Purity 27
27.
Le cose sono cambiate
Non gli lasciò neanche il tempo di dire Pronto.
“Siamo ad aprile. Ti sembra normale?” Esordì, quasi
sbottando. “Aprile, non febbraio. E d’altronde
l’apparizione di febbraio si è verificata regolarmente.
Due apparizioni in un anno, mi sta prendendo in giro?”
Un sospiro sommesso, dall’altra parte del telefono, fu il
commento che ricevette. “Allora hai sentito anche tu”,
rispose Ken, a voce insolitamente bassa.
Ichijouji Osamu sbuffò, picchiettando nervosamente le dita sulla
scrivania. “E come potrei non averlo sentito? E’ notizia da
prima pagina. Tutti i giornali locali ne parlano, i mass media sembrano
impazziti. Inoue Miyako è faccenda da opinionisti e pettegoli da
anni, ormai, ma dopo questa ho l’impressione che torneremo ai
deliri collettivi di otto anni fa.”
Le riviste che aveva consultato erano ancora sparse dappertutto sulla
scrivania, aperte alle pagine che gli interessavano, tutte strapiene
della stessa foto, dello stesso nome. Che ci fosse tanto disordine sul
suo piano di lavoro era insolito.
Era la prima cosa che faceva al mattino, da qualche anno, consultare i
quotidiani appena arrivato in ufficio. Gli serviva per rilassarsi, per
schiarirsi le idee, per tenersi aggiornato – chissà,
poteva sempre venir fuori qualche caso interessante di cui avrebbe
potuto occuparsi in prima persona. Aveva chiesto al suo assistente di
fargli trovare una pila di giornali pronta sulla scrivania del suo
ufficio ogni giorno – insieme ad una bella tazza di caffè
fumante, naturalmente. E, in tre anni che lo aveva avuto con sé,
non lo aveva mai visto svolgere quella mansione: era sua personale
premura occuparsene dieci minuti prima del suo arrivo. Una
regolarità che a Osamu piaceva: lui detestava le cose fuori
posto.
Per questo avrebbe dovuto subodorare che quella sarebbe stata una
giornata storta, davvero, quando aveva trovato Koichi fermo sulla porta
ad aspettarlo, quella mattina.
Non che passasse inosservato, bastava che si mettesse sulla porta
perché fosse difficile entrarvi. Era abbastanza alto, per essere
un giapponese, pur essendo mingherlino di costituzione.
Osamu, particolarmente sorpreso, aveva inarcato le sopracciglia. “Hai dimenticato i giornali”, aveva ipotizzato.
Koichi lo aveva fissato di rimando. “No.”
“Allora hai versato il caffè sui giornali.”
Questa volta sul viso dell’assistente si era aperto un sorriso.
“Se versassi il caffè, sui giornali per giunta, sarei
licenziato sul colpo.”
“Non dubitarne.” La perplessità si era accentuata.
“Allora. Cosa c’è di diverso stamattina,
Koichi?”
Il ragazzo più giovane lo aveva studiato per qualche secondo,
gli occhi castano chiaro semicoperti dalla lunga frangia liscia dello
stesso colore, l’unico elemento perennemente disordinato nel suo
outfit impeccabile. “Volevo solo accertarmi che lei stesse bene,
signore.”
Quell’improvvisa premura lo aveva spiazzato. E, inutile dirlo,
insospettito. “Cos’è, vuoi un aumento?”
“Nossignore.” Era stata la replica serena. “Ma se il
suo umore è già a terra, temo che la giornata di oggi
sarà poco piacevole a maggior ragione.”
“Il mio umore sarà a terra fintantoché ti ostinerai a non farmi passare, tanto per cominciare.”
Koichi si era fatto da parte. Sentendo una strana sensazione di
inquietudine, Osamu aveva fatto finalmente ingresso nel suo studio.
I soliti giornali, il solito caffè, le solite cartelle dei casi
perfettamente ordinati sugli scaffali, il solito computer. Sembrava che
il suo studio non fosse stato saccheggiato, o chissà che.
Perciò, la fonte dei guai doveva essere un’altra …
I suoi occhi si erano posati sui giornali.
Si era seduto, aveva bevuto un sorso del suo caffè, aveva afferrato il primo quotidiano della pila.
E per poco il caffè non gli era andato di traverso.
Koichi aveva riso, rispettosamente irriverente come suo solito –
davvero, perché continuava a dargli un lavoro? “Cerchi di
non prendersela troppo, signore. Se ha bisogno di me, sa dove
trovarmi.”
E si era congedato, lasciandolo a leggere allibito le testate
giornalistiche che rivelavano che Inoue Miyako aveva deciso di farsi
una bella passeggiata per Odaiba. Di nuovo.
Contro ogni logica.
“Immagino che adesso sarai assediato dai giornalisti”,
arrivò la voce di Ken, un po’ in imbarazzo. Sapeva cosa
Osamu pensasse dei giornalisti.
“Della stampa se ne occuperà Koichi.” Fece il
maggiore, definitivo. Dato che il suo assistente lo trovava così
divertente, che si godesse lui la folla inferocita di sciacalli. Quanto
a Osamu, se ne sarebbe lavato le mani. “Ma parliamo di cose
serie. Ti ho mandato la documentazione riguardo le precedenti
apparizioni di Inoue Miyako, non è vero? Sembrerebbe
corrispondere, non è il solito burlone che cerca di alimentare
storie superstiziose sui fantasmi. Di nuovo la sacca bianca -che
probabilmente contiene abiti di ricambio per potersi mescolare alla
folla una volta finita la sua esibizione-, di nuovo un cappello con un
fiore sulla falda, di nuovo quella ninna nanna cantata a mezza voce, di
nuovo senza rivolgere una parola a chi cercava di fermarla.
C’è solo un elemento insolitamente diverso: la doppia
apparizione in un anno. E in più …”
“… Il fatto che sia la seconda volta che ritorna a Odaiba.” Terminò per lui Ken.
Osamu si adombrò. “Precisamente. E’ chiaro che
Odaiba rappresenti un quartiere d’elezione per lei, dal momento
che è lì che si trova la sua vecchia casa. Ma non ha mai
mostrato di essere così tanto abitudinaria da tornarci due volte
di seguito. Tra l’altro, il caffè dove si è
aggirata è molto vicino all’appartamento dove abitava otto
anni fa, ho fatto un controllo. E’ fin troppo imprudente da parte
sua comportarsi così. Cosa può essere cambiato
dall’ultima volta per spingerla ad agire in questo modo?”
Ken tacque per qualche istante, riflettendo. “Magari …
è solo che è passato molto tempo, ed è questo ad
essere cambiato.” Azzardò.
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Spiegati meglio.”
“Potrebbe non essere stato un atto pianificato fino in
fondo. Da quel che sappiamo di Miyako, non è mai stata una
persona molto razionale, no? Probabilmente era solo nostalgia, tutto
qui. Probabilmente non ha nemmeno pensato alle conseguenze.
Probabilmente l’assenza le ha fatto solo più male del
solito …”
Ed ecco lì una perfetta risposta alla Ken. Così tipico di
lui, non sospettare doppi fini nelle azioni delle persone a meno che
non vi fosse costretto. Osamu sorrise.
Ingenuo, si ritrovò a pensare. Tu non sai … Non lo sai.
“Ken. Io non ho dubbi sul fatto che le sue apparizioni siano
qualcosa di pianificato, e questa non fa eccezione.” Rispose.
“Se era solamente nostalgica, perché non presentarsi
lì di nascosto? Perché attirare attenzione, rendersi
riconoscibile, ripetere quei gesti che la contraddistinguono? In fondo
mi sfugge da anni, vorrà pur dire che sa come passare
inosservata. No, ha cercato di mandare un messaggio preciso stavolta. E
io ancora non so di quale messaggio si tratti.”
L’irritazione e la frustrazione intensa che si accrescevano anno
dopo anno, in sordina e quasi sottopelle, al punto che lui stesso se
n’era accorto solo da qualche tempo a questa parte, tornarono ad
infastidirlo di colpo. Non aveva mai tenuto un caso aperto così
a lungo, mai le sue capacità deduttive lo avevano tradito fino a
questo punto: pareva che, non importa quanti sforzi impiegasse, quanto
tempo, quanto impegno, quanta assoluta dedizione al suo lavoro, Inoue
Miyako l’avesse sempre vinta, sempre. Gli sfuggiva –oh, non
parlava solamente dell’incapacità di trovarla: era
soprattutto l’incapacità di capirla, di prevedere le sue
mosse, a disorientarlo. Sembrava che lei calcolasse tutto nei minimi
dettagli, ma allo stesso tempo commetteva azioni sciocche che lo
disarmavano e basta, perché sembrava non avessero alcun senso.
Non capiva, e si sentiva vulnerabile, in un modo insopportabile,
intollerabile. Non sapeva da quando l’eccitazione di sentirsi
sfidato, all’inizio della presa in carico di quel caso, si era
trasformata in quella tremenda messa in discussione del suo lavoro, del
suo modo di fare, della sua vita intera. Osamu non aveva mai avuto
altro che non fosse lo studio, e il lavoro.
Poteva forse darsi che avesse investito tutto su qualcosa nel quale non riusciva più ad eccellere, allora?
“Sai cosa si dice di me? Che sono stato ingannato da una
ragazzina. Non intendo tollerarlo oltre.” Concluse, duro.
“Scoprirò cosa avrà voluto dirmi, svelerò il
segreto di questa sfida sfacciata. Se Inoue Miyako crede di potermi
prendere in giro, mandandomi segnali incomprensibili, si sbaglia.”
“E se il messaggio non fosse rivolto a te?”
Osamu si fermò. “Che vuoi dire?”
Ken esitò, prima di continuare. “Non hai mai pensato che
queste apparizioni potessero essere tentativi di comunicare con
qualcuno, invece che messaggi di sfida? Non prenderla come una
certezza, è solo … solo una cosa che ho pensato.”
Solo una cosa che ho pensato.
“Comunicare con chi, allora?” Incalzò, la cornetta premuta contro l’orecchio.
“Non lo so.” Rispose Ken. Il suo tono era triste.
Ma un’idea ce l’hai eccome, solo che non vuoi parlarne.
Osamu strinse le labbra, e stette in silenzio, ad ascoltare il silenzio di suo fratello.
Finché Ken non parve riscuotersi, o sfuggire
all’interrogatorio senza parole del maggiore. “Andrai a
Odaiba ad interrogare i testimoni?”
“Certo, al più presto. Devo verificare come sono andati i
fatti, il percorso che ha seguito, dove potrebbe essersi mimetizzata
tra la folla. Tu vieni con me?”
“Vuoi davvero che venga con te?”
E cos’era ora quella sorpresa? Inarcò le sopracciglia.
“Naturale.” Non pensava forse che ce l’avesse con lui
per la discussione avvenuta tre sere prima, fuori
dall’appartamento di Inori Harumi? Non avevano tempo per pensare
a certe cose da bambini.
“E’ che … non posso, mi spiace. Sono a casa Inoue.”
Osamu batté le palpebre, colto alla sprovvista. “Casa Inoue?”
Per qualche motivo, Ken si sentì in dovere di partire sulla
difensiva. “Non è un’idea così inutile, in
fondo è già successo altre volte che la signora Inoue si
rivelasse in possesso di informazioni rilevanti, no? Come con il diario
di Miyako. Magari ora, con la notizia dell’apparizione di sua
figlia, avrà qualcosa di utile da dirci …”
All’improvviso Osamu capì. Era lampante, tanto per cambiare. Ken era prevedibile, e non se ne accorgeva nemmeno.
Tirò un lungo sospiro. “Naturalmente. Ma ora dimmi la vera motivazione per cui sei lì.”
Immaginò suo fratello minore irrigidirsi dall’altra parte del telefono, e seppe che ci aveva preso.
Sorrise tra sé. “Volevi consolarla. E’
così?” Gli domandò, senza realmente domandarglielo.
Lo sapeva che era così. “Non riesci a dimenticare il suo
stato di prostrazione di quando l’hai incontrata la prima volta,
e ora pensi che stia peggio, perché è venuta a sapere
della doppia apparizione di sua figlia.”
“Non è solo una supposizione. Sta male sul serio.”
Il tono di Ken era stanco. “Senti, Osamu. So benissimo che non
approvi, che mi ritieni uno sciocco, e forse lo sono. Ma non riesco a
sentirmi distaccato dalla vicenda come te: ho promesso alla signora
Inoue che le avrei fatto compagnia, tempo fa, e non intendo rimangiarmi
la parola. Magari è stata lei a far sparire Miyako in qualche
modo, bene: se è così non mancherò di assicurarla
alla giustizia. Ma finora vedo solo una madre sola e disperata. Non
posso farci nulla … e tu non puoi far nulla per farmi desistere.
Sto seguendo una mia pista, come volevi tu, d’altronde.”
Si era stancato di stargli dietro, dopotutto. Non sembrava neanche
più desideroso di lavorare con lui, come quando lo aveva
coinvolto per la prima volta nel caso Inoue.
“Non voglio farti desistere. Procedi pure come preferisci.”
Gli rispose. “E poi la signora Inoue sotto stress tende davvero a
fornire più informazioni del solito. Quando ti ha dato il diario
era scossa, no?”
“Sì … suppongo di sì.”
“E allora nulla da dire. Torna al tuo lavoro, e io tornerò
al mio.” Guardò l’orologio, e decise che aveva
indugiato troppo al telefono. “Sperando che questa giornata
finisca per essere fruttuosa per entrambi.”
“… Osamu?”
Sul punto di congedarlo, Osamu si fermò. “Cosa c’è?”
“Ecco … ti ringrazio per avermi chiamato. Non lo capisco
bene, dato che avevi detto che dobbiamo lavorare in modo indipendente,
però … beh, grazie. E’ stato gentile da parte
tua.”
Osamu si pietrificò, così interdetto che non trovò proprio nulla da dire.
E Ken non gliene lasciò neanche il tempo. Probabilmente
imbarazzato, gli augurò in fretta una buona giornata, e chiuse
la chiamata.
A lui non restò che riporre la cornetta al suo posto, battendo le palpebre sconcertato.
La verità era che non aveva pensato affatto alla sfida tra loro
due, né aveva pianificato di parlarne con lui per qualche
ragione nascosta. L’irritazione lo aveva reso irrazionale, e
aveva finito per chiamare Ken. Per quale motivo, poi, non lo sapeva.
Quando Koichi rientrò nello studio, lo trovò a ridere tra
sé, la fronte appoggiata contro la mano, una marea di giornali
aperti sulla scrivania. Lo fissò per qualche istante, inclinando
la testa come per guardarlo da una diversa angolatura.
“Si è ripreso in fretta”, commentò incredulo.
Osamu si aggiustò gli occhiali sul naso, riprendendo lentamente
il controllo di sé. “Koichi, quand’è che
bisogna smettere di considerare una persona ingenua e si deve passare
alla categoria di stupida?”
“Domande filosofiche? Allora forse non si è ripreso molto bene, signore”, sorrise Koichi.
“Forse no.” Osamu lo guardò, pensieroso. “Mi
chiedo se sia solo il caso Inoue, a sfuggire alla mia
comprensione.”
“Sta parlando di suo fratello?”
“Lo butto giù continuamente, non gli do uno straccio di
aiuto, gli sto rovinando l’idea di fratello maggiore perfetto che
probabilmente ha da una vita. E nonostante tutto … mi ringrazia.
Come se gli avessi donato una miniera d’oro. Te lo giuro, ogni
volta sono convinto che sia come un libro aperto per me, e tutte le
volte … non lo so. Ragiona in modo assurdo. Secondo me è
un po’ matto.”
“Beh”, Koichi si strinse nelle spalle, e i suoi occhi
brillarono di una strana luce. “Forse è per questo che le
piace. A lei piacciono solo i matti, signore.”
Osamu si sentì sorridere.
“Va’ a chiamarmi un taxi. Le indagini non aspettano certo i miei comodi.”
***
“Io … non faccio che
aspettare. Mi sai dire tu perché? E’ inutile. Però
non faccio che aspettare.”
Ken si riassettò nervosamente i capelli, combattendo contro il
vento che non aveva smesso di imperversare da due giorni a quella
parte. Si sentiva un po’ come le foglie strenuamente attaccate ai
rami degli alberi del giardino davanti a quella villetta, separata
dalla strada dal cancello grigio davanti al quale Ken si era fermato:
se aveva i piedi ben ancorati al cemento era per pura forza di
volontà.
Ultimamente il vento soffiava in modo strano, e imprevedibile.
“Però non faccio che aspettare.”
Osamu si sbagliava, si ritrovò a pensare per l’ennesima
volta, inseguendo il corso dei suoi pensieri. Osamu si sbagliava,
perché se avesse sentito parlare la signora Inoue come
l’aveva sentita Ken solo poco tempo prima, sicuramente non
avrebbe pensato che Inoue Miyako stesse sfidando il detective
consapevolmente.
Non gli era mai parsa lucida come quel giorno. Era come se si fosse risvegliata improvvisamente da un sogno troppo vivido.
Gli occhi rossi, il viso stanco, la signora Inoue era rimasta tutto il
tempo accanto alla finestra, sperando rassegnata di veder spuntare la
fisionomia familiare di sua figlia sul viale di casa. Si era voltata a
sorridergli, qualche volta, come a condividere con lui, solo per un
breve istante, la miserabile condizione di essere una madre senza sua
figlia, un essere incompleto.
Non sembrava credere che dietro quelle apparizioni ci fosse un
impostore. Non si poneva neppure il problema dell’irritazione
frustrata di Osamu. Trattava quell’apparizione come se fosse un
messaggio di sua figlia per lei, qualcosa che nessun altro doveva
ricevere, decodificare, analizzare. Era l’ultimo filo che la
legava sottilmente a Miyako.
“Cosa sta cercando di dirmi Miyako-chan? Cosa vuole che io faccia?”
“Le altre volte cosa le diceva?” Le aveva chiesto lui.
“Che era viva.”
“E ora non le sta dicendo questo?”
“No. Ora mi sta dicendo che le
cose sono cambiate. Ma non mi dice come. Così io aspetto
… e spero che me lo farà capire.”
Ken non poteva prendere quelle parole, quella sicurezza, alla leggera.
Soprattutto perché non avevano fatto che confermare un suo
precedente sospetto.
Se quella era davvero Inoue Miyako e non qualcuno che si spacciava per
lei, non era stata sequestrata, e non era prigioniera di nessuno. Solo
di se stessa.
Quale rapitore le avrebbe consentito di apparire e scomparire a suo
piacimento? Si poteva supporre che Miyako non si fosse mai allontanata
troppo da Tokyo, così da poter agilmente portare a termine
queste apparizioni da fantasma.
Seguendo questo ragionamento, l’intento non era forse comunicare ai suoi cari Sono viva, ma non ho intenzione di farmi trovare?
E perché apparire due volte, allora?
“Mi sta dicendo che le cose sono cambiate.”
In che modo lo erano? Voleva forse dire che non avrebbe più
fatto apparizioni per il prossimo febbraio? Voleva semplicemente che
fossero più frequenti?
O stava cercando di farsi trovare senza avere modo di farlo lei stessa?
Dovevano stare più attenti, pensò Ken con fermezza. Lui e Osamu. Non dovevano lasciarsi prendere dalla fretta.
Aveva l’impressione che né lui né Osamu stessero
vedendo le cose in modo lucido. Anche per questo era un bene che
agissero su due fronti separati: almeno non si trasmettevano l’un
l’altro le rispettive irrazionalità.
Era stato strano sentire Osamu così fuori di sé,
così … umano. Da quanto tempo non lo vedeva più in
quello stato? Forse da quando erano bambini, da quando ancora erano
migliori amici e si capivano con un solo sguardo.
Ken scosse la testa, accorgendosi di essersi di nuovo perso nei suoi
pensieri. Avrebbe avuto tutto il tempo di fare congetture una volta nel
suo appartamento, ma ora c’era ben altro di cui occuparsi.
Come entrare nell’orfanotrofio Yagami, tanto per cominciare.
Il giardino era vuoto, sembrava che il vento di quel giorno non
invogliasse a giocare all’aperto. Sbirciò in direzione
delle finestre, sperando di scorgere del movimento: non si era
annunciato, per cui non sapeva se nella villa ci fosse qualcuno. E
sperava sul serio di sì: aveva rinunciato a seguire Osamu, che
almeno la sua rinuncia avesse un senso, no?
“Sai, c’è un citofono proprio dietro quel ramo.”
Sobbalzando violentemente, Ken si voltò di scatto, solo per
urtare il gomito contro uno scatolone di cartone. Scatolone che,
naturalmente, cadde a terra, riversando sul cemento tutto il suo
contenuto.
“Accidenti, mi dispiace.” Il viso in fiamme, Ken non ebbe
il coraggio di sollevare lo sguardo sul proprietario della scatola: si
chinò in tutta fretta, deciso a rimediare al danno prima che la
persona di fronte a lui – di cui scorgeva solo un paio di jeans
scuri e scarpe grigie- dovesse pensarci al suo posto.
L’altra persona rise, una risata da ragazzo. “Sta’
tranquillo. Non c’era niente di fragile dentro.” E si
chinò anche lui. “Come puoi vedere sono per la maggior
parte mattoncini per costruzioni. Sono fatti per essere sparpagliati
ovunque, no?”
Gliene portò uno rosso davanti agli occhi, con un sorriso sereno.
Doveva avere all’incirca la sua età, considerò Ken
osservandolo. Aveva corti capelli biondi – l’unico motivo
per cui non dovevano essersi spettinati per via del vento doveva essere
il berretto verde che portava sul capo- e cordiali occhi celesti.
E ciò che Ken aveva fatto cadere era, in effetti, un mucchio di
giocattoli: mattoncini, un paio di palle di gomma, soldatini e
dinosauri. Aveva un tirannosauro con le fauci spalancate poggiato
contro il suo piede destro.
“Mi dispiace davvero.” Ripeté, in imbarazzo.
“Dai, lascia perdere. Se mi dai una mano mi fai un favore,
però. Me li passi?” Il ragazzo indicò con la mano i
giochi accanto a Ken, e lui si affrettò ad ubbidire, mentre il
suo interlocutore li riponeva nella scatola di cartone. “Starai
pensando che è strano che io vada in giro con dei giocattoli,
immagino.”
Ken gli lanciò un’occhiata. “Beh, non proprio: sei
davanti ad un orfanotrofio …” gli fece notare.
Il ragazzo rise di nuovo. “Touché.” Finito di
raccogliere tutti gli oggetti, prese la scatola e si issò in
piedi; Ken fece lo stesso. “E’ che ho finalmente trovato un
impiego utile per i miei vecchi giocattoli, ho riempito almeno due
scatole come queste con tutto quello che avevo nella mia casa
d’infanzia. Saranno certamente più utili qui.”
E guardò verso il cancello, con un mezzo sorriso pensieroso. Sembrò, per un istante, essersi dimenticato di lui.
Ken lo fissava, in imbarazzo e un po’ confuso. Dalle sue parole e
dal contenuto di quella scatola era logico supporre che fosse un
volontario dell’orfanotrofio. Ma non era troppo giovane per una
cosa simile?
Il pensiero che al posto di quel ragazzo avrebbe potuto esserci lui lo spiazzava.
“Ah. Volevi entrare? Non ho ancora le chiavi del cancello, ma
puoi venirmi dietro, tanto sto entrando anche io”, si riscosse
l’altro a un tratto, e, scostando il ramo che lo nascondeva alla
vista, rivelò la postazione del citofono. Senza aspettare
risposta, suonò con decisione.
Non ho ancora le chiavi. Doveva essere entrato nell’orfanotrofio da poco, ne dedusse.
“Ti ringrazio”, rispose Ken, e si affrettò a tenere
aperto il cancello per il ragazzo dalle mani occupate, lasciandolo
entrare per primo: gli doveva almeno una cosa del genere, dopo la
figuraccia con la scatola.
Il ragazzo gli sorrise brevemente al di sopra della spalla, prima di
incamminarsi lungo il cortile. “Sono Takaishi Takeru. Mi
presenterei come si deve, ma come puoi immaginare non posso fare
granché con questi giocattoli tra le mani”, disse,
leggero. “Chi stavi cercando? Dubito di poterti aiutare io,
faccio ancora poco qui dentro.”
“Non saprei”, tentò Ken, andandogli dietro. “Non ho preso appuntamenti con nessuno.”
“Mh?” Takaishi Takeru si voltò, osservandolo perplesso.
Ken ricambiò l’occhiata per un momento, chiedendosi quanto
valesse la pena rivelare dettagli dell’indagine a un ragazzo
appena entrato nel team dell’orfanotrofio. Ma non mettere le
carte in tavola gli sembrava un po’ sgarbato – per non dire
imbarazzante.
“Mi chiamo Ichijouji Ken”, si presentò infine.
“Sto indagando sulla scomparsa di Inoue Miyako. Sarebbe possibile
parlare con chi si occupa delle donazioni all’orfanotrofio?”
***
“Ed è qui”, concluse lentamente Osamu, fermandosi, “che se ne perdono le tracce.”
Erano esattamente al centro di un grande incrocio, affollato e
rumoroso. Alle prime ore del mattino, con gli impiegati che in tutta
fretta si riversavano in strada per raggiungere il posto di lavoro,
doveva essere un vero inferno. Ora, invece, il massimo che poteva
succedere era venire spintonato dai gruppi compatti di persone che
attraversavano la strada.
Koichi si guardò intorno, una ruga di perplessità in
mezzo alla fronte. “Il presunto percorso di Inoue Miyako non
prevede vicoletti”, obiettò. “Dove ha potuto
cambiarsi d’abito?”
“I vicoletti sono troppo individuabili. In che modo è
più facile passare inosservati, in una metropoli?” Osamu
fece un cenno col capo all’incrocio affollato, allusivo. “E
non credo si sia cambiata,
credo abbia giusto nascosto i dettagli più riconoscibili.
E’ facile cambiare un cappotto, o togliere un cappello.”
“Non è forse più difficile nascondere il colore di capelli?” Sorrise Koichi.
“Dev’essere una parrucca”, concluse velocemente
Osamu. “E’ la conclusione più ovvia. Credo si sia
tinta i capelli veri, e che per queste passeggiate ne indossi una del
suo vecchio colore. Finita l’esibizione la mette via.”
“Mah.” Koichi fece spallucce. “Se nascondermi
richiedesse tanta fatica, io preferirei farmi trovare,
probabilmente.”
Osamu non rispose. Guardava distrattamente gli enormi cartelloni
pubblicitari che troneggiavano sui grattacieli, come se avesse potuto
scorgervi all’interno il viso di Inoue Miyako. Come se avesse
potuto studiarlo in ogni molecola, e finalmente comprenderlo.
“Quindi crede che abbia inviato un messaggio a sua madre,
signore?” Chiese ancora il suo assistente, distogliendolo dai
suoi pensieri.
“Secondo i testimoni, Miyako è passata chiaramente sotto
la finestra della camera da letto della signora Inoue”, rispose.
“Non ha lasciato nessun segno della sua presenza, nessuna
scritta, nessun biglietto, niente di lontanamente simile ad un
messaggio. Non è stata vista sollevare lo sguardo verso la
finestra. A meno che non abbia trovato un diverso metodo di
comunicazione che noi ancora non abbiamo individuato, dobbiamo credere
che il messaggio consistesse semplicemente nel farsi vedere. Un puro e
semplice Guardami.”
Si accigliò. “Non so se effettivamente il messaggio fosse
rivolto a lei, o se lei non sia piuttosto una pedina necessaria a
portare avanti un gioco più grande. Quello che so”, fece,
“è che Ken sembra convinto della prima ipotesi. E questa
ipotesi è plausibile.”
Riconoscerlo a voce alta portò con sé una sgradevole
ondata di imbarazzo, ma la ricacciò indietro, seccato. Era stufo
di lasciarsi prendere dalle sue emozioni infantili, totalmente stufo di
sentirsi completamente in balìa degli eventi. Occorreva restare
lucidi, e accettare di essere stati in torto nel voler vedere
un’unica soluzione per spiegare fatti così ambigui.
Restare lucidi significava riconoscere che Ken era stato bravo, davvero bravo, questa volta.
“Voglio che tu sorvegli la signora Inoue per un po’,
Koichi”, disse infine, voltandosi a guardarlo.
“Discretamente, non avrei neanche bisogno di specificartelo.
Voglio sapere se esce di casa, se qualcuno viene a trovarla, e
soprattutto se Inoue Miyako si rifarà vedere in zona – ne
dubito, ma d’altronde ci troviamo di fronte ad una situazione
nuova e potenzialmente di allarme, per cui mi aspetto qualsiasi
cosa.”
Il viso di Koichi si aprì in un largo sorriso. “Per cui non devo più …?”
“Certo che devi occuparti della stampa. Mi limitavo a darti
istruzioni per il dopo.” Nascondendo accuratamente il suo
sorrisetto, Osamu si voltò indietro per andarsene, lasciando al
suo assistente il tempo di sospirare sconfitto prima di seguirlo.
***
Quando Yagami Taichi aveva sceso le scale per raggiungerlo, aveva un bambino di pochi mesi in braccio.
“Ok, senti, capisco che sia poco professionale, il punto è
che non posso metterlo giù”, aveva detto anticipatamente,
probabilmente notando gli occhi sgranati di Ken posarsi su quel fagotto
di guance morbide e piedini agitati. “Siamo un po’ a corto
di personale qui, sono quasi tutti a lavoro, Takeru si sta già
occupando di quella mandria inferocita di là, e il piccolo Yukio
ha mal di pancia da stanotte, e sta calmo solo se preso in
braccio.”
“Non c’è problema”, aveva balbettato Ken,
costringendosi a guardare negli occhi uno dei proprietari di casa
Yagami, e non il bimbo pallido dagli occhi stretti che lo fissava un
po’ imbronciato. Si schiarì la voce. “Mi dispiace se
è un brutto momento. Non credo ci vorrà molto.”
Yagami lo invitò a entrare in quello che sembrava essere uno
studio, faticosamente destreggiandosi tra la maniglia della porta e il
bimbo agitato in braccio. Il suono delle risate e delle strilla dei
bambini, nell’altra stanza, si affievolì e tacque quando
la porta si richiuse alle loro spalle.
“Allora”, disse Yagami, accomodandosi dietro la scrivania,
mentre Ken prendeva posto sulla sedia di fronte. “Ichijouji,
giusto? Sarai mica il famoso detective che-”
“Sono suo fratello”, lo anticipò sul tempo Ken, in
automatico. “Gli sto dando una mano. Grazie per aver accettato di
aiutarci con le indagini, a proposito.”
Yagami si portò la mano libera tra i capelli, arruffandoseli
distrattamente. “Devo dirti la verità … Ken,
posso?” Gli lanciò un’occhiata veloce, e al suo
cenno d’assenso proseguì. “Mi sento un po’ a
disagio ad essere interrogato per un’indagine. Non è che
per caso credete che nascondiamo Inoue Miyako qui dentro, vero?”
“No, no! Ci mancherebbe, Yagami-san.” Si affrettò a
rassicurarlo Ken, e Yagami fece un plateale sospiro di sollievo.
Comunicare con gli altri doveva essere molto facile, per lui. “E
poi è già successo che le indagini su Inoue Miyako
portassero a questo orfanotrofio. Osamu deve aver parlato con …
tua madre, credo, diversi anni fa. Non ne sapevi nulla?”
Yagami si accigliò. “Mia madre?”
“Dev’essere stato poco dopo la scomparsa di Miyako”, insistette Ken. “Sette anni fa.”
“Mmm.” Il bambino cominciò ad agitarsi e a fare dei
versi scontenti, così Yagami cominciò a cullarlo
distrattamente. “No, non ne avevo idea. Cosa volevate sapere da
lei esattamente?”
“Più o meno la stessa cosa che voglio sapere io da te
oggi. Mi interessa sapere qualcosa su una persona che, circa sette anni
fa, ha fatto un’ingente donazione a questo orfanotrofio. Ono
Satoshi.”
Non ci fu nessun lampo di riconoscimento alla menzione di quel nome,
negli occhi di Yagami. Ken ne prese mentalmente nota mentre frugava
nella sua cartella alla ricerca di un documento. Dopo averlo estratto,
lo fece passare sul tavolo, ponendolo all’attenzione
dell’altro.
“Lì c’è l’intero piano dei movimenti
della carta di credito di Ono nell’ultimo anno prima della sua
scomparsa, e quindi dell’estinzione del conto”,
spiegò, non appena Yagami prese la fotocopia e se la
portò davanti agli occhi per esaminarla. “Vedi il
versamento cerchiato in rosso? E’ la donazione di cui parlavo
prima. L’ultimo movimento di quella carta. E’ per questo
che ci siamo incuriositi.”
“Questo Ono è un indiziato?” Volle sapere Yagami.
“Era il ragazzo di Miyako. C’è chi lo crede morto, ma abbiamo motivo di dubitarne.”
Il cipiglio di Yagami si accentuò. “Cosa avete scoperto?”
“Non molto. Sappiamo che non ci sono stati altri versamenti a suo
nome, almeno fino a qualche mese dopo la sua scomparsa”, disse
Ken. “Abbiamo chiesto a tua madre di controllare nei registri
delle donazioni … anche se, stando a mio fratello,
l’operazione non è stata esattamente immediata?”
Lo guardò, in cerca di una conferma. Yagami fece una smorfia,
pensieroso, osservando ancora il documento che Ken gli aveva dato poco
prima.
“Non ho idea di come sia andata la faccenda tra tuo fratello e
mia madre. Quello che so è che, da quando abbiamo avviato questo
progetto, non ci siamo mai troppo preoccupati di sapere da quale conto
in banca provenissero le donazioni che riceviamo”, gli
spiegò. “Ne riceviamo un bel po’, sai. Non tante
quante ci occorrerebbero, d’accordo, ma sono comunque un bel
po’. E se devo essere sincero, non ci è chissà
quanto utile schedare i nostri benefattori.”
Ken fece una smorfia. “Capisco.”
“Però, dai tempi di mamma, una cosa è cambiata:
abbiamo con noi un collaboratore che risale alle informazioni utili
più rapidamente di quanto respiri.” Yagami sollevò
lo sguardo, e un ghigno preoccupante gli passò sul viso.
“Koushiro al momento non è qui, ma se ci dai qualche tempo
avrai tutte le informazioni che cerchi.”
Chissà se Yagami si rendeva conto di star dipingendo il suo
collaboratore come una potenziale minaccia per la legge. Ken
deglutì, un po’ a disagio, e assentì rapidamente.
“Sì, certamente. Allora mi affido alla vostra efficienza.”
“Perciò, quello che vuoi sapere è se questo tizio
di nome Ono ci ha fatto donazioni attraverso altri conti a lui
intestati, in questi sette anni?” Domandò Yagami come
ulteriore conferma, stappando una penna con i denti e prendendo a
scrivere su un foglio di carta bianco nome, cognome, e un molto
eloquente ‘COSA DEVE CERCARE KOUSHIRO’ seguito da due punti. Ken si sforzò di non guardare quel nome troppo a lungo, ancora inquieto.
“Esatto. Vi lascio un recapito telefonico”, aggiunse, e
attese che Yagami finisse di scrivere gli appunti per il suo
collaboratore, prima di iniziare a dettargli una serie di cifre
numeriche.
“E’ il mio numero di cellulare”, gli spiegò.
“Non appena avrete informazioni fatemi sapere.”
Yagami gli lanciò un’espressione bizzarra, quando si
alzò in piedi e si diresse ad aprire la porta dello studio, il
suono dei bambini che chiacchieravano a gran voce che tornava a
investire le loro orecchie.
“Pensavo ci avresti lasciato il recapito del detective”,
dichiarò schiettamente, e sentendosi osservato Ken si
fermò a guardarlo, un po’ sulla difensiva. Ma non stava
cercando di valutarlo, di giudicarlo o schernirlo: stava solamente
cercando di capire che tipo fosse. Era uno sguardo curioso, e
nient’altro. “E invece pare che sia lo stesso, chiamare te
o lui. Chissà perché mi ero convinto che fossi
semplicemente un aiutante per reperire i dati, ma ho il sospetto che
anche tu sia bravo a fare indagini. Sei un detective anche tu? Lavori
per Osamu, no?”
Ken rise, scuotendo piano la testa.
“E’ un po’ più complicato di così”, disse solamente.
***
Spero di rivederti presto.
Ken rimase a fissare la bozza di messaggio con aria distratta,
giocherellando col tasto Invio senza osare premere. Era tutto il giorno
che sperava di avere un secondo per sé, così da inviare
quel messaggio che lo assillava da ore.
Da due giorni, in effetti.
Ma forse, considerò, leggendo e rileggendo quelle parole che,
sulla schermata, apparivano improvvisamente stupide, fin troppo banali
paragonate a quel che sentiva, non era tanto il tempo a mancargli,
bensì il coraggio.
Il pensiero di Rumiko e delle sue labbra tremanti lo aveva accompagnato
come un calore sottopelle fin dalla sera dell’appuntamento,
così che anche quando stava facendo altro gli pareva di averla
al suo fianco, di sentire i suoi capelli sulla spalla, di stringere le
sue dita. Era una bella sensazione.
Voleva sentirla ancora. Era proprio per questo che esitava.
Forse Rumiko si era svegliata come se nulla fosse successo, il giorno
dopo? Forse era andata a lavoro, ieri, oggi, e il suo universo
misterioso si era chiuso attorno a lei, tagliando fuori lui?
Forse vederlo o non vederlo faceva lo stesso, per lei?
Eppure mi ha baciato.
Ken cancellò il messaggio, sospirando e ricacciandosi il
cellulare in tasca. Il vento sembrava essersi placato, nel giardino
dell’orfanotrofio: il fruscio delle foglie era solo un rumore
piacevole, ora.
Da quel punto del giardino riusciva ancora a sentire le voci dei bambini nella stanza dove parevano tutti riuniti.
Sembravano molto eccitati, qualunque cosa stessero facendo.
Ken riafferrò il cellulare, e scrisse d’impulso: Sono stato all’orfanotrofio oggi. Non ho mai visto tanti bambini tutti in una volta. Ti piacerebbe, qui.
E cliccò Invio.
Poi nascose il cellulare in tasca come un ladro con un portafogli
rubato, e quando se ne rese conto alzò gli occhi al cielo.
E da quando si comportava come un ragazzino alla prima cotta?
“Ci sarà una mostra di beneficienza.”
Ken si sorprese così tanto che per poco non inciampò sui
suoi piedi. Voltandosi di scatto, si trovò di fronte allo
sguardo solenne di un bambino di circa dieci anni con un berretto da
pescatore grigio calato sul capo.
“Come, scusa?” Chiese stupidamente.
“Una mostra”, ripeté il bambino senza scomporsi. “Vendiamo cose e facciamo spettacoli.”
E sembrò aspettarsi una risposta.
“Mi sembra una bella idea”, tentò Ken.
“Vienici”, disse il bambino.
Ken si guardò intorno, in palese ricerca di aiuto, ma nel
giardino dell’orfanotrofio non sembrava esserci anima viva,
tantomeno la presenza di un qualsivoglia adulto.
“Ehm”, disse Ken. Il bambino lo fissava con grandi occhi castani. “Quando?”
Solo questo sembrò farlo esitare.
“Beh, non lo so”, si imbronciò. “Hikari dice presto, però. Perciò stai attento!”
Ignorando completamente chi fosse Hikari, nonché il minaccioso
dito puntato nella sua direzione, Ken si affrettò a rassicurarlo.
“Certamente. Mi, uhm, mi terrò informato.”
“Ecco dov’eri finito!” Il ragazzo di nome Takeru si
affacciò all’entrata dell’orfanotrofio, e li
raggiunse di corsa: Ken notò distrattamente che non aveva
più il berretto sul capo. “E ora mi spiego anche chi ha
rubato il mio vecchio cappello. Di’, ti sembrano cose da fare,
Keiji-chan?”
Sul viso del piccolo si aprì un sorriso furbo affatto pentito.
“Non l’ho rubato. Sei tu lo scemo che lo lascia in
giro!”
“Non l’ho lasciato in giro, l’ho lasciato in fondo
alla scatola che ho portato stamattina. Il che significa che tu lo hai
rubato.” Takeru gli si parò davanti, guardandolo negli
occhi con aria inquisitoria. “Invece il mio berretto era sulla
sedia, e guarda un po’ è sparito anche lui.”
“Non so dov’è”, mentì spudoratamente Keiji, arrossendo un po’.
Takeru lo fissò ancora un momento, immobile, finché con
una rapida mossa non gli sollevò il cappello grigio dalla testa.
Il tempo di intravedere qualche ciocca di capelli chiari e un oggetto
colorato sul capo e il bambino, con un urlo di protesta, aveva
già riafferrato il cappello grigio e lo aveva ricalato
giù, con tanta forza da coprirgli anche la fronte. Ma il danno
era fatto.
“Come pensavo. E’ lì sotto.” Disse Takeru,
indicando con un ghigno vittorioso il berretto con la visiera girata
che Keiji nascondeva sotto il cappello da pescatore. “Come me la
spieghi, eh?”
Keiji, decisamente rosso in viso per essere stato scoperto, incrociò comunque le braccia al petto.
“Questo però lo avevi lasciato in giro!”
Takeru rimase interdetto.
Ken fece un grande sforzo per non scoppiare a ridere, e si voltò
dall’altra parte per nascondere la sua espressione.
“Vai”, Takeru diede una spintarella al bambino. “Ho
capito il messaggio: continuerai a rubarmi cappelli finché non
ti farò provare il mio vecchio skateboard. Vallo a prendere e ti
insegno ad andarci.”
“Evvai!” Senza pensarci due volte, il bambino corse dentro la villa, assolutamente raggiante.
Takeru lo fissò con un sorriso incredulo per un istante ancora,
prima di sospirare e indossare il berretto. “Scusami. Ti stava
per caso cacciando via? Perché in quel caso -”
“Ma no, assolutamente!” Rispose Ken in fretta.
“- sarebbe normale. Oh.” Takeru tacque, decisamente
sgomento, e Ken si rese conto che probabilmente il ragazzo davanti a
lui doveva essere stato scacciato da un bambino a stento decenne.
Sembrava una storia imbarazzante, così si rifiutò
categoricamente di indagare.
“Se ho capito bene, state organizzando una specie di evento”, cercò di cambiare argomento.
“Ah, Keiji-chan te lo ha detto?” Takeru tornò a
sorridere, una strana gioia negli occhi. “Sì, è
così. Serve ad aiutare l’orfanotrofio, sai. Metteremo su
un mercatino di beneficienza, e abbiamo pensato di invitare anche una
band per l’intrattenimento. Conosci i Knife of Day?”
“Ah … credo di averli sentiti nominare.”
“Il frontman è mio fratello. A suonare dovrebbero essere loro – anche se Yamato ancora non lo sa.”
Aveva un sorriso strano, Takeru. Sorrideva come un morto resuscitato
per miracolo, aggrappato alla vita con tutto se stesso, col timore
costante che le ombre tornassero a ghermirlo.
“Avevo preso tutti quei giocattoli per metterli in vendita al
mercatino, ma i bambini hanno deciso che alcuni li vogliono
tenere”, continuò Takeru, facendo spallucce. “Vai a
capire perché. I loro sono più nuovi, perché
vendere quelli?”
Il cellulare vibrò di colpo nella sua tasca, e Ken si irrigidì completamente.
“Perché tu hai uno skateboard”, rispose d’istinto. “Vuoi scusarmi un attimo?”
“Ma certo.” Takeru batté le palpebre, e poi sorrise,
mettendo le mani in tasca e voltandosi verso l’entrata della
villa. Una serie di bambini sovraeccitati stava trasportando goffamente
un dondolo in legno a forma di cavallo e un aquilone stropicciato, con
tutta l’intenzione di inaugurare i nuovi giochi nonostante il
vento poco invitante di quel pomeriggio.
Ken si assicurò che lo sguardo del ragazzo fosse puntato altrove, prima di girarsi di scatto e afferrare il cellulare.
Il messaggio era di Rumiko.
Lo sai che se guardi troppo i bambini
passi per un poco di buono? Non sta bene, Ichijouji. Qualunque cosa
succeda, NON offrire loro caramelle.
Perché, invece che ai bambini,
non dedichi attenzione ad attraenti libraie? E’ un consiglio
spassionato, NATURALMENTE. Per niente interessato.
P.S. Se non si fosse capito … non vedo l’ora di rivederti.
Ken tornò a respirare.
“Ehi, voi! Attenti con quell’aquilone!” Takeru, di
colpo allarmato, si avviò a grandi passi verso un gruppetto di
bambini urlanti, e lo lasciò piantato lì, gli occhi
stupidamente fissi su quel messaggio che rimetteva il mondo a posto,
ancorava gli alberi a terra, rendeva il vento più mite.
Ken non fu mai più felice di scoprirsi uno sciocco, ad essere stato tanto in apprensione.
Non ho bisogno di caramelle per spaventarli, digitò in fretta. La mia faccia è già brutta a sufficienza.
Pensi che le attraenti libraie non ne
avranno timore? E’ l’unico pensiero che mi frena dal
tentare questa nuova attività.
Ken lanciò uno sguardo a Takeru, ora incastrato nel filo
dell’aquilone, intento a cercare di districarsi, circondato dalle
risate dei bambini. Poteva essere un buon momento per congedarsi,
pensò. Magari poteva invitare Rumiko a cena. Magari lei avrebbe
accettato, anche senza troppo preavviso, anche con un intero giorno
passato senza sentirsi …
Il cellulare vibrò nuovamente.
Brutta?! E’ palese che non hai senso estetico. O occhi, per quel che mi riguarda! Eretico.
Delle altre libraie non so, ma ce
n’è una in particolare che ha timore solo di una cosa: di
te che pensi. NON pensare. E vienimi a trovare.
D’accordo, doveva invitare Rumiko a cena. Senza magari.
Si ricacciò il cellulare in tasca, una ridicola esultanza a
rendere il suo passo baldanzoso, deciso ad allontanarsi il più
in fretta possibile da lì per andare da lei, senza pensare.
Pensare era diventato inutile, in quel momento.
Fu proprio allora che successe.
“Brutto stronzo!”
Il giardino intero trattenne il respiro.
Un ragazzo dai folti capelli rossicci era premuto contro il cancello
grigio, le nocche strette, il viso paonazzo. Sembrava fuori di
sé, e per un momento Ken si convinse che ce l’avesse con
lui per qualche motivo.
Poi si rese conto che il ragazzo infuriato non stava guardando nella sua direzione.
“Sono settimane che cerco di chiamarti – settimane! –
e ti fai trovare a giocare con dei mocciosi come se niente fosse?! Sei
impazzito?” Continuò a sbraitare, incurante dei bambini,
incurante di Ken. Aveva solo occhi per il ragazzo incastrato nel filo
dell’aquilone. “Che cazzo hai per la testa, Takeru?”
“Ha detto una parolaccia”, si mise a ridere un bambino sottovoce, e una sua compagna gli diede uno spintone.
“Daisuke-kun”, sussurrò invece Takeru, e poi nulla.
Ma Ken sussultò di colpo, e lanciò uno sguardo più attento al ragazzo contro il cancello.
E si ricordò di averlo già visto. In una fotografia,
accanto a una serie di altri volti, nei file dell’indagine che
Osamu gli aveva passato quando lo aveva contattato per la prima volta
in cerca di aiuto.
Motomiya Daisuke.
L’amico storico di Inoue Miyako.
Amico, a quanto sembrava, anche di Takaishi Takeru, il ragazzo dell’orfanotrofio.
Takeru non si era mosso, immobile al centro del gruppetto di bambini
chiassosi. Era pallido, le braccia molli contro i fianchi, gli occhi
puntati su Motomiya Daisuke, l’espressione di chi ha appena visto
un fantasma.
E Ken seppe che, infine, le ombre erano tornate a reclamare il loro tributo.
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