Prologo: la ragazza
senz'anima.
Le disgrazie non hanno un orario a cui presentarsi, non
lo sapevo prima d’ora.
Ho sempre pensato che gli eventi improvvisi non potessero
infilarsi nella mia vita ben programmata, ma mi sbagliavo.
Mi chiamo Karima Jenkins, ho ventotto anni e sto per scoprire
che non importa quanto imprigioni la tua vita nella routine, nella
speranza di
avere tutto sotto controllo, il caso vi farà comunque la sua
apparizione.
Sono le quattro di mattina e il telefono accanto al mio
letto suona in modo insistente, abbastanza da irritare un pochino
persino una
persona senza emozioni come me.
Non sono la solita ragazza che da adolescente emo è
diventata una ragazza che finge di essere cinica o qualcosa del genere,
io le
emozioni non le sento proprio.
Dentro di me c’è sempre calma e freddo come
durante una
tempesta, non ho mai riso o pianto, sorriso o mostrato tristezza.
Ho sempre avuto uno sguardo assente che è stata la
disperazione dei miei genitori, ma ora devo smettere di rimestare in
queste
riflessioni e rispondere al telefono.
“Lei è la signorina Karima Jenkins?”
Domanda una voce fredda e controllata.
“Sono io.”
Rispondo intontita io, passandomi una mano tra i capelli verdi
scompigliati.
“Sono dolente di informarla che i suoi genitori sono
deceduti, chiamo dal Columbia Hospital di New York.”
L’intontimento passa del tutto, all’improvviso come
un gatto davanti alla
preda. So che i miei genitori dovevano partecipare a un convegno per
l’università cittadina in cui raccontavano della
loro esperienza di medici
senza frontiere.
“Cosa? Come sono morti?”
Chiedo con una sfumatura di panico nella voce.
“In un incidente stradale, purtroppo hanno avuto un
frontale con un altro veicolo.”
Risponde la voce femminile di un’infermiera, che ora ha una
nota di dolore
nella voce, io mi passo una mano sulla faccia con il cuore che batte a
mille e
non posso fare a meno di chiedermi se sia per una sorte di riflesso
condizionato o per vero dolore.
“A-arrivo subito. Il tempo di prenotare un aereo.”
Chiudo la chiamata e mi guardo allo specchio. Una ragazza
pallida con gli occhi castani dalle sfumature verdi e i capelli verdi
fosforescente con un piercing al naso mi restituisce uno sguardo
incredulo.
I mie genitori sono morti e io ancora non ci credo, mi
sembra un incubo anche se so che è la realtà.
Loro hanno passato anni nelle
zone più pericolose del pianeta senza saltare su una mina e
senza farsi sparare
addosso da qualche guerrigliero e ora sono morti per un banale frontale.
Non ci posso credere, ma è il mio corpo quello che
accende il computer e che va sul sito dell’aeroporto di San
Diego a controllare
il prossimo volo in partenze per New York.
Ce n’è uno alle sette e pronoto i biglietti, sono
figlia
unica e mai come in questa occasione vorrei avere un fratello o una
sorella con
cui condividere il mio dolore.
L’unico modo che ho per sentire qualcosa o per esprimere
quel poco di me stessa che mi rimane è la fotografia
– il mio lavoro – e
suonare il basso, la mia passione.
Preparo la valigia, vagamente confusa su cosa portare e
cosa non, e penso alla sua famiglia. Mio padre Daniel ha incontrato mia
madre
Aida in un campo profughi palestinese, lei era infermiera e lui medico.
Il loro
amore è sbocciato in mezzo al dolore e ai feriti che
curavano. Giorno dopo
giorno hanno imparato ad amarsi e non hanno mai smesso, Aida si
è messa contro
tutta la sua famiglia per lui. Mamma non ha mai mollato nemmeno un
attimo, ha
sposato l’uomo che amava e poi sono arrivata io.
Erano felici i miei genitori di avere una figlia come me,
mio padre era orgoglioso di quella figlia musicista che un
po’suonava il basso
in qualche gruppo, un po’ faceva la fotografa. Mio padre
amava la fotografia,
era una passione che coltivava con amore in parallelo alla sua
professione
medica.
L’unica cosa che preoccupava i miei genitori era la mia
assenza
di emozioni, mia madre diceva che secondo lei non avevo
un’anima e lei non
sapeva cosa fare. Si era calmata solo quando una vecchia zingara le
aveva detto
che l’anima di sua figlia sarebbe arrivata quando lei si
fosse innamorata del
ragazzo giusto.
Stronzate, diceva suo padre.
Stronzate.
Il mio cuore si stringe pensando che non potrà
più
dirmelo.
Arrivo al Columbia Hospital di New York sotto una pioggia
battente. Entro e mi dirigo immediatamente all’accettazione,
indosso un paio di
jeans neri, una maglia dello stesso colore e un hijab nero da cui
spunta la mia
corta frangia ribelle.
Ho deciso di indossarlo in onore di mia madre e della sua
religione, un modo come un altro per onorare la sua memoria e rendere
noto a
tutti il mio lutto.
La donna mi squadra – forse spaventata dal mio velo e
pensando che io sia una terrorista – ma poi decide di lasciar
perdere e mi detta
loro le indicazioni per raggiungere la camera mortuaria, anche se si
rivelano
inutili.
Un’infermiera mi scorta e mi racconta i dettagli
dell’incidente: era buio e pioveva, gli occupanti
dell’altra macchina hanno
perso il controllo del mezzo e sono finiti dritti contro quella che
veniva
dall’altra corsia.
Quella dei miei genitori.
Non posso fare a meno di chiedermi se fossero drogati o
ubriachi, guardo i volti di due ragazzi che sostano fuori dalla camera
mortuaria. Hanno entrambi gli occhi rossi e li scruto con odio, infine
mi
decido a parlare.
“Avete ucciso i miei genitori e io non vi
perdonerò mai.”
Dico con la mia voce monocorde e quelli se ne vanno, lasciandomi sola
davanti
all’obitorio, deglutisco e abbasso la maniglia della porta,
dolorosamente
cosciente di quello che mi ritroverò davanti.
I miei genitori sono lì, ricuciti alla bell’e
meglio e
sento qualcosa spezzarsi nelle profondità di me stessa .
In quei freddi corpi riconosco mio padre, quello che mi
spingeva sull’altalena da bambina e mia madre, quella che
preparava spesso cus
cus per non dimenticarsi della sua terra.
Accarezzo i loro volti e sento gli occhi bruciare per via
delle lacrime, poi allungo la mia piccola mano e chiudo loro gli occhi
in un
estremo gesto di pietà e mormoro una preghiera.
“È la figlia dei signori Jenkins?”
Un uomo vestito di tutto punto mi si avvicina, lasciandomi perplessa
dato che
non lo conosco.
“Sono Charles Whright e mi occupo dei servizi funebri per
conto dell’ospedale.”
“Sono Karima, la loro figlia.”
Lui annuisce e iniziamo una discussione sui dettagli
pratici del funerale, preparo tutto per il meglio come a dimostrare in
quel
modo il mio affetto per loro, è l’unico modo che
mi rimane.
In realtà vorrei essere solo a casa mia a piangere per
tutto quello che è successo.
Alla fine lascio l’ospedale e me ne vado in un hotel
vicino che mi ospita per la notte e per la durata dei preparativi del
funerale,
me l’ha consigliato l’ospedale.
Mi sdraio, sperando di dormire un po’, ma non ce la
faccio.
Mille ricordi si affacciano alla mia mente: sorrisi,
racconti, cene di famiglia. E io sento le lacrime scendere, ma non
c’è riposo
per me, solo dolore o una sua pallida eco, una fotografia sbiadita del
passato,
un dagherrotipo sviluppato male.
Scendo a fare colazione non appena la sala pranzo apre e
mangio qualcosa, giusto per riempirmi lo stomaco e non svenire. Una
volta fatto
quello sbrigo le incombenze: telefono a parenti e amici, chiamo i
giornali per
il necrologio e parlo con gli addetti dell’agenzia delle
pompe funebri.
Scelgo la cassa, i vestiti e l’allestimento della camera
funebre.
Tutte queste cose mi rendono esausta e arrivo all’hotel per
pranzo senza un filo di energia, crollerei se una faccia famigliare non
mi
sorreggesse.
Testa pelata, sorriso contagioso, colorito abbronzato da
bravo ragazzo americano: Adam Elmakias.
“Adam, cosa ci fai qui?”
“Ti ho chiamato stamattina per chiederti una cosa e ho
sentito la tua segreteria telefonica.”
“Oh, giusto.”
“Mi dispiace che i tuoi genitori siano morti, erano delle
brave persone.”
“Sì, lo erano. Di sicuro migliori di me.”
Lui alza gli occhi al cielo.
“Non stiamo più insieme, ma i litigi sono gli
stessi!
Tu non vali meno degli altri perché sostieni di non avere
sentimenti o per le tue idee, tu sei perfetta così come
sei.”
Io sorrido debolmente.
Adam è stato il mio primo ragazzo, nonché
l’unico con cui
abbia avuto una storia seria, a volte mi manca, ma lui si meritava di
meglio di
un androide e di sicuro non era la mia anima gemella perché
i miei sentimenti
continuano a non esserci.
“Andiamo a mangiare, hai un aspetto orribile, scommetto
che non hai dormito e a colazione avrai mangiato il minimo necessario
per non
crollare.”
“Sì, ci hai preso.”
Entriamo e ci sediamo al mio tavolo e aspettiamo che il cameriere ci
serva i
piatti che ho ordinato: pasta al sugo e una bistecca ai ferri per me,
lui non
so cosa abbia ordinato.
“Kari, ti mancano?”
Un’ombra passa nei miei occhi strani, è una
domanda comune, ma non per me.
Sì, mi mancano. Mi destabilizza che io senta il dolore a
distanze così abissali, perché sono nata
così?
È una punizione di un qualche Dio? Benedetta da una
maledizione come direbbe Oli Sykes?
“Sì, mi mancano e fa male. Ma devo rispettare la
loro
memoria e organizzare le cose al meglio.”
Lui annuisce comprensivo e noto i suoi vestiti.
Indossa un camicia nera e un paio di jeans dello stesso
colore, io indosso una camicia e un maglione nero, un paio di pantaloni
dello
stesso colore e l’hijab della sera prima.
Il cameriere arriva con i nostri piatti – lui deve
essersi accordato con il direttore prima che io arrivassi – e
iniziamo a
mangiare.
“Ho pensato che una mano ti sarebbe servita, sei una
roccia, ma a volte anche le rocce si crepano.”
Io annuisco.
“Io non so bene come farò ad affrontare i parenti
e gli
amici nella camera funebre.”
“Li seppellisci qui?”
“No. Anche se non avrebbero approvato spendere
così tanti soldi per niente, lo
sai come erano fatti, avrebbero preferito che i soldi fossero dati a
qualche
associazione benefica.
Io però li voglio vicino a me in modo da poter andare
ogni tanto a visitare e tombe.”
“Sì, capisco.
Sicura che averli così vicini ti farà
bene?”
“Chi lo sa, lo sai come sono fatta.”
Dico amara portandomi alla bocca l’ultima forchettata di
pasta, il cuoco deve
essere italiano perché è buona e non è
la solita colla che servono nei posti
che vogliono imitare la cucina italiana e non ne sono capaci.
Mangiamo anche il secondo, il dolce e il caffè. Adam
controlla che io mangi come una chioccia iperprotettiva, immagino che
non farei
una gran bella figura svenendo nel bel mezzo delle condoglianze.
Finito di mangiare andiamo alla camera funebre, che è
già
piena di parenti e amici dei miei genitori, come ho già
detto erano persone
molto amate.
Io ascolto le loro parole, annuisco, mormoro qualcosa su
quanto splendidi fossero e cerco di far penetrare dentro di me le
parole di
consolazione. Ma non ci riesco, è come se il mio cuore fosse
trafitto da mille
schegge di vetro che nessuno dottore potrà mai rimuovere.
È questo il dolore? Anche se è sentito a mille
miglia di
distanza, è questo il dolore?
Mi sento così persa e confusa!
All’improvviso vedo mia zia Jen con suo marito Tom che
stanno parlando con Adam e faccio per avvicinarmi a loro, ma mi fermo a
una
distanza di sicurezza per sentire cosa dicano e non essere inserita
nella
conversazione
“Adam.”
Dice una voce sottile in cui riconosco a stento quella di mia zia Jen
DeLonge.
“Adam, mi dispiace così tanto.”
Si abbracciano e lui cerca di confortare quel corpo minuto, ma alla
fine è lei
che lo conforta, Adam era molto legato ai miei genitori. Tom
è in piedi accanto
a lei, a disagio.
“Come sta Karima?”
“Male, credo. Non esprime mai le sue emozioni e io non so
come aiutarla.”
Lei si asciuga una lacrima.
“Mi sento sola, Danny era il fratellone che mi tirava
sempre fuori dai guai.”
“Era un grand’uomo, faceva del bene a tutti ed
è stato il primo ad accettarmi
nella vostra famiglia. Gli volevo molto bene.”
Dice sinceramente mio zio, i miei nonni non hanno
accettato subito che la mamma si mettesse con un musicista e che
l’aveva anche
fatta soffrire in passato.
“Anche lui te ne voleva, parlava sempre molto bene di te,
anche quando ti sei comportato male con i blink.”
“Era una bravissima persona, immagino che la piccolina stia
male.”
La piccolina sono io, è stato lui ad insegnarmi a suonare
il basso e siamo molto legati, lui mi accetta per come sono e mi spezza
il
cuore vederlo soffrire per me.
“Sì, a suo modo.
Sta arrivando.”
Mi avvicino a grandi passi, una specie di sorriso increspa il mio volto
di
pietra.
“Zio Tom.”
Mi abbraccia forte e accoglie la mia figuretta nelle sue braccia forti,
braccia
che mi fanno sempre stare meglio.
“Grazie per essere qui, per me significa tanto.”
“Non potevo lasciarti sola, piccolina.”
“Cosa farò senza di loro?”
“Andrai avanti perché è questo che
avrebbero voluto.”
“Fa male, zio Tom.”
“Lo so, piccola.”
Abbraccio anche Jen e ascolto le sue parole di consolazione.
Grazie a Tom e Jen il giorno diventa più sopportabile e
finisce prima, anche i due giorni seguenti, anche se costellati di
dolore
finiscono.
Io sono stremata e se non fosse per Adam che controlla
che mangi adeguatamente probabilmente sarei collassata almeno un paio
di volte
al giorno.
Le bare vengono caricate su di un aereo diretto a San
Diego come disposto da me, lo stesso su cui viaggiano noi e gli zii.
Arriviamo in un giorno di sole, uno di quelli che mia
madre amava particolarmente perché le ricordavano la sua
Palestina.
Vengono subito portate in chiesa,noi le seguiamo come
automi, io mi sento svuotata di ogni emozione, persino peggio del
solito.
Cristo, se fa male!
La cerimonia è lunga e toccante, molti parlano dei miei
genitori. Vengono elogiati come persone, viene ammirato il loro impegno
nel
sociale e la loro bravura come medici.
Io li ascolto e cerco di raccogliere il coraggio per
parlare davanti a tutta quella gente, Adam mi appoggia la mano sulla
spalla in
un gesto rassicurante prima che tocchi a me, io sorrido debolmente.
La mia camminata è marziale come quella un soldato, le
spalle dritte, l’hijab nero che sottolinea il mio dolore.
Prendo posto davanti
al leggio e guardo la gente riunita in chiesa, ce la farò?
“Io sono Karima, sono la figlia di Daniel e Aida.
I miei genitori erano molte cose. Erano brave persone,
sempre pronte a dare una mano a chiunque. Medici competenti e generosi,
che hanno
prestato servizio in posti in cui i loro colleghi non sarebbero mai
andati.
Erano anche genitori meravigliosi che mi hanno insegnato cosa conta sul
serio
nella vita.
La loro morte mi spezza il cuore, ma loro non vorrebbero
che ci fossilizzassimo su questo dolore, perciò vi chiedo di
portare avanti la
loro eredità e di non dimenticarvi del loro esempio.
Cercate di imitarli e loro non saranno dimenticati,
vivranno nel nostro cuore e nelle nostre azioni.
È tutto.”
Io scendo e torno nel loro banco, questa volta è zio Tom ad
appoggiare una mano
sulla mia spalla.
“Sei stata coraggiosa.”
“Mamma e papà avrebbero voluto che agissi
così.”
Finito il servizio funebre, Adam, Tom
e altri due amici di mio padre si caricano in
spalla prima la bara di Daniel Jenkins e poi quella di Aida Jenkins,
dirette al
loro ultimo viaggio.
Il cimitero che ho scelto è vicino alla casa dove ho
vissuto la mia infanzia ed è uno spazio verde molto
tranquillo, la prima bara a
essere calata è quella di mio padre e poi tocca a mamma.
Io sono sudata e con il cuore spezzato, ma so che è
questo quello che avrebbero voluto i miei genitori, più o
meno o almeno so che
avrebbero capito la mia scelta. Mi metto a lato delle due fosse e
aspetto che
il prete dica le ultime parole, poi lancio una rosa bianca e una
manciata di
terra su entrambe le bare, il volto impenetrabile come una maschera
africana, eppure
i miei occhi sono lucidi, Adam fa lo stesso.
“Se ti servisse qualsiasi cosa non esitare a
chiamarci.”
Dice Tom, io annuisco, la mente altrove.
Una volta riempita la fossa e ascoltate le ultime parole
degli amici, Adam passa un braccio attorno alle mie fragili spalle.
“Adesso sono da sola.”
“Io ci sarò sempre se mi vorrai.”
“Grazie, Adam.”
Dico con voce spezzata.
“Di niente, piccola.”
La voce solare di Adam ha qualcosa di rassicurante questa vota e io
sento per
la prima volta un calore all’altezza del cuore.
Qualcosa di buono verrà da questa tempesta.
Questa è Karima.
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