僕は孤独さ – No Signal
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Parte sesta: Il caso Arakawa.
Higemaru
smise di correre a perdifiato, realizzando che quella non poteva essere la
strategia migliore. Si appoggiò un istante alle ginocchia, togliendosi il
sudore dalla fronte e analizzando per bene ciò che aveva attorno a sé.
I
corridoi erano per lo più bui, se fatta eccezione per qualche finestra non
sprangata che permetteva al sole del mezzogiorno di disegnare ombre
asimmetriche sui muri di fronte ad esse e regalare quindi un quadro un po’
misero dello spazio attorno a lui.
Non
era particolarmente bravo a captare gli odori, non come il leader e il vice,
quanto meno. Era più portato per i rumori, ma aveva sempre la testa altrove di
conseguenza tendeva a realizzare gli spostamenti con quel letale secondo di
ritardo.
Anche
in quell’occasione si ritrovò a voltarsi troppo tardi, ma grazie al cielo era
solo un grasso ratto che da un buco nella pavimentazione salì fino al suo
livello, scappando poi alla vista dell’investigatore e infilandosi in un altro
anfratto.
Hige
sospirò abbassando le spalle e riprendendo a camminare, questa volta
lentamente. Si guardava attorno, circospetto, con il cuore a martellargli il
petto per l’ansia e un buco allo stomaco. Non sapeva cosa aspettarsi di
preciso, non lo sapeva mai. Detestava rimanere solo, poi. Per regolamento, gli
investigatori avevano assegnato un partner o due ad ogni singola azione e così
lo avevano addestrato all’accademia. L’essere solo lo stordiva, come se
improvvisamente ogni suo senso si fosse del tutto spento.
Si
fermò all’udire un altro suono, dietro le sue spalle. Velocemente si voltò,
facendo saettare gli occhi per il lungo percorso che aveva appena compiuto e
realizzando che non poteva esserci nessuno lì. Come era entrato senza farsi
notare? Le finestre erano sprangate, le scale ancora lontane. Ogni porta
chiusa. Qualcosa non tornava.
Era
così preso dallo studiare lo spazio attorno a sé da non rendersi conto di ciò
che lo sovrastava. Lenti e silenziosi, due grandi code discesero dal soffitto,
appoggiandosi proprio alle sue spalle. Esse funsero da appoggio per il corpo
che, sostenuto anche al soffitto, aveva preso a calarsi su Higemaru. Una lingua
accarezzò le labbra rosee non emettendo però un fiato sino a che non ebbe
raggiunto l’orecchio del ragazzo.
«Ti ho preso.»
Un urlo spaccò il silenzio teso,
rimbombando per lo stabile vuoto. Con uno scatto, Touma si era buttato a terra,
sulla pancia, cercando in qualche patetico modo di salvarsi. Non salvarsi,
magari riprendersi dallo spavento!
La voce del leader gracchiò nella
trasmittente. –Higemaru, non hai passato il test. Ora uscite, tocca a Hsiao e
Aura.-
«N-non vale! Non abbiamo mai detto che
anche i soffitti sono terreno calpestabile!»
Masa rimase ferma, a testa in già, con i
capelli corti e neri che confluivano tutti in un unico punto e il sorriso
divertito. Quando allungò le braccia per stirarle, la maglietta da allenamento
le scivolò lungo il busto mostrando il reggiseno di pizzo nero a balconcino e
facendo arrossire ancor di più l’umiliatissimo Higemaru.
«Non abbiamo nemmeno mai detto che non lo
era», sostenne il primo livello, afferrando la mano la sua stessa kagune e
mettendosi diritta, come se stesse danzando sui nastri dentro al padiglione di
un circo. Si rimise a terra, porgendo poi la mano al povero ragazzo. «Andiamo,
forza. Scommetto che nemmeno Shinsapei riuscirà a vincere contro Ginny. Appena
voi maschietti avrete finito di fare le vostre figure mediocri potremmo tornare
a casa per pranzo!»
«…. Non sei incoraggiante, Aiko-san.»
«Faccio così schifo.»
Con le mani sul viso e i gomiti sul
tavolo, Touma non riusciva a guardare in faccia i suoi compagni di squadra.
Alla fine Shinsapei aveva sorprendentemente ottenuto un pareggio, dato da un
ambiguo stallo alla messicana fra la sua kagune e quella di Hsiao, facendo
finire il povero Higemaru in fondo alla classifica dei novellini. Posto che
ormai gli spettava di diritto, visto che non riusciva a scollarsi di dosso la
puzza di fallimento.
Saiko lo aveva guardato da dietro gli
occhioni turchesi, prima di allungare una mano. Voleva prendere quella del
giovane ragazzo, ma alla fine aveva optato per la ciotola della soba ancora
bollente. «Non essere così duro con te stesso, giovane padawan», disse con
torno saccente. «Ascolta i consigli del tuo maestro Jedi Macchan e impara.»
Touma alzò il viso e guardò verso Aiko, la
quale non stava nemmeno seguendo i loro discorsi. Non stava facendo nulla in
realtà. Se ne stava seduta sulla sedia a capotavola, dalla parte opposta
rispetto al posto lasciato vacante da Urie ancora ai fornelli, con gli occhi
persi in un altro luogo e il mento appoggiato al pugno. Le gambe, lunghe e
magrissime, lasciate nude dalle culotte che indossava sotto una canottiera
larga, sformata. Il ventilatore le spettinava i capelli neri, arruffandoli e
dandole un po’ di sollievo al centro della schiena, dove il suo kakou scaldava
di più la pelle di porcellana.
«Higemaru smettila di sbavare sul vice
caposquadra», lo riprese con un ghigno Aura, mentre accanto al ragazzo appariva
anche Urie, con un sopracciglio alzato e un grembiule di dubbio gusto bianco a
gabbiani azzurri.
«Non sto facendo niente di simile!», si
difese il povero giovane, imbarazzatissimo, lanciando il tovagliolo di carta
all’amico, seduto di fronte a lui. «Aspettavo un consiglio!»
«Un consiglio?», si informò Masa, tornando
nel mondo dei vivi e guardandoli entrambi, perplessa. «Non hai bisogno di
consigli, Hige, ma di un promemoria. Dimentichi sempre di perquisire gli
edifici. Se lo avessi fatto a dovere mi avresti trovata subito, appesa al
soffitto.»
«Mancano le basi tecniche», confermò Urie,
prendendo posto e appoggiandosi con gli avambracci al bracciolo della sedia di
legno. Li guardò servirsi la trota che aveva fatto ai ferri, non prendendone
per sé, ma limitandosi a recuperare la ciotola dell’insalata di patate e a
buttarne un misero cucchiaio nel suo piatto. «Oggi pomeriggio dovresti fare un
paio di lezioni teoriche coi cadetti.»
L’umiliazione finale. La retrocessione.
La fronte di Higemaru impattò il tavolo e
la sua anima parve volare via, nell’etere.
Aiko lo guardò divertita, prima di
allungare una mano, sfiorando le sue ciocche pervinca. «Il successo è l’abilità
di passare da un fallimento all’altro con entusiasmo», citò, mentre lui la
guardava.
«Winston Churchill», precisò Urie,
cogliendo al volo la citazione. Lei lo guardò impressionata, «Cosa? Io leggo
molto più di te. Non ti vedo mai con un libro in mano eppure sai tutte queste
belle perle di saggezza.»
«Solo perché non mi vedi tu non significa
che io non legga.» Aiko gli fece la linguaccia, prima di tornare a rivolgersi a
Touma, prendendogli la mano quando questi ebbe alzato il viso dalla superficie
di legno. Come sempre, pendeva dalle sue labbra. «Una volta ho sentito dire da
un uomo poco saggio che ogni perdita è dovuta alla mancanza di abilità. Io non
lo penso. Io penso che ogni perdita sia dovuta alla poca esperienza. Crescerai,
Hige, e diventerai il migliore investigatore della CCG, se è quello che vuoi.
Puoi diventare quello che vuoi, ma non devi mai smettere di provarci.»
Il ragazzino sgranò gli occhi così tanto
che Masa temette di vederli rotolare fuori dalle sue orbite. Poi si sporse e la
abbracciò, tirando la canottiera sformata e scoprendole una spalla. «Mi
impegnerò al mio massimo, sensei! Diventerò il migliore!», pigolò con l’ardore
di un pulcino, mentre la mora ricambiava l’abbraccio.
«Ne sono sicura.»
Con gli occhi cercò quelli di Urie,
trovandoli e comprendendo che anche lui aveva capito perfettamente di cosa lei
stesse parlando.
Anche lui stava crescendo e le sue abilità
stavano adempiendo ad ogni sua mancanza.
E ciò sarebbe successo anche ad Hige, con
i suoi tempi.
Capitolo trentaquattro
La sala d’aspetto dell’ospedale era
fredda. Forse perché era notte fonda o forse perché quel gelo, Urie, l’aveva
nel petto.
Non aveva preso posto nemmeno per un
istante sulle scomode sedie di plastica, una volta arrivato lì, ancora sporco
di sangue e ansante, come se avesse compiuto la distanza che lo separava
dall’ospedale correndo. Saiko invece si era accomodata come in trance, accanto
a Tooru e a Higemaru. Tutti e tre attendevano in silenzio notizie di Aiko e di
Aura, il quale però era senza dubbio fuori pericolo. Le gambe ci avrebbero
messo del tempo a ricrescere, ma lo avrebbero fatto senza dubbio. Aveva ripreso
a guarire prima ancora di arrivare lì. Con lui Urie aveva lasciato Ginny, anche
se la taiwanita si spostava da un piano all’altro continuamente, in attesa di
notizie.
Insieme ai Quinx, c’erano anche altri
agenti. Alcuni dalla scena dello scontro, altri che erano arrivati dalla sede o
addirittura da casa propria. Come Kuramoto. Era uscito così di fretta da non
essersi accorto di avere ancora la maglia del pigiama addosso, sopra ai
pantaloni eleganti del solito completo scuro. I capelli biondi, solitamente
pettinati in modo ordinato su di un lato, cadevano scomposti sul collo e sul
viso, mentre con gli occhi sottili aveva squadrato l’intera stanza. Aveva
investito di domande Hirako, dopo aver preso posto accanto a lui, ma questi aveva
risposto giusto a una o due. Fra le mani, il prima classe, aveva ancora Ixa,
puntata contro le mattonelle chiare, come un appoggio. Quando anche Takeomi si
era unito a loro, Urie aveva percepito una certa inquietudine, Sembrava una
veglia.
Marude li aveva raggiunti dopo quelle che
sembravano ore, dirigendosi con passo marziale verso la squadra Suzuya e
arguendo Nakarai per aver permesso che tutto ciò accadesse.
«Accadesse cosa, di preciso, signore?», aveva domandato il biondo con
educazione, senza suonare provocatorio, mentre squadrava il classe speciale
attraverso le iridi grandi di carbone. «Che un agente svolgesse il suo lavoro
sul campo? Sono responsabile di aver permesso all’agente Masa di andare da
sola, non dell’esito del combattimento.»
«Nessuno è responsabile per esso, solo
io», lo aveva appoggiato Arima, arrivando in quel momento e chiudendo così un
cerchio.
«Almeno è morto?», aveva chiesto Marude a
mezza bocca, guardando la bruciatura sul bordo della giacca argentata dello Shinigami, mentre questi
prendeva in mano la sua quinque e passava a Take una maschera rossa accesa ben
nota a tutti i presenti. Era rotta al centro, spaccata da un singolo fendente.
Arima scosse il capo, sedendosi a sua
volta. «Mi è scappato», rispose semplicemente, prima di cambiare discorso, con
gli occhi rivolti verso Kuramoto e Kuroiwa. «Andrebbero avvisati anche Akira e
Koori.»
«Come sarebbe a dire che ti è scappato?»,
Marude sentì il sangue bollirgli nelle vene. Come poteva Arima dare sempre
risposte così semplicistiche? «Cosa è successo in quella fogna?»
Kishou era pronto a rispondere, ma non ne
ebbe il tempo. La porta che congiungeva la sala d’aspetto dal corridoio delle
sale operatorie si aprì e da essa apparve nel loro campo visivo il dottor
Shiba. La mascherina gli pendeva sul petto, sporco di sangue su tutto il
camice. Sembrava che avesse lottato, non operato.
Guardò gli agenti presenti e quando Urie e
Suzuya fecero un passo verso di lui, congiunse le mani di fronte a sé,
abbassando il capo. Qualcosa nel petto di Urie si spezzò.
«Mi dispiace», pronunciò il medico,
tornando ad alzare gli occhi per appoggiare la mancina sulla spalla di Urie.
«Mi dispiace tanto, ma non ce l’ha fatta.»
Un singhiozzo infranse il silenzio gelido
che quella sentenza aveva portato. «M-Macchan..» Saiko portò subito le mani
alla bocca, ma non riuscì ad impedire a molti altri di uscire e farla
sobbalzare, mentre iniziava a piangere. Accanto a lei, Higemaru si lasciò
scivolare contro lo schienale, completamente distrutto dal senso di colpa.
Tooru tenne gli occhi fissi sul pavimento, sgranati e assenti, mentre Kuramoto
scuoteva il capo in cenno di negazione, appoggiandosi alle ginocchia e
stringendo fra le dita le ciocche bionde, prima di iniziare a sua volta a
piangere.
Arima sospirò pesantemente, prima di
guardare negli occhi Marude, che non riuscì a dire niente.
«Ha sofferto?», domandò Mizuro, mentre una
lacrima silenziosa gli solcava il viso. Cercò comunque di rimanere stoico,
mentre Abara faceva sedere Juuzou con gentilezza.
Shiba si prese del tempo per rispondere,
poi lo fece e basta. «Sì.»
Un’altra pugnalata.
«Forse se l’ambulanza fosse arrivata
prima…. Ma ha perso molto sangue e il livello delle cellule rc era troppo alto.
Il cuore non ha retto.»
Urie, che fino a quel momento non si era
reso conto di essere rimasto completamente immobile, granitico, si voltò di scatto,
allontanando la mano del dottore dalla sua spalla. Affrontò Hirako, con gli
occhi fiammeggianti.
«Allora è colpa tua», decretò severo,
mentre il suo intero corpo veniva scosso da tremiti. Era sull’orlo del baratro,
non sarebbe tornato indietro. «Tutta colpa tua!»
«Primo livello Urie, smettila.» La voce
dell’associato alla classe speciale Sasaki li fece sobbalzare tutti. Haise lo
guardava, con la tristezza a velargli gli occhi grigi.
«No. È solo colpa sua. Se ci fossi stato
io-»
«Cosa avresti fatto?», gli domandò Haise,
avanzando nel corridoio e raggiungendo il drappello di uomini. «Cosa avresti
fatto se fossi stato al posto del prima classe Hirako, Urie?»
Non sapeva cosa rispondere.
Sembrava un orribile dejavù.
Stava succedendo di nuovo e non poteva
evitarlo.
Circa due ore prima.
Tatara non riusciva a contare il numero di
code che, sistematicamente, si schiantavano al suolo a un passo da lui. Se non
si fosse spostato continuamente, l’avrebbero certamente colpito e senza fatica
alcuna.
In quel dedalo continuo di serpenti
vibranti, l’albino riusciva però a districarsi con la concentrazione. Non era
più semplice come prima, però. Era diventata una sfida, ma una sfida che l’altra
non avrebbe vinto perché, laddove era
venuta a compensarsi la forza, aveva del tutto perso la testa.
‘Il segreto del vincitore è essere più scaltro del vinto’.
Questo le aveva sempre insegnato. Non
importava che fosse umana, una mezza sangue o un ghoul. In quel mondo fatto di
deboli e forti sono le menti brillanti a fare la differenza.
‘Non saresti la prima debole a vincere perché al posto della
kagune hai usato la testa. Io sono scappato così, dalla Cina’.
‘Davvero, Laoshi? Eri un debole una volta?’
‘Tutti nascono deboli, come larve. Bastano un indice e un pollice
per ridurre un uomo in poltiglia, ma può sopravvivere creandosi una crisalide
dura attorno, fatta di esperienza.’
Fu per un piccolo errore di calcolo che
Tatara non vide arrivare l’ennesimo fendente. Forse non voleva ammettere a se
stesso che perdersi in quel ricordo, nella figura di Masa seduta su un gradino,
con le ginocchia sbucciate contro il busto come una bambina caduta da una
bicicletta e un graffio sotto all’occhio destro, gli aveva fatto perdere quei
tre millimetri di scarto che si erano rivelati determinanti.
La punta affilata della kagune lo colpì in
pieno viso, tranciando quasi in due la sua maschera e spaccandogli di netto
l’osso mandibolare. Con una ferita simile, grottesca e scomposta, non gli
serviva più celare il viso.
«Xiànzài zúgòu (adesso basta), méi méi.», tentò di sbiascicare nonostante le condizioni della sua bocca.
Sorprendentemente, la pioggia di cellule rc in movimento continuo, cessò per davvero. Esse si separarono come un fiume spaccato da una roccia e tra loro apparve Aiko. I suoi occhi, entrambi neri dalle iridi rosse, erano circondati da una rete di vene gonfie e violacee. La bocca era distorta in un sorriso compiaciuto.
Sembrava in trionfo, ma non lo vedeva per davvero.
«Sarò io a dire basta, questa volta.»
Una coda lo colpì all’improvviso,
trafiggendolo da parte a parte, come lui aveva fatto con lei poco prima. Non si
mosse, sentendo il sangue risalirgli l’esofago e unirsi a quello che già gli
colava sul mento spaccato e sul collo.
«Non mi darai più ordini. Non mi dirai più
che sono feccia. Non farai più del male a nessuno.» Una mano, pallida come il
latte, si alzò sul suo viso, mentre con il Kagune, Aiko creava una barriera fra
loro due e gli altri investigatori. Tatara non riusciva a comprendere cosa
stesse avvenendo. Perché aveva due occhi neri? Era lucida, non lo era? Smise di
chiederselo quando con l’unghia, Aiko gli incise la carne sotto alla linea
della mascella, fin dietro all’orecchio. «Andava tutto bene», proseguì la mora,
con il tono improvvisamente incrinato, triste. «Poi sei andato via. Perché,
papà?»
Una delle code ebbe un sussulto, si
sollevò e si aprì in due, ramificandosi. Una piccola bocca dentata apparve su
di essa, iniziando a parlare mentre la ragazza portava le mani al viso e
iniziava a piangere. “Sola e triste, sei morta Aiko. Nessuno ti salverà.”
Tatara spostò gli occhi su quella
grottesca immagine, prima di alzare il braccio. Doveva concludere in fretta
quel combattimento. Prese il kagune che ancora lo attraversava all’altezza
dello stomaco e lo bruciò, facendo sciogliere i legami rc con la temperatura
alta che era in grado di produrre. Poi con un movimento fluido cercò di tirare
uno schiaffo ad Aiko, ma quella si difese e lo face bene. Gli bloccò il polso a
pochi centimetri dal suo volto.
E lo guardò ferita. Poi infuriata.
Si sarebbe lanciata nuovamente contro di
lui in tutta la sua potenza e Tatara era pronto a rimetterla al suo posto
nuovamente, improvvisamente conscio di quanto potenziale avessero davvero
quegli ibridi creati dalle colombe.
Però non successe nulla.
Il kagune di Masa si sciolse nell’aria
creando una cascata di petali opalescenti tutti attorno a loro, mentre la
ragazza cadeva a terra, con una mano al petto, ansante. L’agente dai capelli
pervinca non aveva atteso oltre. Si era buttato prima ancora che la
luminescenza si fosse del tutto estinta, attraversando la caduta luminosa di
cellule rc come se fosse pioggia, pronto a colpire. Tatara alzò il braccio e si
preparò a riceverlo, sentendo il fuoco iniziare a bruciarlo da dentro, pronto
per essere usato. Però non riuscì a muoversi. Una nuova coda, stavolta di un
verde più pallido, come una liana, lo teneva fermo all’altezza delle spalle e
sulle caviglie.
«Adesso, Hige!»
«Tienilo, Mutsuki!»
Nemmeno per sogno.
Una fiammata improvvisa illuminò a giorno
le fognature. Il kagune di Mutsuki si dissolse, mentre Touma fu costretto a
pararsi gli occhi dalla luce improvvisa. Un calore insopportabile avvolse
l’aria, ferendo i polmoni ad ogni respiro. Quando Tooru recuperò la vista,
rimase pietrificato. Un paio di gigantesche ali di fuoco sbucavano da dietro la
schiena dell’albino. Sembrava un demone dell’inferno. Un arcangelo caduto. Esse
si unirono in una unica, singola coda, grande e luminosa, come attraversata di
energia. Con essa Tatara afferrò il piede di Higemaru, lanciandolo lontano e
liberandosi di lui per primo. Poi velocemente girò sui talloni e colpì Mutsuki
sul petto, mandandolo a sbattere contro la parete di cemento armato.
Il ragazzo ansimò, portando una mano
all’altezza dei polmoni per riempirli di nuovo di aria. Si concesse tre
respiri, il tempo di stringere con forza i due coltelli e lanciare un rapido
sguardo con l’occhio libero dalla benda ad Aiko. Poi si alzò, spaventato sì, ma
con la determinazione che lo muoveva. «Allontanati da lei!»
Non ci fu risposta, solo un altro attacco.
La coda lo colpì di nuovo ma Tooru fu veloce abbastanza da lanciare il
coltello, che colpì Tatara in un occhio. Questo lo fece barcollare, gemere in
modo disumano, come una bestia ferita. Ma era ben lontano dall’essere messo
all’angolo. Non sanguinava più anche se il suo viso stava guarendo lentamente.
Il buco nel suo stomaco era a mala pena visibile e sembrava ancora pieno di
energie.
Loro quattro, invece, erano a terra.
Tooru, che era arrivato fin lì di corsa,
quando aveva sentito alla trasmittente la situazione, si chiese se quella fosse
stata una buona idea. Cosa poteva fare da solo? Hige era stremato, Shinsanpei
ferito. Aiko non sembrava nemmeno più viva. Il solo indizio in questo senso era
dato dal tremore costante che scuoteva il suo corpo, come se dei brividi di
dolore intensi la stessero dilaniando dall’interno. Si ricordò di lei, la prima
volta che aveva messo piede allo chateau,
così sicura di sé ed estroversa. Tutto ciò che lui non era mai stato. Si
ricordò anche di come aveva risolto il caso dell’Embalmer insieme a Urie,
dimostrando di essere acuta e brillante. Il modo che Aiko Masa aveva di porsi
nei confronti degli altri, senza tatto eppure rassicurante. Gli aveva dato dei
consigli, aveva provato a penetrare la sua scorza e Mutsuki sentiva di volerle
bene.
Quindi con uno sforzo non indifferente si
rimise in piedi, stringendo con forza il pugnale che le era rimasto nella mano
destra, fino a far sbiancare le nocche. Si liberò della bandana nera,
infilandola nella tasca dei pantaloni e rivelando il sekigan, prima di
inspirare profondamente. Tante sottili liane attorcigliate su loro stesse si
allungarono verso i lati, alzandosi come le code di tanti scorpioni pronti
all’attacco.
«Higemaru, pensi di poter fare un ultimo
attacco?», domandò con tono sicuro, senza permettere alla sua voce di vibrare
per la paura. Il ragazzo, appoggiandosi con il braccio alla parete di cemento,
si mise diritto. Un taglio sulla fronte non gli permetteva di tenere aperto un
occhio, ma non si sarebbe tirato indietro. Mutsuki glielo lesse nell’iride.
Poteva essere la loro ultima possibilità.
Poteva anche essere la loro ultima azione.
Un ultimo respiro, profondo, che irrorando
i polmoni fece espandere il busto di Mutsuki e poi, con un urlo, si lanciò in
avanti. Barcollante sui primi passi, ma poi più rapido man mano che colmava la
distanza. Higemaru lo imitò. Il fendente di Tooru non andò a segno, così come
il suo kagune. Tatara si scostò in tempo e il ragazzo finì col ferire
inavvertitamente il collega. Touma portò una mano alla spalla che era stata
attraversata da parte a parte dalla coda verde, mentre Tooru sgranava gli
occhi.
Di nuovo vennero spinti via, a colpi di
kagune, che mirava ad ucciderli. Mutsuki si abbassò appena in tempo o
quell’enorme appendice avrebbe potuto sfondargli il viso, fracassandogli il
cranio.
Inciampò nei sui stessi piedi, cadendo
seduto. Di nuovo, testardo seppur stanco, cercò di alzarsi. Una mano sulla
spalla però non glielo permise. Quando alzò gli occhi stupidi verso l’alto,
incontro quelli apatici di Take Hirako. «Rimani giù.»
«Ci pensiamo noi, adesso.»
Una seconda voce, ancor più distaccata,
fendette l’aria. Gli occhi di Tatara si allargarono appena, mentre le iridi
scure parevano ingrandirsi nel vedere dinnanzi a sé la figura dello Shinigami
Bianco.
«La S3», sussurrò meravigliato Aura,
appoggiandosi meglio sul gomito per poter spiare da sotto il ciuffo i due
uomini che erano appena arrivati. No, non due. Cinque. Altri tre si tenevano in
disparte, con i cappucci calati sul viso e le quinque strette nelle mani.
«La vedo», disse Hirako, estraendo dalla
valigetta Dojima. «Posso raggiungerla.» Arima poggiò la mano sul manico
dell’arma del suo braccio destro, sfilandogliela. Quando al suo posto mise il
manico della valigetta nera e dorata, Take la guardò come se non l’avesse mai
vista prima. Poi tornò con gli occhi in quelli del mentore. «Non capisco.»
«Sai come usarla, se devi», fu la sola
risposta pragmatica dell’altro, il quale si limitò poi a spostarsi in avanti,
verso Tatara. Non dovette dire nulla. Le tre figure che li accompagnavano
scattarono, iniziando a menar fendenti a destra e a manca e spingendo il ghoul
albino verso un lato della galleria, dove si snodavano dei condotti secondari.
Arima non attaccò subito, preferì tenere controllata la situazione alle sue
spalle.
Take, d’altro campo, si mosse così in
fretta che Tooru a mala pena si rese conto che non lo avvertiva più dietro di
sé. Andò verso Masa, appoggiando la valigetta a terra e sollevando la ragazza
fra le braccia. «Aiko?», la chiamò, scuotendola appena. Lei non si mosse, né
aprì gli occhi. «Andiamo, Ai…»
Tooru si lasciò cadere in ginocchio
accanto a lui, tenendo i coltelli con entrambe le mani. «Dobbiamo portarla
fuori», decretò, ricevendo come sola risposta un debole segno di assenso da
parte di Hirako. «Higemaru, ce la fai con Aura?»
«Sì», rispose in fretta il giovane dai
capelli pervinca, facendosi forza e andando dal compagno. Portò entrambe le sue
braccia oltre le sue stesse spalle, sollevandolo sulla schiena e alzandosi in
piedi.
«Andate avanti», disse Hirako, sollevando
Aiko in braccio. «Primo livello Mutsuki, prendi la valigetta del Classe
Speciale Arima.»
Tooru eseguì, lanciando un ultimo sguardo
proprio alla Morte Bianca, che stava attaccando a sua volta Tatara con un
movimento così fluido e rapido che sarebbe stato in grado di plasmare l’acqua.
Non si concesse il lusso di indugiare oltre, cercando di tenere il passo di
Hirako e di Higemaru, che seppur distrutto dalla battaglia e con quel peso
sulla schiena, sembrava arrancare alla disperata ricerca dell’uscita.
Quando raggiunsero quella più vicina,
però, non c’erano unità mediche. Hirako ne richiese una immediatamente, prima
di appoggiare Masa a terra. Scostò i capelli dalla sua fronte, prima di
prendere fra le dita una delle ciocche nere. Erano lunghe, tanto da spargersi
sul terreno circostante come un groviglio di fili di seta color petrolio.
Non aveva mai portato i capelli lunghi.
Così come le unghie, che parevano più
degli artigli.
«Prima è successo qualcosa», sussurrò
Higemaru, mentre in lontananza si poteva avvertire il suono delle sirene
dell’ambulanza farsi lentamente sempre più vicino. Il ragazzo attese uno
sguardo di Hirako, prima di continuare. «I suoi occhi…. Sono cambiati. Non
sembrava nemmeno lei.»
«La sua gabbia è rotta», disse Mutsuki,
osservando lo squarcio che Aiko aveva sul ventre. Si stava rimarginando
rapidamente. Troppo rapidamente per una ferita così consistente. Nonostante ciò
il giovane riuscì ad adocchiare l’acciaio quinque, spezzato dalla kagune di
Tatara.
Allora Take comprese perché Arima gli
aveva lasciato IXA.
Appena in tempo però.
Aiko spalancò gli occhi e aprì del tutto
la sua kagune, attaccandoli senza pietà.
Per un pelo, il prima classe riuscì a
schermarli tutti e tre utilizzando la quinque nera e oro, con la quale poi
inchiodò Masa al suolo, creandole attorno una gabbia di cellule rc rigide. I
tentacoli cercarono di divincolarsi mentre lei urlava, fuori controllo. Durò però
poco.
Quando si sciolsero, Take fece lo stesso
con la fatiscente costruzione, lasciando a Higemaru IXA. Questi la prese senza
staccare gli occhi traumatizzati da Aiko.
«Il suo cuore si è fermato», sussurrò il
prima classe, con il capo appoggiato al petto della giovane. Non si diede il
tempo di pensare. Sganciò quel poco che rimaneva della tuta anti sommossa della
giovane e poi iniziò con il massaggio cardiaco.
L’ambulanza sembrava ancora lontana anni
luce e il cuore di Aiko taceva.
⌘
Quando Urie riuscì ad arrivare nel luogo
in cui il direttore Washuu gli aveva comunicato avrebbe trovato i suoi uomini,
stava arrancando. Nonostante la resistenza superiore dei Quinx, non aveva fatto
altro che combattere e correre, combattere
e correre, costringendo anche Hsiao e Saiko a stargli dietro.
Per poco cadde in ginocchio di fronte ad
Aura e Higemaru, quando li raggiunse. In qualche modo si resse in piedi,
appoggiando però la punta della katana al suolo, affondandola nella terra nuda mentre
si guardava attorno. C’erano solo loro due e il Classe Speciale Arima, lì.
«Cosa è successo?», domandò velocemente,
sentendo una gran confusione nel cervello. Non dovevano esserci solo loro.
«Dove sono Mutsuki e Masa?»
Higemaru si alzò in piedi, guardandolo
afflitto. «Sono insieme al Prima Classe Hirako. Un’ambulanza è arrivata dieci
minuti fa per portarli all’ospedale interno della ccg.»
Hsiao sbarrò gli occhi. «Dieci minuti fa?
Come è possibile? Dovrebbero essersene andati da almeno mezzora!»
La giovane Quinx scambiò uno sguardo con
Aura, mentre accoglieva in un abbraccio una Yonebayashi sfinita. «La prima
ambulanza è arrivata pressappoco mezzora fa ma-»
«La prima?? Cosa diavolo significa?? Parla
chiaro, Hige!»
Per risposta, Touma alzò una mano, indicando
un punto imprecisato alle spalle del caposquadra. Quando Urie si voltò, imitato
da Ginny, stentò a credere ai suoi occhi.
«Non riuscivamo a farla salire in
ambulanza. Quel kagune…. Quel kagune era incontrollabile, caposquadra.»
Incastonata come una perla in un anello,
l’ambulanza che doveva essere arrivata per prima faceva bella mostra di sé
contro alla facciata esterna di una palazzina.
L’autista al suo interno era
inequivocabilmente morto.
⌘
«Hai fallito con lei, signor Tatara.»
La sentenza di Eto fu senza dubbio la più
dura da incassare, per l’albino. Non riuscì ad alzare il capo, mentre rimaneva
in ginocchio di fronte alla Bambina con le Bende, seduta come in trono su una
vecchia poltrona rattoppata.
Strinse le mani sulle cosce, mentre il
fazzoletto bianco che si era legato attorno al viso come sostitutivo della
maschera persa si bagnava del suo stesso sangue.
Eto aveva ragione, aveva fallito con Aiko.
Chinò ancora di più il capo, socchiudendo
gli occhi. «Provo vergogna per ciò che è successo», sibilò sottile come il
vento che si intrufola fra le imposte di una finestra. «Mi assumo la piena responsabilità
di quanto avvenuto stanotte.»
«Parli del massacro dei nostri uomini, che
potevamo evitare contattando Aiko come avevo suggerito io?», chiese incalzante
Yoshimura, alzandosi in piedi e iniziando a districare le bende per liberare il
viso. Sembrava quasi che volesse mostrargli quando profondamente l’avesse
delusa. «Oppure magari del fatto che l’hai fatta a pezzi, quando ti sei
scontrato con lei perché non hai ritenuto saggio mandare Ayato al tuo posto? O
forse ancora non aver preso con te Takizawa, che in un modo o nell’altro
avrebbe distratto abbastanza gli agenti da permetterti di svicolare via prima
dell’arrivo di Arima?»
Gli girò attorno, prima di lanciare uno
sguardo verso Hakatori, in piedi davanti alla porta scardinata che dava sulla
stanza come unico accesso. La giovane strinse di più lo straccio sporco di
sangue tra le mani, chinando a sua volta il capo e incassando il fallimento del
suo mentore come se fosse suo. Passò quindi ad Ayato, che però non la ricambiò,
troppo preso a fissare pensieroso oltre la finestra. Anche lui, a suo modo, era
stato allevato da Tatara. Non voleva vedere quella scena.
In ultimo, raggomitolato in un angolo
della stanza, con la mano a grattare il muro fino a scavarne il cartongesso, c’era
Takizawa. La Bambina lo osservò mentre continuava a ripetere quel gesto
masochista, senza davvero ferirsi a causa dello spessore della sua pelle.
Il Gufo staccò lo sguardo dal suo simile e
prese un respiro, sollevando il petto sotto alla mantella stracciata color
vinaccia. «Almeno sappiamo se è viva o morta?»
Tatara non rispose subito.
Eto non gli concesse la grazia dell’attesa.
Si accucciò di fronte a lui, afferrandogli il viso e strappando via il
fazzoletto senza pietà. Strinse le guance nella mano, tenendo gli occhi sottili
dell’albino nei suoi.
Era irata, eppure, ancora si conteneva.
«Dimmi, signor Tatara: il pupazzo su cui
abbiamo investito risorse e speranza, oltre che il nostro prezioso tempo negli
ultimi tre anni e mezzo è vivo o morto?»
«Credo che sia morta, Eto. Le sue ferite
erano troppo profonde e se non l’hanno uccisa loro, è stato il frame out. Un corpo così fragile non può
sopportare una potenza del genere.»
Lo lasciò andare, facendo cadere il
braccio verso il basso. Si sollevò, dandogli le spalle e tornando verso la
poltrona. Da lì, guardò attraverso lo squarcio del soffitto fino alle stelle.
Poi chiuse gli occhi.
Takizawa aveva smesso di grattare contro
il muro.
Hakatori stava trattenendo il respiro e
Ayato si era finalmente deciso a guardare verso l’albino.
«Molto bene. Abbiamo perso la nostra talpa?
Ne dobbiamo trovare una nuova, ora», si voltò verso l’albino, sorridendogli
giuliva. Malvagia. «Conto su di te, signor Tatara. Trova un’altra ragazza,
dolce e gentile. Trovala e falla diventare un mostro, torturandola e
spezzandole l’anima. Poi usala come un’arma contro la ccg e attendi il momento
in cui dovrai di nuovo ucciderla perché sei un fallito. Sappi però che non hai
a disposizione tre anni questa volta, perché il tempo stringe.»
Lasciò scorrere in lui la consapevolezza
delle grandi cose che aveva previsto e che rischiavano di non realizzarsi più,
prima di dargli il colpo di grazia.
«Questo è il tuo dharma, signor Tatara; perdere le persone per la tua incapacità.»
Eto non aveva altro da dire, tornò a
sistemare le bende, nascondendo i vaporosi capelli verde acqua sotto di esse. Tatara alzò il
capo solo a quel punto, guardandola. Il suo volto era ancora segnato dal colpo
di kagune che Aiko gli aveva inflitto, sfigurandolo. La sua rigenerazione era
più lenta del solito, ma visto che poteva di nuovo parlare normalmente non si
risparmiò una osservazione.
Perché solo Eto Yoshimura poteva parlargli
a quel modo, ma anche lei doveva aspettarsi un ritorno. Era sempre stato il suo
confidente, anche quando non era belle le cose che le diceva. Si sarebbe
attenuto al suo ruolo.
«Se tu mi avessi ascoltata, non sarebbe
successo.»
La Bambina ridacchiò. «Ora sarebbe colpa
mia?»
«Tu le hai dato amore e fiducia. Anche se
false, Aiko le ha recepite come tali. L’hai sempre difesa da me illudendola che
poteva avere una via di fuga. Oggi è morta perché lei si aspettava quella via
di fuga. Però tu non sei venuta a salvarla. Un comportamento egoistico per una
persona che è stata a sua volta abbandonata.»
Eto si irrigidì appena, prima di ridacchiare
sotto voce. Non era la sua solita risata spensierata però, no. Era piena di
rabbia. «Attento, signor Tatara. Non ti perdonerò un altro fallimento. Ora
trova qualcuno che possa interpretare Labbra Cucite e una breccia nella ccg, o
ti farò pentire di avere anche solo deciso di entrare a far parte dell’Albero
di Aogiri. Dopotutto questo è quello che sei tu, no? Un uomo mosso dalla
vendetta? Vendica la tua allieva, fai una strage se ti fa sentire meglio. Tanto
è impossibile per noi essere più compromessi o esposti, al momento. Si
accenderanno le luci della ribalta dietro questa morte e noi verremo
demonizzati il doppio rispetto ad ora.»
Con un salto agile salì sullo schienale
della poltrona e poi sul tetto, aiutandosi con la kagune. Tatara abbassò di
nuovo il capo, sconfitto. Aveva ragione lei, non avrebbero potuto far di peggio
per attirarsi addosso gli occhi dell’intero dipartimento. E lui era lì perché Arima
lo aveva permesso.
Quella era forse la vergogna peggiore.
«Laoshi»,
lo chiamò con voce piccola Hakatori, facendolo ridestare dall’abisso della sua
auto commiserazione. «Cosa facciamo, ora?»
Voltò il capo per guardarla, passando poi
anche ad Ayato e a Takizawa. Quest’ultimo non stava parlando, ma il suo sguardo
lo faceva per lui. Sembrava fuori di sé dalla collera, mal contenuta, ma che
sarebbe presto esplosa.
Tatara non lo sapeva cosa fare. Non voleva
un altro agente da addestrare. Non voleva nemmeno un altro infiltrato nel ccg perché
sapeva che non ne avevano bisogno.
Tentennò abbastanza da far parlare Ayato. «Intanto
dobbiamo avere la certezza matematica che sia morta», proruppe, avvicinandosi a
lui. «Vado all’ospedale, vedo se posso infiltrarmi. Tomoe, tu invece vai allo cheteau
dei Quinx e appostati in modo da sentire se qualcuno dice qualcosa. Porta con
te Miza.» Appoggiò una mano sulla spalla di Tatara, chinandosi sul ginocchio
per mettersi alla sua altezza. «Tu rimani qui, recupera le forze e nutriti per
rigenerarti. Takizawa rimarrà da guardia, non è saggio che se ne vada in giro
in questo stato.»
Tatara annuì lentamente, appoggiando la
mano sul suo braccio con il solito tono apatico, ma che Ayato riconobbe come
grato. «Facciamo così. Andate.»
Hakatori fu la prima a lasciare la stanza,
stringendo nella mano l’impugnatura della sua quinque. Poi Ayato, dopo aver
infilato la maschera, uscì dalla finestra. Rimasti soli, Tatara non poté far
altro se non alzarsi, tenendo una mano allo stomaco ferito. Guardò Seidou e
fece per parlare, ma questi si sollevò, uscendo dalla stanza.
«Vado alla porta. Lì inizierò a pensare a
come ammazzarti, maledetto assassino figlio di puttana.»
⌘
«Pressione in aumento, fibrillazione
ventricolare. Sta per andare di nuovo in arresto cardiaco.»
Aizawa era arrivato in sala operatoria
dopo essersi lavato le mani, tenendole ben alte di fronte a sé. Una infermiera
lo raggiunse subito da lui, iniziando a mettergli i guanti. «Cosa è successo?»,
chiese a voce alta, cercando di contrastare il rumore assordante delle
macchine. Sembravano impazzite. Sul lettino poteva vedere solo una porzione di
schiena aperta in due e due flebo di inibitori che sparivano sotto un lenzuolo
bianco, che copriva tutto il resto.
Shiba, che era arrivato per primo, lo
guardò grave. «Ivak, presto avrò bisogno di te per estrarre un kakuho.»
Il biondo non capì. Era stato sbattuto giù
da letto e chiamato in ospedale senza una spiegazione. Aveva bevuto parecchio
la sera prima, ma un senso di leggero panico lo aveva aiutato a rinsavire
abbastanza per prendere la macchina e correre all’ospedale del dipartimento.
«Chi c’è lì sotto?»
Non aveva avuto bisogno di avvicinarsi per
sapere che era un Quinx. Se no si sarebbe ritrovato il lavoro da fare la
mattina successiva nella sua sala autoptica.
Shiba aveva allontanato la mano dalla voragine al centro
della schiena, estraendo un pezzo di acciaio quinque spezzato. «Questa è Masa»,
aveva risposto, mentre uno degli assistenti sistemava i sensori sotto al
lenzuolo, sul petto del giovane.
Ivak non poteva vedere nulla se non la
zona dove Shiba stava operando, ma poteva anche solo vagamente immaginare come
doveva essere ridotta se la gabbia era stata distrutta a quella maniera. Solo
avvicinandosi però colse la gravità della situazione. La gabbia non era solo
stata rotta, ma del tutto disintegrata su di un lato. Il kakuho si era già
spostato, aggrappandosi alle tre pareti rimanenti e iniziando ad attaccarsi al
fegato, ai reni e alle vertebre lombari della giovane. Sembrava che volesse del
tutto invaderla.
«Cosa facciamo ora?», chiese sconvolto
Aizawa.
Il medico più anziano sembrava molto più
deciso di lui, ma non abbastanza. «La sua conta delle cellule rc è salita da 870
a oltre quattromila. Il suo cuore si è già fermato tre volte, una mentre era
ancora sul campo e due qui in ospedale. Le stiamo somministrando dosi massicce
di inibitori, ma non sembrano avere effetto. Possiamo solo asportare il kakuho
e lasciare che la conta si stabilizzi.»
Ivak notò una pozza a terra, così sollevò
il lenzuolo. La gamba sinistra era ridotta molto male e la destra sembrava
ancora attaccata solo grazie ai tendini. «Sopravvivrà a queste ferite senza la
possibilità di rigenerazione, però?»
«Questa è la domanda che mi sto facendo
anche io da quando sono arrivato, ma non credo che abbiamo molta scelta.
Dobbiamo decidere in fretta.»
Il biondo strinse gli occhi. Così nel
panico da non realizzare nemmeno lucidamente cosa stesse succedendo. «Dovremmo
chiedere al parente più prossimo o al suo referente. Non possiamo fare questo
tipo di intervento invasivo senza un consenso.»
«Lo so, ma il suo referente è Urie Kuki e
non so tu, ma io non voglio caricarlo dell’onere di questa decisione.» Shiba
appoggiò il bisturi, prendendo una siringa e iniettando degli inibitori
direttamente nell’organo predatorio, che ebbe uno spasmo. «Se estraiamo il
kakuho potrebbe morire a causa delle emorragie interne o delle ferite. Se non
lo estraiamo morirà di arresto cardio-respiratorio, perché il suo corpo sta
soffrendo troppo a causa della crescita delle cellule rc. In quanto medico capo
del progetto Quinx, per regolamento, in situazione critica divento io il referente.»
«Quindi che facciamo doc?»
«Quindi ci giochiamo il tutto per tutto e
tiriamo fuori questa mostruosità da Aiko. Ivak, sei abbastanza lucido per
farlo?»
Se la sentiva? Non era esattamente quello
che si aspettava quando si era messo a letto, ma non poteva nemmeno tirarsi
indietro. Notò la linea delle pulsazioni iniziare di nuovo a rallentare,
comprendendo che ogni singolo secondo poteva essere fondamentale. Così non
rispose alla domanda. Si sporse sul corpo di Aiko, prendendo una pinza
chirurgica e un bisturi laser.
«Tenete ben divaricata la belle. Devo
vederlo tutto quando. Iniziamo a staccarlo dalla gabbia usando il calore e poi
facciamolo ritornare dentro, spingendolo il più possibile. Servono altri
inibitori.»
«Intanto io provvedo a medicarle le gambe
e le spalle», gli disse Shiba, prendendo ago e filo e scoprendo la porzione
sopra alla scapola. Era completamente massacrata, la pelle slabbrata mostrava la
carne viva sotto di essa. «Portate due sacche di zero negativo, subito!»
«Mi serve una mano qui», Aizawa coprì la
voce del medico più anziano, mentre si faceva passare una pinza. «Prendete il
defibrillatore e staccate la piastra. Useremo l’elettricità per far ridurre le
dimensioni dell’organo!»
Un infermiere si mosse veloce, ma non
arrivò a staccare le piastre. Un sibilo prolungato costrinse tutti a smettere
di lavorare sulle loro zone.
«Il cuore si è fermato di nuovo», disse
una delle assistenti, prendendo l’iniziativa e prendendo dalle mani dell’infermiere
il defibrillatore fisso. Tirò in carrello verso il lettino e settò l’intensità.
«Prima scarica, tre, due, uno». Il corpo ebbe uno spasmo, ma il cuore non
reagì.
Aizawa gliele strappò di mano, fissando al
massimo la scarica. «Spostatevi», scansò tutti, appoggiando sulla schiena della
giovane, all’altezza del cuore, il macchinario. Diede una nuova scossa. Poi un’altra.
«State irrorando i polmoni di ossigeno?!»
«Sì dottore, è collegata al respiratore»,
rispose un giovane studente, che si era spostato in fretta di fronte alla furia
di Ivak.
«Andiamo Aiko, non puoi farmi questo!»
Un’altra scarica.
Shiba prese un respiro profondo, cercando
di fermargli le mani. Il biondo lo scansò senza grazie, spingendolo. «Ivak,
fermati…»
«No! Non è possibile! Andiamo Aiko
reagisci cazzo!»
Un’altra scarica.
«Ivak!»
Tremava, Aizawa. Tremava così forte che
una delle piastra gli cadde dalle mani quando Shiba lo bloccò nuovamente,
stavolta stringendolo per le spalle. Due grosse lacrime caddero dai suoi occhi
chiari, mentre ansimava così forte da sembrare reduce da una corsa. Non si era
reso conto di essere andato in apnea, a un certo punto.
Il fischio della macchina costante come
monito del suo fallimento. Suo e di
nessun altro in quella stanza.
Si sentiva così colpevole che per un
attimo pensò anche lui di essere sul punto di morire.
«Basta così, abbi pietà per questa
ragazza.»
Non disse nulla. Non si mosse di un
centimetro mentre sentiva Shiba decretare l’ora della morte, che venne
prontamente annotata su una scheda. Non si mosse nemmeno quando il
defibrillatore venne spento, così come i monitor delle frequenza cardiaca. «Mi dispiace, dottore», sussurrò l’infermiere,
prendendogli dalla mano la piastra. Tutti
si spostarono, eccetto lui e Shiba, abbandonando la stanza e tornando nella
sala dei lavandini per lavarsi di tutto quel sangue. Rimasti soli, il medico
più anziano gli avvicinò una sedia, battendogli la mano sulla spalla.
«Lo dico io a quelli là fuori, Ivak»,
disse con tono gentile, mentre scopriva il capo di Aiko. I capelli erano così
lunghi da sfuggire alla cuffietta. Così lunghi che per un attimo il biondo si
illuse che non fosse lei. Dopotutto Aiko li aveva sempre portati corti! Ogni
illusione però svanì quando l’altro medico sfilò i tubi dalla sua gola,
sollevandole il capo dal lettino. Lo girò piano, verso Aizawa, accarezzandole
dolcemente il viso, con l’amore di un padre. Poi si passò quella stessa mano
sul viso, alzando gli occhiali per spazzare via qualche lacrima amara. «Tu
rimani insieme lei, va bene? Dobbiamo togliere comunque quel kakuho e ricucirla
per bene. Non voglio che Urie e gli altri la vedano così.»
«Kuki vorrà entrare subito», blaterò
sconnesso Aizawa, sedendosi lentamente sulla sedia, incapace di togliere lo
sguardo dal corpo esanime dell’amica. «Non è successo veramente, non può essere
successo. Non ricordavo nemmeno che la missione fosse questa notte e non ci
siamo visti ieri. Non abbiamo preso il caffè.»
«Lei è morta per salvare Higemaru e Aura»,
gli rivelò Shiba, sfilandosi i guanti e buttandoli in un cestino. «Se ne è
andata combattendo con le unghie e con i denti.»
Non gli rimase altro da fare se non uscire
dalla stanza. Sarebbe tornato presto, comunque, per aiutare Aizawa nell’espianto
dell’organo predatorio. Si concesse un ultimo sguardo al biondo, seguì con gli
occhi le sue mani prendere delicatamente quella della mora fra le sue.
Poi superò la sala dei lavandini e il
corridoio, fino alla porta che dava sulla sala d’attesa. Quando vi uscì, gli
parve che tutta la ccg fosse accorsa lì per sapere. Non vedeva nessuno però,
eccetto i Quinx.
Ne erano rimasti tre del nucleo
originario.
Nessuno aveva ancora digerito la morte di
Shirazu e ora a lui toccava quella notizia ingrata. Abbassò un attimo il capo,
mentre si sfilava la mascherina. Poi avanzò verso il gruppo nutrito, guardando
negli occhi una e una sola persona.
«Mi dispiace», disse a Urie Kuki,
appoggiandogli la mano sinistra sulla spalla. La strinse, cercando di
infondergli un coraggio che infondo non aveva nemmeno lui.
I suoi ragazzi.
I suoi esperimenti.
I suoi martiri.
«Mi dispiace tanto, ma non ce l’ha fatta.»
⌘Nda⌘
Ci ho messo una vita ad aggiornare, lo so,
ma è stato un capitolo pensato e ripensato, molto faticoso.
Ci sono tante cose che potrebbero far
storcere qualche naso, ad iniziare dal colloquio di Tatara ed Eto fino alla
reazione di Urie contro Hirako.
Io credo molto nell’umanità di tutti i
personaggi.
Tutti quanti provano emozioni e le
esternano a modo loro.
Tatara succube di Eto, per me non è ooc,
così come un Urie fuori di sé dal dolore che sbraita contro un superiore
In ogni caso, accetterò ogni critica con
la consapevolezza che ho osato e non me ne pento!
Se qualcuno segue questa storia (magari
qualche anima pia esiste ancora), vi prego di farmi sapere che ne pensate.
Uno stimolo a scrivere più in fretta non
fa mai male, se no chissà quando finirà questa storia.
Un saluto.
C.L.