La vita quotidiana di Aldo Gorini

di yonoi
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La vita quotidiana di Aldo Gorini

 
Sicuri nelle stanze d’alabastro,
dove l’alba e il meriggio non li sfiorano,
dormono i miti membri della Resurrezione
sotto a  travi di raso, con un tetto di pietra”
(Emily Dickinson, “Safe in their Alabaster Chambers)
      

            1. L’Isola dei Morti

           
Raccolto su uno sperone a picco sul lago, una cinta di mura ombreggiata dai cipressi, il camposanto detto della Rupe o l’Isola dei morti, è un luogo frequentato soprattutto dalle libellule: con i loro voli a scatti si levano dalle onde, risalgono sostando sulle rocce per riposare, poi una volta sul prato patiscono immediatamente la nostalgia dell’acqua. Si affannano allora per ritrovarla nelle pozze colme di umidità e di pioggia, nei vasi degli ultimi fiori offerti ai defunti.
            Da quando è stato edificato il Cimitero Centrale, più grande e periferico, nessuno viene più qui per essere sepolto o per visitare i morti, portare fiori avvolti in carta di giornale, cavare via le erbacce e passeggiare attorno per vedere le tombe nuove.
            Costruito come un’unica colata di calcestruzzo, dotato di crematorio e loculi in file ordinate come un moderno condominio dei morti, nel giro di pochi anni il Centrale ha iniziato a funzionare a pieno regime. Da allora non si vedono più facce nuove alla Rupe, e la nostra solitudine è cresciuta come l’edera indisturbata sui muri.
            Soltanto Aldo Gorini, musicista in pensione, con fedeltà incrollabile e fino al suo ultimo giorno, ha continuato ad arrampicarsi lungo la scala in pietra che dalla riva del lago conduce in cima all’Isola: addirittura, passò da questa vita mentre si trovava tra noi, a contemplare il tramonto dalla sua sedia a dondolo. Era abituato a trascorrere così le sue giornate: sempre accanto alla moglie defunta da molti anni, come se entrambi avessero traslocato dal mondo dei vivi, per continuare a vivere insieme alla Rupe.   
            Quando il peso dell’anima si svincolò dal corpo, la sedia continuò a cullarlo scricchiolando, finché esaurì la spinta e tutto si fece immobile. Terminò il movimento, si tacitò il respiro. Si spense una candela per un colpo di vento. Si liberò l’amore che portava nel cuore.
            Lo trovarono solo il mattino seguente, e il corpo possedeva il quieto abbandono del sonno.
            Alle prime luci dell’alba, mentre era intento ad aprire i grandi cancelli di ferro, il custode - fatto insolito - non aveva trovato Gorini ad attenderlo sotto l’arcata polverosa dell’ingresso. Si era insospettito: neppure la sera prima l’aveva visto uscire quando era stata l’ora di chiudere i battenti, e di lasciare i morti riposare la notte. Il sospetto si era trasformato in inquietudine: alla velocità massima consentita dalle sue gambe, il custode si era affrettato verso il mausoleo dedicato alla memoria di Emily Olsen, moglie compianta e amatissima del Gorini.
            Arrivato sul posto, aveva trovato l’uomo adagiato sopra a una sedia a dondolo: le punte dei piedi toccavano terra, come se fosse stato sul punto di alzarsi per andarsene altrove. Una coperta scendeva ai lati delle ginocchia, le mani ben curate posavano sulla pagina di un libro di poesie: “Noi ora saliremo verso l’Eterno, ci basta raggiungere il cielo e sfiorarlo…” recitava il primo verso.
            Quando, molto più tardi, su di lui si chinarono gli uomini del soccorso, la polizia salita apposta dalla città, non vi era più alcun dubbio: l’uomo era deceduto, e da parecchie ore. Eppure il suo volto non solo era raggiante, ma pareva ringiovanito fino al tempo di una stupefacente adolescenza. Nelle pupille lucide, elastiche malgrado le ore già trascorse, era impresso il volto di una donna immersa in un sonno profondo.
 
******
 
            Agli inquilini della Rupe, la notizia fu data da una delle farfalle che curiosando s’era spinta fin là, nel suo fragile volo a balzi. Scambiandolo per un fiore, s’era fermata sull’anello nuziale di Aldo Gorini: sfiorando la mano inerte del musicista, solcata da vene scure, aveva riscontrato una strana freddezza, un’immobilità simile a quella delle pietre.  
            Colta dal turbamento, la piccola cavolaia aveva spalancato gli occhi neri delle sue ali, ed era rimasta a osservare il trambusto dei tanti che accorrevano indaffarati, dentro e fuori dal mausoleo. Vide Aldo Gorini sollevato di peso dagli uomini del soccorso, disteso a terra sul marmo scabro del pavimento, e sottoposto a inutili tentativi rianimatori.
            La manovra, condotta in modo massiccio e con tutta la forza dei nervi, aveva evocato nel corpo esanime una parvenza di reattività. I due soccorritori, un ragazzo sparuto e un adulto dagli occhi stanchi, erano andati avanti finché un tizio dalla casacca fosforescente con sopra scritto medico non aveva fatto sentire la propria voce, sopra a quella metallica del defibrillatore:
            “Non c’è nessun ritmo. Potete staccare.”
            Un breve cenno rivolto ai due operatori aveva posto fine all’attività e all’ansia. Una calma irreale era allora discesa sulla scena inquadrata dalle colonne alte e severe del mausoleo: era la calma immobile di quando il tempo è cessato e d’ora in poi comincia, lenta, l’eternità.
            Immobili erano rimasti anche gli uomini del soccorso, ai due lati del corpo come figure di veglia: le braccia scese sui fianchi, le ginocchia sul pavimento di marmo e di polvere. Il soccorritore giovane si chinava su Aldo Gorini, spiando con stupore i lineamenti di lui, composti e trasfigurati da un’infinita pace. 
            L’adulto dagli occhi stanchi aveva di fronte a sé un altro volto che emergeva dalla penombra: e neppure questo era vivo, malgrado la stupefacente vivacità dell’espressione. Scolpito sul sarcofago di Emily Olsen, un profilo femminile emergeva da un sudario di pietra, che l’avvolgeva con la serica trasparenza di un velo: la fronte era spaziosa, il collo impreziosito da una treccia in cui i capelli erano modellati uno a uno.
            Si trattava di un’opera unica nel suo genere, sia per i dettagli di perfezione anatomica, sia per la somiglianza: si diceva che neppure le numerose foto scattate a Emily Olsen negli anni della giovinezza, fossero in grado di restituirne l’incanto e la modestia, alla stessa maniera di quell’opera che la ritraeva da morta.
            Tutti, in paese, erano a conoscenza delle voci che correvano circa l’anonimo artefice di quel prodigio scultoreo, che in luogo di evocare il distacco della morte, pareva aver imprigionato nella pietra una scintilla di vita. Si diceva che l’artista trasformasse in sculture i corpi stessi dei defunti, e che tal fine avesse messo a punto un sistema che sfruttava la meccanica del circolo corporeo: iniettando sostanze di dubbia provenienza finché vi era ancora polso, riusciva a pietrificare i corpi nel momento in cui il fluido raggiungeva ogni anfratto, ogni derivazione dell’albero circolatorio. Stando alle dicerie più tetre, per garantire un risultato ottimale l’artista era solito iniziare il trattamento durante l’agonia, col soggetto ancora vivo: ciò rendeva conto del magnifico stato di conservazione, dell’integra freschezza di tutti i lineamenti.
            Di più: si diceva che quella misteriosa miscela fosse in grado di suscitare nel morente sensazioni di estasi. Sicché l’ignoto artefice non soltanto riusciva a catturare l’anima e a fissarla nella pietra: in virtù degli effetti di quell’arcano fluido, poteva conferire ai volti un’espressione quieta, depurata da ogni traccia di sofferenza. 
            Malgrado la loro artificiosa serenità, quei volti impietriti mettevano i brividi. Per questo, molte opere dell’anonimo esperto di mineralizzazione avevano subito un destino travagliato: alcune trafugate e vendute a collezionisti, molte altre distrutte per mera superstizione.
            Solamente il sarcofago di Emily Olsen si era conservato intatto e inviolato nell’Isola dei Morti. Il professor Gorini era molto stimato dalla gente del lago, presso cui era solito recarsi ogni anno in villeggiatura: nei mesi estivi, faceva vita da eremita dedicandosi all’hobby sonnolento della pesca, allo studio e alla composizione di musica per violoncello. Silenziosa e inafferrabile come l’ombra, la moglie, violinista, era sempre al suo fianco. Nell’ora del tramonto li si vedeva spesso su una piccola barca che tracciava una scia sul pelo verde dell’acqua, sfiorando le ninfee e levando una pioggia di libellule argentee.
            Dal centro del lago, l’Isola dei Morti appariva come un torrione poderoso di roccia: sulla sua cima si conficcavano, come frecce scagliate dall’alto, le lapidi e le croci, i cipressi odorosi, le volte bianche delle cappelle famigliari. Aggrappata al torrione, una stretta scala a chiocciola saliva fin lassù. La scala era anche il motivo per cui i morti dell’Isola non venivano più visitati da anni: gli anziani non si azzardavano a mettervi piede per paura di scivolare, i giovani la evitavano perché non si riusciva ad arrivarci con l’auto.  
            Lungo la scalinata, quella mattina gli uomini del soccorso trasportarono il corpo di Aldo Gorini. Una volta esauriti i tentativi di rianimarlo, sulla scena era calata un’insolita calma. Il corpo era stato adagiato sulla lettiga, coperto da un lenzuolo che dapprincipio l’aveva celato fino alle spalle, lasciando libero il volto.
            Da quel volto irradiava una splendida luce.
            Malgrado il tracciato piatto del defibrillatore e l’assenza di polso, di ritmo e di qualsiasi altro segno vitale, Aldo Gorini pareva vivo al di là di ogni ragionevole dubbio: di più, non mai apparso così in salute da quando Emily Olsen l’aveva lasciato, rapita da improvviso e inesorabile male, come recitava l’immaginetta listata a lutto che a suo tempo era stata distribuita alle esequie.
            Da quel giorno ormai remoto, il volto del Gorini aveva cominciato pian piano ad avvizzire, ad assorbire il grigio delle pietre tombali, venato appena d’azzurro. L’espressione del viso aveva finito per diventate la stessa, statica e ultraterrena, impressa sul sarcofago di Emily Olsen.
            Negli ultimi quindici anni, la tomba di Emily aveva rappresentato l’unico posto dove il musicista riusciva a sentirsi in pace, confortato dalla presenza della sua amata. Ora che finalmente l’aveva ritrovata, il suo volto raggiante, i lineamenti ringiovaniti parlavano per lui: sfolgoravano di tutta l’indicibile gioia che il suo spirito stava certo sperimentando, nel ricongiungersi a lei.
            Uscendo dall’atmosfera fredda del mausoleo, il piccolo corteo entrò nell’estate.
            Il trasporto ebbe luogo senza alcuna fatica: il corpo del defunto pareva senza peso, come se tutta la sofferenza che l’aveva gravato per lungo tempo, si fosse dileguata assieme al suo spirito.
            Le mura di vecchio intonaco, salato dalle intemperie, trattenevano il vento che saliva dal lago, lasciando scivolare sulla fronte di lui soltanto la carezza di una morbida brezza. Ai margini del sudario, i suoi capelli candidi si scompigliavano come quando era ragazzo.
            Il volto restò scoperto come quello di un uomo vivo, finché il tizio dalla casacca con sopra scritto medico, con una manata brusca levò il lenzuolo a coprirlo.
            Steso sulla barella e accompagnato dal piccolo corteo funebre, Aldo Gorini attraversò i viali arricciati dal canto delle cicale: al suo passaggio, noi cipressi piegammo il capo e le mani giunte.
            Le Madonne pensose, gli angeli desolati a guardia delle tombe, i grandi crocifissi sulle pareti delle cappelle famigliari, seguivano il corteo con i loro occhi bianchi.
            Con prudenza, la piccola processione si avventurò per i gradini che dalla Rupe scendevano fino al lago. Sulla riva si era radunato un gruppo di curiosi, silenziosi e raccolti attorno all’ambulanza. Nella luce del nuovo giorno, l’acqua era una tavola liscia e abbacinante: all’arrivo della lettiga, dai canneti e da un gruppo di ninfee candide, che formava un bouquet al centro del lago, si levò uno stormo iridescente di libellule.
            All’unisono, presero il volo.
            Ed erano simili, nella gioia, ad anime liberate.
 
******
 
            Mentre il corpo di Aldo Gorini lasciava la Rupe, noi cipressi e gli altri abitanti del camposanto ci ritrovammo un poco più soli. Ormai solo il custode sarebbe passato di qui ogni giorno, per il tempo necessario ad aprire i cancelli e chiuderli al tramonto.
            Avremmo sentito ancora, talvolta, il cigolio della carriola piena di terra, l’odore di frescura smossa e dei vermi ciechi, strappati dalle loro dimore minerali. Ci sarebbe stata la novità di qualche esumazione, peraltro sempre più rare, da quando la Rupe è stata dichiarata cimitero monumentale: avremmo visto il custode, e qualche altro individuo tetro al pari di lui, scardinare una lapide o un loculo a muro, cavar fuori le ossa appartenute a qualche estinto di cui ormai si è perduta la memoria, morto di altri morti, e di cui anche i nostri non si ricordano più.
            In occasione delle sempre più rare esumazioni, Aldo Gorini era l’unico a trattare quelle ossa farraginose, ormai sul punto di dileguarsi in polvere, con l’attenzione che si doveva a spoglie umane. Quando il custode e gli addetti aprivano le casse, in genere spezzandole senza tanti complimenti, lui compariva silenzioso alle loro spalle: si offriva per raccogliere i resti di quella gente dimenticata, e con molta dedizione - perché ai suoi occhi erano tutti familiari della moglie - aiutava a riporli nell’ossario.
            Lo conoscevano tutti alla Rupe, Aldo Gorini: a tutti era nota la sia familiarità con la morte, che lui considerava, molto semplicemente, un altro modo di stare al mondo. Come se i defunti avessero cambiato soltanto l’indirizzo, traslocando dalla città all’Isola, ma restando comunque presenti, recando conforto ai vivi con la pienezza del loro silenzio.  
            Con la stessa naturalezza con cui teneva in ordine il mausoleo della moglie, Gorini si occupava di quelle tombe che non avevano più nessuno che le curasse: aiutava a ripulire dai muschi le lapidi, le figure del pianto, gli angeli di pietra curvi per la vecchiaia. Nel campo dei bambini, rassettava i loro giochi: le bambole e i peluche, le Barbie a cui mancava un braccio o una gamba. Sulle tombe dei maschietti sistemava i camioncini di plastica, i soldatini sparpagliati dal vento dispettoso che saliva dal lago, simile ai ragazzi che buttano giù i castelli di sabbia con un calcio.   
            In autunno, Aldo Gorini amava passeggiare nel silenzio dei nostri viali. Le foglie scricchiolavano sotto ai suoi passi lenti e fuori dal tempo. Si fermava ad ammirare la vite canadese, che in ottobre divampa di rosso scarlatto: con la piega dei pantaloni diritta e ben stirata, le caviglie a bagno nel giallo, avanzava un po’ curvo nei mucchi di foglie fragili, le mani allacciate dietro alla schiena.
            Restava in giro giusto il tempo di sgranchirsi le gambe, e respirare l’aria limpida della Rupe: presto faceva ritorno al mausoleo, come se non riuscisse a stare lontano da lei per troppo tempo.
            Scompariva inghiottito dalla penombra fredda, tesa tra le colonne: dopo un poco, le note del violoncello iniziavano a diffondersi per i campi del cimitero. E i morti si affacciavano dalle loro dimore per ascoltare meglio.
            Sedevano sulle lapidi, facevano capolino dalle tombe di famiglia, dai cancelli filigranati delle cappelle. I mariti e le mogli si tenevano per mano: sedevano sugli usci, oppure passeggiavano assorti per i viali, le donne con le lunghe sottane dell’altro secolo, gli uomini con le scarpe lucide di vernice. Alcune coppie anziane un po’ dure d’orecchi si avvicinavano al mausoleo, sedevano sui muretti tra i festoni di edera, dignitosi e composti come a teatro.    
            Nel campo dei bambini, i piccoli sedevano sui bordi delle fosse, i giocattoli in braccio: molto spesso le mamme erano a loro volta sepolte nell’Isola, e la sera venivano a farli addormentare con qualche canzone. Poiché le loro gonne erano ampie e spaziose e ci si potevano attaccare in tanti, le madri della Rupe prendevano con sé anche i bambini orfani, quelli coi genitori sepolti chissà dove: quando Aldo Gorini suonava, madri e figli si lasciavano trasportare da quella melodia che scendeva lungo i vialetti ordinati, indugiava tra i cespugli dei gelsomini, sfilava davanti a noi cipressi marziali, che eravamo i guardiani dell’antico cimitero.
            Per un attimo, noi cipressi rinunciavamo alla nostra posizione diritta sull’attenti: le nostre lance d’argento erano percorse da una profonda commozione, perché sentivamo l’amore scorrere in quelle note. Nella sera che scendeva, col fresco che increspava il dorso del lago, la musica diventava un’unica cosa con il silenzio: di più, era come se il silenzio si trasformasse in un abbraccio di consolazione.
            Nel campo dei soldati, un tedesco e dieci italiani, sepolti tutti insieme alla fine della guerra per stanchezza e per pena, ci si scambiava mozziconi di sigarette. Anche i soldati ascoltavano: si passavano un braccio attorno alle spalle, scrollavano la polvere dalle uniformi marce e si lasciavano andare ai ricordi.  
            Le note del violoncello, con la loro dolcezza, alleviavano nei morti la nostalgia della vita.
            Ciò era tanto più prezioso, se si pensa che la maggior parte degli abitanti della Rupe non aveva più nessuno: non c’era più tra i vivi qualcuno che si ricordasse ancora di loro, e venisse alla Rupe per fare quattro chiacchiere, recitare un Padre Nostro e un Eterno Riposo, lasciare un fiore in boccio.
            Qualche pettegolezzo sui fatti del quartiere e della famiglia, su chi si era sposato o era appena nato, chi aveva preso una laurea, a chi era capitata tra capo e collo una disgrazia: ai defunti piaceva essere al corrente su ciò che capitava fuori dal tempo fermo, immobile della Rupe.
            Per tutti, ormai, l’unico legame con la terra dei vivi era rappresentato da Aldo Gorini.  
            Si aveva l’impressione che quando Gorini suonava, persino l’erba dei campi crescesse più verde e più alta. Il verde della giovinezza e della rinascita, in quei momenti, era ovunque: nel prato che cresceva secondo l’armonia della musica, nello splendore in lontananza del lago, sulla riva remota che a tutti noi richiamava un’altra riva ultima, quella dell’eternità.
            Ascoltando quelle sonate, si aveva l’impressione che fosse lui stesso a parlarci e che le note fossero parole sussurrate, che ponevano a tutti noi una domanda: cosa si è disposti a fare pur di essere amati, e perché l’amore continui?
 
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