Capitolo
1: Il Manoscritto antico
“Tic.
Tic. Tic.”
Sembrerebbero
goccioline d’acqua.
Piove. Un’amara meraviglia pervade e mi accende
l’animo. Mi chiedo come faccio
a riconoscere questo rumore, persino a dargli un nome. Un momento, mi
serve un
momento per pensare. Una goccia tiepida mi cade sulla fronte; non
riesco ad
aprire gli occhi, le mie palpebre sembrano incollate. Sento il mio
corpo: c’è,
ma non riesco a muovermi. Sono come paralizzato.
Non
recepisco alcun dolore, non è
quella la sensazione che ho in circolo. Tento di far spazio nella mia
mente,
alla ricerca di ricordi. È tutto così buio.
Provo a
muovere la bocca, con rabbia
ascolto quelli che sembrano essere solo suoni confusi e privi di
significato.
La mia capacità di parlare non è al passo con i
miei pensieri. Un’altra goccia
mi cade sul viso, d’istinto mi sforzo di aprire gli occhi.
“Aaaaah!”
Emetto un rantolo di dolore,
ho commesso uno sbaglio. Aprire le palpebre in quel modo è
stato come
permettere a fiamme ardenti di penetrare nel mio sguardo. Il dolore
sembra aver
risvegliato i miei muscoli, così le mie mani raggiungono il
mio viso e lo
stropicciano tastandone la consistenza: tento di riportarmi alla
realtà. Cerco
di abituarmi pian piano al fascio di luce che entra dalla finestra. Mi
guardo
intorno, non capisco dove sono.
Inspiro.
Un fetido odore mi invade i
polmoni. Ho caldo. Troppo caldo, il sudore mi cola dalla fronte come
una
cascata. Guardo fuori, il sole sembra sfociare in un pallido tramonto.
Solo
quando la parete alla mia destra comincia a prendere fuoco, mi accorgo
che quel
posto sta bruciando.
Sento un
peso sul petto, fatico a
respirare. Ma non è unicamente colpa dell’ossigeno
che comincia a mancare, ho
qualcosa sul torace. È un oggetto rettangolare, morbido,
rivestito di pelle. Un
libro, un diario, qualcosa del genere. Raccolgo ogni briciolo di forza
che sento
di avere e provo ad alzarmi.
Mi
trascino verso la porta, procedo a
tentoni per trovare una via d’uscita. La mia vista
è ancora annebbiata. Sbatto
contro le pareti roventi, tengo stretto quel libro per non perderlo e
tento di
trovare una via d’uscita. Non riesco più a
reggermi in piedi, respiro a fatica,
parte del mio corpo sembra non rispondere ai miei comandi.
Mi butto
sull’ultima porta che si apre
mostrandomi un nuovo mondo. Sento i raggi del sole sfiorare la mia
pelle.
Accarezzo le cuciture di quel libro che custodisco preziosamente,
tenendolo
stretto. Inspiro un’ultima boccata d’aria fresca
prima di chiudere gli occhi e
riposare, anche solo per un istante.
Mi
risveglio poco dopo, tossendo a
causa del fumo respirato.
Sono
sdraiato. Sotto di me il terreno
ha una consistenza terrea, fangosa.
Incrocio
lo sguardo con un bimbo di
forse sei o sette anni. Ha gli occhi di un delicato celeste ed una
selva di
capelli ricci e biondi, ma in quel momento, sporco di terra e
fuliggine, tutto
sembra fuorché un cherubino.
-
Mamma mamma corri! Il signore s’è svegliato!
– urla
Un viso
altrettanto sporco, ma dagli
occhi altrettanto celesti dei precedenti, entra nel mio campo visivo.
- Come vi
sentite? Ecco qua, bevete dell’acqua
fresca! –
Mi porge
uno strano contenitore. Una
ciotola di legno? Cosa dovrei farmene?
Mi aiuta
a sollevarmi e mettermi
seduto. Mi sento disorientato, come se m’avessero dato una
botta in testa.
L’acqua
è fresca, pulita. Credo di non
aver mai bevuto nulla di più buono in vita mia. Ne chiedo
ancora e la donna,
prontamente, provvede a riempire quel bicchiere improvvisato attingendo
da un
secchio accanto a lei.
Continuo
a bere perché l’acqua dà
sollievo alla gola, che sento riarsa e, nel frattempo, mi guardo
attorno.
La
costruzione da cui sono uscito è
quasi completamente bruciata e una marea di uomini, donne e ragazzi si
affannano avanti e indietro, trasportando secchi per tentare di
arginare le
fiamme ed impedire che l’incendio si propaghi alle case
vicine.
Mi trovo
in una vecchia corte. Il
pozzo al centro del cortile eroga acqua grazie ad una pompa a mano,
azionata
senza sosta da due uomini che si danno il cambio. Mi sembra di essere
finito
nel medioevo. Dove sono i pompieri? Le ambulanze?
Perché
le case sembrano così
diroccate? Forse sono preda di allucinazioni.
Il mio
stesso abbigliamento mi lascia
perplesso.
Scuoto la
testa, per schiarirmi le
idee, ma il movimento brusco mi provoca una fitta terribile alla tempia
e,
d’istinto, porto la mano alla fronte.
O almeno
ci provo.
- State
fermo. Prima risciacquo la
ferita – Mi blocca la donna, inginocchiata accanto a me.
- Dove
sono? – Mi azzardo a chiedere.
Mi guarda
come se le avessi chiesto di
illustrarmi la teoria dei quanti. Teoria che, per inciso, non conosco
nemmeno
io.
- In che
città siamo? – Riprovo. La
voce mi esce a stento.
- A Saint
Martin, signore. – Risponde,
finalmente.
Saint
Martin. No, non ci sono mai
stato, prima. Non sono nemmeno sicuro di sapere dove si trovi.
Se solo
questo dannato mal di testa mi
lasciasse in pace!
Tento di
alzarmi e, seppur
barcollante, riesco a mettermi in piedi. La testa gira vorticosamente e
sono
costretto ad aggrapparmi alla spalla della donna per non ricadere a
terra come
un sacco di patate.
- Grazie,
signora, lei è molto
gentile. Come si chiama? –
- Eloise.
E non mi ringraziate. Se i
bambini sono ancora vivi è grazie a voi. –
Perché
questa donna insiste a darmi
del voi?
- Esatto
signore! – Si aggiunge una
voce. – Dobbiamo ringraziarvi per aver salvato non solo i
ragazzi, ma anche per
aver dato l’allarme! –
Io avrei
fatto cosa?
- Non
ricordate? – La mia espressione stralunata
deve aver parlato per me.
Nemmeno
mi ricordo come sono arrivato
in questo posto dimenticato da dio!
Improvvisamente
vedo un libro a terra.
La donna, Eloise, si china a raccoglierlo al posto mio. Lo spolvera
accuratamente prima di porgermelo.
- Avete
rischiato di morire tra le
fiamme per salvare questo. Deve essere molto importante per voi
– mi dice.
Istintivamente
so che ha ragione, ma
non so che libro sia. E’ molto rovinato, una rilegatura
posticcia fatta con una
corda sottile, morbido, rivestito di pelle. Sembra un diario, o
qualcosa del
genere.
Il fuoco
è stato finalmente domato e
diverse persone, soprattutto tra gli uomini, vengono a ringraziarmi. Da
quanto
ho potuto capire, la costruzione che è andata distrutta di
notte era un
dormitorio per gli alumni, mentre una volta a settimana veniva
utilizzata come
una specie di scuola, dove i ragazzi del villaggio erano seguiti da un
precettore inviato dal vescovo della vicina Angers.
Sembra
che sia stato io a far uscire
tutti dall’edificio, che ha preso fuoco non si sa come poco
prima dell’alba.
Ciò
che a me era sembrato un sole al
tramonto erano in realtà le fiamme che si stavano propagando.
Non
c’è alcuna traccia che possa
indicare cos’ha scatenato l’incendio. Le cucine,
coi relativi bracieri, sono
sul lato opposto del cortile, mentre il crogiolo del fabbro
è nei pressi delle
stalle. Lo stesso padre Maurice, il sorvegliante degli orfani,
è sparito. Forse
non ha fatto in tempo a scappare ed è morto, ma non si ha
notizia del
ritrovamento di un corpo carbonizzato. All’appello non manca
nessun altro.
Io non so
spiegare cosa ci faccio qui,
né perché ho finito col diventare
l’eroe del momento. Come sono arrivato? Ero
già dentro? Mi son trovato per caso nel posto giusto al
momento giusto? Oppure
sono stato io ad aver scatenato tutto questo inferno, dal quale mi son
salvato
per un pelo?
A
portarmi alcune risposte è lo stesso
bambino che era con me al mio risveglio. Si avvicina con un cavallo, un
bellissimo esemplare di boulonnais grigio che, a quanto mi spiega,
è la mia
cavalcatura.
Il
cavallo, docile, si lascia
accarezzare, poi mi spinge piano col muso. Decisamente ci conosciamo,
vista la
confidenza che si prende. Apro d’istinto una delle tasche
laterali della sella
e ne esco una mela, che l’animale accetta ben volentieri.
-
Greystone – mormoro. Almeno il suo
nome lo ricordo. E’ già qualcosa.
Frugo
nelle bisacce, se trovassi un
mio documento potrei scoprire il resto.
La
ricerca risulta più fruttuosa di
quanto m’aspettassi. Trovo infatti alcune pergamene con i
disegni di un
progetto per l’ampliamento di una costruzione piuttosto
imponente, forse una
magione oppure un castello.
Curiosamente
portano la mia firma,
anche se io son sicuro di non aver mai lavorato su carta pergamena.
So per
certo che son partito da Parigi
per cercare un libro nella fornitissima biblioteca del Castello di
Serrant. Che
l’abbia trovato e che si tratti di quello che stavo
proteggendo così
accuratamente?
Mi siedo
a terra, il contenuto delle
bisacce sparso intorno a me. Devo venire a capo di questa faccenda a
tutti i
costi, perché ogni volta che prendo tra le mani quel libro
una sensazione di
allarme e di urgenza mi afferra la gola e mi soffoca quasi
più del fumo che ho
respirato un paio d’ore fa.
Lo apro
e, cercando non so cosa, lo
sfoglio freneticamente, badando a non rovinare i fogli già
segnati dal tempo.
La ferita
alla tempia pulsa,
rimbombando nella testa e nell’orecchio, ma non posso
fermarmi. Non proprio ora
che sento di essere vicino ad una soluzione.
ECCO!
Un
disegno attira la mia attenzione.
Lo metto
a confronto con il progetto
che avevo con me. Alcune parti combaciano quasi perfettamente, altre
non ci
sono proprio.
Sembrano
due costruzioni differenti,
ma l’istinto mi dice che si tratta della stessa, modificata.
Perché sono
diverse?
Nei fogli
seguenti trovo quello che
sembra un mulino, alimentato da un canale che non è
però indicato sulle mie pergamene.
Com’è
possibile?
Un corso
d’acqua non può sparire come
se nulla fosse. Che sia stato deviato artificialmente?
Devo
tornare.
La
sensazione di dover fare in fretta
sale prepotente e mi stringe lo stomaco.
- Devo
andare! – esclamo rialzandomi.
Infilo
tutto velocemente nella borsa,
insieme al libro che, ora ne ho la certezza, è davvero
prezioso.
Mi guardo
intorno, disorientato.
Devo
andare, d’accordo, ma dove? Non
lo so.
Una nuova
fitta mi colpisce ed il
dolore è talmente intenso da farmi piegare.
Devo
avvisare qualcuno. Ma chi? Dove
devo assolutamente portare quelle carte?
Decido di
montare sul cavallo. Da
qualche parte mi porterà.
- Forza
Greystone! – lo incito,
dandogli una pacca sul collo.
-
Signore… signore! Siete sicuro di
stare bene? Forse dovreste riposarvi ancora un po’ e magari
mangiare qualcosa.
Quella ferita sulla testa… -
Interrompo
Eloise con un gesto della
mano.
- Grazie,
ma devo andare. E’ una cosa
troppo importante e non posso perdere altro tempo. -
Catturo
il suo sguardo. Ci fissiamo a
lungo. Comprendo la sua preoccupazione, in parte la condivido.
- Non
conosco nemmeno il vostro nome –
afferma, con un filo di voce.
-
Gabriel. Mi chiamo Gabriel Moreau. –
Sorride.
- Fate
attenzione, Messer Gabriel! –
Le
sorrido di rimando. Sono un
perfetto sconosciuto, per lei e per la gente del villaggio, ma sono in
debito
con loro, molto più di quanto loro lo siano con me.
Non
appena questo pensiero mi passa
per la testa, mi rendo conto che, in tutta la sua assurdità,
è dannatamente
vero. Queste persone hanno conservato il manoscritto per
chissà quanto tempo,
pur senza conoscerne l’importanza, ed è grazie a
loro se l’ho ritrovato, per
giunta integro.
Sprono il
cavallo e confido che mi
porti nella direzione giusta. Ovunque essa sia.
E’
ormai sera quando, dopo una lunga
cavalcata costeggiando la Loira, entriamo a Nantes.
Il mio
compagno di viaggio sembra
conoscere la strada e mi conduce dritto verso una grande costruzione
accanto ad
una chiesa.
Un monaco
mi accoglie all’ingresso.
-
Bentornato Sir Gabriel, tutto bene?
–
- Grazie
Nicolas, sì tutto bene –
rispondo, istintivamente.
- Mi
occupo io del vostro cavallo. Voi
andate, l’abate vi sta aspettando da stamattina ed
è molto impaziente di vedervi.
–
A quanto
pare sono nel posto giusto.
Mi
domando se la sensazione di
pericolo che mi accompagna da questa mattina se ne andrà
prima o poi.
Recupero
il mio prezioso bottino dalla
sacca e consegno le redini a frate Nicolas, che si allontana verso la
stalla.
Anche se
titubante e con molti dubbi
irrisolti, non ho altra scelta se non attraversare il cortile ed
entrare
nell’edificio.
Mi sento
osservato, ma quando mi volto
non vedo nessuno.
Ancora
pochi passi e potrò consegnare
il manoscritto al suo… al suo cosa? Legittimo proprietario?
Forse dovrei prima
essere sicuro. Ah se ricordassi meglio…
Spingo il
pesante portone di legno
intagliato. Avrebbe bisogno di una bella restaurata, perché
al tatto è
piuttosto ruvido, come se qualcuno avesse tentato di rimuovere la
decorazione
con un coltello.
-
Bentornato Gabriel – mi accoglie una
voce che, però, non riconosco.
Avanzo
nell’androne semibuio,
aguzzando la vista alla ricerca della persona che mi ha salutato.
Il rumore
del portone che viene
richiuso alle mie spalle mi fa sussultare. Ci sono più
persone attorno a me e
sento sempre più prepotente la tentazione di scappare.
- Hai
trovato quello che cercavi? –
domanda la stessa voce di prima. Il tono non mi sembra più
così caloroso ed
amichevole come poco fa.
- Voi chi
siete? – chiedo.
L’ultima
cosa che sento, prima di
venire colpito alle spalle, è una sinistra risata.
“Tic.
Tic. Tic.”
Sembrerebbero
goccioline d’acqua.
No, che
dico. E’ più simile ad un beep
elettronico.
Ho un mal
di testa atroce, come se mi
avessero preso a bastonate.
Cerco di
aprire gli occhi. Nulla.
Non
riesco nemmeno a muovermi. O forse
mi muovo, ma non me ne sto rendendo conto. Mi sembra di essere sospeso
a
mezz’aria, intorno a me il nulla, tranne quel beep regolare.
- Si
riprenderà dottore? –
- Crediamo
di sì. Le sue condizioni
fisiche sono buone. Ci preoccupa un po’ l’ematoma
sulla tempia, ma non sapremo
nulla finché non si risveglia. –
Ehi
io sono qui! Vi sento. Sono sveglio.
Ho
trovato il manoscritto…
Angolino
di Lune
Non ho la più pallida idea di dove andrà a finire
questa storia né, tantomeno, il suo protagonista. Spero
abbiate voglia di scoprirlo con me ma, vi avviso fin da subito, non
aspettatevi aggiornamenti frequenti. Ho poco tempo e altre storie in
sospeso che attendono.
Come al solito però se non lascio uscire
quello che mi frulla in testa, rischio di bloccare tutto il resto.
Alla prossima!
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