia morta? Potrebbe essere ancora viva e ricattarci con questo
segreto.
Dobbiamo essere cauti, figliolo. Lo capisci che sono costretto a star
bene
attento a chi potrebbe ereditare il nostro regno?-
-
No -, prese un
respiro con gli occhi fissi sulle informazioni segnate sul foglietto,
li
sollevò per affrontare lo sguardo del padre e non
restò seduto sulla poltrona
nera un secondo di più. Aveva promesso a quel bambino di
proteggerlo e Leah,
ricordava così poco di lei, si fidava di lui. - ho detto che
non userai mio
figlio e non cambierò idea. È un Payne e come
tale gli spetta la sua parte. Tu
però non hai alcun diritto su di lui.-
Infilò
il foglietto
nella tasca della giacca del completo e diede le spalle alla scrivania,
al
padre e alla sua espressione delusa. Arpa…
Arpalice, ricordò d’un tratto con la
nausea che faceva tendere la
carnagione del viso al verdognolo.
-
Non essere ingenuo!
Dobbiamo essere preparati a tutto! Ci sono persone che vogliono il
nostro…-
La
porta di legno se la
chiuse alle spalle con un rumore che attirò
l’occhiata della donna dietro il
computer. Non aveva intenzione di ascoltare oltre il parlare del padre,
il suo
sibilo da serpente. Tenne lo sguardo fermo di fronte a sé, i
piedi lo facevano
muovere sulla moquette blu e allontanare da quella stanza e dalla
scollatura
della segretaria. Quante volte aveva desiderato da bambino che sparisse
dalla
loro vita. Non era lei il problema, non era solo
lei. Era un padre freddo di sentimenti e le sue relazioni
extraconiugali. Era
una madre assente e le sue relazioni con giovani uomini, alcool e
pastiglie per
combattere un mostro con cui lui conviveva da bambino.
-
Andato bene il suo
incontro?-
Sollevò
il capo nella
direzione della scrivania da cui era provenuta la domanda, strinse la
mano
nella tasca attorno al foglietto rettangolare e ribatté: -
Niente di buono
viene da lì.-
La
risposta della
giovane fu una risata contenuta, poi si scusò e
chinò il capo per tornare al
suo lavoro. Le dita fini che batteva sulla tastiera e con cui si
aiutava di
tanto in tanto per spostare ciocche di capelli biondi dietro
l’orecchio. Ai
lobi aveva piccole perle abbinate alla collana e guardandola sentiva
echeggiare
nella testa la voce della madre – “Le
perle invecchiano prima dei trent’anni, caro. Porta questo
collare a una delle
tue puttane”.
-
C’è altro che posso
fare per lei, signor Payne?-
Scosse
il capo
sovrappensiero alla domanda della giovane, corrugò la fronte
quando i lati
spigolosi del biglietto premettero contro la pelle del palmo e
incontrò gli
occhi celesti della segretaria che aveva assunto recentemente ma di cui
Dorothy
si fidava.
-
Ci sarebbe una cosa
ma deve restare tra noi.- pronunciò con un tono basso, un
breve guardarsi
attorno e avvicinarsi alla scrivania con un solo passo. - Deve
avvisarmi se mio
padre dovesse chiedere un colloquio con una signorina Spencer o
qualsiasi altro
assistente sociale. Anzi, facciamo così. Dia un appuntamento
alla signorina
Spencer, - estrasse il foglietto dalla tasca e lo posò sul
legno, vedendo
apparire sulla fronte della giovane qualche ruga mentre osservava le
informazioni e tentava di farsi un’idea di quel che stava
accadendo tra padre e
figlio - questo è il suo numero. Le dica che ho bisogno di
parlare con lei di
una questione privata.-
Attraversò
con tre
passi il corridoio per raggiungere l’ufficio, strinse le dita
attorno alla
maniglia per aprire la porta di vetro e si voltò con il
busto nella direzione
della segretaria che aveva già la cornetta del telefono tra
l’orecchio e la spalla,
il biglietto rettangolare tra due dita e l’indice a premere
contro i tasti.
-
Le dica di portare
tutte le carte. Sono pronto a firmare.-
Lasciò
che la porta si
chiudesse alle proprie spalle al principio della chiamata - “Buongiorno, sono la segretaria del signor
Payne. Lei è Anne?” - e si
abbandonò sulla poltrona dietro la scrivania,
girandosi per guardare la vetrata che costituiva tutto un lato della
stanza e
gli mostrava l’edificio nero che si ergeva di fronte e il
cielo grigio di
quella mattina di fine ottobre a Toronto. Si sfilò gli
occhiali, li posò sulla
scrivania e si massaggiò con le dita le palpebre,
spingendosi contro lo
schienale che cigolò solo una volta nel silenzio dello
studio.
///
Erano
le prime giornate
di novembre e il tempo aveva deciso d’improvviso di cambiare.
Il cielo era
limpido ma l’aria fredda costringeva le persone a ritirarsi
nelle abitazioni o
nei bar per non stare esposti al gelo. Dal cielo era caduto persino
qualche
fiocco di neve prematuro, cacciati giù dai compagni chiusi
nelle poche nuvole
bianche spruzzate qua e là nell’azzurro. Alla
televisione annunciavano
l’avvicinarsi della prima nevicata, ancora qualche giorno e
poi tutto si
sarebbe vestito di bianco. Le voci provenivano
dall’apparecchio, un modello di
televisore vecchio incastrato nel mobile, e suonavano soffuse nel
silenzio
della cucina di villa Payne. Al tavolo posto in un angolo della stanza
stavano
quattro personaggi, ognuno affaccendato per conto proprio.
C’era Maurice, il
maggiordomo con due baffoni bianchi arricciati alle
estremità, che sfogliava il
Toronto Star con una cadenza di cinque minuti per pagina. Era costretto
a dare
dei colpetti con i polsi per tenere le pagine del giornale rigide; il
tavolo
era occupato da bacinelle per separare le fave dagli scarti e da fogli
sparsi e
impiastricciati con calcati tratti infantili. In un primo momento Zayn
era
riuscito a occupare un angolo del tavolo con i tre fumetti che stava
leggendo,
poi aveva dovuto spostarne due a terra quando il bambino con tanti
ricci sul capo
aveva tentato di imprimere le sue creazioni sulle pagine non ancora
consultate.
Stava seduto scomposto, le gambe allungate sotto il tavolo e solo le
spalle
premute contro lo schienale. Di tanto in tanto controllava la
situazione
accanto a lui per assicurarsi che il bambino fosse ancora impegnato sul
disegno
del treno e non si arrampicasse sul tavolo per recuperare qualche
pastello. Era
quello che aveva fatto qualche minuto prima, facendoli spaventare
tutti.
Sarebbe caduto a terra se non fosse stato per la prontezza di Zayn a
bloccare
la caduta con un braccio teso.
-
Papà.-
Zayn
sollevò gli occhi
dalle pagine del fumetto e cercò lo sguardo della madre per
comunicare con lei
di quella novità. O perlomeno capire come proseguire dopo
aver sentito la voce
del bambino che da quasi due settimane era una presenza silenziosa tra
loro.
Lei però si era scambiata un’occhiata con Maurice
ed erano tornati entrambi a
badare ai loro interessi o doveri, chi a sbucciare fave e chi a leggere
un
articolo sull’ultimo acquisto di una società in
espansione.
-
Papà.-
E
alla semplice parola
si aggiunse il dito che premeva sulla copertina con una risata a
mettere in
evidenza le fossette sulle sue guance. Chiuse il fumetto con un sospiro
e lo
posò sul tavolo, cercando di capire cosa intendesse quel
bambino che indicava
il supereroe e ripeteva solamente
“papà”. Inarcò un
sopracciglio quando
incrociò i suoi occhi vispi e sembrò passare nei
loro sguardi l’incomprensione
perché l’attimo dopo il bambino aveva un pastello
giallo nel pugno e un foglio
libero dagli scarabocchi. Fu quindi logico per Zayn mostrarsi attento a
ogni
segno che lui tracciava con l’ocra sul bianco.
Dapprima
fu un ovale
che si estendeva su tutta la pagina, due punti equidistanti e chiusi in
due
altri cerchi collegati da una linea. Poi una parentesi ribaltata in
fondo al
foglio, le due estremità curvate verso l’alto.
-
Papà.-
Zayn
spostò gli occhi
dallo scarabocchio sul foglio, al bambino, alla punta del pastello e
solo
quando tracciò delle linee ravvicinate in alto, tendenti a
destra o sinistra a
seconda del lato occupato, intuì di cosa stesse parlando.
Non riuscì a
contenere la risata perché quel bambino aveva riportato con
tratti meticolosi
la pettinatura del minore tra i proprietari della villa.
Evitò
di soffermarsi su
Maurice che li osservava con i suoi piccoli occhi da sopra le pagine di
giornale e annuì quando il bambino si sporse sul tavolo per
indicare la
copertina del fumetto che era stato la causa di tutto quello. Era un
vecchio
numero di Superman e in copertina Clark Kent si strappava la camicia
per
rivelare l’enorme S sul petto. Gli occhiali che indossava
dovevano essere
l’elemento che aveva fatto scattare il paragone nella mente
del bambino.
-
Liam?- domandò
ugualmente dopo un’ulteriore breve risata per la pettinatura
da damerino che
gli ricordava l’amico d’infanzia. Doveva mostrargli
quella creazione al suo
ritorno da lavoro. Poteva essere un buon modo per cancellare
l’espressione
corrucciata che aveva sul viso in quelle giornate. Si riprese da quei
pensieri quando
il bambino spinse ancora una volta il pastello contro la copertina con
un tap
tap leggero e curvò le labbra in un sorriso mentre
diceva: - È come il tuo
papà, sì.-
Seguì
confuso i
movimenti del bambino e puntò gli occhi nella direzione
della madre per
ricevere il suo aiuto quando gli si arrampicò addosso per
prendere posto sulle
gambe. Lei aveva interrotto il lavoro minuzioso di separare le fave
dagli
scarti e li stava osservando con le sopracciglia aggrottate,
un’espressione
pensierosa con cui sembrava stesse studiando quella novità e
valutando i pro e
contro.
-
Superman è papà.-
Distolse
lo sguardo
dalla madre perché era chiaro non volesse intromettersi
quanto più fare
l’osservatore esterno alla vicenda e mosse le dita sui
fianchi del bambino per
fargli il solletico. Aveva una risata simile a quella di Liam e, anche
senza
vederlo, era certo stesse strizzando gli occhi
con due lacrime formate agli angoli.
-
Te l’ha detto lui che
è Superman? È stato Liam a dirlo, vero?-
Fermò
il movimento
delle dita sui fianchi per permettergli di prendere fiato, asciugarsi
le
lacrime e parlare. La stanza era avvolta nel silenzio, escludendo il
soffuso
vociferare della televisione e i loro discorsi, ma sembrò
cadere in uno più
pesante quando il bambino commentò: - Lo diceva sempre la
mia mamma. Diceva che
papà è forte come Superman.-
Notò
una smorfia
pietosa far la comparsa sulla bocca del maggiordomo e prima di dare una
possibilità a uno dei due adulti di intromettersi,
sistemò il bambino su una
gamba e cambiò argomento. Non sapeva quanto fosse fresca
quella ferita o cosa
sapesse della madre, sicuramente erano temi che era meglio evitare.
Prese
quindi tra tutti i suoi scarabocchi quello che ricordava un treno con
tutti
quei rettangoli uno collegato all’altro e degli ovali che
ricordavano gli
sbuffi di vapore. Picchiettò l’indice sul foglio
che spostava di fronte a loro
e disse: - Mi piace un sacco questo.-
-
Sono belli i treni.
Lo sai che la mia mamma mi ha fatto vedere la loco… la
loco...- gli occhioni
marroni l’avevano subito cercato per chiedergli un aiuto con
il nome difficile
ma l’attimo dopo con sicurezza aveva proseguito il suo
discorso -… la locotiva.
Ed era enorme, la più enorme che esiste.-
Zayn
si mostrò fin da
subito interessato con dei versi meravigliati mentre il bambino si
voltava con
il busto per mostrargli con le braccia spalancate quanto fosse grande
il vagone
su cui era stato. Non era semplice inserirsi nella sua parlantina per
fare
domande. Dovevano servire per farlo parlare, invece quel bambino ora
sembrava
potesse tenere in piedi una discussione animata sul suo futuro lavoro
da
guidatore di treni a vapore che occupava la durata di cinque minuti e
più.
Approfittò
di un
momento di silenzio per porgergli la mano e dire: - Non ci siamo ancora
presentati, capitano. Io sono Zayn.-
Si
sforzò per tenere
un’espressione impassibile in viso mentre quel bambino con
serietà ricambiava
la stretta della mano e si presentava con “Maximilian,
per gli amici Max”.
///
Seduto
al tavolino di
un bar Liam stava sfogliando la rubrica sulla finanza del quotidiano,
una tazza
di caffè fumante di fronte e gli occhi che spostava dalle
lettere stampate
all’orologio che spuntava da sotto il polsino. Arrivava di
tanto in tanto a
spingersi con lo sguardo verso la vetrata che si affacciava sulla
strada
innevata. I passanti erano di fretta e si stringevano nei loro
cappotti, nelle
sciarpe che nascondevano il viso, mentre superavano il piccolo bar che
si
celava tra gli alti edifici. Aveva preso l’abitudine di
frequentarlo da quando
l’aveva scoperto, non si era mai reso conto di quante volte
vi era passato
accanto senza mai notarlo. Proprio come tutte quelle persone
indaffarate nella
frenesia che anticipava le feste.
Il
caffè decente e
l’atmosfera riservata l’avevano convinto a
diventare un habitué. Oltre
che la comodità per la vicinanza al Dominion Centre e allo
stesso tempo la
protezione che offriva dalla presenza assidua del padre in ufficio.
Abbassò
lo sguardo
sulle lancette dell’orologio. Dieci minuti ancora e poi
sarebbe dovuto tornare
dietro la scrivania, non avrebbe potuto aspettare un secondo
più di quello.
Chiuse
il giornale e lo
piegò in due, posandolo sul tavolo mentre cercava con gli
occhi l’orologio da
parete. Erano regolati perfettamente quindi lui non poteva essere
né in anticipo
né in ritardo all’appuntamento. Non che avesse
dubbi su quel dettaglio, aveva
la caratteristica noiosa di spaccare il secondo. Noiosa
perché la maggior parte
delle persone avevano invece l’abitudine del ritardo e ben
pochi praticavano la
disciplina dell’anticipo. Come in quel caso, aveva creduto di
trovare la donna
già seduta al tavolino ad attenderlo e invece il locale
l’aveva accolto con la
delusione.
Portò
la tazza di caffè
alle labbra e focalizzò lo sguardo sulla porta che si apriva
con uno scampanellio,
introducendo l’entrata di una famiglia chiassosa. Tre bambini
che con una corsa
avevano raggiunto il tavolo rotondo con i divanetti e le due donne che
li
seguivano tenendosi per mano. Continuò a osservarli di
sottecchi mentre
venivano raggiunti dal giovane cameriere, un nuovo acquisto se i suoi
occhi
sgranati e spaesati all’ordinazione confusa potevano esserne
un’indicazione.
Prese un sorso del caffè bollente, amaro come era solito
ormai berlo, e posò il
fondo della tazza sul tavolino.
La
persona che stava
aspettando comparve quando controllò per la terza volta in
pochi minuti
l’orario che aveva al polso. La osservò durante
tutta la camminata mentre
sorseggiava il caffè e si alzò in piedi quando
gli fu vicino, stringendole la
mano con un sorriso e indicandole con un gesto di accomodarsi. Prima di entrare
sull’argomento che
interessava entrambi, quello che stava chiuso nella cartelletta
arancione che
lei aveva posato sul tavolino sopra il giornale piegato, aspettarono
che il
cameriere arrivasse per prendere la sua ordinazione, tornasse con la
tazza e il
cornetto dopo pochi minuti e li lasciasse poi soli dopo qualche scusa
per aver
quasi rovesciato il cappuccino.
-
Dalla chiamata che
avevo ricevuto da parte di tuo padre credevo volessi aspettare prima di
riconoscerlo
e firmare le carte.-
Increspò
le labbra in
una smorfia al discorso che introdusse la donna e distolse lo sguardo
dalla
cartelletta arancione per mostrare tutta la serietà che
stava chiusa nel secco:
- Mio padre non è il mio portavoce.-
-
Sono contenta che non
ci sia quella solita scaramuccia con investigatori e test del DNA. Ne
ho viste
di ogni tipo in tutti questi anni. Quei bambini non meritano di finire
nel
mezzo di discussioni da adulti. E in questo caso...- una pausa per
prendere un
sorso del cappuccino -… avevo paura finisse sui quotidiani
quando sono stata
contattata da Leah. Non immagini quanto sia felice ora di essermi
sbagliata.-
-
Come dicevi tu -,
replicò Liam con gli occhi che dal colorito scuro della
bevanda aveva sollevato
per cercare lo sguardo della donna, - ne ha già passate
tante. Non c’è bisogno
che finisca in scandali mediatici o sottoposto a
test della verità. È mio figlio e mi
prenderò
cura di lui.-
Fu
probabilmente la
risposta che la signorina Spencer stava aspettando. Unì i
palmi di fronte al
viso e curvò gli angoli della bocca colorata di un rosso
acceso in un sorriso.
Spostò il piattino con il cornetto e la tazza di cappuccino
su un lato del
tavolino, recuperò la cartelletta arancione e la
aprì per sfilare dal fascicolo
i fogli che le interessavano e che gli posizionò di fronte
dopo essersi
assicurata fosse tutto pulito. Estrasse dalla borsa in cui aveva
rovistato per
una manciata di minuti una penna che gli porse con un sorriso e un
commento sui
pochi uomini responsabili rimasti. Liam fece scorrere gli occhi sulle
scritte
più per abitudine che effettivamente per leggere la pratica
burocratica e
apportò la firma in fondo a ogni foglio, muovendo di tanto
in tanto la testa
per mostrarsi interessato ai discorsi della donna.
-
Non ricordo nulla di
lei.- s’inserì nel suo racconto sul primo incontro
con Leah e il figlio, chiuse
la penna con un click contro il tavolo e gliela
passò assieme al
fascicolo di fogli, vedendola riporli dapprima nella cartelletta
arancione e
poi tutto in borsa. Sfregò il pollice sul bordo della tazza
e senza che lei
ponesse domande, mormorò: - Ricordo poco di quella festa.
Ovviamente mi ricordo
di lei e di quello che abbiamo fatto. Fisicamente me la ricordo, tutto
il resto
è sparito.-
Scosse
il capo e portò
la tazza alle labbra, prendendo un sorso dopo aver borbottato contro la
presenza degli alcolici alle feste della confraternita. Era
più un problema
personale quello ma non avrebbe raccontato a una sconosciuta del
periodo nero.
Ne era uscito e non avrebbe influito sul suo essere genitore. Almeno
quel
problema poteva controllarlo ora.
Portò
subito gli occhi
sul viso della donna quando gli coprì il dorso della mano,
inarcò un
sopracciglio per chiederle con l’espressione a cosa fosse
dovuto il suo gesto e
arricciò le labbra in una smorfia insoddisfatta fin dal
principio di quel “Può
essere un modo per avvicinarti a tuo figlio”.
-
Lascia che sia lui a
parlarti di sua mamma quando ne sentirà il bisogno.-
Ritirò
la mano da sotto
la sua al guizzo delle sue dita, ignorò la delusione nei
suoi occhi per il
rifiuto e finì con due sorsi il caffè, poggiando
la tazza vuota sul tavolo e
dicendo: - Ho accettato perché non ha nessun altro.-
-
Non credo di essere
indicato per questo ruolo. Anzi, sono convinto - spostò il
polsino per
controllare l’ora e si alzò in piedi, recuperando
il quotidiano - di essere la
persona meno indicata per crescerlo. Non sono quasi mai in casa. Non ho
mai
avuto qualcosa d’altro oltre la vita d’ufficio e...-
Abbassò
lo sguardo
sulla mano della donna che si era posata sul braccio piegato per
ottenere
attenzione e interromperlo, sollevò gli occhi sul suo viso e
notò le sue labbra
tendere in un sorriso genuino mentre con un tono rilassato rispondeva a
tutti i
dubbi che aveva evidenziato.
-
La quantità di tempo
che dedichi a tuo figlio è importante, non ci sono dubbi.
Non è impossibile,
però, unire una vita d’ufficio a una vita in
famiglia. Ci sono tanti genitori
che si focalizzano più sulla qualità del tempo
che dedicano ai figli, invece
che sulla quantità.-
Quel
discorso era stato
di per sé incoraggiante. Non era una totale castroneria e
sì, poteva
concentrare in quei momenti liberi del tempo da dedicare al figlio per
conoscersi meglio. Farlo sentire apprezzato, amato. Essere una famiglia
per
lui.
-
Sono sicura tuo padre
abbia fatto la stessa cosa a suo tempo!-
Non
riuscì a
trattenerla la smorfia di disgusto che modellò in fretta la
bocca a
quell’accenno. La coprì dietro un sorriso tirato -
“Devi imparare a fingere,
figliolo” - e pronunciò: - Il migliore
che potessi desiderare.-
“Gli
uomini sono una
sporca razza di bugiardi. Noi stiamo ai vertici perché
sappiamo mentire, vedi?
I più deboli invece stanno sotto di noi, lavorano per noi.
Questo ci distingue
da quel tuo amico e dalla sua categoria. Lo capisci? Io e te, figliolo,
siamo
uguali. Abbiamo il potere di controllarli tutti”.
-
Mi sarebbe piaciuto
restare ancora ma ho un impegno urgente in ufficio.-
La
menzogna era
scivolata così facilmente tra le labbra che quasi si
convinse lui stesso di
avere urgenza nel tornare a chiudersi nell’edificio nero.
///
-
Ho firmato perché è
mio figlio!-
-
L’hai fatto alle mie
spalle perché sapevi di star sbagliando. Credo si possa
rimediare. Sì, possiamo
ancora rimediare. Facciamo un test e quando risulterà che
non è tuo figlio,
allora potremmo dire che sei stato costretto a firmare e…
sì, non scuotere il
capo in quel modo. Sai anche tu di aver fatto una mossa sbagliata. Sei
fortunato che ho amici importanti nella stampa e possiamo creare il
caso sulle
donne che usano i bambini per...-
-
Ho detto che non
userai mio figlio.-
-
Liam...- una
prolungata pausa di silenzio -… cerchiamo di ragionare
e… Dove stai andando? -
Nessuno
fiatava nella
cucina comunicante con il salotto della villa. Ognuno dei domestici era
impegnato nel proprio lavoro, chi a pulire il bancone e chi a lavare il
pavimento, ma erano tutti attenti sulla discussione che da qualche
minuto stava
accendendo il salotto con un crescendo di tensione. Zayn ne era
convinto perché
percepiva gli sguardi alternati di Trisha o Sasha addosso mentre
cercava di
concentrarsi sul fumetto che teneva tra le mani. Aveva avuto
d’un tratto l’idea
di alzarsi dalle due sedie occupate, le uniche non a gambe
all’aria sul tavolo,
ma non appena aveva poggiato i piedi sul pavimento bagnato dal salotto
era
provenuto il secco ordine fatto dal più giovane, fino a
qualche mese prima, tra
i Payne a non essere toccato.
-
Vuoi metterti davvero
contro di me? Posso isolarti da tutti! Sai che ho il potere! Non mi
dare le
spalle, Liam! Porta rispetto o ne pagherai le conseguenze! Posso
costringerti a
ubbidirmi!-
Ora
i domestici rimasti
nella cucina non fingevano neppure di proseguire con il loro lavoro.
Zayn aveva
incrociato lo sguardo preoccupato di Sasha, poi lei aveva scosso il
capo e si
era rivolta a Trisha con la confessione tenue – “Mi
piange il cuore non
poter mai intervenire. L’ho cresciuto come se fosse mio figlio”.
-
La metà delle azioni
della società sono mie. Vorrei proprio vederlo come potresti
costringermi. Non
c’è più nulla che tu possa fare per
farmi stare sotto di te.-
Zayn
portò una mano
alla fronte ancora prima di sentire la risposta del capostipite della
famiglia
Payne. Non era certo quello che intendeva lui quando incitava Liam a
prendere
il controllo e opporsi al padre. Si stupì però
della risata fredda che suonò
nel salotto ed echeggiò fino alla cucina, facendo scambiare
occhiate
preoccupate tra i domestici. Non appena il motivo
dell’ilarità di quell’uomo
malvagio si spiegò, strinse i pugni per contenere la rabbia.
-
Tu sei ancora un
debole, figliolo. Ho tentato di farti capire che quei domestici sono
inferiori
a noi, ma tu ti sei affezionato a loro. Basterebbe accennare che ho il
potere
di farli finire tutti in strada per farti ubbidire. Sei debole e
resterai solo.
Sto facendo tutto questo per te. Perché non riesci a
capirlo? Perché devi
essere tanto difficile, figliolo? Mi costringi a essere cattivo, lo
vedi?-
Zayn
portò un pugno
alla bocca per non gridare quando nel “Non mi
toccare! Stammi lontano!”
riuscì a percepire la paura del suo amico
d’infanzia. Ignorò le occhiate che
gli stavano perforando la schiena mentre si dirigeva verso la porta che
dalla
cucina immetteva direttamente nel giardino della villa. In quel momento
non gli
importavano le raccomandazioni della madre a non intromettersi, a
tenere le
distanze che il diverso rango già forniva. Liam aveva
bisogno di lui, tutto il
resto passava in secondo piano. Come poteva mettersi davanti
l’ostacolo di una
relazione impossibile quando aveva sentito in modo chiaro la sua voce
tremare
come un tempo.
La
brezza leggera lo
costrinse ad avvolgere le braccia attorno al corpo per scaldarsi;
tornare
indietro per recuperare una giacca l’avrebbe solo rallentato. Attraversò il
viale con tre passi lunghi e
fece una breve corsa per raggiungere la quercia. Il buio della notte
era
spezzato dai lampioni piazzati nel viale tra i cespugli ma in
quell’angolo di
giardino solo loro, sotto le fronde del grande albero, non riusciva ad
arrivare
la loro luce. Lì dentro stava il loro piccolo mondo, lontano
dalla villa e
dalle rigide regole della società.
Fu
ugualmente un
sollievo per Zayn spostare le foglie e trovare una sagoma seduta sul
ramo più
basso. Non aveva bisogno di luce per riconoscere il suo amico. Stava
ricurvo
con le mani unite tra le cosce, il capo basso e il respiro che gli
sollevava
regolarmente le spalle. Posò i palmi contro il legno ruvido
e si issò sul ramo,
sedendosi accanto a quello che si spostò un poco per fargli
spazio. Non si
rivolsero né un saluto né uno sguardo per
riconoscere la presenza dell’altro.
Erano anni che non stavano in silenzio sotto le fronde di quella
quercia ma era
stato facile per Zayn cadere di nuovo in quell’abitudine.
Decise
di spezzare il
silenzio quando sentì provenire dal ragazzo sedutogli
accanto un sospiro tremante
e il tipico tirare su con il naso che preannunciava un pianto. Si
spinse con la
spalla contro di lui e sussurrò: - Non sei solo.-
Era
stato terribile il
suono della sua risata, così come riuscire a notare quanto
fossero lucidi i
suoi occhi. Non poteva rincuorarlo come avrebbe voluto, non poteva
toccarlo. Le
ricordava bene quelle crisi. Erano i momenti rari in cui Liam odiava il
contatto fisico, persino da parte sua. Si chiudeva nel suo silenzio, si
stringeva in se stesso, e Zayn gli restava accanto e riempiva lo spazio
tra
loro di frasi, talvolta senza alcun senso. Liam gli aveva confessato
solo dopo
tanti anni quanto la sua voce lo aiutasse in quei momenti.
Prese
un profondo
respiro per prepararsi e intravide Liam piegare una gamba sul ramo, la
guancia
che premeva contro il ginocchio per dedicargli tutte le attenzioni.
Perché in
quel momento era tanto semplice tornare come un tempo?
-
Devo raccontarti una
cosa che è successa recentemente. Devi saperlo.-
Curvò
le labbra in un
sorriso dopo aver pronunciato quelle parole e riuscì a
percepirlo nel verso con
cui Liam lo invitava a proseguire. Grattò con
l’unghia la corteccia per
distrarsi dal desiderio di sollevare la mano del ramo e accarezzare la
sua
guancia. Non poteva toccarlo.
-
Stavo sfogliando un
vecchio numero di Superman - iniziò a raccontare dal
principio con gli occhi
focalizzati sui palmi posati sulle cosce - e tuo figlio ha detto che
sei Clark
Kent.-
Fece
dondolare i piedi
nel vuoto, sollevò le spalle con uno sbuffo e in fretta
continuò: - Penso sia
per gli occhiali. Ora sta dicendo a tutti che suo papà
è un supereroe. Dovrei
avercela un poco con lui perché ora sono diventato il centro
delle battutine di
tutto il personale. Evidentemente far leggere a tuo figlio dei fumetti
è
crescerlo come me. Non capisco perché sia un male. Non
è un male, no?-
Sollevò
gli occhi in
tempo per vedere la scossa del capo di Liam, il sorriso che curvava le
sue
labbra e sentire il flebile: - Non sono né Clark Kent
né Superman.-
Incise
i denti sul
labbro inferiore per non ribattere con grinta e focalizzò
gli occhi su quel che
riusciva a riconoscere nel buio dell’erba sotto di loro,
percependo ogni parola
successiva di Liam come una pugnalata su di lui.
-
Sono solo un illuso
senza spina dorsale. Sono debole. Non ho il coraggio di prendere
posizione con
lui, riesco solo a scappare via. Ha ragione su di me. Mi fa schifo
ammetterlo
ma mi conosce meglio di chiunque altro.-
Scosse
il capo con una
smorfia e strinse forte i pugni per non sfiorarlo mentre lasciava
traboccare il
dolore nel sussurro: - Non dire così, jaan.-
-
Ha ragione, Zayn.-
Non
gli piaceva quel
tono imperativo. Odiava quando la sua voce suonava fredda. Come se
fosse
totalmente deciso e non ci fosse la minima possibilità di
fargli cambiare idea.
Come se non esistesse più la possibilità di
recuperarlo. E Zayn sapeva che in
certi casi la metteva di proposito quella barriera tra loro. Non sapeva
quale
tra le due opzioni facesse più male: se il suo essere
convinto di quelle parole
o se quel voler staccarsi da lui.
-
Forse dovrei solo
smettere e diventare quel che vuole lui. Forse sarei più
felice.-
“Siamo
troppo
diversi ora, Zayn”
“Che
stronzata è
questa, Lee”
“Noi
non possiamo
essere amici. Siamo diversi. Ho una società da gestire”
“Questo
è quello che
vuole tuo padre. Se credi sia meglio in questo modo, però,
accetto la tua
decisione”
-
Stronzate.- sputò
fuori d’istinto e agitò una mano per fermare le
sue insistenze. Non sarebbe
rimasto in silenzio quella volta, non avrebbe accettato passivo una sua
decisione. Anni prima aveva creduto fosse una soluzione inevitabile
quella di
calzare i panni perfetti del loro rango sociale. Cos’avevano
ottenuto in quegli
anni a dimenticarsi del loro passato? Nulla. Continuavano a oscillare
sul filo
della loro storia senza mai finirci dentro. Ed erano felici? Dio, non
sapeva se
era felice ma Liam non lo era nemmeno lontanamente. Prese un nuovo
respiro e
con un ritmo incalzante disse: - Non è quello che stai
cercando di fare da
anni? Non sarai mai come vuole lui, Liam. Tu sei fatto così,
sei buono. E non
saresti più felice. Arriveresti a un certo punto della tua
vita e non
riconosceresti più te stesso. Vuoi quello? Credi che
estraniarti completamente
sia la soluzione? Non sarai mai come lui e non saresti felice.-
-
Io non mi riconosco
già più, Zayn.- Voltò di scatto il
viso nella sua direzione e gli sembrò di
vedere sulle sue labbra uno di quei sorrisi che odiava,
quell’arrendevole piega
e la scossa lieve del capo. - Ho resistito per anni solo per questo
momento. Ho
affrontato ogni giorno pensando che avrei guadagnato la
libertà. Invece ho
quasi trent’anni e sono ancora sotto di lui. E non ho nulla
di ciò per cui ho
lottato.-
-
Non dire così, Liam.-
sussurrò quando captò l’incrinatura
nella sua voce, si tenne ancorato con le
dita al ramo e si sporse per cercare il suo sguardo, insistendo: - Non
sei
solo. Hai tuo figlio, ti vuole bene.-
Seguì
il movimento
delle sue mani che andavano a coprire il viso e gli sembrò
di aver ricevuto un
pugno nello stomaco quando tra le dita farfugliò: - Basta
una sua parola e
divento così. Sono… sono un debole. Ho un figlio
che ha bisogno di me e sono
qui a farmi del male con dei pensieri che...-
Allungò
un braccio e
sfiorò il polso più vicino. Lo avvolse con le
dita per fargli spostare il palmo
dal viso e con cautela sussurrò: - Jaan.-
Sfregò
il pollice lungo
il suo polso dove riusciva a percepire perfettamente le pulsazioni e
ignorò la
scossa del capo di Liam che doveva essere la sua richiesta a smetterla.
La
enunciò l’attimo dopo con i farfugli: - Non
dovresti essere qui. Crisse. Tu non
dovresti essere a Toronto, Zayn. Ti aspettava un futuro splendido.
Avevi il tuo
sogno a portata di mano. Stavi vivendo il tuo sogno. E hai rinunciato a
tutto.
Stai perdendo il tuo tempo qui e lo sai.-
-
Non sto perdendo
tempo.- pronunciò con un tono cauto e la mano stretta alla
sua, prese un
respiro e continuò: - Non ho rinunciato al mio sogno. Sono
tornato perché mi
mancava la mia famiglia. E non mi piace vederti così. Vorrei
fare qualcosa.-
Restò
immobile di
fronte allo sguardo scrutatore di Liam, lasciandogli il tempo di
tradurre
quelle confessioni e decidere dove portarli. Inarcò un
sopracciglio quando un
debole sorriso comparve sulle sue labbra e sollevò il capo
per seguire quel che
il suo indice stava puntando.
-
Sai cosa mi farebbe
stare bene?- Scosse il capo con confusione e riportò gli
occhi sul viso di
Liam, tentando di capire qualcosa della sua espressione enigmatica in
quella
penombra. Si aggrappò alla sua caviglia quando si
alzò in piedi sul ramo,
preoccupato di quel che voleva combinare senza il fattore importante
della
luce, e lo lasciò andare per paura di peggiorare la
situazione. Liam stava già
seduto sul ramo più in alto e faceva ciondolare i piedi
sopra la testa di Zayn
con un sorriso bianco.
-
Sai cosa mi farebbe stare
bene?- lo ripeté ancora una volta e Zayn si alzò
in piedi per aggrapparsi con
le braccia al ramo sopra di lui, ricordandosi gli anni
d’infanzia mentre
rispondeva: - Chi raggiunge la cima è il vero difensore
della quercia.-
Il
silenzio si riempì
della loro risata e poi Zayn fissò sconvolto Liam che si
aggrappava al ramo
ancora più in alto per procedere con la scalata.
-
Hai il completo
elegante!-
Era
una fortuna che si
stesse tenendo in equilibrio con le mani sul ramo perché
l’attimo dopo avergli
fatto quel rimprovero Liam si era lasciato cadere a testa in
giù, tenendosi
aggrappato come una scimmia con le gambe. Scosse il capo con un sorriso
quando
i suoi polpastrelli ruvidi gli sfiorarono la guancia e restò
perfettamente
immobile quando il suo respiro gli accarezzò la bocca,
rispondendo con un
grugnito alla provocazione nascosta nel suo “Dovrebbe
importarmi?”.
///
La
curvatura ironica
sulle labbra piene. La lingua le umettava una sola volta e poi tornava
veloce a
nascondersi dietro una barriera di denti bianchi. Le palpebre calavano
con un
movimento lento, le ciglia carezzavano gli zigomi appuntiti. Una mano
entrava
nel raggio visivo per bloccare il fascio di luce che lo infastidiva, le
pagliuzze dorate annegate nel nocciola scintillavano con la risata.
Liam
poteva ripetere le
azioni catturate in quel video di un minuto scarso senza guardare lo
schermo.
Fece scorrere con l’indice i protagonisti del filmato
all’origine e si accorse
tardi di aver strappato un angolo della bustina di zucchero e averne
versato
già per metà il contenuto nella tazzina di
caffè. Borbottò tra sé e sé
mentre
la riponeva sul piattino e tentò di togliere la sostanza
dolciastra dal fondo
usando il cucchiaino. Lo sorseggiò a occhi chiusi per essere
concentrato nel
valutare la differenza di sapore dai caffè amari che era
abituato ad assumere
in ufficio. Annuì due volte e con il mignolo fece ripartire
il video.
La
vecchia automobile
inquadrata di sbieco. Un insieme di colori confusi per il movimento
veloce. Il
sorriso di Zayn. “Aggiornamento dal progetto
ambizioso. Bessy ha borbottato,
sembra si stia riprendendo”. Lo schermo occupato
dall’automobile.
Inquadratura sul cemento. “Ohi, Max! Non toccare
quelle cose!”. Un
grugnito. “Tuo figlio è una peste”.
Passi sull’asfalto. Due volti premuti
uno accanto all’altro per stare nell’inquadratura
dello schermo. “Saluta il
papà”. L’indice del bambino
sollevato. La sua risata. L’insistenza
nell’indicarli sullo schermo. “Il tuo
papà lo guarderà a lavoro. Vuoi fargli
un saluto?”. Il lento oscillare della sua mano
piccola . Il suo sorriso
luminoso. “Torna presto, papà”.
-
Occupato?-
Sollevò
di scatto il
viso dallo schermo del cellulare e lo puntò sulla segretaria
che gli stava di
fronte con il vassoio del pranzo. Solo in quel momento il baccano della
caffetteria
del primo piano tornò prepotentemente a prendersi i suoi
spazi. Sollevò un
braccio e indicò il posto libero, molto meglio che il tavolo
venisse occupato
da dipendenti che dal padre. Abbassò gli occhi sullo schermo
ancora illuminato
in quell’ultima inquadratura – le mani del bambino
aggrappate al braccio di
Zayn, la sua bocca aperta in una risata che non era stata catturata in
tempo
dal video.
-
Quindi è vero che ha
un figlio?-
Portò
di nuovo gli
occhi sulla giovane che gli stava seduta di fronte, con forchettate
decise
stava infilzando foglie di insalata e fette di pomodoro. Non sembrava
essere
particolarmente interessata della risposta, tutta la sua concentrazione
stava
sulla quantità di cibo che riusciva a comprimere nella
dentatura della posata.
-
Le voci corrono in
ufficio?- domandò a sua volta in un tentativo di prendere
tempo e non fornirle
subito la risposta. Inarcò un sopracciglio quando le sue
labbra rosse si
schiusero in una risata e si spinse contro lo schienale della sedia per
non
essere nella traiettoria della sua forchetta che si sollevava per
indicarlo.
Non capiva cosa ci fosse di tanto ilare in ciò che aveva
domandato, solo i
segreti del padre erano al sicuro dai pettegolezzi lì
dentro. Era quello che
aveva più motivo di stare sulla bocca di tutti con la sua
relazione
extraconiugale in ufficio di cui tutti erano a conoscenza e una moglie
alcolizzata che finiva sui giornali di gossip per le sue
“scappatelle” in isole
tropicali. Lui era solo l’anonimo figlio di due cicloni che
non avrebbero mai
dovuto fondersi.
-
Ho fatto solo qualche
ricerca.-
Lo
disse con tanto di
occhiolino. Liam continuò a fissarla confuso mentre lei
prendeva nuove
forchettate della sua insalata, si puliva la bocca con il tovagliolo di
carta e
si sporgeva in avanti come se fosse in procinto di rivelare un segreto.
-
Volevo capire perché
fosse tanto interessato ad un’assistente sociale. Per quale
motivo doveva
anticipare suo padre. Le magie di Internet. Non si può
nascondere più nulla nel
ventunesimo secolo.-
Spostò
gli occhi dai
suoi celesti allo schermo nero del telefono, riportò lo
sguardo nel suo e
sospirò. Sfregò un palmo contro la guancia, i
peli della barba corta pungevano
contro i polpastrelli. Dorothy era stata il portante della
società Payne, gli
era stata simpatica fin da bambino perché da quelle brutte
giornate in
compagnia del padre tornava a casa con una manciata di caramelle nella
tasca
del cappotto. Se lei si fidava di quella giovane che ora la sostituiva,
si
sarebbe fidato anche lui.
-
Ho avuto qualche discordanza
con mio padre. Non è nulla di importante e Maximilian non
c’entra.-
-
Maximilian.- Un
movimento del capo di Liam per indicarle la corretta pronuncia. - Ha
scelto di
proposito un nome così altisonante? Maximilian Payne. Non le
dà subito
l’immagine di un baronetto?-
Tre
rughe apparirono
sulla fronte, le labbra si arricciarono appena e borbottò: -
L’ha scelto sua
madre.
-
È sposato?-
Spostò
i palmi sotto il
tavolo per celare le dita all’occhiata indagatrice della
segretaria,
probabilmente alla ricerca di una fede o di un qualsiasi tipo di anello.
“Non
raccontare mai
la verità a una sola persona. La userà contro di
te. Devi mentire sempre,
figliolo.”
Una
mano si aggrappò
con forza alla sua simile dove stavano al sicuro posate sulle gambe.
Lei lo
fissava in attesa, un guizzo impercettibile sulle labbra e sulle dita
che si
strinsero solo per un secondo con più forza alla posata.
-
Quelle sono
informazioni personali.- stabilì con una cadenza monotona e
perse un istante la
corazza quando lo schermo del cellulare riprese vita con
l’arrivo di un nuovo
messaggio. Si alzò in piedi e tenne il cellulare saldo nella
mano, unico
appiglio in quella stanza tetra. - Ci vediamo in ufficio, signorina
Edwards.
Buon pranzo.-
Si
sentì al riparo solo
una volta le porte metalliche dell’ascensore si chiusero
davanti a lui, si
appoggiò con la schiena a una parete e sospirò.
Con un movimento del polso
voltò il telefono per illuminare lo schermo.
«
Dovrai spiegarmi per
quale motivo tieni tanto a questa carcassa, jaan »
Spinse
la nuca contro
lo specchio e abbassò lo sguardo sulla moquette blu che
rivestiva quei sei
metri quadrati dell’ascensore. Le palpebre calavano e dietro
di esse il ricordo
scorreva.
“Questo
è il tuo
posto segreto?”. Un breve cenno del capo per non
parlare, le braccia
strette attorno alle gambe e il mento posato tra le ginocchia.
“È strano”.
Un movimento veloce per allontanarsi dal suo braccio teso, il respiro
che si
bloccava con un groppo nella gola quando la schiena cozzò
contro la portiera.
Non aveva vie di scampo. Non sarebbe riuscito a sollevare in fretta la
mano per
aggrapparsi alla portiera. Era persino la portiera difettata, non
avrebbe avuto
la forza di aprirla. “Ti stanno cercando ovunque,
sai?”. Le dita che
premeva contro il tappetino della vecchia automobile, il labbro
inferiore
tremante e gli occhi supplicanti che puntava sul bambino inginocchiato
poco
distante da lui. “Posso andare via e lasciarti qui
solo ma sai quanto sono
alte le probabilità che ti scovino lo stesso? Molto, molto
alte. Troverebbero
te e il tuo posto segreto. Allora dovrai cercare all’infinito
un nuovo posto
segreto la prossima volta. Se invece vieni con me possiamo inventare
una bugia
e conoscerò solo io il tuo posto segreto”.
Il sopracciglio tendeva verso
l’alto mentre valutava la proposta del bambino che stava
accovacciato come lui,
incastrato nello spazio libero tra i sedili anteriori e posteriori. La
sua
piccola mano aperta, le dita che tendevano verso di lui in un invito a
seguirlo. “Mia mamma fa i biscotti migliori
dell’intera galassia. Non hai
mai provato cibo
alieno? Quello è tutto
verde e poltiglia”. La risata che era suonata con
leggerezza al verso di
disgusto del coetaneo. “Li aveva fatti solo per me,
ma posso cederne
qualcuno a un amico. Sono Zayn”. La mano che
chiudeva attorno alla sua. “Liam
James Payne” recitato con chiarezza come a ogni
presentazione. “Ti
chiamerò solo Liam. Ora andiamo via da questo ferro vecchio
prima che qualcuno
ci scopra”. Solo dopo aver dato due morsi al
biscotto si decise a
confessare: “Si chiama Bessy e quando si
sveglierà me ne andrò via con lei”.
Una pausa di silenzio mentre entrambi sgranocchiavano il loro biscotto.
“Può
volare? Se hai bisogno di un pilota, Liam, posso aiutarti. Possiamo
volare su
tutte le galassie e combattere contro gli alieni”.
///
Era
il 25 di novembre.
Un mese esatto all’arrivo del natale. Lo dimostravano tutte
le decorazioni che
come ogni anno venivano sistemate con cura dentro e fuori dalla villa.
La festa
di natale dei Payne era un evento imperdibile per l’alta
società canadese. A
riceverne l’invito non si doveva solo far parte di un certo
rango sociale,
bensì di rappresentare un gruppo di persone prescelte a
guidare la città di
Toronto sotto l’aspetto economico, finanziario, politico e di
intrattenimento –
cantanti, attori e presentatori TV erano sempre benvoluti. In quei
saloni
durante la vigilia di natale si sarebbe trovata
l’élite di Toronto. Tutto
doveva quindi essere perfetto, la signora Payne era intransigente sugli
addobbi. Doveva passare ogni particolare sotto la sua supervisione, le
piaceva
controllare i preparativi e si divertiva a gridare ordini contro il
personale
che non la comprendeva quando chiedeva “eleganza,
non pacchianata”.
Era
riuscito a
scamparla quell’anno Zayn. O almeno, l’assenza
provvisoria della signora Payne
gli aveva dato modo di ignorare i preparativi per la festa
dell’anno e
concentrarsi sulla vecchia automobile che aveva spostato in garage per
ripararla dal gelo. Come ogni giorno da quando aveva preso in mano i
lavori di
recupero di quel rottame se ne stava sdraiato sul carrello, le dita che
passava
sul telaio e sui vari bulloni che aveva già avvitato,
svitato e avvitato in un
ciclo continuo. Era ormai una questione di principio. Aveva promesso a
Liam di
svegliare Bessy e ce l’avrebbe fatta.
-
Zeeen.-
Poggiò
le mani
sull’asfalto per darsi la spinta e sgusciare da sotto la
vettura, fissò dal
basso il bambino che l’aveva chiamato a gran voce e si mise
seduto sul
carrello, recuperando uno strofinaccio sporco di grasso e olio per
pulirsi in
qualche modo le mani.
-
Dimmi, capitano.-
Le
labbra del bambino
assunsero una piega soddisfatta quando si sentì definire di
nuovo in quel modo,
si piegò sulle gambe corte e quasi si sbilanciò
in avanti per fissare sotto la
vettura con un’espressione seria. Zayn si sforzò a
non ridere della scrupolosa
osservazione, del cenno del capo e del serioso “Non
vuole svegliarsi, eh?”.
Scosse la testa una sola volta e sfregò le dita contro la
guancia e la bocca
per bloccare la risata per come quel bambino di quasi cinque anni si
stava
comportando.
-
Bessy è una pigrona.-
ribadì Zayn con un tono confidenziale, rivolse il palmo
all’insù e aspettò le
sue dita sottili si stringessero alle proprie, facendogli compiere quei
pochi
passi che li dividevano per osservare il suo viso da vicino.
Ripulì la sua
guancia dalla crema con il pollice e lo fissò con
serietà, vedendo la
colpevolezza apparire chiara nei suoi occhi scuri. Aveva ereditato da
suo padre
il vizio di infiltrarsi in cucina per mettere le mani nel barattolo di
crema alla
nocciola, ne era certo. Anche se a sua volta Liam l’aveva
imparato da lui, un
particolare non importante.
-
Posso aiutarti a
svegliare Bessy?-
Non
s’impegnò per
rifiutare quella richiesta, presto o tardi avrebbe ceduto ai suoi
occhioni
marroni. Era incredibile la somiglianza del taglio degli occhi. Erano
gli
stessi di Liam, che li aveva a sua volta ereditati da sua madre.
Recuperò il
vecchio skateboard dallo scaffale più in basso e lo
poggiò a terra accanto al
carrello, indicandolo al bambino che si sdraiò come gli
aveva visto fare
spesso. Aveva imitato persino il gesto di passare le mani sui
pantaloni.
Sorrise di fronte a quella scena, commosso per come sembrava essersi
affezionato a lui. Non voleva sostituire il padre che aveva ma
ricordava con
una punta d’orgoglio quel che gli aveva confessato giorni
prima – “Da grande
voglio essere come te, Zen”.
Non
riusciva a
pronunciare alla perfezione il suo nome quindi ne aveva inventata una
variante
tutta sua. Forse era una particolarità anche quella
ereditata da Liam perché
ricordava bene quanto impegno ci avesse messo tanti anni prima ad avere
la
giusta pronuncia. Avevano passato intere giornate seduti sul ramo della
quercia
mentre Liam insisteva sul voler pronunciare quel nome strano alla
perfezione.
Non riusciva a quantificare quale tra i due atteggiamenti fosse il
più tenero:
l’impegno ossessivo di Liam a trovare la corretta pronuncia o
il nomignolo che
Max gli aveva incollato addosso. Era certo però, di poter
impazzire dalla
felicità all’idea di aver ottenuto la totale
fiducia di quel bambino che con
tutti gli altri buttava fuori solo due parole scarse. Faticava persino
a
parlare con Liam, ma Zayn lo notava come s’incupiva di
tristezza nel vederlo
salire in macchina e come si rallegrava non appena la vettura nera
compariva
nel viale. Non parlava con Liam solo perché non aveva tempo
di farlo e Zayn
stesso stava cercando un momento per parlargliene. Era costantemente in
ufficio
e quando rientrava a casa la nuvola grigia sopra di lui era evidente.
-
Oggi sarai il mio
assistente, Max.- pronunciò con serietà, prese
posto sul carrello e scivolò
sotto la vettura, accompagnando lo skate con una mano stretta alla sua
estremità. - Vedi questi bulloni? Dovrebbero essere loro il
problema. Li
stringiamo ancora un poco e vediamo che succede. Passami quello
strumento che
hai lì accanto.-
Curvò
le labbra in un
sorriso fiero quando tra le mani comparve lo strumento corretto e
rivolse una
breve occhiata al bambino che teneva lo sguardo concentrato sui bulloni
che
avrebbe dovuto stringere.
-
Se noi svegliamo
Bessy - il tono cauto scelto dal bambino lo fece bloccare e rivolgergli
tutte
le attenzioni - poi papà è felice?-
-
Quando Bessy si
riprenderà per merito nostro tuo papà
sarà molto felice. Sarà una bella
sorpresa per lui.-
Zayn
era così preso ad
avvitare bulloni da non essersi accorto del silenzio del bambino che lo
fissava
con ostinatezza. La stessa che usò per domandare: -
Papà riesce a essere
felice?-
-
Certo!- esclamò di
getto Zayn, voltò il viso di lato per osservare il piccolo e
notò il suo labbro
inferiore sporgersi con la smorfia di disappunto. - Tuo papà
è molto impegnato
a lavoro, per questo è sempre tanto serio.-
-
È così da quando ci
sono io.-
Strabuzzò
gli occhi per
come era suonato serio e impassibile un bambino così piccolo
e posò la chiave
inglese a terra, facendoli poi muovere sulle rotelle per uscire da
sotto la
macchina.
-
Non è così, Max.-
pronunciò con serietà dopo averlo fatto sedere
sullo skate, sfregò una mano tra
i ciuffi biondi e grugnì quando gli si presentò
di fronte agli occhi con
chiarezza un ricordo.
“Lei
non mi sopporta”
“È
impossibile,
Liam. È tua mamma!”
“Mi
odia proprio
perché sono suo figlio. Ha detto che se non fosse stato per
me lei sarebbe
felice. Vuol dire che io la rendo triste. Quindi mi odia”
“Liam”
“Mio
padre ha detto
che sono pazzo come lei”
“Ancora
ascolti le
stronzate che dice?”
“Ha
detto che non si
sarebbero sposati, se non fosse stato per me. Sono un loro errore, ha
detto”
“Li--
… Jaan”
“Cosa
vuol dire?
Quella cosa che hai detto. Jaan?”
“Vuol
dire che
finché ci sono io, finché ti chiamo
così, tu non sei solo”
-
Ascoltami bene,
Maximilian.- Sollevò persino l’indice come era
solito fare con Liam durante una
delle tante lezioni sulle stelle e le galassie. Spinse quel dito contro
il suo
pancino per farlo ridere e osservò con sollievo le sue
labbra curvarsi verso
l’alto con una risata spensierata. - Tuo papà,
come certi adulti noiosi, è
molto impegnato con il suo lavoro e crede che mostrando il suo bel
sorriso
possa succedere una catastrofe. Con tanto di draghi e orchi.-
-
Il mio papà non è
noioso.-
Sollevò
le braccia al
tono difensivo del bambino e scoppiò in una risata quando fu
lui a tentare di
fargli il solletico mentre lo incitava a rimangiarsi le brutte parole
sul
genitore.
-
Il mio papà è il più
forte di tutti.-
-
Come Superman, lo so.
Tutti sanno quella storia, Max.-
Passò
le dita tra i
suoi ricci con una risata e lo avvolse in una presa debole con un
braccio
attorno alle spalle.
-
Lui non ha paura né
dei draghi né degli orchi. Li mangia a merenda.- insistette
il bambino dopo
essere stato liberato, le mani sui fianchi e il petto che gonfiava per
mostrarsi più grande della sua età. - Il mio
papà è un eroe coraggioso. È solo
triste perché… perché gli manca
qualcuno. Anch’io sono triste quando penso alla
mia mamma.-
-
La tua mamma è sempre
con te, Max.- pronunciò di getto quando vide le sue labbra
tendere in un
broncio. Posò una mano sulla sua spalla e guardandolo negli
occhi aggiunse: -
Tutti noi ti vogliamo un gran bene. Non dimenticarlo mai.-
///
I
fiocchi di neve
danzavano fuori dalla vetrata, la luce faticava a bucare le nuvole
bianche e
preannunciava con quell’atmosfera il natale ormai vicino. La
prima settimana di
dicembre era volata, poi di colpo il tempo si era arrestato. A Liam
pareva
assurdo essere ancora fermo al martedì. Odiava stare chiuso
in ufficio in quei
giorni. Il ritorno della madre pesava sulla testa come la lama della
ghigliottina, pronta a scivolare in un colpo letale. Suo padre
insisteva con le
manie di complotti per distruggere il nome della famiglia messi in atto
da un
bambino. Suddetto bambino, suo figlio, stava abbandonando il
comportamento
avuto dal suo arrivo e si stava aprendo con i domestici. Non era un
problema di
distinzioni sociali, come invece suo padre sosteneva, quanto
più il desiderio
di conoscere lui stesso il figlio appena incontrato. Partivano in netto
svantaggio, avendo perso i primi anni importanti della sua vita, e ora
dovevano
coesistere come estranei e famiglia. Era una situazione paradossale.
Tutti
attorno a lui conoscevano suo figlio, avevano già coniato un
modo di scherzare
con lui. Per Liam invece restava un estraneo… suo figlio, un
estraneo.
Ai
due colpi decisi
alla porta si girò con la poltrona, distogliendo lo sguardo
dalla vetrata e
dalla bufera chiusa fuori dall’ufficio. Il caschetto biondo
della segretaria
spuntava dalla porta di vetro tenuta aperta dal suo fianco premuto
contro di
essa. Le fece cenno di avvicinarsi con un movimento della mano e
unì i palmi
sopra la scrivania in una posizione di attesa e concentrazione.
-
Devo parlarle di una
situazione critica e importante.-
-
Hai bisogno di
qualche giorno di ferie per le vacanze? Sai che non posso darteli.
Siamo pieni
di lavoro in questo periodo e con i ritardi delle spedizioni...-
Si
interruppe quando
vide le sue braccia sollevarsi e le sue mani muoversi con scatti,
inarcò un
sopracciglio e spinse gli occhiali con il medio più su lungo
il naso,
sfregandolo nella ridiscesa verso la punta.
-
È una questione
delicata e...- un sospiro, la porta che si chiudeva alle spalle dopo
aver
scrutato il corridoio e i suoi passi veloci che la portavano vicino
alla
scrivania - … non so come potrebbe prendere queste
informazioni che ho
raccolto.-
Liam
rivolse un palmo
verso l’alto per indicarle con le dita le due poltroncine
davanti alla
scrivania e unì poi le mani sotto il mento, scrutando le sue
mosse e il nervoso
spostare le ciocche bionde dietro l’orecchio.
-
Come le ho già detto
sono curiosa.- La invitò a procedere con un verso modulato
nella gola, grattò
con l’unghia del pollice il labbro inferiore e
piegò appena il viso su un lato
al cambio di tonalità e al suo improvviso difendersi con il
seguito del
discorso.
La
chiamò dapprima con
il cognome per interrompere quella serie di parole confuse sul poter
finire nei
guai, su quanto fosse meglio stare in silenzio e lasciare che venisse
allo
scoperto da solo. Non funzionò per calmarla. Si
alzò in piedi per sovrastarla
con l’altezza e poi sollevò il tono di voce per
pronunciare: - Perrie, non ti
licenzierò per questo!-
-
Come posso esserne
certa?-
Arrivò
in fretta la
risposta della giovane che sistemava i pantaloni neri del completo da
pieghe
inesistenti. Liam sprofondò nella poltrona a quella domanda,
poggiò la nuca
contro il rivestimento in pelle e allargò poi le braccia con
un sospiro. Non
c’era nulla che potesse dire per convincerla e costringerla
di conseguenza a
parlare.
-
Se dovesse riguardare
suo padre?-
-
Mio padre?- domandò
di getto con le tre rughe di famiglia sulla fronte, sfregò
le dita contro di
esse per distenderle e insistette: - Cos’avrebbe fatto mio
padre di grave?
Tanto da preoccuparti di un licenziamento.-
Al
silenzio che seguì
quella richiesta portò le dita alle tempie per apportare
pressione e rilassare
i nervi. Solo citare uno dei genitori metteva in moto una
concatenazione di
pensieri e preoccupazioni che generavano un’emicrania. Si era
illuso quella
mattina di avere davanti una noiosa giornata d’ufficio, non
certo di scontrarsi
ancora con il padre.
-
Come potrai aver
notato in questi mesi non sono il capo che licenzia dopo un errore.- si
decise
a prendere il discorso da quel lato quando il suo silenzio si protrasse
ancora.
Tamburellò le dita di una mano contro il tavolo mentre con
l’altra muoveva la
penna su fogli bianchi in scarabocchi. Spinse per tre volte la punta
della biro
contro un angolo del foglio, sollevò gli occhi in quelli
azzurri della giovane
e con le sopracciglia corrugate sussurrò: - Non ho nemmeno
un buon rapporto con
mio padre, credevo si fosse intuito.-
Lasciò
che si prendesse
il suo tempo per valutare quelle parole di convincimento e
posò la penna contro
la scrivania quando lei si schiarì la voce per preparare un
discorso serio e
articolato.
-
Non sono stata
assunta per spulciare nella parte finanziaria di
quest’impresa ma ho
frequentato… non è importante. Mi sono
incuriosita. Diciamo proprio che mi
mancava gettarmi su investimenti e guadagni.-
Le
sue dita che
andavano a stringersi, il guizzo che aveva attraversato le labbra rosse
e la
scossa breve del capo erano segni di quanto si stesse sforzando per
procedere
nel discorso e non lasciarsi fermare dal nervosismo.
Le
andò incontro per
aiutarla e domandò: - Hai scoperto qualcosa che vuoi dirmi?-
Il
suo cenno del capo,
la sicurezza nascosta in quel gesto e la fierezza
nell’azzurro dei suoi occhi.
Le sue labbra che si schiusero in una lapidaria affermazione.
-
È stato aperto un
conto privato a nome di suo padre. È aperto da
più di ventisei anni ma
nell’ultimo periodo ha iniziato a trasferire più
soldi. Se non agisce con più
cautela attirerà attenzioni che metterebbe tutta
l’impresa nei guai. Ci finirei
di mezzo io, lei… gente che lavora per questa famiglia da
anni. Penso sia
meglio per lei che inizi a informarsi su quello che sta mettendo in
atto suo
padre. Può non andare d’accordo con lui ma in un
eventuale processo ci andrà di
mezzo.-
///
La
schiena ricurva, i
gomiti contro il bancone e i pugni premuti contro le guance per
sostenere il
viso. Zayn stava seduto sullo sgabello e stava osservando il bambino
mentre
faceva merenda. Inzuppava biscotti nel bicchiere di latte e ne stava
accumulando sul fondo un’ingente quantità.
Aspettava troppi minuti a portarli
alla bocca e gli si spezzava a metà sotto il peso della
parte imbevuta di
latte. Il bancone era pieno di briciole e latte che con
l’impatto fuoriusciva
dal bicchiere. Gli ricordava anche in quel caso Liam, aveva
l’abitudine di
inzuppare il biscotto fino a toccare con le dita il latte e poi
parlare,
parlava troppo, prima di mangiarlo. Era certo persino sua madre stesse
pensando
al padroncino di casa ormai cresciuto, aveva una curvatura nostalgica
sulle
labbra.
Un
attimo e poi aveva
spostato l’attenzione dal bambino a lui. Ora sulla fronte
appariva una profonda
ruga, gli occhi socchiusi mentre lo studiava in silenzio alla ricerca
di chissà
quale informazione.
-
Non voglio che tu ti
faccia ancora del male, beta.-
Aggrottò
la fronte in
un misto di confusione e comprensione. Sapeva a cosa si riferiva la
madre; era
stata lei a tenere una fitta corrispondenza negli anni in Pakistan e
ricordava
bene quanto dolore impregnasse i fogli dei primi mesi lontano da casa,
dalla
famiglia e da Liam. Distolse lo sguardo in un gesto di colpevolezza e
incrociò
le braccia sul bancone per riuscire a chiudersi a riccio e nascondersi
all’osservazione continua della madre. Cosa voleva che
ammettesse? Che non gli
era mai passata l’infatuazione giovanile per Liam? Che Liam
ricambiava i suoi
sentimenti? Che ancora una volta nessuno dei due aveva il coraggio di
causare
problemi all’altro? Che stava giocando al
genitore con quel bambino e
gli stava piacendo come ruolo? A ognuna di quelle domande sarebbe
seguita una
risposta affermativa. Ricordava ancora quel che gli aveva scritto in
una delle
tante lettere di incoraggiamento, la leggeva ogni sera prima di
addormentarsi e
ormai poteva ricopiarla persino nella sua grafia –
“Devi imparare ad amare e
lasciar andare, beta. Se vuoi davvero così bene a quel
ragazzo devi essere
qualcosa che lo faccia sentire libero, non un peso che lo tenga
bloccato”.
E
lui voleva essere
quella leggerezza nella vita di Liam, come diceva sua madre. Era il suo
migliore amico, prima di ogni altra cosa. L’unico peso che
bloccava Liam era il
giudizio della sua famiglia e lui stesso. Zayn desiderava solo saperlo
felice,
null’altro.
-
Sei malato, Zen?-
Sollevò
il viso di
colpo quando sentì nella voce del bambino tutta la
preoccupazione, il passato,
l’orrore. Negò veloce con un movimento del capo e
distese un braccio sul
bancone per chiudere la sua mano piccola nel palmo.
-
Sto bene, Max. Mamma
è solo preoccupata perché fuori fa freddo.-
Osservò
la smorfia
corrucciata apparire sul suo viso tondo e sfregò le dita
contro la bocca per
nascondere il divertimento al suo gonfiare il petto e ribadire con
fermezza
“Bessy doveva svegliarsi, così papà
è felice”.
-
Io non credo una
macchina...-
-
Patricia.-
Si
voltarono tutti e
tre nella direzione della voce profonda di Yaser. Con il gesto del suo
braccio
stava indicando Liam fermo sulla soglia con un sorriso imbarazzato e
cordiale
sulle labbra. Seguì la spiegazione “Abbiamo delle
visite oggi” e la fretta del
bambino di scendere dallo sgabello per correre tra le braccia aperte di
Liam.
Zayn
evitò di spostare
lo sguardo da quella scena, sicuro di avere addosso la preoccupazione
dei
genitori. Si concentrò al contrario sulle braccia sottili
del bambino che
andavano a cingere le spalle strette in un cappotto invernale, sulle
spiegazioni minuziose dei progressi fatti con la macchina e di essere
pronti
per un collaudo in città.
-
Devi chiederlo a lui
se vuole venire.-
Inarcò
un sopracciglio
quando comprese quell’unica frase tra i loro farfugli e
spostò gli occhi da
Liam al bambino che dopo uno sbuffo infantile cantilenò: -
Puoi venire con noi,
Zen? Per favooore.-
Trattenne
il respiro e
qualsiasi altro verso con l’interno delle guance stretto tra
i denti. Si lasciò
sfuggire un soffio di risata per come entrambi stavano facendo buon uso
dei
loro occhioni e si coprì con un palmo il viso
all’incalzare di Liam – “Per
favore, Zen. Vieni con noi”.
Il
suo palmo rivolto
verso l’alto, il braccio teso come se stesse aspettando Zayn
unisse le loro
mani. Poi tutta la sincerità che traboccava dai suoi occhi.
Tutto quell’affetto
che senza paura rivelava.
Scosse
il capo al colpo
di tosse che proveniva dalle proprie spalle, si voltò verso
la madre per
risponderle che non doveva temere nulla ed era consapevole di ogni
rischio.
Venne anticipato da Liam che coprendo le lamentele di Max propose: -
Possiamo
andare quando sei libero, se hai qualcosa da fare qui. Possiamo
aspettare.-
Continuò
a dargli le
spalle per comunicare con la madre e farle capire con pochi sguardi che
non
avrebbe rinunciato a quel momento. Capì dalla sua postura la
resa e le andò
incontro per stringerla in un abbraccio veloce e premere un bacio
contro la sua
guancia.
-
Possiamo andare,
Liam.- stabilì mentre recuperava dall'appendiabito tutto il
necessario per
uscire in un pomeriggio che prometteva bufera; sciarpa, cappello e
giacca
pesante, sue e di Max. Avevano incastrato nella lana ancora qualche
fiocco di
neve di quelli che erano caduti loro addosso mentre correvano dalla
macchina
alla cucina.
-
Sei sicuro?- Rispose
con un cenno del capo e un verso, più concentrato sul
bambino che si agitava e
rendeva impossibile l’infilargli le maniche della giacca. -
Possiamo rimandare se
hai impegni. Possiamo anche aiutarti.-
Aveva
appena calato il
cappello di lana fino a coprire gli occhi di Max ed era pronto a
rispondergli
che non c’era impegno più importante
dell’uscire con loro due ma fu più veloce
la madre a dire: - Non si preoccupi, signor Payne.-
Vide
le guance di Liam
colorarsi di rosso, i suoi occhi strabuzzarsi e tre rughe scavare la
sua
fronte. Era la prima volta che Trisha si rivolgeva a lui con quel
termine
distaccato.
-
Vogliamo andare,
signor Payne? Sarò il tuo autista privato oggi.-
scherzò per togliere
l’espressione confusa dal suo viso e fece ondeggiare le
chiavi dell’automobile,
tenendo le dita strette attorno al ciondolo che gli aveva regalato anni
prima.
Incredibile quanti oggetti stesse ancora conservando legati al loro
passato. Passò
una mano sul cappello di lana del bambino che rideva mentre ripeteva
“Signor
Payne” e accompagnò con una mano alla base della
schiena Liam verso l’uscita,
salutando con un movimento delle dita libere i genitori che li
fissavano. Non
voleva voltarsi per scoprire la delusione o chissà che altro
sui loro volti.
-
Ti porterò su tutte
le galassie come ti ho promesso, jaan.-
Lo
sussurrò contro il
suo orecchio, premendosi un istante con il petto contro la sua schiena.
Percepì
in quel modo tutti i passaggi che attraversò con il corpo,
dalla sorpresa
rigida allo sciogliersi con un sospiro contro di lui.
///
Liam
aveva organizzato
quella giornata in modo perfetto; prima si sarebbero occupati di
riempire il
guardaroba di Maximilian con indumenti appropriati,
dopodiché sarebbero passati
alla parte divertente. Era giusto in quel modo, o forse era
l’imminente ritorno
della madre a farlo ragionare così. Tuttavia era certo di
dover comprargli
almeno un abito da cerimonia, qualcosa di elegante, perché
la festa di Natale
era un evento che non poteva fargli perdere se voleva presentarlo come
suo
figlio ed erede Payne. La prima presentazione era fondamentale, su
quello
avevano ragione i genitori. Doveva essere impeccabile.
-
È solo un bambino,
Liam.-
Prese
un respiro per
non ribattere di getto che lui non poteva capire quanto fosse
importante per
tutti loro che lo vedessero come un Payne. Non voleva offendere Zayn e
rinfacciargli che provenivano da due classi sociali ben diverse.
Tornò a
rivolgersi alla commessa per descriverle al meglio ciò che
desiderava e la
seguì con lo sguardo mentre si allontanava con il bambino
imbronciato per mano.
Aveva faticato a convincerlo a staccarsi da Zayn, cui stava aggrappato
con
l’altra mano mentre faceva capricci perché voleva
tornare alla vetrina del
negozio di fronte. In esposizione avevano una pista circolare su cui si
muoveva
un treno a vagoni.
-
Stai facendo
esattamente quello di cui ti lamentavi dei tuoi genitori.-
Sfregò
le dita contro
la fronte per distendere le rughe e puntò testardo gli occhi
verso la commessa
che stava piegata sulle gambe per spiegare al bambino cosa indossare.
Sentì
Zayn ridere sommessamente al “No!” secco di Max e
si coprì il viso con un palmo
quando vide i suoi capricci mutare in un rigido voto a non cambiare
idea
neppure con le opere di convincimento messe in atto dalla commessa e da
un
cesto di caramelle.
-
Non puoi convincerlo
tu? A te dà retta.-
-
Jaan.- Un sospiro
pesante, le sue dita che scorrevano nel biondo scolorito. - Non lo
convincerà
nessuno. Sai perché?-
Scosse
il capo con la
fronte aggrottata mentre incrociava il suo sguardo e
increspò ancora di più le
sopracciglia al suo stringersi nelle spalle e spiegare: - Lui era
convinto
avessi preso una pausa dal lavoro per stare con lui. Non per fare cose
da
adulti con lui.-
-
Scegliere un completo
per la festa non è una cosa da adulti. Non posso farlo
apparire in mezzo a
tutti quegli uomini e quelle donne sofisticate con la maglia di Batman.
Sai che
a me non importa un accidente di com’è vestito.
Per altri non sarà così.-
-
Non è un piccolo
adulto, è un bambino. Questo per lui è la cosa
più noiosa e brutta cui potessi
sottoporlo.-
Liam
spostò gli occhi
sulla commessa che ancora cercava di comunicare con il bambino e
notò subito
l’espressione sul viso minuto che prometteva uno scoppio di
pianto. La
riconosceva perché era la stessa che aveva lui quando veniva
trascinato e
abbandonato in quei negozi per ore con i rimproveri a non fare scenate.
Ricordava fin troppo bene quelle dita che lo toccavano e la voce che
con
acidità e sarcasmo commentava “Te
l’avevo detto di non esagerare con quei
biscotti. Hai troppa ciccia e ora dobbiamo allargare tutti i tuoi
vestiti”.
-
Non sono come i miei
genitori.- stabilì con un tono fermo e un velo di
lucidità a rivestire gli
occhi.
-
Posso fare un
tentativo, se ci tieni. Non in questo negozio.-
///
Zayn
stava iniziando a
innervosirsi. Ogni indumento che tentava di prendere dagli scaffali del
negozio
riceveva un commento negativo da parte di quello che lo seguiva con il
figlio
per mano. In macchina gli aveva promesso di lasciargli carta bianca su
tutto e
appena aveva adocchiato un maglione carino con una renna gigante
l’aveva
sentito chiaramente sbuffare e commentare il capo con un
“ridicolo” che aveva riciclato
per qualsiasi altra cosa. Non gli dava nemmeno la
possibilità di osservarlo
meglio, era costretto a superare quegli scaffali perché il
suo giudizio non lo
faceva fermare. Si era impuntato su una maglia nera a maniche lunghe
che gli
pareva comoda, non l’aveva neppure visto il teschio di
Punisher. Un particolare
che a Liam non era sfuggito perché l’aveva sentito
ridere e sbuffare annoiato
assieme.
-
Ora spiegami cosa c’è
di male in questa maglia.-
Si
voltò persino per
affrontarlo e incrociò le braccia al petto, dimostrandogli
in quel modo che non
avrebbero proseguito di un centimetro da lì
finché non avesse espresso
quell’opinione che lo faceva sbuffare tanto.
-
Perché non gli fai
indossare anche una giacca di pelle? Così diventa la tua
copia degli anni
ribelli.-
Evitò
di soffermarsi su
come aveva calcato sull’aggettivo e con curiosità
ripeté: - Anni ribelli?-
Seguì
il movimento del
suo capo per affermare l’utilizzo di quel termine e
inarcò un sopracciglio al
suo spiegare: - Sì, quando avevi quattordici anni e mi
costringevi a
disubbidire ai miei genitori.-
-
Cosa?!- Rivolse
un’occhiata scocciata alla donna che si era fermata accanto a
loro e li aveva
fissati con disprezzo, guardò Liam che rideva con
spensieratezza e borbottò: -
Io non ti costringevo.-
-
Ero influenzato da
te.-
Roteò
gli occhi
all’affermazione scherzosa di Liam e sullo stesso tono
ribatté: - Eri sotto la
mia influenza, certo. Stavi sempre sotto di me. La mia giacca di pelle
ti
influenzava parecchio.-
Osservò
con una certa
soddisfazione le sue guance tingersi di un rosso acceso e
curvò le labbra in un
sorriso furbo, sporgendole per un attimo quando incrociò i
suoi occhi. La
risposta del suo corpo fu immediata: una risata nervosa e
“Non stavo parlando
di quello, idiota”.
Decise
di rischiare in
quel momento Zayn, di gettarsi nel momento. Tese un braccio verso di
lui, posò
la mano sulla sua spalla e fece risalire le dita lungo il collo e la
guancia,
carezzando la pelle calda. Modulò il tono di voce in modo da
nascondere nel “E
di cosa stavi parlando, jaan?” una sottospecie di seduzione
latente. Se Liam
fosse stato a suo agio avrebbe colto l’occasione al balzo
come lui, altrimenti
avrebbero lasciato cadere il tutto nel dimenticatoio.
Riuscirono
a
intrecciare i loro sguardi e sorridersi, poi uno schiarimento di voce
li
costrinse a separarsi.
-
Questo è vostro?-
La
domanda la pose il
buttafuori del negozio, un completo scuro ed elegante che gli conferiva
una
certa professionalità. Teneva una mano sulla spalla di Max
– o almeno quel che
sembrava essere Max. Aveva delle gonne di tulle vaporoso ferme attorno
alla
vita da un elastico, lunghi guanti neri in velluto sulle braccia e un
cappello
con tre piume che gli cadevano sul viso e lo solleticavano facendolo
ridere.
-
Non lo stavi tenendo
per mano tu?-
-
Evidentemente no, se
è riuscito a conciarsi in quel modo.-
L’uomo
in divisa li
fissava con un’espressione impassibile e Zayn si
ricordò di non avergli ancora
risposto. Gli venne istintivo allungare un braccio per stringere le
dita
attorno al polso del bambino e confermare con “Sì,
è nostro” quel che l’uomo
aveva domandato.
-
Dovete comprare tutto
quel che ha indossato.-
-
In realtà noi eravamo
venuti fin qui per un altro tipo di vestiario. Se gentilmente
può contattare il
direttore, noi...-
Se
la situazione non
fosse stata tanto seria Zayn si sarebbe messo a ridere per come Liam si
era
zittito al gesto della guardia, l’indice che spostava con
regolarità per tre
volte da destra verso sinistra.
-
Dovete comprare tutto
quel che indossa. Con il direttore siamo d’accordo
così.-
Non
riuscì a fermarla
la risata quando Max sgusciò dalla presa con le braccia
sollevate, un ringhio
nella gola e “Sono un dinosauro, papà!
Guardami!”.
///
Liam
chiuse il palmo
attorno alla manina, piegò il braccio e lo tenne rigido
mentre il bambino si
sollevava da terra con delle risatine e le gambe che agitava nel vuoto,
scalciando come se volesse andare ancora più in alto. Dopo
aver speso un
capitale in indumenti che mai suo figlio avrebbe indossato, radunati in
borse
chiuse nel bagagliaio e di cui ancora non aveva deciso che farsene, si
erano
spostati al museo di storia naturale. Max era rimasto così
affascinato dal
grosso scheletro del T-Rex da averlo richiesto come animale domestico,
fortunatamente si era poi accontentato di un giocattolo in scala
ridotta. Non
smetteva di parlare e raccontare storie, più o meno
verosimili, da quando erano
usciti dal museo.
Lo
fece saltare
un’ultima volta alle sue insistenze, aiutato da Zayn che gli
teneva la
sinistra, e lo posizionò nel seggiolino una volta raggiunta
l’automobile.
Esteriormente non aveva un bell’aspetto ma gli interni erano
come nuovi;
un’ultima sistemata e poi sarebbe stata perfetta.
-
Sai perché sono morti
tutti quanti?- Scosse il capo per rispondere alla sua domanda,
sicuramente il
soggetto erano ancora i dinosauri. Si concentrò
sull’incastro delle cinture,
cercare di tenere le sue braccia nella posizione giusta, e si arrese al
terzo
tentativo di spostare le sue dita dalle ciocche. Poggiò la
fronte contro le sue
gambe con un sospiro arrendevole, indeciso se chiedere
l’aiuto di Zayn già
seduto alla guida e fischiettante. - Un bel giorno è caduto
un sassolino sulla
testa del t-rex e gli ha fatto un buchino nella testa. Quando
è morto tutti gli
altri sono morti per il dispiacere.-
Sollevò
il viso per
approfittare del termine della storia e legarlo, sbuffò
quando Zayn lo caricò
con il curioso “Non la conoscevo così la
storia” e gli rivolse un’occhiataccia
dallo specchietto, storcendo le labbra in una smorfia quando con una
risata il
bambino fece scontrare il dinosauro giocattolo con l’angolo
degli occhiali.
-
Perché gli altri
dinosauri si divertivano a farsi inseguire da lui e quando è
morto non avevano
più nessuno con cui giocare.-
-
Oh, no. Poveri
dinosauri.-
Scosse
il capo con un
sospiro al tono sofferente usato da Zayn e approfittò del
momento di
distrazione di Max per finire di sistemare le cinture, osservando
soddisfatto
la conclusione di quel lavoro. Spostò i ricci dalla sua
fronte e premette un
bacio in quel punto, sorridendo a seguito della sua risata spensierata.
Fu
dopo essersi
rilassato nel sedile del passeggero e nell’andatura veloce
della macchina che
si rese conto del silenzio pacifico che era calato dopo un paio di
minuti di
parlantina tirata. Dallo specchietto retrovisore vide il figlio
addormentato:
il gioco che teneva stretto contro il petto, la bocca schiusa per far
passare
il respiro regolare, un leggero russare e il viso che ciondolava di
tanto in
tanto per colpa delle curve.
-
Zayn, volevo solo
dirti che...- S’interruppe, prese un respiro e strinse le
mani tra loro -…
ti sono riconoscente per la giornata di
oggi e per tutto il resto. Volevo ringraziarti. -
-
Ringraziarmi per
cosa? Per non essermi arreso su quale dei due progetti ambiziosi?-
Lasciò
libera una
risata leggera e spinse poi la nuca contro il poggiatesta con un
sospiro e la
confessione di aver bisogno di una giornata lontano
dall’ufficio.
-
Che succede?
Sollevò
le spalle e
rispose: - Non sto capendo nulla. Ti farò sapere quando
avrò più informazioni.-
-
Ricordati che basta una
tua parola.- Scoppiò in una nuova risata ancora prima di
sentire il già sentito
seguito. - Una parola e ti porto via per sempre.-
Piegò
il viso fino ad
avere la guancia contro il poggiatesta e studiò il suo
profilo; la mascella
rilassata, le labbra curvate in fischi o intonazioni di canzoni
lasciate
incomplete e gli occhi che concentrava sulla strada, salvo poi spostare
di
tanto in tanto le iridi per far incrociare i loro sguardi.
-
Tu ed io su un’isola
deserta senza comunicazione col mondo esterno.- Sollevò gli
occhi verso il
tettuccio della macchina e sospirò, poi con un filo di voce
aggiunse: - Certe
volte vorrei avere il coraggio di accettare, Zayn.-
Liam
non capì quanto
tragitto passarono in quel silenzio, forse si stava persino per
addormentare
prima che Zayn lo svegliasse dicendo: - Ti assomiglia molto, sai? Ha i
tuoi
stessi occhioni e il tuo stesso nasino.-
Indirizzò
di
conseguenza lo sguardo alle proprie spalle per osservare il dormiente e
curvò
le labbra in un sorriso intenerito, salvo poi bloccarsi con una smorfia
e con
tono lapidario affermare: - Domani torna mia madre.-
Al
verso di Zayn
proseguì spiegando: - Non sa nulla di tutto questo. Non
sospetta nulla. Mio
padre vuole che sia io a parlargliene. Devo assumere le
responsabilità dei miei
errori o così dice.-
Continuò
a scrutare il
bambino addormentato, così innocente e tra le mani di
persone orrende, e spostò
l’attenzione su quello alla guida per sorridergli quando
dichiarò: - Non sei
solo, jaan. Sono sempre qui se hai bisogno di parlare.-
-
Lo so, Zayn. È bello
sapere di avere qualcuno di cui mi fido accanto.- Prese un respiro,
allungò un
braccio per cercare la sua mano e intrecciò le loro dita,
sussurrando: - Ti
prometto che ci prenderemo una lunga vacanza quando le cose si
sistemeranno. Solo
tu ed io.-
-
E Max. Tuo figlio è
un fenomeno.-
-
Solo noi tre molto
lontano da qui.-
-
Direttamente su
un’altra galassia, Liam.-
-
Irrealizzabile.-
-
Non rovinare i miei
sogni, signor Payne! Io guido, io decido.-
La
battuta finale
provocò una risata immediata che svegliò il
bambino, fortunatamente dopo aver
borbottato qualche parola confusa si addormentò di nuovo.
///
-
Così si accende una
candela ogni sera?-
Era
la mattina del
quindici dicembre, la bufera di quella notte aveva innalzato la coltre
di neve
che già con la fine di novembre aveva rivestito il giardino
della villa.
Essendo imminente il rientro della madre dal viaggio di piacere alle
isole
tropicali Liam era stato quasi costretto a prendersi una giornata
lontano
dall’ufficio. Secondo il padre sarebbe stato saggio
accoglierla con un grosso
sorriso e la notizia della comparsa improvvisa di un nipote. A lui non
pareva
una della più grandi idee del padre ma non si era rifiutato,
approfittando così
di quelle ore per stare in compagnia del figlio. Avevano passato tutta
la
giornata precedente assieme e già gli effetti erano
evidenti. Non pareva più
trattenersi, al contrario non aveva smesso un secondo di parlare da
quando si
erano spostati dalla sala da pranzo al salotto per non disturbare i
domestici con
gli ultimi preparativi.
Stavano
seduti sul
tappeto persiano, la schiena di Liam contro il divano e le gambe aperte
per
permettere al figlio di stare nel mezzo. Stavano sfogliando un album
pieno di
fotografie che il bambino aveva tenuto nascosto fino a quel momento
nella
valigia che conteneva tutta la sua vita. Si fermava di rado a
indicargli
qualche scatto, raccontargli storie di peluche rotti che aveva dovuto
buttare
via e inserire di tanto in tanto brevi spiegazioni della festa durante
cui sua
mamma gli faceva accendere candele.
-
Si chiama Hakunnah.-
Mosse
il capo in un
cenno serio quando il bambino si voltò per comprendere il
motivo della risata e
si lasciò toccacciare gli occhiali perché il
danno era ormai fatto, le sue
impronte stavano impresse sulle lenti. Posizionò un braccio
in modo da
impedirgli la caduta mentre si alzava in piedi e gli si arrampicava
addosso,
continuando a scrutare le fotografie che gli donavano un passato
altrimenti
perduto. Sfregò il pollice contro lo scatto che immortalava
Leah e un fagottino
di ricci, percependo una violenta scossa di nostalgia e rammarico.
Non
riuscì a farsi
travolgere quella volta dal vortice di negatività
perché il peso del bambino
sulla spalla l’aveva trascinato fuori prima ancora di
precipitare. Piegò un
braccio per ancorarlo in quella strana posizione che aveva assunto: per
metà
sul divano mentre l’altra metà stava sospesa nel
vuoto, come i piattini di una
bilancia in perfetto equilibrio sulla spalla. Rispose al suo richiamo,
quel
“papà” che stava entrando nel
quotidiano, e scosse il capo con un sospiro
arrendevole ai suoi svariati tentativi di toccare con le dita il
tappeto. Piegò
una gamba per fargli cambiare obiettivo di quell’impresa da
folli e infatti
dopo poco stava spingendo i pugni contro le ginocchia.
-
Possiamo accenderle
le candele?-
Inclinò
il viso per
cercare quello del figlio e permise in quel modo alle sue mani di
stringersi
alle guance, lasciando che gliele torturasse mentre lo osservava con le
sopracciglia aggrottate.
-
Vuoi festeggiare Hanukkah?-
Un
cenno deciso e poi
l’ammissione – “La mia mamma diceva che
accendiamo le candele per ringraziare
l’uomo che sta tra le stelle. Io gli avevo chiesto di farmi
trovare il mio
papà”.
Tenne
una mano sempre
pronta ad agguantarlo mentre scendeva dalle spalle e osservò
la carezza che
stava lasciando sulla fotografia, come si chinava per premere un bacio
contro
quel foglio freddo intriso di ricordi.
-
Allora è deciso.-
stabilì con fermezza e l’indice a picchiettare
contro il suo nasino. - Da
stasera accendiamo le candele e ringraziamo chi ci ha fatto incontrare.
Poi
salutiamo anche la tua mamma che sono certo ti starà
ascoltando ed è fiera di
te.-
Circondò
con le braccia
il suo corpicino quando gli si aggrappò al collo. I suoi
ricci gli
solleticavano il naso ma non lo fece allontanare, immerse il viso nella
sua
capigliatura indomabile e prese un respiro. Lo strinse più
forte e chiuse gli
occhi per assorbire tutto l’affetto chiuso in quel gesto e
nel “Ti voglio bene,
papà”.
Si
separò da lui solo
per cancellare i lacrimoni che gli bagnavano le guance, gli sorrise
incoraggiante e sussurrò: - Sono felice di averti nella mia
vita, Max.-
Poi
il rumore dei
tacchi a spillo risuonò dal corridoio, assieme a lamentele
sull’allestimento
natalizio. Asciugò le lacrime dal viso del figlio con il
polsino della camicia
e si alzò in piedi ancora prima che potesse apparire nella
stanza la donna
dalla voce acuta e i modi altezzosi. Indossava dei pantaloni rossi e
una
maglietta bianca che lasciava scoperto l’addome. Molto
semplice ma ugualmente
impeccabile. La carnagione olivastra per le ore di esposizione al sole
e un
fisico slanciato grazie agli sforzi cui sottoponeva il suo corpo con
ritmi che
tendevano al malsano. Lezioni di nuoto, interi pomeriggi in palestra e
una
dieta ferrea che provocava effetti devastanti all’assunzione
di alcool.
-
Buongiorno, madre.-
la salutò con una cadenza monotona, non volendo alterare il
suo umore
instabile. Prese un respiro per trovare la forza di affrontare la
situazione
con Max che si nascondeva dietro le gambe. Lei si fermò sui
suoi passi, le
grosse lenti degli occhiali da sole impedivano di capire di che
inclinazione
fosse.
-
Questo sarebbe
l’imprevisto di cui parlavi?-
Lo
ignorò così,
rivolgendosi al marito che stava ritto e impassibile. Era quel che
precedeva
sempre uno scoppio di grida. Lei che chiedeva spiegazioni e lui che non
parlava, non mostrava emozioni.
-
Com’è stato il volo?-
domandò Liam per togliere la sua attenzione
dall’uomo che con la testa era da
tutt’altra parte per dedicarle attenzioni. Sempre troppo
impegnato a pensare
alle sue amanti per notare l’arcuarsi del sopracciglio fine,
l’incresparsi
delle labbra rosse e il guizzo sotto la palpebra.
-
Piacevole.- Mosse il
capo in un cenno per mettere in moto tutti i feedback di cui aveva
bisogno per
non alterarsi e trattenne qualsiasi reazione non voluta che lei avrebbe
in
fretta captato con il suo sguardo acuto. Doveva sempre essere una
statua
davanti a lei. - Almeno finché non sono tornata a casa mia e
ti ho trovato con…
cos’è quello?-
Fece
spostare Max da
dietro di lui, posizionò le mani sulle sue spalle e prese un
respiro,
presentandolo con fermezza: - Lui è Maximilian. Mio figlio.-
-
Tuo figlio?-
Solo
la modulazione
della sua voce mostrava quanto disgusto stesse provando, non
c’era neppure
bisogno di osservare la piega della sua bocca per capirlo. E dalla
richiesta
successiva fatta a conoscere il nome della madre si intuiva su
cos’avesse
focalizzato la sua attenzione. Non gli diede neppure il tempo di
rispondere,
portò due dita alla tempia e le sfregò con un
esagerato sospiro di dissenso.
-
Te l’avevo detto,
Simon.- si rivolse lei al marito che si schiarì la voce,
fingendo di essere
sempre stato presente. - Non avremmo dovuto lasciargli troppe
libertà.-
-
Cheryl, cara...-
Non
proseguì oltre al
nervosismo chiuso nel verso della donna. Bastò quello e un
movimento svogliato
della sua mano per zittirlo.
-
Vi siete accertati
sia davvero un Payne?-
-
Come...-
Solo
un nuovo verso
scocciato e un gesto della mano per zittire quell’uomo
austero.
-
Il test del DNA.- lo
pronunciò con una tale irritazione nella voce da far capire
a Liam non fosse
del tutto lucida. Non si sfilò gli occhiali ma sapeva
servivano a nascondere
venature rossastre. Così infatti cambiò il suo
umore, con una risata e un sarcastico:
- Possibile che devo spiegarvi sempre tutto io? A nascondere puttane e
smascherare meticci alla ricerca di fama.-
-
Ho detto...- prese un
respiro per togliersi il sapore amaro della bile, spostò le
dita dalla spalla
del bambino che lo osservava alla folta chioma di ricci e
continuò: - … che lui
è Maximilian Payne. Mio figlio.-
Calò
subito il silenzio
a quella netta opposizione alla figura materna, la matrona che gestiva
ogni
dettaglio in quella villa. Se fosse stata sobria forse avrebbe avuto
prontezza
nella reazione e nella risposta. Lasciò passare invece
minuti di silenzio, poi
agitò una mano e il ticchettio delle scarpe riprese.
Un’imprecazione per il
marito che aveva cercato di sostenerla quando si era sbilanciata sui
tacchi e
un commento per il figlio e la sua ingenuità.
-
Credevo di averti
cresciuto nel modo corretto, sempre la solita delusione. Un marito che
va a
puttane e un figlio ingenuo. Lasciatemi riposare ora. Tutta questa
situazione
mi ha provocato l’emicrania.-
Sostenne
lo sguardo del
padre, la scossa del suo capo e assottigliò gli occhi al
rimprovero – “Non vedi
come la riduci ogni volta? Spero tu sia soddisfatto”.
L’aveva
poi seguita
come un cagnolino, così sottomesso a lei e pronto a
dimenticarla tra le braccia
della segretaria. Non riusciva a capirlo perché stessero
ancora assieme. Forse
per soldi o mantenere le apparenze di una coppia felice e di successo.
Avvolse
le braccia
attorno al bambino e si piegò sulle gambe per stringerlo
meglio contro di lui
quando si voltò per premere il viso contro
l’addome. Non avrebbe permesso a
nessuno dei due di fargli del male.
///
Zayn
aveva puntato la
sveglia alle sette quella mattina. Avrebbe dovuto accompagnare la
signora Payne
in una giornata di intense spese. Era sempre così quando
rientrava da quelle
vacanze. Lei sosteneva fosse un modo per eliminare lo stress, lui
ipotizzava
fosse per innervosire il marito fin dal rientro e stare fissa nei suoi
pensieri. Conoscevano tutti le relazioni extraconiugali di Simon Payne
e i
capricci della moglie parevano essere tentativi di ricevere attenzioni,
anche
se solo critiche per le spese inutili. Sospettava fosse persino un modo
per far
impazzire lui. Gli forniva gli indirizzi uno per volta, non volendo dar
una
mappa completa delle varie tappe, e capitava spesso passassero tre
volte dalla
stessa strada. Poi non voleva che alzasse il finestrino divisorio,
diceva che
la sua faccia di prima mattina era una carica di energia. Per non
parlare poi
delle volte in cui voleva a ogni costo scherzasse con lei. Lui fissava
testardamente la strada oltre il parabrezza, nemmeno una sbirciata al
finestrino retrovisore, lei sbuffava e con una risata commentava sui
buoni
gusti del figlio – “Almeno questo l’ha
imparato. Devono essere belli,
silenziosi e ubbidienti”. Non capiva come potesse avere una
resistenza tanto
alta, forse per il timore che una reazione avrebbe provocato un
licenziamento e
allontanamento da Liam. E c’erano poi i momenti in cui la
odiava. Erano rare
giornate in cui rivangava nel passato e lo faceva con
l’intenzione chiara di
offendere il figlio. In quei momenti gli pareva impossibile da due
persone
tanto cattive fosse nata una persona tanto buona.
Spense
quindi la
sveglia alle sette della mattina con già il sentore di una
pessima giornata
davanti. Si fece una doccia e indossò la divisa con gesti
meccanici, gli occhi
fermi sulla cornice alla parete in cui stava chiuso lo scatto di due
bambini
felici. Certe volte si convinceva di essere tornato solo per lui.
Niente aiuto
alla famiglia o nostalgia di Toronto, solo la voglia di stare accanto
al suo
amico e portarlo via. Ricordava bene il giorno del rientro dal
Pakistan. Aveva
atteso che Liam tornasse a casa dall’ufficio,
l’aveva bloccato per un polso
prima che potesse entrare in villa e l’aveva trascinato al
riparo nel garage
per evitare che qualcuno li notasse. Aveva visto una lucentezza nei
suoi occhi
e poi subito un muro ergersi tra loro. Qualcosa che non c’era
mai stato, come
il suo passo indietro e la scossa del suo capo, la risata. Una risata
così
fredda. Aveva ignorato la sensazione di cambiamento che li aveva
circondati e
aveva ripetuto le promesse fatte a fuggire via. Liam aveva solo riso di
nuovo e
gli aveva dato le spalle. Ricordava il pugno nel petto al semplice
“Non
possiamo più essere amici”. Aveva desiderato
riprendere l’aereo quella notte
stessa, si era convinto a fermarsi ancora e convincerlo. Non poteva
aver
dimenticato quelle promesse, non poteva essersi distrutto tutto tra
loro in
modo irreparabile. Dopo quattro anni aveva accantonato la speranza di
fuggire
lontano con lui. Non lo abbandonava però, gli aveva promesso
di stargli accanto
sempre.
Lasciò
la propria
stanza con l’animo pesante per i ricordi e si
bloccò sull’ultimo gradino della
scalinata. Dalla cucina, una zona dedicata al personale, proveniva la
risata di
Max, la riconosceva perché aveva un suono nasale, e poi la
madre che continuava
un discorso che stava facendo ridere tutti gli altri domestici
– “Insieme a mio
figlio, ovviamente. Dovevi vederli. Due pestiferi”.
Varcando
la soglia si aspettava
quindi di vedere il bambino tutto ricci, lo colse impreparato trovarlo
seduto
sulle gambe di un Liam che fingeva di esserne esasperato e sorseggiava
il suo
caffè. Si riprese in fretta dallo stupore perché
Max l’aveva notato subito e
gesticolava per mostrargli il posto al tavolo che aveva tenuto libero
per lui.
Un
picco del genere per
una disastrosa giornata sembrava il giusto premio. Riempirsi del
sorriso di
Liam e dei racconti di Max sulla giornata al museo
l’avrebbero aiutato ad
affrontare la vipera che si nascondeva sotto eleganti vestiti e trucco.
-
Abbiamo ospiti oggi?-
domandò una volta preso posto sulla sedia e sorrise al
piatto di pancakes che
la madre gli metteva di fronte quando il bambino lo salutò
con un bacio sulla
guancia. Cercò di accantonare il turbine di emozioni che lo
prendeva mentre gli
si accomodava sulle gambe per versare troppo sciroppo
d’acero. Era solo una
giornata come le altre. Doveva ignorare le occhiate curiose, gli
schiarimenti
della gola e il braccio di Liam che andava a posarsi sullo schienale
della
sedia. Una giornata come le altre.
Mosse
il capo in un
cenno alle spiegazioni che Liam gli stava fornendo. Capì
solo la descrizione
dei genitori: antipatici, noiosi e cattivi. Poi percepì il
suo corpo spostarsi
sulla sedia, il suo ginocchio premere contro la coscia e il sussurro
“Mi
accompagni tu oggi?”. Era una domanda legittima, vista la
divisa che indossava
così presto, e posta con un tono di voce calmo. Richiedeva
solo
un’informazione. La testa però aveva
già collegato quella situazione, il
bambino sulle gambe e quel maledetto braccio dietro le spalle, a una
quotidianità che non apparteneva certo a loro.
Arrossì, senza motivo per tutti
quelli seduti al tavolo. E tossì quando il caffè
gli andò di traverso.
-
Io… ecco… veramente
io...-
-
Puoi accompagnarlo,
beta. Mi occuperò io della signora Cheryl.-
Chinò
il viso per
nascondere un poco il rossore al padre che gli stava seduto di fronte.
Lo coprì
con le mani quando ai mormorii di Liam sul non voler creare scompigli
seguì l’affermazione
divertita del padre – “Liam, la sua compagnia
è più piacevole. Sono certo mio
figlio sostenga lo stesso”.
Spostò
il bambino a
terra per alzarsi dalla sedia e domandò a Liam se avesse
finito la colazione,
gesticolando per interrompere la risposta dove spiegava di aver atteso
lui e di
poter aspettare che terminasse il caffè e i pancakes.
Riuscì a evitare la
scenata di trascinarselo dietro perché doveva aver intuito
il disagio e la
frustrazione alle risate sommesse dei domestici. Tradito dai suoi
stessi
genitori, una tragedia.
-
Fermi dove siete!-
Avrebbe
dovuto
svegliarsi alle sette della mattina, accompagnare la signora Payne
durante la
giornata di shopping natalizio e sorbirsi le battutine sui gusti del
figlio.
Invece stava con suddetto figlio, bloccato con un piede fuori dalla
porta e il
vischio che dondolava sopra le loro teste. Una giornata come le altre,
certo.
Abbassò
le palpebre e
sospirò pesantemente. Liam doveva aver preso quella reazione
come una risposta
all’invito di Sasha a rispettare le tradizioni. Aveva infatti
posato con
cautela una mano sulla spalla e si era sporto per baciargli una guancia
e
sussurrare “Non siamo costretti a farlo”. Un gesto
che aveva ottenuto lamentele
da parte del personale che avrebbe dovuto essere dalla sua parte e la
risata
nasale di Max che mostrava loro come fare dando baci al t-rex.
-
C’è gente qui che sta
lavorando. Buona giornata.-
Li
aveva zittiti, era
certo di esserci riuscito. Aveva due piedi fuori dalla porta. La
quercia, il
giardino e la macchina davanti a lui. Meno di un minuto a piedi e
avrebbe
potuto dimenticare quell’inizio assurdo di giornata. Si
bloccò per colpa di una
mano attorno al polso, la stessa che si spostava contro la nuca e poi
il
contatto con una bocca morbida. Durò poco, come stabilito
dalla tradizione,
solo un bacio fugace sotto il vischio. Non doveva avere un significato
oltre a
quello. Eppure Liam per un attimo gli aveva sorriso, una piega in cui
stavano
riflessi tanti segreti e affetto.
-
Buona giornata a
tutti. Ti ringrazio per avermi ospitato nella tua cucina, Patricia.
Questa sera
ci vediamo per accendere le candele, Max. Te lo prometto.-
Non
sapeva di cosa
stesse parlando Liam, però la sua voce era più
leggera e allegra di quanto
l’avesse mai sentita.
///
Non
l’aveva fatto di proposito.
O almeno, gli era parso ogni avvenimento di quella giornata fosse
incentrato su
quel momento in particolare. La conversazione con la segretaria per le
novità
di quel misterioso conto aperto a nome di Simon Payne,
l’incontro con il padre
in ufficio e i suoi discorsi criptici. Tutto sembrava portare al
ritardo di
quella sera. Si era fermato in ufficio e aveva saltato la cena per
capire la
situazione economica dell’impresa di famiglia, da dove
venissero presi i soldi
spostati sul conto del padre e perché lo stesse facendo.
L’ultima domanda era
quella che si era posto da quando l’aveva scoperto e a cui la
segretaria
rispondeva con una stretta delle spalle, una smorfia dispiaciuta e
l’ipotesi
assurda che suo padre fosse in una brutta situazione. Yaser, non Zayn,
lo stava
aspettando fuori dall’insieme dei grossi edifici neri. Non
era sceso
dall’automobile per aprirgli, faceva freddo e nevicava quindi
era
comprensibile. Aveva un’espressione dura in viso e Liam non
capiva se fosse
dovuta all’averlo fatto aspettare mezz’ora in
più, se anche lui fosse a
conoscenza della rottura della promessa fatta a Max o se non avesse
accettato
il bacio con Zayn di quella mattina. Erano stati loro a insistere e
sì, forse
stavano solo prendendo in giro Zayn già di per sé
nervoso. Lo facevano spesso,
lo sapeva. Era tradizione darsi un bacio sotto il vischio,
però. Non aveva
fatto nulla di male.
Cercò
di non badare al
viaggio silenzioso, dopotutto era impegnato a riflettere sulle
novità di quel
conto e di quel che aveva scoperto con la segretaria. Se quel che
avevano
ipotizzato era vero suo padre aveva aperto quel conto più di
cinque anni prima
della nascita del suo erede, aveva accumulato piano piano un
gruzzoletto e
quando aveva fatto la sua comparsa il nipote aveva spostato una somma
che non
poteva passare inosservata. Per quale motivo l’avesse aperto
ancora non lo
capiva. E perché la madre ne fosse coinvolta. Lei che in
quei viaggi di piacere
non incontrava solo uomini con cui avere avventure ma depositava soldi
forse
non molto puliti sul conto intestato al marito.
Si
accorse della
mancanza del saluto una volta arrivati alla villa e fuori dalla
vettura. Yaser
non portava mai rancore ed era certo non avesse mai mancato di rispetto
in quel
modo neppure a suo padre, il ché era già dire
molto. Non aveva fatto nulla per
meritare un simile trattamento ma decise di lasciar correre per quella
volta.
Lui non era come il padre, non avrebbe punito il personale solo per
delle
giornate storte. Forse anche per quel motivo l’autista di
famiglia si era
permesso di assumere quel comportamento.
Si
fermò con un piede
nella stanza del figlio quando notò una sagoma
più grande nel letto con lui e
avvicinandosi riconobbe con sollievo i tatuaggi che riempivano
d’inchiostro il
braccio esposto alla luce dell’abat-jour, una piccola lampada
con il paralume
di Spiderman. Non capiva perché si trovasse nella stanza del
figlio e non in
quella di Zayn, suo vero proprietario. Era la stessa che stava accesa
sotto il
piumone mentre leggevano di nascosto fumetti nelle notti di molti anni
prima.
Zayn era legato a quella lampada, così come al giocattolo di
Hulk che stava sul
comodino con le braccia sollevate. Non si guardò attorno
troppo perché non
sapeva come avrebbe reagito a trovare nuovi oggetti preziosi della
collezione
di Zayn nella camera di Max.
Cos’erano?
Un modo come
un altro per rappresentare il legame che stava crescendo tra loro per
colpa
della sua assenza? O poteva rischiare di lasciarsi travolgere dal
desiderio che
potesse indicare altro?
Una
famiglia con Zayn?
Suo padre non avrebbe mai accettato. Ancora non riconosceva le due cose
separatamente: la relazione con Zayn e il figlio Max. Unire i due
elementi
sarebbe stato inconcepibile per lui. Non avrebbe accettato e non
l’avrebbe
permesso.
Forse
l’unica soluzione
era davvero fuggire via, come avevano concordato da ragazzini e come
Zayn gli
aveva ripetuto essere pronto a fare in qualsiasi momento. Non era
pronto a
lasciare l’impresa di famiglia, si era affezionato alle
persone che lavoravano
per lui e si sentiva un poco responsabile del loro destino. Lasciarli
alla
mercé del padre senza fare da intermediario? Zayn doveva
capire che non
riusciva a essere egoista fino a quel punto, anche se aveva desiderato
accettare la proposta di fuga dal primo giorno del suo ritorno.
Si
concesse quel
momento in solitudine e lontano dalla severità del genitore,
dagli obblighi
familiari, per guardare la realizzazione di quel nuovo desiderio. Le
due
persone più importanti della sua vita che si tenevano
strette aspettando il suo
ritorno da una giornata di lavoro. Il braccio scoperto di Zayn stava
fermo
attorno alle spalle di Max, le dita incastrate tra i ricci e la bocca
contro la
sua fronte. Sembrava bloccato in un istante di coccole prima che il
sonno li
cogliesse.
Bastò
sfiorare con le
dita la testa del serpente inchiostrato sulla spalla del maggiore per
svegliarlo. Liam indietreggiò di un passo e strinse le mani
dietro la schiena,
come se fosse stato lui a essere colto in un momento privato. Zayn
stava
dormendo con suo figlio, lui volendo storpiare gli eventi aveva solo
cercato di
svegliarlo.
Notò
subito il
passaggio dal dormiveglia alla totale ripresa dei sensi quando le
labbra di
Zayn persero il sorriso disinvolto. Non riuscì nemmeno a
chiedergli il motivo
di quell’improvvisa freddezza perché Zayn
spezzò il contatto tra i loro
sguardi. Si alzò in un istante dal letto,
recuperò la camicia da terra e infilò
le maniche con gesti decisi. Liam aprì a quel punto la bocca
per chiedergli
spiegazioni e rilasciò un verso sorpreso quando le dita
callose si strinsero
attorno al polso e lo strattone lo costrinse a seguirlo fuori dalla
stanza.
-
Che ci fai qui,
Liam.-
-
Io?- domandò con un
tono confuso, le sopracciglia aggrottate mentre studiava la linea tesa
assunta
dalle labbra di Zayn. Quella era una richiesta assurda. Non riusciva a
comprenderne il senso. O il troppo lavoro l’aveva catapultato
in una crisi di
nervi e universo alternativo o davvero Zayn gli stava chiedendo che ci
facesse
lui in camera di suo figlio e nella zona riservata ai padroni della
villa. Non
voleva assumere lo stesso atteggiamento del padre ma l’unico
a dover dare
spiegazioni tra loro era Zayn. Non solo stava nella zona vietata a uno
del
personale addetto alla meccanica ma stava pure dormendo con Max che
apparteneva
a tutt’altra classe sociale. Se li avessero scoperti i
signori Payne sarebbe
stato un guaio.
-
Mi hai capito. Per
quale motivo sei arrivato ora.-
-
Zayn, per favore.-
mormorò con le dita che sfregavano contro le rughe scavate
nella fronte, cercò
di farlo spostare con una mano contro la spalla ma lui si teneva saldo
di
fronte alla porta, socchiusa per non disturbare il bambino. - Sto
vivendo una
situazione complicata tra quello che succede a casa e in ufficio. Mi
manca solo
sentire tue critiche perché...-
S’interruppe
quando
Zayn spinse l’indice contro lo sterno,
indietreggiò confuso e si sentì in colpa
solo con il suo sguardo. Gli parve quasi stesse prendendo la mira prima
di
scoccare la freccia – “Ho dovuto consolare tuo
figlio perché come padre gli hai
promesso qualcosa che non voleva confessarmi”.
-
Zayn...-
-
No, ascoltami.- Mosse
il capo in un movimento breve dall’alto verso il basso e
incrociò le braccia al
petto per difendersi quando vide la schiera di argomentazioni mettersi
in fila
con il suo respiro profondo. - Io lo faccio con piacere. Adoro tuo
figlio. Non
è un peso stare con lui. Però devi capirla che
sei importante, sei fondamentale
per lui. Sei l’unica famiglia che gli è rimasta.
Io non posso difenderti così.
Non posso farlo quando è evidente che stai sbagliando.-
Sciolse
la stretta
attorno allo stomaco con un sospiro e allargò le braccia,
mormorando: - Non
voglio difendermi, so di aver sbagliato a rompere la promessa senza
avvisare
del ritardo.-
Passò
un palmo sul viso
e poi scrollò le spalle, come se volesse scacciare il
contatto che il braccio
sollevato di Zayn prometteva.
-
Non hai idea di
quanto sia stato strano e anche spaventoso scoprire di avere un figlio.
Non so
nemmeno cosa sia un padre. Come posso esserlo per lui?-
domandò infine dopo essersi
bloccato più volte nel discorso, rivolse gli occhi verso il
punto più lontano
del corridoio in cui stavano e scosse il capo al richiamo di Zayn.
Sollevò le
spalle con il profondo respiro di cui si riempì i polmoni e
continuò il
discorso dicendo: - Sta succedendo qualcosa di strano in ufficio e sto
cercando
di capire cosa sta nascondendo mio padre. Perché mia madre
sia d’accordo con
lui e stia spostando soldi a suo nome in un conto aperto in uno dei
così detti
paradisi fiscali. Perché sta portando via soldi alla nostra
impresa? E perché
non mi dice nulla? Non credevo potesse arrivare fino a questo punto,
Zayn. E in
tutto questo ho deciso io di mettere da parte la promessa fatta a Max.
Non l’ho
dimenticata, non era una priorità.-
Abbassò
gli occhi sulle
punte delle scarpe lucide per non essere costretto a incrociare lo
sguardo di
Zayn, sicuro fosse chiaro il giudizio che si mostrava già
nel sospiro pesante e
nel tono che aveva usato per chiamarlo.
-
Io voglio bene a mio
figlio, Zayn. Solo che questo problema in ufficio è molto
più importante delle
candele che possiamo accendere un altro giorno. Non so quanto tempo ho
a
disposizione prima che mi esploda tutto in mano. Devo capire cosa sta
succedendo per evitare il disastro. Non posso parlarne con mio padre,
non posso
rivolgermi alle autorità. Devo capirlo da solo. E ho rotto
la promessa fatta a
Max ma posso rimediare quando questa storia sarà conclusa.-
-
Non devi
giustificarti con me, Liam. Neppure con Max. Gli ho spiegato che il
lavoro
tiene molto impegnato il suo papà.- Seguì lo
sguardo di Zayn quando le sue
labbra curvarono in un sorriso dolce e dalla porta socchiusa
notò la chioma di
ricci occupare per metà la superficie del cuscino.
Riportò gli occhi su di lui
quando la sua mano si posò sulla spalla e inarcò
un sopracciglio al sussurro: -
Cerca di non farlo accadere ancora. So che è difficile ma
puoi metterti con
facilità nei suoi panni. Sai cosa può provare a
vederti sempre impegnato
lontano da lui. Fai in modo che non si solidifichi l’idea che
il lavoro è più
importante di lui. Non posso prendere sempre le tue difese, Liam. Ha
bisogno di
vedere che non viene messo in secondo piano ogni volta. Tengo sia a te
che a
Max, lo sai.-
-
Lo so, Zayn. Lo so.-
sistemò gli occhiali sul naso, cercò i suoi occhi
e bisbigliò: - Grazie per
tutto quello che stai facendo per noi.-
Decise
di osare un po’
di fronte al sorriso del coetaneo e nascondendo la verità in
un tono scherzoso
confessò: - Saresti un ottimo padre.-
Curvò
gli angoli delle
labbra in un sorriso fiero alla risata spensierata di Zayn, non si
spostò
quando il suo pugno si scontrò con la spalla e
percepì il solito calore
focalizzarsi sulle guance quando gli sfiorò il viso con
delicatezza. Abbassò le
palpebre con un sospiro al contatto delle sue labbra contro la fronte e
si
schiarì la voce dopo aver sentito chiara la sua affermazione
– “Tu sei un
ottimo padre, jaan”.
-
Non stressarti troppo
a lavoro e cerca di riposare, Liam.-
Un
bacio contro
l’angolo delle labbra e una carezza sulla guancia.
-
Ci proverò!- esclamò
quando vide Zayn già lontano nel corridoio. Si era distratto
e perso un attimo
in quel semi bacio ma non voleva fargli credere non ricambiasse il suo
affetto.
Ridacchiò appena quando Zayn sollevò due dita per
salutarlo e prima che potesse
allontanarsi troppo aggiunse: - Cerca di riposare anche tu! Le tue
occhiaie
fanno paura.-
Trattenne
la risata
quando nell’idiota che Zayn gli aveva rivolto si poteva
sentire il broncio, lo
stesso che stava mostrando ora che si era voltato verso di lui. Non
voleva
svegliare Max ma Zayn era sempre buffo quando fingeva di prendersela
per simili
sciocchezze e passare per il vanitoso.
-
Non importa. Ti
piaccio lo stesso.-
Mosse
una mano a
mezz’aria, per scacciare lui o la frecciatina.
Allargò le braccia con un sospiro teatrale e
ribatté: - Mi piaci sempre,
Zayn. Lo sai.-
///
-
Cos’è il test del
diennay?-
Un’altra
mattinata
atipica con il tornado Max nella cucina non poteva che anticipare un
nuovo
disastro. Zayn avrebbe dovuto intuirlo fin dal sorriso estasiato che
Liam gli aveva
rivolto che le cose erano sul punto di precipitare. Più il
loro rapporto si
stabilizzava, più il freddo imprenditore lasciava posto al
vecchio amico
d’infanzia e più era imminente il disastro.
Evidentemente era stata introdotta
una nuova legge nell’universo mentre stava in Pakistan a
studiare le stelle e
la fisica. Liam non poteva perdere l’impassibilità
da burocrate senza che
qualcun altro pagasse. Era solo il secondo giorno ma iniziava a
crederci per
davvero a quella teoria. Quel che lo rattristava maggiormente era che a
rimetterci sembrava essere sempre quel bambino innocente.
-
Il DNA?-
Zayn
spostò gli occhi
dalla tazza di caffè fumante a Liam che stava con la sedia
rivolta nella
direzione del figlio e gli dedicava tutte le attenzioni. Peccato che
quello era
proprio l’unico caso in cui avrebbe dovuto evitarlo.
Era
calato uno strano
silenzio nella cucina, tutti sembravano essere affaccendati nelle loro
cose ma
le orecchie erano pronte a captare il discorso tra i due. Zayn li
conosceva
bene tutti. Non erano cattivi, solo un po’ troppo pettegoli
in certe occasioni.
Dal canto suo si posizionò meglio con la schiena contro il
frigorifero e
mantenne ostinato gli occhi fermi in quelli di Liam che sembrava
chiedere
supporto. Prese un sorso della bevanda calda quando Liam
spezzò il legame con
un sospiro per pronunciare con chiarezza: - L’hai sentito
dire dai nonni? Non
devi ascoltare quel che dicono, d’accordo?-
-
A cosa serve?-
Se
qualcuno ancora
aveva dubbi sul suo essere un Payne quella domanda li avrebbe fatti
ricredere.
Era ostinato quanto tutti loro.
-
Solo per essere
sicuri tu sia davvero mio figlio.- Zayn si trattenne dal commentare con
un
verso la scelta di Liam di trattare un bambino come un adulto. Avrebbe
dovuto a
quel punto inventarsi qualche bugia e invece gli dava risposte chiare,
da
grande. - Io sono sicuro, non ho bisogno di vederlo scritto su un
foglio.-
-
Possiamo averlo lo
stesso quel foglio?-
Avrebbe
voluto
ribattere alla smorfia di Liam che se l’era proprio cercata
quella domanda ma
decise di non intromettersi nella discussione padre e figlio. Forse era
quello
di cui avevano bisogno quei due. Si costrinse a bere con due sorsi la
bevanda
calda all’insistenza del bambino – “Per
essere sicuri tu sia davvero il mio
papà”.
-
Vuoi farlo per
quello?-
Liam
era un idiota. Sul
serio. Non aveva più dubbi. Quel bambino si stava mostrando
con tutta la sua
insicurezza e invece di confortarlo come la sua età
richiedeva lui lo trattava
da adulto. Avrebbe dovuto parlargliene perché non pensava
fosse tanto impacciato
in quel campo. L’aveva già visto consolare il
figlio, non era una situazione
tanto diversa da quella. Sarebbe bastato un abbraccio, una parola
dolce… e
invece insisteva con quella storia del test.
E
si notava quanto il
bambino fosse provato da tutto quello. Fingeva di essere più
grande,
disinteressato del risultato e poi nascondeva la verità in
poche frasi – “Così
poi loro non sono obbligati a nascondermi perché sono
davvero tuo figlio e non
un impostore”.
-
Non dovresti
ascoltare quel che dicono i grandi.-
Se
solo fosse stato più
vicino a Liam avrebbe osato pure con un calcio negli stinchi. Invece
doveva
limitarsi a bere caffè e controllare la situazione a due o
tre metri di
distanza. Spinse la nuca contro il frigorifero, pronunciando con Max il
verso
scocciato, e scosse il capo quando Liam lo fissò con
confusione. Non sapeva se
essere più spaventato dalla coordinazione con Max, la
prontezza di Liam di
cercarlo con gli occhi o come suonasse adulto quel bambino mentre
ragionava
dicendo: - Se non possiamo dire a nessuno che sono tuo figlio
finché non siamo
sicuri, allora quando vedono che sono davvero tuo figlio possiamo dire
alle
persone che sei il mio papà?-
-
Possiamo dire a chi
vuoi che sono il tuo papà.-
Mosse
il capo in un
cenno breve per mostrare a Liam che condivideva la scelta delle parole;
almeno
per quella volta aveva scelto con saggezza. Poi però Max
s’impuntava e
chiedeva: - Anche alle persone con cui lavori?-
Il
capostipite della
famiglia Payne non avrebbe mai permesso a quel bambino di immischiarsi
nei suoi
affari e Liam non avrebbe potuto promettere che…
-
Per quello ci vuole
più delicatezza ma ti prometto che lo diremo a tutti quanti.-
-
Prometti?-
Zayn
fissava le dita di
Liam che si segnavano una croce sul cuore e pensava a come aveva potuto
innamorarsi di un tale idiota. Non sarebbe riuscito a mantenerla e lui
non
sapeva dove andare a parare per difenderlo eventualmente una volta
venuta a
galla quella verità.
Si
mantenne comunque
impassibile mentre accompagnava Liam alla macchina, poi
bastò un’occhiata allo
specchietto e sbuffò, ottenendo l’attenzione di
quello accomodato nel sedile
dietro quello del passeggero. Certe volte sospettava fosse il posto
prescelto
perché era in grado di osservarlo meglio senza essere
notato; non ne aveva mai avuto
la conferma.
-
Non credo questa sia
una delle tue grandi idee.- spiegò quando
incrociò il suo sguardo nello
specchietto, scosse il capo e borbottò: - Se dovesse
risultare che non è tuo
figlio? Ci hai pensato? Sai che è
un’eventualità?-
S’infuriò
quando Liam
pensò solo a pulire le lenti degli occhiali, strinse le dita
attorno al volante
e ribadì: - Sei l’unica certezza che gli
è rimasta. Sua madre è morta, Liam.
Non ha ancora cinque anni, avresti dovuto opporti. Continui a fargli
promesse
che sai non manterrai. Non è un giocattolo, ha dei
sentimenti. Lo sai questo? O
non ricordi com’era essere un bambino? Certe volte mi sembra
di averti perso
davvero e di avere davanti solo il prodotto che desiderava tuo padre.-
-
Cosa dovrei fare,
Zayn?- Tenne testardo gli occhi sulla strada mentre percepiva quelli di
Liam
cercarlo e si chiuse nel silenzio mentre lo sentiva parlare con la
calma
sporcata dal tremolio della voce. - Dovevo lasciarlo con il dubbio che
potrei
non essere il suo vero padre? Ormai sa che potrebbe essere
un’eventualità, non
è stupido. Faremo quel test e qualsiasi risultato
darà, Zayn, lui è mio figlio.
Mi rivolgerò a qualcuno di fiducia
nell’eventualità di manomettere il test.
L’ho riconosciuto come mio figlio, non cambierò
idea.-
Lo
osservò dallo specchietto
mentre era distratto a sfregare le dita contro le palpebre e
incrociò un
istante il suo sguardo quando si sistemò gli occhiali sul
naso.
-
Farai ancora tardi in
ufficio?-
Lo
sbuffo di Liam
arrivò chiaro alle orecchie sopra il ticchettio della
freccia di posizione,
così come la lamentela intrisa nella sua voce mentre
spiegava: - Sai com’è la
situazione. Non criticarmi.-
-
Non ti critico.-
ribatté con un tono duro, dovuto al nervosismo che sembrava
destinato a
crescere. Prese un respiro ma non servì a placare la
disapprovazione per le sue
scelte mentre diceva: - Ricorda che hai promesso ancora a tuo figlio di
accendere quelle candele a parer tuo stupide. Quelle che hanno un
significato
tanto importante per lui. Ieri sera si è addormentato dopo
ore di silenzio,
Liam.-
-
Ti ha morso una
tarantola mentre dormivi? Oggi sei insopportabile. E se stai cercando
di farmi
sentire in colpa ci sei riuscito, contento?-
Non
gli diede alcun
tipo di risposta. Spinse l’indice contro il tasto nero e
sentì la sua lamentela
sovrapporsi al rumore del divisorio che si sollevava, separandoli come
era
giusto che fosse.
///
Liam
non lo capiva per
quale motivo si stesse ostinando a non chiarire con Zayn. Aveva passato
una
settimana sommerso nel lavoro in ufficio, impegnarsi nella ricerca di
nuove
informazioni su quel misterioso conto e poi di corsa a casa per
accendere le
candele, come aveva promesso a Max. E un secondo per parlare con Zayn
non
l’aveva, o meglio non voleva proprio trovarlo. Non si stavano
neppure evitando
perché era Zayn ad accompagnarlo in ufficio ogni mattina e
andare a prenderlo
la sera. Gli augurava una buona giornata e un sereno riposo. Non
stavano
parlando solo della discussione avuta sul test del DNA e le promesse
infrante.
Nessuno dei due voleva farlo, era chiaro in quel divisore sempre
sollevato cui
Liam si stava abituando. Non era stata una vera e propria discussione
quella
che avevano avuto ma era per colpa delle idee contrastanti se non
stavano più
parlando, o almeno così stava ipotizzando Liam.
Aveva
provato nostalgia
ad aprire la chat con Zayn e trovare il video che gli aveva inviato
più di un
mese prima. Si era tenuto coinciso a spiegargli che avrebbe fatto molto
tardi
in ufficio e di non preoccuparsi perché avrebbe chiamato un
taxi. Non voleva soffermarsi
su quel che erano stati in quelle settimane. La situazione era
già complessa
senza che si mettesse a fantasticare sulla famiglia che avevano creato
assieme.
Tra la questione del padre cui la segretaria era certa stesse arrivando
alla
soluzione e la risposta del test che avevano fatto lui e Max, mancava
solo
precipitasse il suo rapporto con Zayn. Non era suo diritto criticare
certe
scelte.
-
Sicuro di non volere
nulla? Posso andare al cinese qui all’angolo.-
Agitò
una mano per
interrompere la parlantina della segretaria e allungò le
gambe sotto il
tavolino su cui stavano impilati vecchi fascicoli con annotate uscite
ed
entrate dell’impresa Payne. Si stiracchiò con le
braccia sollevate verso l’alto
e spinse le spalle contro il divanetto che creava un piccolo salottino
all’interno dell’ufficio.
-
Non ho fame quando
sono stressato. Grazie lo stesso, Perrie.-
Rivolse
alla giovane un
sorriso riconoscente e prese dalla pila un fascicolo, tenendolo aperto
sulle
cosce e sfogliando le varie carte contenute all’interno.
Allentò il nodo alla
cravatta e passò le dita tra le ciocche in un tic nervoso,
ignorando la risata
di quella che aveva ripreso a raccontare delle preoccupazioni legate
alla cena
di natale con i parenti della sua fidanzata. Si stava creando quasi
un’amicizia
tra loro per via di tutte le ore extra che stavano passando in ufficio
a
consultare vecchi documenti. Era più lei a parlare, lui
interveniva di rado con
brevi commenti che parevano bastare alla giovane che riempiva quei
momenti di
chiacchiere.
Deviò
l’attenzione da
tutti quei numeri al lieve bussare alla porta di vetro e si
trovò in poco tempo
con il figlio tra le braccia, continuando a fissare confuso Zayn che
stava
fermo sulla soglia con l’impugnatura di plastica delle borse
incastrate tra le
dita.
-
Volevamo farti una
sorpresa, papà.-
Premette
un bacio sul
capo riccioluto del bambino sorridente e inarcò un
sopracciglio al verso
scocciato di Zayn. Cercare di capire cosa passasse dalla sua testa
diventava
sempre più complesso in quelle settimane.
-
Non volevamo
disturbare.- Vide i suoi occhi guizzare un istante sulla giovane
sedutagli
accanto sulla moquette, tutta presa a presentarsi al bambino come
un’amica
di papà, e si arrese quando sulle sue labbra
comparve una smorfia di
disgusto e l’attimo dopo un tiratissimo sorriso gentile. -
Credevamo fossi solo
e affamato in ufficio. Avevamo portato la cena ma immagino ora voi
siate
impegnati.-
-
In effetti sì, siamo
pieni di doc--…- Venne bloccato dalla gomitata di Perrie e
la fissò confuso
quando lei allungò le braccia verso le borse che Zayn aveva
posato nello spazio
libero sul tavolino. Li presentò brevemente con solo i loro
nomi e decise di
ignorarli perché se Perrie era tanto affamata e Zayn tanto
arrabbiato con lui,
non avrebbe dovuto pagarne le conseguenze il bambino che stava
elencando tutto
quel che aveva fatto in quella giornata.
-
Grazie, Zen. Sei un
miracolo. Il capo voleva tenermi a digiuno.-
Roteò
gli occhi con uno
sbuffo alle accuse fasulle di Perrie e si lasciò toccare le
lenti degli occhiali
dalle dita del figlio perché era rimasto sconvolto dalla
durezza con cui il suo
amico d’infanzia pronunciava: - Non è Zen,
è Zayn.-
Spinse
la fronte contro
la spalla di Max quando sembrò trovare opportuno chiedergli
se potesse invece
lui chiamarlo in quel modo. Non avrebbe dovuto stupirsi del modo
gentile che
aveva usato per rivolgersi al bambino. Si sorprese però del
carattere
scorbutico che stava mostrando anche davanti a un’estranea
mentre diceva: - Ora
è meglio se torniamo a casa, Max. Tuo padre è
impegnato e non ha tempo per
noi.-
Perché
fosse diventato
il bersaglio contro cui scoccava i suoi dardi velenosi non riusciva a
capirlo.
Evitò di rispondere per le rime solo perché era
seriamente impegnato con tutte
quelle carte. Si lasciò baciare una guancia dal figlio che
si affrettò poi a
stringere la mano che Zayn gli porgeva e cercò di chiedergli
con la sola
espressione del viso che gli prendesse quella sera. Era arrabbiato
perché gli
aveva fatto fare un viaggio inutile? Parve capire in quel momento di
aver
esagerato perché le sue guance assunsero più
colore e il suo viso s’inclinò
come era solito fare nei momenti d’imbarazzo.
-
Non addormentarti
subito, Max.- decise di rivolgersi al figlio che annuiva tenendo una
mano
stretta a quella di Zayn e il t-rex per un braccio in quella opposta. -
Prometto di tornare a casa in orario per darti la buonanotte e
raccontarti una
storia.-
-
Zayn.- lo chiamò
quando ormai erano sul punto di dar loro le spalle e uscire
dall’ufficio. Prese
un respiro e curvò le labbra in un sorriso cauto,
sussurrando: - Grazie per
tutto. Cerco di tornare a casa presto oggi.-
Il
silenzio
nell’ufficio durò quasi dieci minuti quando
restarono soli lui e Perrie,
indaffarata com’era a usare le bacchette per mangiare gli
spaghetti.
-
Hai una famiglia
molto carina.-
Accettò
la confezione
di pollo che lei gli stava porgendo e ne mangiò qualche
boccone sovrappensiero,
per poi scuotere il capo e ribattere: - Non sono la mia famiglia.-
-
Ti ha chiamato papà e
quello Zen era parecchio geloso. So che tieni molto alla tua vita
privata ma il
tuo segreto è al sicuro, puoi fidarti. Per quello non corre
buon sangue con tuo
padre?-
Mosse
la bacchetta tra
i pezzi di pollo e mandorle, scosse il capo e poi increspò
le labbra in una
smorfia. Portò alle labbra un boccone e scelse le parole per
rispondere: - Max
è mio figlio, Zayn è un mio amico. Un mio
carissimo amico. E quanto a mio padre
avrebbe avuto problemi con me anche se loro due non fossero mai
esistiti. Loro
mi stanno solo aiutando a stare sano di testa.-
Sfregò
la tempia con le
bacchette e abbassò lo sguardo sullo schermo che
s’illuminava con l’arrivo di
un nuovo messaggio.
«Torna
a casa davvero
presto come hai promesso. È importante.»
///
La busta nella tasca dei
pantaloni pesava un
quintale. La stava conservando nello stesso posto da quando
l’aveva vista sullo
scaffale insieme alle tante altre lettere e inviti a feste. Era
indirizzata a
“L.P” ma era certo nessuno dei Payne si sarebbe
fatto scrupoli a consultarla,
anche solo per il simbolo che stava impresso e ne svelava il possibile
contenuto. Zayn non l’aveva aperta, l’aveva solo
infilata in tasca e ogni ora
che passava pareva diventare più pesante. Aveva raggiunto
Liam in ufficio per
quello. Gli avrebbe consegnato la lettera e avrebbe aspettato in
silenzio il
risultato, poi avrebbero festeggiato insieme con Max. Liam aveva
promesso che a
qualsiasi informazione riportata su carta sarebbe seguito lo stesso
risultato:
Max era suo figlio, l’aveva riconosciuto come tale.
Però quel che stava scritto
su quei fogli era importante lo stesso. Per Max era fondamentale e
sapeva pure
Liam li riteneva di un certo valore.
Erano
passate due ore
da quando erano rientrati alla villa Payne dall’ufficio in
cui l’avevano
trovato con la segretaria. Si vergognava ancora del comportamento messo
in atto
davanti a Liam; era stato un fascio di nervi tutta la mattina con quel
segreto
nella tasca e aveva lasciato che quello prendesse la meglio su di lui.
Stava
aspettando il suo
ritorno con le spalle contro il muro, la porta della stanza di Max alla
fine
del corridoio. L’aveva lasciato solo a giocare
perché era troppo nervoso e quel
bambino aveva un’intelligenza acuta, avrebbe capito in fretta
ci fosse qualcosa
di strano nell’aria.
Si
separò di colpo
dalla parete come se avesse appena preso una scarica elettrica quando
dei passi
suonarono sulle scale e andò incontro a Liam per liberarsi
prima di quel peso
che si stava portando dietro.
-
Non dirmi che sta già
dormendo. Ho cercato di fare il più in fretta possibile.
Zayn, te lo giuro. Sta
nevicando e ci sono le strade bloccate. L’ho detto al taxista
di fare in
fretta.-
Coprì
la sua bocca con
tutto il palmo, sporgendosi fin troppo contro di lui, e
voltò il viso per
guardare nella direzione della camera di Max. Stava ancora parlando con
Bobby,
il t-rex. Sospirò di sollievo perché prima che
potesse comparire quel bambino
aveva bisogno di parlare con il suo papà per capire se la
sua idea era rimasta
la stessa. Lasciò scivolare la mano dal suo viso ma non
indietreggiò di quel
passo che li avrebbe tirati fuori dalla distanza intima in cui stavano.
-
Volevo chiederti
scusa per come mi sono comportato oggi e in questi giorni.-
sussurrò con gli
occhi fermi nei suoi, vide le rughe della sua fronte distendersi e
spiegò: -
Ero molto preoccupato. Quel che vuoi fare… manomettere un
test del DNA? Liam, è
pericoloso. Sai che i tuoi genitori hanno amici ovunque.
Sarà già arrivata loro
voce di questo.-
Estrasse
dalla tasca la
busta e la bloccò contro il petto di Liam, sussurrando: -
Non voglio vederti
finire nei guai, jaan. E non voglio che Max soffra. Ne ha
già passate tante per
un bambino della sua età. Mi fido di te, so che hai a cuore
il suo bene ma è
una prova scritta questa. Puoi fare una copia fasulla ma la
verità ormai è
scritta qui.-
-
L’hai letta?-
Scosse
il capo alla
domanda che gli aveva rivolto e lasciò che gli sfilasse la
busta da sotto le
dita, aggrappandosi alla sua camicia mentre fissava tutti i movimenti
delle sue
dita per aprire l’aletta, estrarre il foglio e dispiegarlo.
Trattenne il respiro
con il cuore in gola per come gli occhi di Liam scorrevano su ogni riga
e
spostò lo sguardo dal suo viso al foglio che aveva girato
nella sua direzione.
Spostò le dita di una mano sul suo polso per riuscire a
fermare il tremore e
leggere il risultato. Cercò con gli occhi l’ultima
riga e si focalizzò sui
primi numeri della lunga percentuale “99”.
-
Sei suo padre?-
domandò per accertarsi di aver compreso bene quei numeri e
quell’ultima frase.
Gli
bastò il cenno del
capo e il sorriso sulle labbra per capire la risposta. Gettò
le braccia attorno
al suo collo e lasciò libera la risata mentre lo sentiva
ripetere lo stesso
concetto più e più volte –
“Sono il suo papà. Sono davvero il suo
papà, Zayn.
Max è mio figlio”.
Si
strinse a lui
saldamente quando li fece volteggiare nel corridoio e una volta con i
piedi a
terra portò le mani sulle sue guance e si sporse per premere
le labbra contro
le sue. Si separò da lui per controllare le sue reazioni e
vide la sua
espressione sorpresa lasciare presto il posto a una felicità
piena. S’incuriosì
quando gli avvolse i polsi con le mani, spostò malvolentieri
le dita dal suo
viso e continuò a scrutare il sorriso che era apparso sulle
sue labbra.
-
Non posso fuggire via
con te.- Inarcò un sopracciglio, non capendo per quale
motivo avesse scelto di
tornare su quel discorso mai chiuso, e strabuzzò gli occhi
quando dalla tasca
estrasse un anello che gli infilò all’anulare. -
Quando sarai pronto voglio
combinare un disastro con te, Zayn.-
Sussurrò
il suo nome
con le lacrime incastonate negli occhi e portò le dita di
una mano alla bocca
per contenere l’espressione scioccata quando Liam
posò le labbra contro il
dorso di quella su cui spiccava il semplice filo d’argento.
-
Nessuno può impedirmi
di essere felice.- Scosse il capo per dargli ragione, non riuscendo a
trovare
le parole, e spostò gli occhi dall’anulare al suo
viso quando lo sentì
confessare: - Non ho mai smesso di amarti, Zayn.-
-
Neppure io.- dichiarò
con un accento marcato dovuto al groppo che gli chiudeva la gola e
avvolse le
braccia attorno al suo collo, stringendosi a lui mentre sussurrava: -
Non
smetterò mai di amarti, jaan.-
-
Mai?-
Si
separò con il viso
dal suo collo a quella domanda incerta e gli sorrise mentre con una
scossa del
capo faceva sfregare le punte dei loro nasi, ripetendo: - Mai e poi
mai. Il mio
cuore è sempre con te anche quando io sono lontano.-
Gli
accarezzò il viso
con le punta delle dita e premette la fronte contro la sua, curvando le
labbra
in un sorriso contro la sua bocca.
-
Perché state
piangendo?-
Si
voltarono entrambi
verso il bambino che aveva posto la domanda e li osservava con
confusione a
pochi passi da loro, il fedele dinosauro che teneva per mano per non
farlo
perdere nell’immensa villa.
-
Se voi due siete
tristi dobbiamo esserlo anche io e Bobby?-
Sollevò
le mani quando
Liam cercò il suo sguardo per capire chi fosse la persona
citata e con un cenno
al dinosauro borbottò: - Max è tuo figlio e ha i
tuoi stessi gusti per nomi
strani.-
-
Bobby non è un nome
strano.-
Si
coprì il volto con
una risata quando entrambi andarono a difendere il nome e fece un
commento tra
sé e sé sulla paura che di sicuro avrebbe causato
un t-rex con un nome ridicolo
come quello. Poi seguì con lo sguardo Liam che si piegava
sulle ginocchia,
recuperava il foglio di carta e faceva cenno a Max di avvicinarsi.
-
Non eravamo tristi.-
Confermò le sue parole con un cenno del capo quando gli
occhioni marroni del
bambino lo cercarono e sorrise intenerito quando si
arrampicò su una gamba di
Liam per osservare meglio quel foglio con sguardo critico dopo averlo
sentito
aggiungere: - Eravamo molto felici perché qui
c’è scritto che sei mio figlio.-
-
C’è scritto che mi
chiamo Maximilian Payne?-
-
C’è scritto che ti
chiami Maximilian Payne e che il tuo papà si chiama Liam
Payne. Sai cosa non
c’è scritto?-
Inarcò
un sopracciglio,
confuso quanto il bambino che scuoteva la sua chioma di ricci.
-
Quanto ti voglio bene
e quanto sei speciale per me. Quello nessun test riuscirà
mai a contenerlo.-
Li
osservò con un
sorriso quando Max si aggrappò con le braccia al collo del
maggiore e lo ampliò
quando incrociò gli occhi lucidi di Liam.
Angolo
Shine:
Questa
storia ha
bisogno di un continuo che non so bene quando arriverà.
Un
piccolo regalo di
natale in ritardo o un augurio di buon anno in anticipo. ♥
Nonostante
il 2017 sia
stato un anno da dimenticare, mi ha riservato anche qualche bella
sorpresa. O
meglio, sono stata io a farmi coraggio e decidere di coltivare questa
passione
per la scrittura che non mi ha mai abbandonata, che mi ha fatto
crescere e
disperare. Ho deciso di mettermi in gioco iscrivendomi a una scuola di
scrittura creativa e ho dovuto quindi ridurre il tempo da dedicare al
mio bel
mondo di fanfiction. Car Wash ne ha pagate le conseguenze, come sempre.
Ormai
quella è una certezza. Riusciranno le due famiglie a passare
insieme il natale?
M’impegnerò per farlo succedere nel 2018. :(
Spero
questa breve
storia vi abbia fatto sorridere in questi ultimi giorni di un
disastroso anno o
che possa accogliervi con tutte le speranze di un 2018 grandioso.
Vi
auguro tante cose
belle nella vita.
Vi
ringrazio per essere
sempre qui.
Un
grosso abbraccio,
buone feste. ♥
|