24. Epilogue
Molly bussò contro lo stipite della porta che dava sul
soggiorno ed entrò.
Sherlock era in piedi davanti alla mensola del camino e fissava con
sguardo assente il teschio di nuovo scoperto e la fotografia, presa da
un quotidiano ed incorniciata, che ritraeva lui e Arsène
ammanettati sulla soglia del 221B, mentre si rigirava tra le dita un
sacchettino di plastica trasparente in cui era conservato un pezzo di
stoffa intriso di sangue. Il sangue del Ladro Gentiluomo.
John gliel'aveva dato a Natale, come se si trattasse di un regalo, e
ancora non aveva deciso che cosa farne. Se l'avesse ricevuto un mese
prima non avrebbe esitato un attimo, ma dopo tutto quello che era
successo... era seriamente tentato di gettarlo nel fuoco del camino e
fingere di non averlo mai posseduto.
Il detective trattenne un sospiro e alzò il capo verso
l'anatomopatologa per dedicarle tutta la propria attenzione.
Non l'aveva mai vista così felice come negli ultimi dieci
giorni e tutto quello che aveva dovuto fare era stato essere sincero.
Le aveva raccontato di quello che era successo con Magnussen, di sua
sorella e dell'infanzia che aveva riscritto per proteggersi dalla
sofferenza, delle prove a cui l'aveva sottoposto Eurus (e per le quali
si era inaspettatamente scusata - con poche parole, ma pur sempre parole - quando
era andato a trovarla con Mycroft e i suoi genitori la mattina di
Natale) e persino dei
sentimenti che aveva scoperto di provare per lei, ma il loro rapporto
non era cambiato come temeva.
Molly aveva ascoltato tutto senza mai interromperlo, seduta sulla
poltrona di John, e quando alla fine si era alzata e si era avvicinata,
Sherlock aveva chiuso gli occhi, temendo uno o più schiaffi.
Invece si era ritrovato col volto premuto contro il suo ventre, le sue
braccia a circondargli il capo e la sua mano destra ad accarezzargli i
capelli.
«Mi dispiace tanto», aveva sussurrato e Sherlock
non aveva capito, non all'inizio.
«Mi dispiace che tu abbia sofferto in questo modo. Ora
capisco perché per così tanto tempo hai preferito
la solitudine... Non volevi che accadesse qualcosa di brutto alle
persone al tuo fianco, com'è successo al tuo amico
d'infanzia. Tuttavia sono convinta che vivere in questo modo non sia
giusto, né per noi né, soprattutto, per te.
Quello che è fatto è fatto, Sherlock, e mi
dispiace. Mi dispiace così tanto...».
Alla fine, il super-detective, nella sua totale ignoranza, era riuscito
a comprendere quello che in realtà Molly non riusciva a
dire, nascondendosi dietro tutti quei "Mi dispiace": il suo amore non
sarebbe bastato per entrambi, non più. Da sola, lei non era
in grado di lavare via il sangue con cui si era macchiato le mani e ci
sarebbe voluto del tempo per capire come adattarsi l'uno all'altra ora
che il muro che li separava era stato definitivamente abbattuto.
Bisognava liberarsi delle macerie e avrebbe richiesto dell'impegno. Ad
ogni modo, chissà perché, Sherlock era speranzoso.
Aveva sempre immaginato che sarebbe rimasto solo perché
"sposato" col proprio lavoro e in qualche modo questo non sarebbe mai
cambiato: non sarebbe mai stato un fidanzato convenzionale
né avrebbe cambiato stile di vita per qualcuno. Ironia della
sorte, ora che aveva compreso che non aveva bisogno di cambiare per
stare con Molly Hooper, era lei a fare un passo indietro.
«Cosa posso fare per rimediare?», le aveva chiesto
allora, ricambiando la stretta cingendole la vita con le braccia.
«Una colpa così grande...».
«Dovrai sopportarne il peso per tutta la vita, è
così. Tutto quello che puoi fare, che devi fare,
è impedirle di schiacciarti. Fai quello che hai sempre
fatto, Sherlock; fai quello che ti viene meglio: aiuta gli
altri».
Il consulente investigativo era rimasto in silenzio a lungo, con le
lacrime agli occhi e i polmoni pieni del profumo e del calore di Molly.
Avrebbe voluto dirle che l'amava come mai aveva fatto prima,
ringraziarla per essere sempre stata al suo fianco, ma non una parola
gli era uscita di bocca. Sperava che lei, grazie al suo inimitabile
talento, l'avesse capito comunque.
«Hai bisogno di me per un caso?», gli chiese mentre
aggirava un cavalluccio a dondolo di splendida manifattura: il regalo
di Natale di Arsène Lupin per Rosie.
Sherlock, ritornato alla realtà, continuò
l'ispezione e la trovò particolarmente bella quella mattina:
indossava dei pantaloni beige, una camicetta e un maglioncino bianco e
portava i capelli raccolti, con un ciuffo laterale a coprirle parte
della fronte. O forse a renderla più bella era semplicemente
il sorriso che le illuminava il volto.
Si sentì quasi inadeguato in vestaglia, ma ignorò
quel pensiero e prendendola per le spalle la condusse davanti alla
scrivania, dove la fece sedere davanti al pc aperto su un'email.
«È arrivata questa mattina. Pensavo che ti avrebbe
fatto piacere leggerla».
Gli occhi di Molly si ingrandirono quando capì che la
mittente altri non era che Geneviève, la quale raccontava
loro del Natale trascorso con suo padre e Victoire a Parigi e delle
paure e delle speranze legate alla scuola che avrebbe iniziato a
frequentare a partire dal 2 Gennaio.
«Darei qualsiasi cosa per poterle parlare, dirle che il primo
giorno è difficile per tutti».
«Per me non lo è stato»,
mentì Sherlock, beccandosi una gomitata nello stomaco.
Il detective sorrise e si chinò al suo fianco, accostando il
volto al suo, per aprire l'allegato: un selfie che ritraeva lei e
Arsène avvolti in un'unica sciarpa fatta a mano, in cima
alla Torre Eiffel e con due sorrisi ancora più luminosi di
tutte le luci di una Parigi addobbata a festa per il Capodanno.
«Sono tanto contenta per loro», disse Molly, quasi
commossa. «Si meritano un po' di
felicità».
Sherlock non replicò, bensì le mostrò
la bozza di risposta che aveva iniziato a scrivere. Molly corresse
alcuni punti, mettendoci un po' di umanità, e poi gli chiese
se volesse allegare anche lui delle foto.
«Sì, pensavo queste due».
Aprì le fotografie che aveva scelto tra il mucchio di quelle
scattate durante la festa di Natale al 221B e Molly arrossì
quando si ritrovò davanti agli occhi l'immagine del bacio
che erano stati costretti a darsi per colpa di John e la signora
Hudson, i quali si erano messi d'accordo per farli passare sotto il
vischio. Lei aveva provato a rifiutarsi in realtà, invece
Sherlock non aveva fatto una piega e prendendole il volto tra le mani
aveva posato le labbra sulle sue, per poi sussurrarle:
«Facciamoli contenti, si sono impegnati tanto».
Molly l'aveva fissato e la luce che gli aveva visto negli occhi,
così diversa dalla tristezza a cui si era quasi abituata, le
aveva fatto sorgere il sospetto che il detective avesse aspettato un
assist del genere per tutta la sera. Aveva allontanato subito il
pensiero ovviamente, ma il sorriso che lui e John si erano scambiati
poco dopo, vicino al pudding...
«Oh mio Dio, non sapevo che qualcuno avesse scattato una
foto!», esclamò lei, coprendosi il volto.
«Chi è stato?».
«Lestrade».
«La prossima volta che passa in laboratorio gliene dico
quattro, eccome!».
«Non capisco, sei arrabbiata per la foto o per il bacio in
sè?».
Molly si girò verso di lui e i loro nasi si sfiorarono,
tanto erano vicini i loro volti.
«Io... È vero che ti ho chiesto del tempo, ma...
Come puoi pensare che sia arrabbiata per il bacio? La verità
è che quello che provo per te mi spaventa, perché
nonostante tutto non smetterò mai di...».
Sherlock però non le lasciò finire la frase. La
baciò, quella volta senza scuse da poter sfruttare, e quando
si allontanò le tenne comunque il volto perché
non distogliesse lo sguardo mentre le diceva con tono serissimo:
«Anche io sono spaventato dai tuoi sentimenti.
Terrorizzato».
Molly deglutì a vuoto, le sopracciglia aggrottate.
«Uhm... grazie?».
Il detective si tirò su, imbarazzato, e senza più
dire una parola andò in camera da letto per disfarsi della
vestaglia e recuperare una giacca.
«Vieni con me», le disse sbrigativo, porgendole la
mano.
«Dove andiamo?».
«È tempo che tu conosca una persona».
Molly deglutì di nuovo, nervosa, ma si fidava di lui e per
questo afferrò la sua mano.
Presero un taxi e Molly capì tutto quando sentì
Sherlock dare l'indirizzo all'autista. Sorrise dolcemente e strinse un
po' più forte la mano del detective, ma rispettò
il suo silenzio.
Quando raggiunsero l'ospedale Sherlock esitò davanti alle
porte scorrevoli e Molly si chiese se avesse fatto così
anche tutte le altre volte che era andato a trovarla o se si trattasse
della sua presenza. Alla fine però entrarono e lui
camminò a passo sicuro tra i corridoi, conoscendo a memoria
la strada.
Raggiunsero una stanza privata, del tutto spoglia se non fosse stato
per un vaso di fiori che dovevano essere del giorno prima, e Molly
sentì un peso enorme schiacciarle il petto al pensiero che
quella donna aveva posseduto il corpo di Sherlock e forse anche un
pezzo del suo cuore, visto e considerato che andava a trovarla ogni
giorno.
Una sera in cui si era sentito particolarmente in vena di confidenze le
aveva detto che si riteneva responsabile per ciò che le era
accaduto, che se le avesse detto la verità lei non si
sarebbe mai rivolta ad Arsène e poi alle persone che
l'avevano ridotta in quello stato, ma Molly la pensava diversamente.
Imitando Arsène, avrebbe voluto dirgli di quel proverbio che
faceva: "Chi semina vento raccoglie tempesta", ma alla fine era rimasta
in silenzio.
Uno dei dottori che l'aveva in cura, avvisato del suo arrivo, si
avvicinò e gli disse che purtroppo non c'erano
novità. Sherlock annuì mestamente e Molly,
guardandolo, capì che c'era un'altra ragione per cui l'aveva
portata con sé: stava perdendo le speranze.
La scienziata tirò fuori le proprie conoscenze mediche e gli
parlò da dottore a dottore, facendogli notare che per il
momento non c'era motivo di demoralizzarsi in quel modo:
finché c'era attività celebrale c'era la
possibilità che si svegliasse da un momento all'altro.
Sherlock la guardò ammirato mentre congedava il dottore e
poi entrarono nella stanza di Irene Adler. Il suo petto si alzava ed
abbassava grazie al respiratore, una serie di tubi le sparivano sotto
le maniche della camicia e la pelle delle sue mani e del suo volto era
così pallida da confondersi con il bianco delle lenzuola.
Molly avvicinò una mano ai suoi capelli scuri e li
accarezzò col dorso delle dita, sentendo la gola bruciare.
Lei non la conosceva, ma conosceva il dolore che si provava quando una
persona cara stava per andarsene e alzò gli occhi su
Sherlock, trovandolo appoggiato alla sponda ai piedi del letto con
entrambe le mani.
«Pensi davvero che si sveglierà o lo dicevi per
compassione?», le domandò lui ad un tratto.
«Hai detto che voleva disperatamente incontrarmi, no? E da
come me ne hai parlato ho capito che è una combattente, una
che lotta con le unghie e con i denti, perciò non ho dubbi:
si sveglierà».
«E la cosa non ti preoccupa?».
Molly frenò una risata. «Sei ancora innamorato di
lei?».
«Non credo che quello che c'era tra noi potesse definirsi
amore, almeno per quanto mi riguarda».
«Ecco la tua risposta».
Sherlock la raggiunse e le cinse la vita con un braccio, una mano a
stringere quella di Irene.
Sì, ne era sicuro: prima o poi si sarebbe svegliata e
avrebbe avuto la sua seconda occasione. Doveva avere fede, come gli
aveva insegnato Arsène.
***
Nemmeno la spettacolare vista della Grande Barriera Corallina fu in
grado di tirarle su il morale.
Pensava che suo padre l'avrebbe accompagnata fino al cancello della
scuola, purtroppo però le coordinate dell'isola in cui si
trovava l'istituto - da qualche parte nel Mar dei Caraibi - dovevano
rimanere top secret persino a lui.
A quel punto le erano sorti mille dubbi, ma in realtà era
semplicemente spaventata di iniziare da zero un'altra volta. Ormai
avrebbe dovuto esserci abituata, ma quella volta sarebbe stata sola, su
un'isola piena di ragazzini super-intellingenti, e aveva paura di non
essere all'altezza.
«Io invece sono convinto che te la caverai alla
grande», le aveva detto suo padre salutandola con un
abbraccio e un bacio sulla fronte.
Poi era stato il turno di Victoire, la quale le aveva lasciato tra le
mani un sacchetto simile a quello che le aveva dato quando si erano
conosciute.
«E se i tuoi compagni non si dimostrassero amichevoli offri
loro un biscotto, va bene bonbon?».
La donna portava gli occhiali da sole, come il novanta percento del
tempo, ma Geneviève l'aveva capito dalla voce che si stava
trattenendo dal piangere.
Quindi era salita su quell'elicottero militare scortata da un uomo
armato, vestito completamente di nero e con degli occhiali a mascherina
che gli nascondevano gran parte del viso, ed era partita.
Tra le mani stringeva ancora il sacchetto con i biscotti e il
cellulare, giusto per dirsi che poteva chiamare suo padre in qualsiasi
momento, ma anche quella specie di auto-consolazione venne spazzata via
quando il militare seduto al suo fianco le disse:
«Probabilmente non ti hanno avvisata, ma non c'è
campo sull'isola dei piccoli geni. Per una questione di sicurezza siete
completamente isolati dal mondo. Perciò scordati anche
Netflix».
Per fortuna Sherlock aveva risposto alla sua e-mail il giorno
precedente!
«E non si può in alcun modo comunicare con la
terra ferma?», domandò quindi, in ansia.
«Questo elicottero e la nave che porta i rifornimenti
speciali sono l'unico contatto con la terra ferma. Per il resto l'isola
è stata resa quasi completamente autosufficiente: ci sono
pozzi e cascate per l'acqua, campi coltivati, allevamenti di bestiame,
navi da pesca... Tutto quello che vi arriva in tavola è
kilometro zero. Solo il meglio per i nostri piccoli geni».
«La smetta di chiamarci così».
Il militare sogghignò. «Piccoli geni? Vedrai, ti
abituerai. Cos'hai in quel sacchetto?».
«Non lo sa? Mi ha perquisita da capo a piedi prima di farmi
salire».
«Ehi, facevo solo il mio lavoro».
Geneviève sospirò ed aprì il
sacchetto. «Biscotti».
«Posso averne uno?».
«Prego».
«Io sono Kinnon, comunque. Tu ti chiami?».
«Geneviève».
L'uomo infilò una mano nel sacchetto e si portò
un dischetto con le gocce di cioccolato alla bocca, sbriciolandosi
sulla divisa. Mentre faceva commenti d'apprezzamento le parve molto
più umano e la ragazzina si rilassò, riuscendo
persino a stendere un sorriso.
«Prima ha detto che c'è una nave che porta dei
rifornimenti speciali. In che cosa consistono?».
«Oh beh, quelle cose che sull'isola non si possono produrre:
medicinali, vestiti, armi...».
«Cioè mi sta dicendo che se tra i "piccoli geni"
uno svalvola e diventa un pazzo omicida avrebbe delle armi per farci
fuori tutti?!».
Il militare si tolse gli occhiali, rivelando un paio di glaciali occhi
azzurri, e la fissò sbalordito. «Qual è
il tuo problema, ragazzina? Sono cinquant'anni che esiste questo
programma e non è mai successo nulla del genere».
«Potrebbe accadere proprio mentre ci sono io»,
mormorò.
«Okay, senti: su quell'isola gli studenti vengono sorvegliati
praticamente ventiquattr'ore su ventiquattro da noi delle forze
speciali e all'istituto lavorano alcuni dei migliori psicologi del
mondo, perciò se anche qualcuno dovesse mostrare segni di
squilibrio - e ti ripeto che non è mai successo, dato che i
prescelti hanno tutti un pedigree impeccabile - verrebbe subito messo
in isolamento e poi rispedito sulla terra ferma».
«Pedigree?
Adesso ci paragona a dei cani?».
Kinnon si infilò nuovamente gli occhiali, sbuffando.
«Era una metafora per dire che solo gli studenti con un
albero genialogico impeccabile vengono ammessi. Per capirci: nessun
figlio di criminali ha mai messo piede sull'isola. Fin'ora
almeno». Fece per grattarsi la testa, ma ricordandosi di
indossare il caschetto ci rinunciò. «Non saprei
dirti se è una regola, ma sta di fatto che...».
«Grazie per la spiegazione, tutto molto
interessante», lo interruppe bruscamente la ragazzina,
tirando fuori dallo zainetto le cuffie ricevute come regalo di Natale
da Sherlock ed isolandosi nella propria musica.
Paradossalmente, anziché tranquillizzarla Kinnon aveva
aggravato le sue fobie al limite della paranoia.
Nè Mycroft Holmes nè suo padre l'avevano
informata di quel piccolo, insignificante dettaglio: anche in quella
scuola per ragazzi speciali, dove sperava finalmente di essere
apprezzata per tutto ciò che era, avrebbe dovuto tenere
nascosto che era la figlia del ladro più famoso di Francia,
pena l'espulsione, la reclusione in un qualche sotterraneo o magari la
correzione del gene criminale che aveva nel DNA tramite
chissà quale avanzato trattamento.
Il viaggio non fu troppo lungo, per fortuna, e l'elicottero
atterrò su una piattaforma a qualche chilometro dall'isola,
rendendola ancora più inacessibile agli occhi di
Geneviève. Fu fatta salire su un humvee - manco dovessero
attraversare una zona di guerra - il quale poi fu caricato su un
traghetto che li portò finalmente a riva. Lì
percorsero un paio di chilometri di spiaggia bianca, costeggiando a
sinistra l'oceano cristallino e a destra delle pareti rocciose su cui
la vegetazione cresceva rigogliosa.
La geografia le era sempre piaciuta e quell'isola aveva tutte le
caratteristiche per essere di origine vulcanica.
Ci manca solo un vulcano,
pensò affranta, mentre nelle orecchie i Fall Out Boy le
dicevano che i ragazzi non stavano bene.
Ad un tratto la spiaggia terminò a causa di una parete
rocciosa che continuava per diversi metri nell'oceano, tuttavia il
mezzo militare non rallentò né l'uomo alla guida
si preparò a cambiare direzione. Kinnon invece se la rideva
sotto i baffi, in attesa che iniziasse a gridare per la paura forse, e
Geneviève decise che non gliel'avrebbe data vinta:
tirò fuori il coraggio e la sfrontatezza dei Lupin ed
accavallò le gambe, sorridendo tranquilla in direzione della
parete di pietra.
Come aveva immaginato una lastra di forma rettangolare
scivolò di lato, mostrando una galleria segreta che portava
verso la superficie, rivestita in metallo ed illuminata da moderne luci
a led.
«Hai fegato, ragazzina», le disse Kinnon.
«Non sai quanti prima di te se la sono fatta sotto».
Geneviève sorrise orgogliosa e fu quasi accecata dalla luce
del sole quando uscirono dalla galleria e si ritrovarono in un viale
cementato nel bel mezzo di una foresta tropicale. C'erano pappagalli e
lemuri che passavano di albero in albero sopra le loro teste e la
biondina si portò le cuffie intorno al collo per ascoltare i
suoni della natura.
«Siamo arrivati», esclamò ad un tratto
Kinnon, puntando il dito verso la facciata di un edificio dai mattoni
scuri che le ricordò il duomo di Notre Dame con i suoi
rosoni, le nicchie ogivali e le guglie appuntite.
Davanti al portone principale c'erano altri due uomini delle forze
speciali, i quali diedero loro il lasciapassare per accedere al grande
quadrilatero interno, circondato su tre lati da un porticato, da cui si
entrava ufficialmente nell'istituto.
Geneviève scese dall'humvee e si guardò intorno
con la netta sensazione di essere finita in una scuola cattolica del
tardo Medioevo: mancavano solo le suore e i frati incappucciati.
«Bene, ti auguro una buona permanenza».
La ragazzina si voltò verso il militare, il quale nel
frattempo aveva scaricato i suoi bagagli ed era già risalito
sulla vettura.
«Aspetti un momento! Dove dovrei andare?».
Kinnon le scompigliò i capelli sulla testa e le
indicò la scalinata centrale, sormontata da due leoni simili
a quelli di Trafalgar Square.
«Non ti preoccupare, prima o poi qualcuno lo
troverai».
«Cosa? Ma...».
L'uomo le fece il saluto militare, dopodiché il collega fece
inversione ad U e la lasciarono sola nel quadrilatero deserto.
Geneviève raccimolò il coraggio e, zaino in
spalla, trascinò il pesante trolley su per la scalinata fino
al portone che trovò socchiuso. Allora entrò e
rimase stupefatta nel notare che se l'esterno somigliava in tutto e per
tutto ad una chiesa gotica, l'interno era ultra-moderno: i pavimenti
erano di lucido marmo bianco, le porte a scorrimento elettronico e in
mezzo alle grandi scale a chiocciola che si trovavano ai lati della
sala c'erano persino due ascensori in vetro.
«C'è nessuno?», esordì nel
modo più banale possibile, ma ottenne l'effetto desiderato.
«Signorina Geneviève?».
La ragazzina sobbalzò e si guardò intorno,
realizzando che dovevano averle parlato attraverso gli altoparlanti che
si trovavano ai lati del grande salone, sotto le telecamere.
«Sì, sono io», rispose con voce incerta.
«Io mi chiamo Natalie e dirigo questo istituto. Mi dispiace
per la scarsa accoglienza, ma il personale, così come la
maggior parte degli studenti, è ancora in congedo per le
feste. Ti dispiacerebbe raggiungermi nel mio ufficio? Lascia pure
lì i tuoi bagagli, li prenderai dopo».
«Okay».
«Perfetto! Adesso ti indicherò la strada. A tra
poco!».
Una luce blu illuminò il pavimento davanti a lei e
Geneviève realizzò che quello che aveva scambiato
per marmo era in realtà un pavimento formato da mattonelle
di led impostate per sembrare semplice marmo.
«Su su, avanti, non avere paura».
Geneviève seguì le mattonelle luminose fino a
giungere in un'altra sala che sembrava proprio un salotto comune
sviluppato su più piani, con tanto di divani, TV al plasma e
giochi di ogni tipo, tra cui anche un tavolo da biliardo.
Proseguì ancora e si ritrovò in un altro giardino
circondato da porticati in pietra.
«E adesso?», si domandò e si
guardò intorno per cercare la luce blu che doveva farle da
guida. Alla fine notò una lampada illuminarsi ritmicamente
dall'altra parte del giardino e si affrettò a raggiungerla,
ma a metà percorso finì per sbattere contro
qualcuno che era uscito da una porta scorrevole senza guardare davanti
a sé, probabilmente perché non poteva: diversi
scatoloni una volta pieni di libri, appunti, vestiti ed effetti
personali gli erano caduti nello scontro ed ora tutto era sparpagliato
per terra.
«Ohi-ohi, pensavo che queste cose accadessero solo nei
film», esordì il ragazzo e
Geneviève si ritrovò ad arrossire
incrociando i suoi occhi blu, vivaci e sorridenti.
Lui fu il primo ad alzarsi e le porse le mani per aiutarla. Lei le
accettò e pur di levarsi dall'imbarazzo si
concentrò sul disastro ai loro piedi: «Ti do' una
mano a mettere a posto, va bene? In fondo è anche colpa
mia».
«Ti ringrazio. Sei nuova? Ma certo che sì, che
domanda idiota. Io mi chiamo Isidore Beautrelet».
Geneviève gli strinse la mano dopo aver infilato in una
scatola una pila di libri, un po' sorpresa. «Sei francese
pure tu?».
«Nato e cresciuto a Castagniers, vicino a Nizza».
«Lo conosco! Io abitavo ad Aspremont, è
praticamete lì accanto!».
«Ma non mi dire! Che coincidenza incredibile trovarci qui,
non trovi?».
«Io sono Geneviève. Geneviève
Destange».
«È un vero piacere. Posso chiamarti
Gen?».
La bionda sorrise ed annuì, felice di aver trovato qualcuno
con cui poter condividere qualcosa. Il fatto che fosse così
carino era tanto di guadagnato.
Mancava ormai poca roba da raccogliere e Geneviève non
riuscì a trattenere la curiosità: «Come
mai gli scatoloni?».
«Perché me ne sto andando».
E addio ai suoi sogni di aver già trovato un amico.
Notando la sua espressione triste Isidore strinse gli occhi e scosse
freneticamente le mani davanti al volto.
«No, mi sono spiegato male! Sto andando via da quell'ala del
dormitorio perché quest'anno hanno deciso di tenere maschi e
femmine in un unico edificio! Non sto andando via dall'isola. Magari.
Sono due anni che non vedo la terra ferma».
Forse parlava un po' troppo per i suoi gusti, ma era un difetto a cui
poteva facilmente porre rimedio una volta ottenuta maggiore confidenza.
«Quindi hai trascorso qui le vacanze di Natale e il
Capodanno?», gli domandò ad occhi bassi,
sentendosi all'improvviso estremamente fortunata.
«Già. Quest'anno è stato ancora
più triste dell'anno scorso, dato che non è
rimasto nessuno a parte me».
«Nessuno? Vuoi dire davvero che tu hai trascorso il Natale su
un'isola deserta?».
«No, deserta no... C'erano Natalie, lo chef Kazuo e gli
agenti speciali Bust e Tonnerhop. Mi riferivo agli studenti».
«Ho capito».
Geneviève raccolse una serie di appunti e poi dei fogli
pinzati insieme il cui titolo attirò la sua attenzione:
"Arsène Lupin e il Faraglione Cavo - Il mistero risolto da
Isidore Beautrelet".
«E questo che cos'è?», gli
domandò la ragazzina.
Isidore alzò di scatto il capo e il suo viso si
imporporò. Le strappò il plico dalle mani e se lo
portò al petto con una mano, mentre con l'altra si tirava
indietro i capelli biondi che per via del caldo e
dell'umidità si erano arricciati sulla fronte e sul collo.
«È un progetto a cui sto lavorando da qualche mese
a questa parte, ma è difficile lavorare a un vecchio caso in
condizioni normali, figuriamoci confinati qui».
«Tu... Tu sei un fan di Arsène Lupin?»,
la buttò lì, fingendosi non troppo interessata,
ma lo era eccome.
«Sono un fan della sua mente», rispose Isidore, di
nuovo sorridente. «Il mio sogno è affrontarlo e
riuscire ad arrestarlo. Sherlock Holmes ci è andato
così vicino, prima di Natale! In quell'occasione ammetto di
aver tifato per il Ladro Gentiluomo perché voglio essere io
a batterlo».
«Cavolo, sei un tipo ambizioso».
Geneviève si alzò e sorridendo nervosamente
indicò la luce blu che stava ancora lampeggiando.
«Scusami, ma Natalie mi sta aspettando e non vorrei farla
arrabbiare il primo giorno».
«Oh, se vuoi ti posso accompagnare nel suo
ufficio!».
La ragazzina si guardò intorno alla ricerca di un modo
gentile per scaricarlo. «Davvero, non è
necessario. Ti ho fatto sprecare già troppo tempo».
«Figurati, il tempo è l'unica cosa che non mi
manca».
Sorridendo le afferrò la mano e Geneviève non
poté far altro che seguirlo lungo i corridoi, tra le varie
stanze e sulle scalinate. Tutto era avvolto nel silenzio.
Provò a rimanere concentrata sul percorso, in modo da
poterlo fare da sola al ritorno, ma il calore della sua mano, il suo
sorriso e i suoi occhi brillanti la stavano mandando in tilt. Ed era la
cosa peggiore che potesse capitarle, dato che Isidore era un aspirante
detective il cui sogno era quello di catturare suo padre.
«E, dimmi una cosa», lo interruppe durante la
spiegazione sulle attività serali.
«Sì, chiedimi pure quello che vuoi».
«Quand'è che ritorneranno gli altri
studenti?».
Isidore, candido ed ingenuo, non capì il sottotesto di
quella domanda e rispose: «L'8 Gennaio».
«Ah. Quindi per sei giorni saremo qui da soli, dico
bene?».
Il ragazzo sorrise. «Corretto».
«Fantastico», mormorò
Geneviève senza farsi sentire e finalmente raggiungerso la
porta dell'ufficio della preside.
«Vai, io ti aspetto qui», le disse dopo aver
bussato.
La voce femminile che Geneviève aveva sentito attraverso gli
altoparlanti le diede il permesso di entrare e lei rivolse uno sguardo
scioccato ad Isidore.
«Non so quanto mi tratterrà lì
dentro!».
«Non ti preoccupare». Il ragazzo si
addossò contro la parete e si lasciò scivolare
sul pavimento con le mani intrecciate dietro la testa e le gambe stese.
«Come ti ho già detto, ho fin troppo tempo
libero».
Geneviève sospirò affranta. Si sarebbe innamorata
di quel ragazzo e del suo stupido sorriso, ne era certa.
Senza dire una parola si tolse lo zainetto dalle spalle e
tirò fuori il sacchetto di biscotti di Victoire per
lanciarglielo. Isidore lo afferrò al volo, un po' confuso,
ma Geneviève non gli diede il tempo di porre domande,
aprendo la porta e sparendo all'interno dell'ufficio della preside, nel
quale venne colta di sorpresa dalla vista mozzafiato di cui si godeva
dalle ampie finestre accanto alla scrivania: si vedevano la foresta, la
spiaggia che avevano attraversato con l'humvee e in lontananza il
traghetto che portava alla piattaforma d'atterraggio in mezzo
all'oceano, ma anche tutto ciò che Kinnon le aveva descritto
e anche di più: serre e campi coltivati con ortaggi, alberi
da frutto e vitigni; fattorie con recinti pieni di mucche, pecore e
cavalli; campi da tennis, da basket, da calcio e da baseball; un'arena
per il tiro con l'arco e quella che sembrava proprio una piscina
olimpionica coperta da una cupola di vetro.
«So cosa stai pensando, bambina mia».
Geneviève posò gli occhi sulla donna seduta
dietro la scrivania e la trovò infinitamente più
giovane di quanto si era immaginata: avrà avuto trent'anni
al massimo ed era una bomba sexy con le sue gambe lunghe, il
decolté prorompente e un viso bellissimo contornato da
morbidi boccoli neri.
«Ah sì?», le domandò
arrossendo.
«Pensi che, più che una scuola, questo sembra un
resort. Non hai tutti i torti».
La donna si alzò dalla poltrona e la raggiunse al centro
dell'ufficio muovendo sinuosamente i fianchi, dopodiché le
alzò il volto e sorridendo ammaliante aggiunse:
«Grandi menti hanno bisogno di corpi sani e in forma, per
questo prendiamo molto sul serio lo sport e l'alimentazione. Ma per
ottenere risultati questo non basta: serve impegno e sacrificio. Sei
pronta, Geneviève Lupin?».
La ragazzina rimase a bocca aperta. «Allora... Allora lei lo
sa chi sono».
«Certo che lo so».
«E mi ha... mi ha ammessa comunque in questa
scuola?».
«Diciamo che tu sei il mio piccolo esperimento»,
ammise, pizzicandole il naso prima di dirigersi verso le finestre con
le mani intrecciate dietro la schiena. «Sei la prima figlia
di un criminale che mette piede su quest'isola e voglio vedere che
effetto farà sui nostri studenti».
Geneviève strinse i pugni lungo i fianchi, adirata. Prima
che potesse dimostrare a parole il proprio malcontento però
Natalie si voltò e le rivolse un sorriso quasi materno.
«Io non mi preoccuperei troppo se fossi in te. Dubito che tra
i nostri piccoli geni ci sia qualcuno di così stupido da
credere che esista il "gene del criminale". Qui i pregiudizi non
esistono: conta solo cosa puoi fare per rendere il mondo un posto
migliore. Ricordatelo».
La ragazzina annuì, ammettendo che il mondo sarebbe potuto
essere un posto migliore se solo tutti avessero ragionato in quel modo
sin dall'inizio.
«Bene, bambina mia». Natalie diede le spalle alla
finestra e aprì le braccia. «Sei pronta ad uscire
dall'ombra di tuo padre e a scoprire cosa rende speciale te?».
La figlia di Arsène Lupin chiuse gli occhi e quando li
riaprì erano quelli pieni di determinazione di
Geneviève. Sì, era pronta.
FIN
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Non mentirò,
non è mia abitudine. È stata dura, a volte
è stata durissima. Ci sono stati momenti in cui credevo di
non farcela, di essermi imbarcata in qualcosa di più grande
di me. Eppure, grazie all'affetto e al sostegno di tutti voi, che avete
letto questa mia creatura, e all'amore incondizionato che nutro per
questi personaggi - dal primo all'ultimo - sono riuscita a rimboccarmi
le maniche e a giungere alla fine di questa avventura. Ho provato un
misto di soddisfazione e tristezza quando ho spuntato quel
"sì" a completamento della storia, perché mi
mancherà da morire il nostro appuntamento domenicale.
Quello che spero è che non sia una fine definitiva: da
qualche parte Sherlock continuerà a risolvere casi con
l'aiuto di John, Molly, Lestrade e gli altri; Arsène
continuerà la sua personale lotta contro il male nell'unico
modo che conosce e sa fare, seguito da Victoire, François,
il resto della sua banda e sorvegliato dall'alto da
Grégorie; Geneviève crescerà e
diventerà una splendida donna capace di fare le sue scelte;
Maurice scriverà le avventure del ladro e farà
carriera; Ganimard ritroverà l'equilibrio tra le famiglia e
il lavoro, senza sacrificare niente, e sarà felice; e, un
giorno, tutti quanti calcheranno di nuovo lo stesso palcoscenico per
regalarci nuove emozioni.
Questo è quello che spero, ma per ora mi godo ciò
che sono riuscita a fare fino a questo momento e tutte le parole e i
complimenti inaspettati che mi sono arrivati.
Vorrei ringraziarvi tutti, uno per uno, ma è impossibile.
Perciò grazie a chi ha messo questa storia tra le
seguite/preferite/ricordate. Grazie a chi ha letto semplicemente.
Grazie a chi ha commentato, una sola volta oppure quasi tutti i
capitoli (tra cui non posso fare a meno di citare: LadyStark, BorderCollie, Shimba97, CreepyDoll e Intergirl84. Leggere
le vostre recensioni, settimana dopo settimana, mi ha resa felice e in
alcuni momenti mi ha dato la forza per andare avanti!). Un grazie
speciale alla già citata Shimba97
, la quale ha ritenuto questa storia degna di una segnalazione per le
storie scelte della categoria.
Grazie a Sir Arthur Conan Doyle e all'Onorevole Maurice Leblanc per
aver creato due dei personaggi più iconici della
letteratura, che io amo alla follia.
Grazie di cuore a tutti ♥
Ci vediamo presto, qui e in qualche altro fandom! ;)
Sempre vostra,
_Pulse_
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