IL
VELO
Parte prima
…This is the end, beautiful
friend…
Il marine Serrano buttò da una
parte la pala con cui stava riempiendo di sabbia polverosa un sacco
da trincea e disse: “Basta! Già questo è un lavoro di merda.
Farlo con quella musica in sottofondo, poi, è peggio che spararsi
nelle palle.” Tirò fuori una sigaretta e se l’accese. “Non lo
sopporto più,” borbottò poi, espirando una boccata di fumo.
...This is the end, my only
friend, the end…
Dalle finestre aperte di una
camerata, la canzone rimbombava per tutto il campo.
Il suo commilitone Ayers, che era
chinato a tenere aperta la bocca del sacco, guardò in su e replicò:
“Datti da fare, dai, non ci tengo a far incazzare il sergente
un’altra volta.”
“Lo senti?” ribatté l’altro.
“È la terza volta di fila che la suona, cazzo. Sempre la stessa.
Ma giuro che se non la pianta vado là e gliela suono io, la fine.”
Jim Morrison nel frattempo stava
continuando imperterrito a lamentarsi: ...and
all the children are insane, all the children are insane…
A quel punto, alle loro spalle si
udì una voce profonda proclamare: “Questo stronzo pensa di essere
a casa sua.”
I due si girarono e ritennero
opportuno non replicare: era comparso il marine Clement Boyle, un
mezzo maori di due metri per centotrenta chili di peso, praticante di
varie arti marziali, dal carattere notoriamente pessimo e portato
allo scatto d’ira.
Questi fissò la finestra aperta
della camerata come un toro avrebbe fissato un torero particolarmente
molesto, quindi partì a grandi passi in quella direzione.
I due rimasero a seguirlo con lo
sguardo fino a che non scomparve all’interno dell’edificio.
“Ora lo ammazza,” commentò a
quel punto Serrano con un’alzata di spalle. Si mise la sigaretta
all’angolo della bocca, raccolse la pala e ricominciò a riempire
il sacco.
Il marine Brian Everett era
sdraiato sulla sua branda con addosso solo i pantaloni e la
maglietta. Teneva le braccia dietro la testa e le gambe accavallate,
e si godeva la sua canzone preferita, ovvero The End, dei Doors.
Non era tipo da mezze misure, e
quando ascoltava la musica gli piaceva farlo a tutto volume, e
insistere finché una certa canzone non finiva per annoiarlo. La
consumava,
in un certo senso. La acquisiva.
Era un concetto filosofico di cui
andava molto fiero.
Quando sentì il trambusto in
anticamera, sulle prime pensò a un assalto nemico, e istintivamente
abbandonò la posizione rilassata per guardarsi intorno alla ricerca
di fucile e scarponi.
Non fece in tempo a reperire
nessuna delle due cose: la porta si aprì con tale violenza che
rischiò di saltare dai cardini, e nel riquadro comparve la
preoccupante mole di Boyle.
“La vogliamo piantare?”
ringhiò il nuovo arrivato.
“Ehi, stavo solo ascoltando un
po’ di musica,” ebbe la pessima idea di replicare Everett.
L’altro fece un minaccioso
passo avanti, poi disse: “No, la faccenda è un po’ diversa: tu
stai rompendo i coglioni a tutti con la tua musica del cazzo.”
“Io ascolto quello che mi
pare.”
Boyle fece un altro passo avanti.
Afferrò lo stereo, lo strappò dal muro con la presa e tutto, e lo
lanciò fuori dalla finestra, mandandolo a fracassarsi contro
l’edificio che si trovava dall’altra parte del vialetto, poi
incrociò le braccia sui poderosi pettorali e lo fissò torvo.
“Ascoltala adesso, la tua fottuta musica,” disse.
“Senti, frustrato di merda...”
cominciò l’altro, scendendo dalla branda con la lenta
determinazione di chi è intenzionato a cantarle chiare
all’avversario una volta per tutte, “si può sapere che cazzo di
problema hai? Quello era il mio
stereo.”
“Vuoi fare la stessa fine,
stronzo?”
Una volta che si fu alzato in
piedi, Everett dovette piegare la testa all’indietro per riuscire a
fissare negli occhi l’interlocutore. In tono già meno deciso,
protestò: “Non ne avevi il diritto.”
“E tu non hai il diritto di
rompere le palle a tutti con la tua musica del cazzo.”
Questa volta, l’altro non trovò
nulla da eccepire. Si limitò a grugnire qualche vaga protesta, poi
raccolse gli scarponi e abbandonò la stanza.
Padrone del campo, Boyle si
guardò intorno. Dalla branda accanto a quella di Everett, il marine
Andy Vaughan aprì un occhio e disse: “Ciao, Clem.”
L’altro rilassò i muscoli e
abbandonò le braccia lungo i fianchi, poi premuroso disse: “Scusa,
Orange. Ti ho svegliato?”
In tono pacato, l’altro
osservò: “Col casino
che hai fatto, avresti svegliato anche i morti.”
“Scusa,” ripeté Boyle
contrito, “mi aveva fatto incazzare.”
“Ma sì, ti capisco,” rispose
Vaughan tranquillo. Sbadigliò. “Dava un po’ di fastidio con
quella musica.”
“Un po’ di fastidio? Ma se
faceva tremare i vetri!”
“Beh, non tanto, in fondo.”
L’altro si alzò dalla branda, si stirò come un gatto e propose:
“Andiamo in mensa a bere qualcosa?”
“Ok.”
Si incamminarono.
“Ma come cazzo facevi a
dormire?” chiese Boyle strada facendo.
“Boh, come si fa a dormire? Ti
metti lì e chiudi gli occhi, no?” Poi, dopo una pausa: “Come
faccio a spiegarti come si fa a dormire?”
“E dai, Orange.” protestò
Clem Poi, dopo una pausa: “Un giorno me lo dirai perché tutti ti
chiamano Orange?”
“Un giorno, magari...”
“Birra?”
“Ok, birra.”
§
Arroventate dalla calura del
primo pomeriggio, le baracche di Camp Courage sembravano tremolare
nell’aria torrida e immobile. I vialetti di terra battuta si erano
trasformati in miraggi, e pareva che in fondo a ognuno di essi ci
fosse un'invitante pozza d'acqua. Le lamiere degli automezzi erano
così calde da ustionare.
Orange, biondo rossiccio, occhi
azzurri e pelle refrattaria all’abbronzatura, tirò fuori un
tubetto di Protezione 50 e se ne applicò una generosa quantità sul
naso spellato e sulla fronte, poi inforcò un paio di occhiali da
sole. “È un po’ caldo, oggi,” commentò. Porse la crema a
Clem. “Vuoi?”
L'altro lo fissò critico. “Per
fare dieci metri all’aperto?”
“Uhm. Ripensandoci, sei un
mezzo maori, quindi non ne hai bisogno. E poi sei talmente grosso che
me la consumeresti tutta.” Si rimise in tasca il tubetto.
Raggiunsero l’aula briefing,
fuori dalla quale era affisso un cartello che recitava: Seminario di
cultura islamica, a cura della professoressa Irene Simmons.
Nella sala stavano entrando solo
maschi.
I due presero posto, e poco dopo
la porta venne chiusa. Un proiettore da diapositive si accese, e
dalla porta riservata agli ufficiali fece il suo ingresso una procace
mora con una quarta naturale e lunghe gambe affusolate.
La giovane donna salutò
l’uditorio e con voce flautata annunciò: “Oggi parleremo
dell’arte islamica.”
“Come vorrei che invece mi
parlassi dell’arte di fare i pompini...” mormorò qualcuno,
stando ben attento a non farsi sentire dalla docente.
La professoressa prese una di
quelle canne che si usano per indicare.
“Sì, puniscimi, maestra...”
sussurrò un altro. Seguirono delle risatine soffocate.
Imperterrita, o forse solo
serenamente ignara, la docente cominciò a disquisire di arte
omayyade, mostrando immagini della grande moschea di Damasco.
Orange era piuttosto soddisfatto
della scelta artistica, perché le moschee erano generalmente dotate
di minareti, e quando la Simmons alzava quella sua bacchetta per
indicarli, le tette si comportavano in maniera interessante.
Per un po' rimase a scrutarle,
cercando di capire se fossero naturali o rifatte, ma non riuscì a
raggiungere un verdetto. Diede un colpetto col gomito a Clem e
sottovoce gli chiese: “Secondo te sono vere?”
“Cosa?”
“Le cupole
della Simmons.”
“Il mio minareto
pensa di sì.”
“Il solito milord.”
“Sei stato tu a cominciare.”
La docente nel frattempo stava
mostrando una costruzione di pietra chiara.
“Ehi, quella l'ho già vista,”
sussurrò Orange. “È poco fuori città.”
“...e questo è il mausoleo di
al Mansour, risalente all'ottocento dopo Cristo.” disse la Simmons.
“Come potete vedere, il monumento è stato realizzato sulle
fondamenta di una costruzione più antica...”
Qualcuno alzò la mano.
La docente smise di spiegare, si
voltò in quella direzione e disse: “Sì...?”
“Signora, cosa c'è dentro?”
L'altra gli fece il sorriso della
mamma che spiega al bambino che non può aprire il coniglietto per
vedere come mai si muove e respira. “Non è aperto ai non
musulmani,” rispose candidamente. “È un luogo sacro per la loro
religione.”
“Ma allora, signora, potrebbero
esserci dentro anche dei terroristi?”
“È un luogo sacro,” ripeté
l'altra, dando l'idea di considerare la risposta perfettamente
esaustiva.
Orange si voltò verso il
compagno: ormai lo conosceva, e sapeva perfettamente che un discorso
come quello della Simmons aveva il potere di scatenare la più feroce
delle sue incazzature. Allungò una mano per toccargli il braccio, ma
prima che il gesto riuscisse a giungere a compimento, Boyle saltò in
piedi e chiese: “Quindi, signora, siccome quello è un luogo sacro,
noi non ci possiamo entrare?” I suoi occhi fiammeggiavano in modo
inquietante.
La docente rimase con la canna a
mezz'aria, vagamente intimidita dalla mole del marine. In tono
suadente rispose: “È un luogo di culto. Per rispetto alla loro
religione, abbiamo scelto di non violarlo.” Fece una pausa, poi,
con il sorriso indulgente di chi sta ascoltando le preoccupazioni
fuori luogo di una vecchia signora un po’ isterica, soggiunse:
“L'Islam è amore.”
Non l'avesse mai detto.
Clem letteralmente strabuzzò gli
occhi, poi con voce tonante replicò: “Beh, lasci che le spieghi,
signora, che qui siamo in guerra, altro che amore del cazzo! E mentre
noi stiamo qui a farci le seghe sul rispetto e sulla tolleranza,
quegli stronzi ci violano il culo tutti i giorni, per usare parole
sue, e noi non possiamo fare un cazzo, perché arrivano certi idioti
dalle Università, e dopo aver passato il tempo a farsi canne e a
scrivere cazzate sulla pace e sul rispetto, vengono qui in Iraq, dove
ci facciamo il culo tutti i giorni, a dire le imbecillità di chi non
ha mai sentito un colpo di fucile in vita sua! Venga un po' a portare
a spasso le sue tette in una missione di pattugliamento, signora, poi
riparliamo della pace e del rispetto!”
A quel punto si scatenò
l'inferno: tutti saltarono in piedi, alcuni volenterosi afferrarono
Clem per le spalle e cercarono senza successo di portarlo fuori, ma
la maggior parte cominciò ad acclamarlo, a ripetere spezzoni della
sua requisitoria e a urlare slogan patriottici. Volò anche qualche
sedia.
Entrarono nella stanza quattro
MP, ma a quel punto tutta la conferenza era già piombata nel caos e
nessuno prestava più attenzione alle pur pregevoli tette della
docente, e meno che mai all’arte omayyadi. L'unico che manteneva
una calma olimpica era Orange, che sedeva tranquillamente e
contemplava la diapositiva proiettata sul muro, ovvero una
planimetria del famoso mausoleo.
Si alzò adagio, e schivando i
commilitoni raggiunse la cattedra. La professoressa stringeva a due
mani la bacchetta, con l'aria di una dama vittoriana capitata in
mezzo a una masnada di marinai ubriachi. Il marine esibì un sorriso
soave e disse: “Signora?”
L'altra lo fissò come si
potrebbe fissare un pompiere in un incendio. “Sì, soldato?”
“Forse è meglio che io la
accompagni fuori, signora.” Le porse il braccio con la galanteria
di un gentiluomo della Virginia.
§
Clem si mise in spalla l'M4, che
addosso a lui sembrava poco più un fucile giocattolo, e si aggiustò
l'elmetto dotato di videocamera. Poi si voltò verso il compagno e
chiese: “E quindi, zitto zitto te la sei portata fuori?”
“È il motto non ufficiale di
noi marines, amico,”
rispose fiero Orange. “Improvvisare, adattarsi e raggiungere lo
scopo.”
“Ma che paraculo,” commentò
l'altro scuotendo la testa. “Mentre noi ci prendevamo a cazzotti
con gli MP, tu ti sei portato via Miss Tette.” Tacque per qualche
secondo, poi s'informò: “Allora, sono vere o finte?”
“Non lo so, abbiamo parlato di
arte islamica.”
Clem fissò l'amico come se
dubitasse della sua salute mentale. “Eh?”
“Arte islamica. Omayyadi,
selgiuchidi...”
L'altro scosse di nuovo la testa,
questa volta con rassegnazione. “Tu sei malato,” sentenziò alla
fine.
Così parlando salirono
sull'Humvee e si sistemarono sui sedili. “Dove si va oggi?”
chiese Clem a voce alta.
“Mercato,” rispose l'addetto
alla guida.
“Merda, odio il mercato,”
imprecò il marine, che nei vicoli stretti e debordanti di mercanzie
dei suq si impigliava ovunque.
L'auto si mise in movimento,
attraversò i cancelli di Camp Courage e cominciò a percorrere le
strade polverose e intasate di macchine strombazzanti della città.
Boyle per un po' rimase a
guardare fuori, poi chiese: “Senti, ma ti chiamano Orange per il
colore dei capelli?”
L'altro fece un sorrisetto. “No,
non per quello.”
“E allora perché?”
“Un giorno te lo dirò.”
Clem alzò le spalle. “Fanculo.
Non mi interessa.”
Orange rispose con una risatina,
poi disse: “Comunque, l'incontro con Miss Tette è stato
interessante. Lo sai che secondo la tradizione quel posto sarebbe
collegato alla città da un tunnel?”
“Il mausoleo di al Capone?”
“Al Mansour. Comunque sì,
quello. Ma sembra che non ne sia rimasto nulla. In realtà era un
canale che serviva da collettore per le sorgenti che si trovavano
sulle colline.”
“Boh.”
“Portava l'acqua in città.”
“Avrebbe fatto meglio a portare
della birra.”
Nel frattempo si stavano
avvicinando alla zona del mercato, e già la folla cominciava a
ingombrare le strade. Passavano donne velate con ceste in equilibrio
sulla testa, ragazzini che si trascinavano dietro capre riluttanti, o
vecchi che spingevano asini carichi di cesti di paglia. Uno di essi
si fermò al ciglio della strada, e quando li vide passare tirò
fuori da una tasca sdrucita un cellulare di ultimo modello.
Clem scattò: “Ehi, che cazzo
fa quel bastardo?” ringhiò minaccioso.
Orange gli mise una mano sulla
spalla. “Sta telefonando.”
“Quello è un fottuto
detonatore!”
Prima che chiunque fosse in grado
di fermarlo, Clem era già scattato fuori, con una rapidità
impensabile data la sua mole, e aveva atterrato l'uomo sul
marciapiede. Indignata e spaventata, la folla faceva capannello e
lanciava invettive.
Scese dall'Humvee il caporale
Whilkes, che si avvicinò con un sospiro al marine e sentenziò: “Tu
sei un incidente diplomatico vivente, Boyle.” Gli batté una mano
sulla spalla per convincerlo a mollare la presa.
Clem non si mosse. “Quello ha
un detonatore,” insisté caparbio.
Vista la difficoltà di spostare
Boyle quando non voleva essere spostato, Whilkes disse: “D'accordo.
Ora chiamiamo gli artificieri e poi se ne occuperanno loro,
d'accordo?”
“Il telefonino lo tengo io
finché non arrivano.”
Ci volle ancora una buona
mezz'ora, poi il pattugliamento del mercato poté cominciare.
La voce di quello che aveva fatto
Boyle si era sparsa, e la gente manteneva una circospetta distanza
dal gruppo di militari.
Si erano lasciati alle spalle il
suq degli alimentari, dove le bancarelle di spezie multicolori si
alternavano a quelle che esponevano quarti di capra appena macellata,
ed erano entrati nel suq degli abiti: dappertutto c'erano stoffe di
ogni genere, coperte, jalabiya per uomo, ma anche per donna, ricamate
e variopinte, chador scuri, kefiah, ma anche abiti di foggia
occidentale, perlopiù provenienti dall'Estremo Oriente, jeans,
magliette di improbabili squadre di calcio e altro ancora.
A un certo punto, Orange si fermò
e disse: “Guarda lì.”
Clem si voltò nella direzione
indicata, ma non notò nulla di particolarmente interessante.
“Il velo,” gli fece notare
l'altro.
Di veli dovevano essercene in
esposizione almeno duecento. “Quale velo?” chiese Clem.
A mo' di spiegazione, Orange
disse: “Mia nonna è russa, se mi chiamo Andrej è colpa sua, e
quando va in chiesa a fare i suoi riti si mette sempre un fazzoletto
in testa.” Annuì convinto, poi soggiunse: “Io dico che quello
sarebbe perfetto per lei.”
Clem continuava a vedere solo un
assortimento di stoffe dai colori improbabili. “Ma quale?”
“Quello là, no?” rispose
l'altro, col tono di dire la cosa più ovvia del mondo. Fece un passo
avanti, poi con la canna dell'M4 sollevò il lembo di un velo di seta
nero con dei disegni viola intenso.
“Per me porta rogna,”
sentenziò Clem.
In quel momento, dall'interno del
negozio si affacciò un uomo di mezz'età, baffuto, con una jalabiya
bianca e la taqiyah in testa. Questi si inchinò con fare untuoso e
chiese: “Vuole comprare?”
Orange stava già per mettere
mano al portafoglio quando la voce del caporale Whilkes lo richiamò
all'ordine. “Stasera.” gli assicurò allora il marine. “Finito
il servizio, torno qui a comprare quel velo, tienilo da parte.”
“Sì, signore,” rispose
l'uomo rivolgendogli un altro inchino.
“Stasera!”
Si persero nella calca del
mercato.
“Sei il solito cretino,”
brontolò Clem quando si furono allontanati.
L'altro lo fissò ostentando
un'aria offesa. “Perché?”
“Digli anche in quale baracca
di Camp Courage dormi, già che ci sei, e a che ora esci in mutande a
pisciare.”
“Sei un paranoico.”
“Un paranoico?” ringhiò
Boyle. “Ehi, stronzo, guarda che qui siamo in guerra. Questi sono
nemici.”
“Nessuno è nemico, quando gli
dai dei dollari.”
“Beh, tu gli hai detto che
torni qui stasera, finito il servizio. Secondo me ci troverai dieci
fotticammelli pronti a farti la festa.”
'Fotticammelli' o 'fotticapre'
era il termine con cui di solito Boyle si riferiva agli indigeni di
sesso maschile.
Proseguirono con il
pattugliamento. Nel frattempo avevano abbandonato il suq degli abiti,
e stavano attraversando quello degli oggetti per la casa: vassoi in
rame battuto si alternavano a piatti di plastica provenienti dalla
Cina, ornati di fiori di pesco e pagode; recipienti tradizionali in
alluminio erano esposti accanto a cestini di plastica fucsia o verde
acido. Assortimenti di bicchierini da tè dalle pesanti decorazioni
dorate brillavano ai rari raggi di sole che penetravano attraverso la
copertura del mercato.
Orange prese un piccolo
recipiente a imitazione del cristallo baccarat, lo rigirò per
leggere l'etichetta che aveva sul fondo e disse: “Ovviamente made
in China.” Lo rimise a posto.
“Sei peggio di una donna,”
grugnì Boyle.
“Sono un uomo facoltoso e di
buon gusto,” lo corresse Orange, citando i Rolling Stones. Sollevò
un sopracciglio con aria di degnazione.
Clem stava per rispondere quando
una voce aspra attirò la sua attenzione. Si voltò in quella
direzione e vide un uomo di circa cinquant'anni, ossuto, scuro, con
un'appuntita barba bianca, che inveiva contro una donna, e intanto la
strattonava per un polso.
La donna, completamente velata di
nero, piagnucolava e faceva deboli tentativi di liberarsi.
“Ehi, che fa quel pezzo di
merda?” ringhiò Boyle, ergendosi in tutta la sua altezza. Tese i
muscoli.
Orange gli si parò davanti. “Sta
fermo, Clem. È il loro modo di dirsi ti
amo.”
“Ti amo, un cazzo. Non vedi che
le sta facendo male? A una donna?
Non si toccano le donne!” Poi, rivolto all'uomo: “Ehi, stronzo,
che cazzo ti credi di fare?”
Il tizio lo guardò con l'aria di
non capacitarsi di quell'intromissione, poi riprese a inveire contro
la compagna.
“Non si toccano le donne!”
latrò allora Boyle, quindi partì a testa bassa, e prima che
chiunque si fosse reso conto di quello che stava succedendo, aveva
già attaccato al muro l'indigeno. La donna cercava di colpirlo con i
pugni, e intanto diceva cose dal suono poco gentile.
Clem si voltò verso il
commilitone, e stupefatto domandò: “Ma perché sta picchiando me?”
Serafico, Orange gli rispose: “Te
l'ho detto che sono abituati così.”
“Fotticammelli di merda, loro e
le loro donne.”
“Andiamo, dai.”
“Ma tu hai visto che quella
strega ha picchiato me?”
“E dai, si vede che è una di
quelle a cui piace prenderle.” Lo spinse in avanti. “Ora
muoviamoci, se non perdiamo gli altri.”
§
Orange entrò nella palestra dove
Clem si stava allenando e disse: “Andiamo?”
L'altro appoggiò il bilanciere e
lo fissò serio. “Andiamo, dove?” Prese l'asciugamano che aveva
al collo e si terse il sudore.
“A comprare il velo.”
Boyle sbuffò. “Ma perché non
lo chiedi alla Barral, che è una donna?”
“Sì, figurati, una donna.
Quella là deve avere il clitoride più grosso del mio cazzo.”
“Allora chiama Miss Tette, no?
Tra una discussione di arte islamica e l'altra, andate a comprare il
fazzoletto per tua nonna.”
Orange assunse un'espressione di
nostalgia e sospirò: “L'hanno spostata a Camp Freedom. Hanno detto
che qui creava turbative.”
“Troppe tette?”
L'altro gli diede un pugno sul
pettorale. “No, troppi cretini che non sanno tenere la bocca chiusa
quando è il momento. Allora, andiamo?”
“Sono sudato.”
“Ci sono cinquanta gradi, sta
sudando anche la fotografia del Presidente appesa nella mensa.”
“Devo farmi la doccia.”
“Aspetterò.”
“Sai che sei un bel
rompicoglioni, Orange? E non mi hai ancora detto perché ti chiamano
Orange.”
“Ti do un indizio: il
soprannome completo è Agent Orange. E adesso va a lavarti, se no il
tizio chiude il negozio.”
“Ti chiamano Agent Orange
perché fai morire le piante?”
“Oh, che palle. Ma lo sai che
quando ti ci metti sei più insistente di un testimone di Geova?”
Stava calando la sera. Le viuzze
del mercato, che durante il giorno erano apparse come pittoreschi
caleidoscopi di colori e odori, si stavano trasformando in viottoli
scuri, stranamente larghi rispetto alla calca della mattina, e
fiancheggiati da botteghe sbarrate. Solo nel suq delle stoffe qualche
bancarella resisteva ancora, e gli abiti e i foulard superstiti
ondeggiavano lievi nella brezza.
Orange avanzò rapido,
guardandosi intorno come un furetto capitato in un pollaio. Girandosi
sopra la spalla, chiese al compagno: “Tu ti ricordi dov'era?”
“Per me questi fottuti posti
sono tutti uguali.”
“Certo che sei costruttivo,
eh?” rispose Orange continuando ad avanzare nei vicoli. Si fermò a
un crocicchio, scrutò i dintorni e disse: “Mi sembra di
riconoscere il posto, andiamo di qua.” Si infilò in una viuzza col
pavimento di terra battuta.
Clem lo seguì grugnendo cose
indistinte.
L'intuizione di Vaughan si rivelò
giusta, e i due raggiunsero il negozio dei veli, unico ancora aperto
in una strada altrimenti buia e deserta. Un paio di ragazzotti
stavano togliendo la merce dall'esposizione, la ripiegavano e la
mettevano via. In piedi sulla soglia, l'uomo coi baffi sovrintendeva
all'operazione.
“Ehi!” lo chiamò il marine
da lontano, agitando il braccio per attirare la sua attenzione. “Ehi,
hai visto che sono tornato?”
L'uomo non parve per nulla felice
di vederlo. Fece un sorriso stentato e si agitò a disagio.
Orange lo raggiunse insensibile
al suo turbamento, guardò l'esposizione ormai smontata per metà e
chiese: “Il mio velo?”
L'altro si inchinò con fare
servile. “Quale velo, signore?”
“Quello che ti avevo detto di
tenermi da parte.” Scrutò l'interno della bottega. “Dov'è, qui
dentro?”
“Io non...”
“Beh, lascia stare: ti faccio
vedere io quale voglio,” rispose Orange, e risolutamente entrò nel
negozio. Il venditore fece l'espressione di chi ha appena visto
cadere le chiavi della macchina nuova in un tombino e gli si
precipitò dietro.
Vaughan nel frattempo aveva
cominciato a guardarsi intorno come un bambino in una pasticceria. Il
negozio era molto più grande di quello che appariva dall'esterno, ed
era pieno di stoffe di ogni genere. Vi regnava un odore strano, che
un po' gli ricordava quello del laboratorio di chimica del college.
Di veli ce n'erano alcune migliaia, ma non vedeva quello viola e nero
che aveva adocchiato la mattina.
“Dov'è?” chiese.
Si palesò alle sue spalle il
venditore, che aveva sul braccio alcune stoffe. “Pashmina?”
propose. Spiegò uno dei foulard, e gli mostrò che pur essendo quasi
due metri per due, passava agevolmente attraverso un anello.
Orange assisté educatamente alla
dimostrazione, ma scosse la testa e disse: “No, grazie. Non è
quello che cerco.”
“Seta? Qualità migliore!”
L'uomo gli mostrò dei veli lucidi e cangianti, dai colori che
ricordavano le ali dei coleotteri, ricamati d'oro. “Stesso prezzo
di quello, per te.”
“No no, non va bene per mia
nonna. Voglio quello là.”
L'altro lo abbandonò per frugare
in un baule dall'aria antica, poi tornò alla carica: aveva in mano
un velo di seta nera intessuta d'argento, con lunghe frange
intrecciate. La stoffa aveva un aspetto corposo, opulento,
letteralmente colava tra le mani dell'uomo come un materiale fluido.
I fili di metallo scintillavano debolmente sotto le luci, dando
l'impressione di un brillio diffuso, come quello che produce il sole
radente sulla neve ghiacciata. “Stesso prezzo!” proclamò l'uomo.
Orange scosse la testa. “Ma no,
ce la vedi mia nonna con questo in testa?” Senza attendere
risposta, si addentrò nelle stanze ingombre di stoffe. “Ho capito:
me lo cerco io!” proclamò scomparendo nel magazzino.
In piedi davanti al negozio, Clem
scrutava dentro con aria sospettosa. Un paio di volte aveva anche
lanciato occhiate torve ai ragazzini che stavano portando dentro le
stoffe, giusto perché fosse chiaro che non si fidava affatto di
loro, del loro capo e in generale di tutti gli iracheni.
Da fuori vedeva intanto Orange –
il noncurante, fiducioso e pacifico Orange – che guardava stoffe e
scuoteva la testa peggio di una carampana di Beverly Hills che fa
shopping.
Poi a un certo punto non lo vide
più.
Assunse la sua tipica postura da
toro che carica, quindi salì i tre gradini che lo separavano dalla
porta e risolutamente entrò. Uno dei ragazzini provò a pararglisi
davanti pigolando che il negozio era chiuso, lui si limitò a
spostarlo come avrebbe fatto con una tenda. “Orange?” chiamò
guardandosi intorno. “Orange?”
“Qui!” giunse una voce
flebile dalle profondità del negozio.
Clem si mosse in quella
direzione, scavalcando pacchi di bisht tradizionali in tutte le
sfumature di nero e marrone, tavoli per tagliare le stoffe e
manichini semivestiti. “Dove sei?”
“Qui, vieni. Li ho trovati. Li
ho...” Vaughan tacque all'improvviso.
“Orange!” esclamò allora
Boyle, di colpo preoccupato, allungando il passo per raggiungerlo.
“Orange!” E poi, al protrarsi del silenzio: “Andrej!”
La scena che gli si parò davanti
agli occhi era la seguente: un uomo era alle spalle di Vaughan, gli
teneva un braccio intorno al collo sbilanciandolo all'indietro, e
intanto gli puntava una pistola alla tempia. Nella stanza c'erano
altri due uomini, a loro volta armati.
Clem si immobilizzò. Udì un
tramestio alle proprie spalle, e un attimo dopo percepì la ben nota
sensazione della canna di un'arma che gli veniva premuta fra le
scapole.
Una mano gli sfilò la pistola
dalla fondina.
Fece mente locale: forse avrebbe
potuto disarmare con un calcio quello che gli stava puntando l'arma
alla schiena, ma di sicuro non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo
al suo compagno. Oppure forse, se si fosse buttato in avanti avrebbe
potuto deviare il braccio di quello che stava minacciando Orange, ma
probabilmente ci sarebbe rimasto secco. Si rassegnò ad alzare le
mani. “Tu e il tuo velo del cazzo,” non poté fare a meno di
ringhiare. “Te l’avevo detto che portava rogna.”
Un colpo col calcio del fucile in
mezzo alla schiena gli strappò un gemito di dolore.
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