La vita quotidiana di Aldo Gorini

di yonoi
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“Io canto per riempire l’attesa
finché risuoni vicino il suo passo,
e insieme camminiamo verso il giorno,
l’uno all’altro narrando di come cantammo
per scacciare la tenebra
(Emily Dickinson, “I sing to use the Waiting”)
 

5. Se mi sfiori le mani, io dimentico il mondo

 
 
            Dal giorno in cui il custode, aprendo i cancelli di primo mattino, si era insospettito non trovando Gorini ad attenderlo, sull’Isola dei morti era sceso un silenzio carico di tensione, del genere che prelude a qualcosa di irreparabile.
            All’inizio s’era posato, quel silenzio, come il pulviscolo del primo sole sul piazzale d’ingresso, sulle volute di ferro battuto del cancello, sulle braccia levate di noi cipressi del viale. Di seguito, inoltrandosi sempre di più nell’Isola, s’era posato tra i boccioli di rose bianche, cresciuti sulla tomba del Suicida per la vergogna; sulla corona d’alloro e di polvere del monumento ai caduti, dove i soldati si affacciavano a torso nudo, per godersi un poco di sole. 
            Gli eventi si erano susseguiti rapidamente: il custode si era recato al mausoleo e aveva trovato il corpo del musicista immobile, come fosse là da sempre, insolito compianto sopra alla sedia a dondolo. Era uscito confuso, abbagliato dall’eccesso di luce, e si era affrettato a chiamare i soccorsi: polizia, carabinieri e ambulanza in quest’ordine esatto, forse anche i pompieri. Chiunque andava bene, purché arrivasse presto a cavarlo d’impaccio.   
            Gli ultimi rumori, che avevano messo sull’avviso anche noi abitanti dell’Isola, erano stati il tonfo del libro di poesie che Aldo Gorini teneva sulle ginocchia, quando i soccorritori lo adagiarono a terra nel tentativo di rianimarlo; e la concitazione delle manovre eseguite senza troppa convinzione, perché fu chiaro da subito che l’uomo era deceduto ormai da parecchie ore.
            Gli ordini secchi che i soccorritori si scambiavano tra loro, e la voce suadente del defibrillatore, ci fecero capire cosa stava accadendo entro la mole severa dell’edificio: noi cipressi allungammo in quella direzione le chiome a mo’ di antenne. Molte anime si affacciarono, timide, sulla soglia delle loro cappelle, dei loculi in muratura, delle lapidi a terra.
            Man mano che si spargeva la voce, su quella soglia si creò un vero assembramento di creature silenziose: I primi ad arrivare furono quelli che alloggiavano vicino al mausoleo, e per questo godevano dei posti riservati in occasione dei concerti per violoncello. C’erano poi le rispettabili coppie dell’altro secolo, i lavoratori integerrimi e le spose fedeli. Le madri della Rupe, che grazie alle sonate riuscivano ad addormentare i loro bambini. C’erano i militari del sacrario ai caduti, ancora a torso nudo, e un gruppetto di monache provenienti dalla parte più antica dell’Isola, che in origine era un convento con annesso cimitero.
            Quando Gorini fu caricato sulla barella e condotto lungo la scala, traballando sulle spalle dei due soccorritori fino all’ambulanza, quel corteo invisibile lo seguì fino al limite che ai defunti non era permesso valicare: oltre la scalinata che scendeva fino al lago non era lecito spingersi, perché più in là cominciava il mondo dei vivi.
            Non potendo proseguire, le anime tornarono indietro alla spicciolata: le dame dell’altro secolo sollevavano con due dita le gonne, per non inciampare nel risalire i gradini; gli anziani gentiluomini, impacciati dal rigore dell’abito buono, sbuffavano aggrappandosi ai bastoni da passeggio; i bambini volavano per le scale come scoiattoli, giocavano a rincorrersi come in un’allegra gita fuoriporta. Le madri li seguivano, ogni tanto richiamandoli all’ordine. Tra i militari, qualcuno osservava che quando era salito alla Rupe la prima volta, aveva trovato il tragitto molto meno faticoso: per forza, sghignazzavano gli altri, l’altra volta ti hanno portato nella cassa, con tanto di bandiera e medaglia. Adesso, invece, tocca a te muovere il culo.
            Malgrado la contagiosa allegria dei bambini e i motti dei militari, malgrado l’abitudine alla morte che tutti condividevano, gli abitanti della Rupe erano dispiaciuti per l’improvvisa dipartita di Aldo Gorini. S’erano affezionati al vecchio musicista con quella timidezza grata e senza pretese che era loro tipica: e che li rendeva lieti come i bimbi a Natale quando i vivi si fermavano anche solo un istante, per leggere le date sopra alle loro lapidi, e guardarli negli occhi delle fotografie.  
            Tutti speravano che Aldo Gorini potesse rimanere tra loro: ma sapevano anche che ormai le sepolture si facevano tutte al Cimitero Centrale, nella periferia remota della città. Là dove c’era un crematorio inestinguibile, pronto a ridurre in cenere, violoncello compreso, chiunque non avesse denaro sufficiente per andarsene altrove.
            Da lì scese il silenzio nel cuore di molti e li rattristò a lungo, come se avessero perso una persona cara. Persino noi cipressi soffrivamo di nostalgia: ci mancava la musica, quell’armonia che aiutava persino l’erba a crescere, e che ispirava anche ai più abbandonati la fiducia nel vero amore che vince la morte. Anche a coloro che non avevano più nessuno che venisse a trovarli, la musica di Gorini ricordava che eravamo anime in viaggio, destinate all’Eterno: e come recitava quella poesia che il vecchio aveva tanto amato, noi eravamo i figli della luce spaziosa, fiamme dello splendore. Il nostro viaggio verso l’eterna felicità era appena incominciato.
 
******
 
            Per un lasso di tempo che nessuno poté quantificare - essendo noi della Rupe ormai fuori dal tempo - sull’Isola dei morti regnò solo il silenzio, finché giunse una notte diversa da tutte: in quella quiete immobile, piana come la superficie del lago, dall’antico mausoleo si levarono timide, un poco incerte poi man mano più decise, le note di un violino.
            Era una musica dolce, carica di un infinito struggimento. Noi cipressi cercammo di afferrarla con la punta dei rami, e i nostri occhi di resina iniziarono a pungere per la commozione.
            Sulla soglia del mausoleo, una figura esile chinava il capo su un violino come fosse la spalla di qualcuno che amava: e suonava con una maestria e un tormento che non erano di questo mondo. 
            “Sta suonando per lui”, sussurrò con certezza il soldato Ruhe, “in qualche modo che noi non possiamo comprendere, lei lo sta chiamando. Vuole che venga qui.”
            “Tu come fai a saperlo?”
            Il Suicida per la vergogna aveva ricevuto l’istanza di divorzio, come la ciliegina su una torta di letame, a pochi giorni dalle denunce che lo avevano spedito diritto al capolinea. Solamente da poco, guardando al mondo dei vivi con la vista più acuta che è propria della morte, si era reso conto che sua moglie, in realtà, già da parecchio tempo aveva un altro uomo: e aveva semplicemente colto al volo l’occasione per provare a cavargli un mucchio di soldi.
            Riguardo all’amore eterno, si sentiva alquanto scettico.
            “Io non lo so, ci spero”, mormorò Ruhe, “perché dopo la morte rimangono soltanto le cose importanti. Forse solo l’amore.”
            “L’amore” brontolò il Suicida per la vergogna, a voce bassa ma sufficiente per farsi udire da tutti, “per quel che ne so io, l’amore è la beata consolazione dei fessi”-
            Ruhe non rispose.
            La bianca figura continuava a suonare, e persino i fuochi fatui parevano danzare sul filo di quelle note. Come al tempo in cui Aldo Gorini teneva i suoi concerti, si radunò un folto pubblico, che l’inconsueta visione rendeva un poco più timoroso. La donna non era più giovane, eppure possedeva un’incorporea bellezza: un fuscello di schiena lunga e diritta, un volto affilato e lunghe mandorle d’occhi, che scrutavano il pubblico con un’aria smarrita e forse un poco timida. Sulle braccia, a ricordo del ricovero urgente nel reparto di terapia intensiva cardiologica, recava lividi di punture. Vestita un sudario, sebbene Aldo Gorini l’avesse deposta con i suoi abiti migliori, suonava con i capelli scarmigliati e disciolti: a guardarla, pareva una di quelle figure del dolore che vegliavano sulle austere cappelle del cimitero.
            Il Suicida per la vergogna e il soldato Ruhe si erano piazzati su una gobba di prato, a fumare le solite sigarette dei morti. Il primo era disteso con le braccia dietro alla testa, l’altro cauto sul ciglio di un vecchio fazzoletto. Dal lago saliva l’odore dell’acqua, lo sciabordio pigro dei flutti contro la scala a chiocciola. Una nebbia sottile, che era il calore rimasto dal giorno, avvolgeva la Rupe in un’atmosfera da sogno.
            Incominciò a parlare il piccolo tedesco, completamente assorbito dall’incantesimo:
            “Lei è la donna amata dall’uomo del violoncello. Hanno suonato insieme per tutta la vita. Pare che sia straniera, e venga dalla Danimarca. È ariana, come me.”
            Lo disse con un compiacimento infantile. Il Suicida per la vergogna si raddrizzò sui gomiti e lo guardò dritto in faccia:
            “Non mi dire che credi ancora a queste cose.”
            Husky lo guardò con i suoi occhi trasparenti:
            “Perché non dovrei crederci? Me le hanno insegnate da piccolo, a scuola. I nostri professori ci volevano bene, ci hanno dato cose buone in cui credere.”
            Il Suicida per la vergogna strappò un lungo stelo, se lo ficcò in bocca.  
            “Certo, come no.” Lì per lì fu tentato di lasciar perdere. In fondo che gli importava, delle cose buone di Husky, era tutta acqua passata di settant’anni fa. Ma poiché nel suo cuore, per tutt’altro motivo, covava la rabbia, a un certo punto non riuscì più a trattenersi. Afferrò il ragazzo per un braccio, strattonandolo. Stavolta Ruhe lasciò fare: si volse verso di lui, docile, e i suoi occhi celesti lo fissavano stupiti.
            “Voglio sapere che ti è successo” gli sussurrò il Suicida “non ti lascerò andare finché non me l’avrai detto. Scommetto che ti hanno fatto la festa, e magari ti è pure piaciuto. Vediamo se hai il coraggio di raccontarmi quanti erano. Alla faccia degli ideali, delle belle parole che non servono a niente.”
            Lo gettò indietro con una spinta, così forte da fargli perdere l’equilibrio. Il ragazzo si rimise a sedere con fatica, sistemando il fazzoletto con attenzione. Senza alzare lo sguardo, domandò sottovoce:
            “Vuoi che me ne vada?”
            Da qualche parte, il suo corpo iniziava a sanguinare. In un modo che al buio non era dato di capire esattamente, una macchia nerastra incominciava ad allargarsi sul fazzoletto. Sul braccio dove il Suicida l’aveva stretto si aprì un’altra ferita, e un altro fiore scuro iniziò ad inzuppare la manica dell’uniforme. Poiché il ragazzo era morto il sangue usciva lento, una mera illusione di forza vitale. Il Suicida per la vergogna si allarmò. Si tirò su di scatto, e gli fu subito accanto:
            “Ti ho fatto male?”
            Con delicatezza stavolta, lo palpò per controllare che non ci fosse nulla di rotto. In fondo, Husky era deceduto da molti anni, e non era inconsueto che i più vecchi tra i morti incominciassero a perdere qualche pezzo. 
            Il piccolo tedesco fece segno di no, ma fuggiva il suo sguardo tenendosi nell’ombra. Guardandolo, il Suicida sentì qualcosa sciogliersi, dentro di sé in un punto segreto dell’anima: a un tratto non gli importava delle porte chiuse in faccia, della vergogna del suo nome su tutti i giornali, di sua moglie che se la spassava con un altro e con tutti i suoi soldi. Di aver perso la casa, i contratti, la carriera e quella pallida forma di amore che è l’ammirazione di tutti.
            Adesso gl’importava solamente di Husky, di quella purezza che voleva proteggere a ogni costo perché gli ricordava da vicino i suoi figli, che non aveva neppure potuto salutare. Non solo: c’era qualcosa in Ruhe che gli ricordava molti altri bambini, quelli che aveva tenuto nascosti nel computer di casa, sotto forma di filmati e di immagini. Prima che l’apparecchio fosse sottoposto a sequestro, ne aveva messi insieme così tanti da non poterli contare. Li aveva contati, al posto suo, la polizia postale.
            Profondamente turbato, come per sottrarsi ai suoi stessi pensieri il Suicida per la vergogna si diede a tamponare il sangue dalle ferite del soldato semplice Ruhe: in breve, esaurì un pacchetto di fazzoletti di carta, che aveva prontamente cavato da chissà dove:
            “Ti hanno seppellito coi fazzoletti in tasca?” rise il piccolo Husky, recuperando in un attimo la sua levità di spirito.  
            “Mi hanno seppellito com’ero” rispose secco il Suicida.
            Lieto delle attenzioni, l’altro si divincolava ridendo. Poi, con la spontaneità che gli era consueta: “Se proprio vuoi saperlo è stato uno soltanto, ma mi ha fatto così male che ogni volta che ci penso ritorno a sanguinare.”
            “Perdonami” sussurrò il Suicida per la vergogna, e non era ben chiaro se parlava a se stesso, ad Husky o a quei bambini imprigionati nei file del suo computer. Ore e ore di video e di fotografie che aveva scovato pazientemente nei meandri della rete, in molti casi pagandoli a peso d’oro.
            “Perdonarti di cosa?” chiese a quel punto Ruhe, levando il volto per accompagnare la sua domanda fino al volto dell’altro. Il Suicida per la vergogna fuggì con lo sguardo, quasi temendo che l’altro potesse leggergli in faccia quello che aveva fatto. Eppure, quella sera decise che ne aveva abbastanza. Buttò fuori le parole, quasi senza pensarci: 
            “Sono stato arrestato per una stupida faccenda di pornografia. Roba con ragazzini più giovani di te. Insomma, dei bambini. Mi hanno trovato in casa un sacco di foto, video… Anche con bambini piccoli.”
            Ruhe si limitò a guardarlo coi suoi grandi occhi umidi, di un celeste che non era mai stato così limpido. Da quella notte in cui il sergente maggiore Linder l’aveva condotto con sé nella radura buia, aveva le labbra morsicate in più punti. Anche quelle ferite ripresero a sanguinare.
 
******
 
            Dall’alto delle mura, la notte sulla città era una cappa di foschia punteggiata di luci. A metà dell’estate, la telecronaca della finale dei mondiali di calcio giungeva fino all’Isola silenziosa dei morti in un brusio di televisioni dalle finestre aperte, di radio dalle piazzette. Alcuni dei più giovani si erano arrampicati in cima a quei bastioni che li tagliavano fuori dal mondo dei vivi: con le gambe a penzoloni nel buio, ascoltavano le voci che incalzavano i giocatori dai bar sul lungolago, dalle radio portatili, dalle tivù sotto al cielo giallo della città.
            Tutti cercavano di capire cosa stava facendo l’Italia, e chi riusciva a intercettare qualche parola da quell’eco confusa, ne rendeva partecipi gli altri:
            “Ha segnato l’Italia” esultava uno dei caduti del sacrario, ma un altro non era convinto:
            “Non ci credo, la gente griderebbe più forte.”  
            Dalla sommità delle mura, gli occhi dei morti giovani vagavano per le strade della città: le mani vuote nel grembo, le gambe che dondolavano a picco sul lago, si sentivano esclusi da quella festa dei vivi.
            Erano curiosi di sapere se l’Italia sarebbe riuscita a diventare campione del mondo, ma sapevano che quel momento non era per loro: e anche il loro entusiasmo, non era che un tentativo penoso quanto inutile di continuare a far parte del mondo dei vivi.
            Lo sapevano bene anche il soldato Ruhe e il Suicida per la vergogna, che pure risentivano di quell’irrequietezza che aveva preso un po’ tutti: anche i bambini quella sera erano scatenati, correvano dietro a un pallone uscito da chissà dove e non volevano saperne di andare a dormire. Più che giocare, si azzuffavano nel tentativo di dare calci, mettendo nei loro gesti un’insolita ferocia.
            Il soldato Ruhe e il Suicida per la vergogna camminavano lungo il viale alberato, avanti e indietro nella frescura che un po’ li nascondeva dagli altri della Rupe. Andavano in silenzio, senza guardarsi. A tratti le loro mani si cercavano, sfiorandosi.
             Ruhe aveva raccontato che quando era giunto all’Isola il suo corpo era talmente intirizzito che le madri della Rupe avevano dovuto cullarlo e riscaldarlo per quasi settant’anni, prima che fosse in grado di superare il dolore, e prendere finalmente il suo posto tra i morti.
            Il Suicida per la vergogna aveva raccontato dei suoi traffici solitari al computer, e del punto di non ritorno a cui era arrivato durante una vacanza in un paese straniero, quando aveva concordato un prezzo stracciato per comprare un bambino. Anche il Suicida aveva iniziato a sanguinare: dal solco che gli girava attorno al collo, grosse gocce di sangue avevano iniziato a scendere come lacrime. Il piccolo tedesco l’aveva abbracciato, stringendolo a sé quando l’altro aveva fatto un passo indietro per sottrarsi. Nel momento in cui l’uomo aveva abbassato finalmente la testa, per posarla sull’esile spalla di Ruhe, un’armonia dolcissima, un brano musicale eseguito con tecnica perfetta e invincibile potenza aveva cominciato a diffondersi in ogni angolo della Rupe.
            La sera precedente, un nubifragio aveva imperversato sull’Isola spazzando via i giochi dei bimbi, la corona col tricolore dei caduti, qualche statua di angeli un po’ pericolante, e una quantità di tegole dai tetti delle cappelle. 
            Il mattino seguente, la gente della Rupe si era data da fare per aiutare il custode a riparare i danni: tutti avevano lavorato fino a tardi per rimettere in piedi i muri e le siepi, raddrizzare angeli e croci, ristabilire la copertura dei tetti. Come in un’improvvisata caccia al tesoro i bambini correvano liberi per i campi, cercando i loro giocattoli.
            C’era un grande fermento di attività alla Rupe: per questo, nessuno si era accorto che insieme alla bruma del tardo pomeriggio era salito alla Rupe anche lo smilzo corteo funebre di Aldo Gorini. Guidava l’esiguo gruppo il prete della parrocchia, che aveva conosciuto l’anziano musicista quando questi aveva venduto la casa, e aveva occupato una stanza in affitto vicino alla chiesa. Il parroco aveva preso a benvolere quel vecchio un po’ strambo, dotato di un’immensa conoscenza musicale e di un bizzarro amore per i funerali: ogni volta che in chiesa si celebravano delle esequie Gorini era presente, compunto all’ultimo banco. Alla fine lui e il prete fecero conoscenza, e l’anziano musicista si offrì di rispolverare il grande organo a canne che incombeva dall’alto, minaccioso come una macchina da guerra tra le volte della chiesa.
            In cambio delle sonate che quelle dita esperte traevano dall’organo, e uscivano maestose dalle canne puntate al cielo, il prete non lo lasciava andare a mani vuote: gli rifilava puntualmente nella tasca un pacco di pasta e qualche scatoletta, un filone di pane.    
            Gli altri due del corteo erano delle pompe funebri comunali: con la massima economia di tempo e di spazio, avevano portato le scartoffie nelle tasche e la cassa sulle spalle.
            Chiudeva il corteo un cane giallo e randagio, a cui Gorini aveva dispensato ogni sera i resti della cena, e una carezza sulla carcassa scheletrica. Siccome il prete era esausto, e quelli con la cassa avevano compiuto gli ultimi metri arrancando più morti che vivi, il botolo giallo era l’unico a mantenere un atteggiamento riguardoso, consono a un funerale.
            I due delle pompe funebri parevano aver fretta di togliersi dai piedi una seccatura. Arrivati alla Rupe, avevano scaricato la cassa con malagrazia, per attaccarsi a bere alle piccole fontane che servivano per curare le piante, e recavano file di minuscoli innaffiatoi. Dopo un breve colloquio nell’ufficio del custode, il corteo era giunto al mausoleo di Emily Olsen. Qui Gorini fu tumulato in una nicchia del muro. Una volta terminata l’operazione, a indicare il punto avevano lasciato un semplice foglio con il nome e le date, sigillato nella plastica per evitare i contrattempi dell’umidità: la destinazione definitiva, secondo la volontà del defunto, doveva essere lo stesso sarcofago di Emily, costruito a suo tempo con larghezza sufficiente per accogliere entrambi. Ciò richiedeva un iter abbastanza complesso, perché il mausoleo era vincolato dalla Soprintendenza e non era chiaro se il vincolo riguardava soltanto l’edificio, o anche gli arredi. Nel dubbio se il Gorini potesse ritenersi un complemento d’arredo, e per la mancanza di parenti disposti a sobbarcarsi le spese, non se ne fece nulla. 
            In mancanza di altri, fu il Comune a farsi carico delle esequie, fornendo l’indispensabile: un loculo e una lapide che non arrivò mai a destinazione, perché nei mesi seguenti gli addetti del Comune se ne dimenticarono, e il foglio con il nome e le due date scarne fu spazzato via dalla prima bufera invernale. 
            Fu questa la fine anonima di Aldo Gorini, eppure non ve ne fu nessuna di più felice.
            In piedi sulla soglia del mausoleo, aveva ritrovato colei che aveva amato fin da quel primo istante in cui Emily Olsen aveva posato l’archetto sulle corde, in quella sera remota del saggio al conservatorio.
            Nell’accogliere il nuovo ospite dell’Isola dei morti - l’ultimo ormai, perché esattamente il giorno dopo il Comune decretò la chiusura definitiva - Emily aveva recuperato lo splendore del primo incontro: e nel momento stesso in cui Aldo Gorini uscì dalla sua nicchia e se la trovò di fronte, provò la stessa emozione di cinquant’anni prima, quando l’aveva vista suonare concentrata sotto agli occhi degli insegnanti. Emily Olsen suonava, la treccia sulla spalla e il violino sull’altra, mentre lunghi tramonti su distese di neve, manciate di isole in un mare di ghiaccio, foreste silenziose uscivano dall’archetto e riempivano tutto lo spazio: e chi ascoltava si sentiva trasportato in un paese lontano, al punto da avvertire un brivido di freddo.  
            Quella sera, mentre nel mondo dei vivi si festeggiava la vittoria dell’Italia ai mondiali, il mausoleo di Emily Olsen s’illuminò a giorno, simile a un palcoscenico di teatro. La gente della Rupe dimenticò per un attimo l’atmosfera di festa che si surriscaldava nella città dei vivi, e quel felice clamore da cui erano esclusi.
            Sul cielo della città fiorivano i fuochi artificiali: i vivi facevano festa per conto loro, mentre il lago e la Rupe continuavano ad essere avvolti dall’oscurità.
            Ma sul piccolo spiazzo di fronte al mausoleo, Emily Olsen aveva una rosa di feltro puntata sull’orecchio, una treccia che si perdeva nella penombra, l’abito lungo da sera. Accanto a lei, Aldo Gorini ancora in uniforme da allievo ufficiale, con un occhio allo spartito abbracciava il violoncello, con l’altro occhio stringeva a sé la sua donna.
            Come scaturito dagli sguardi che i due si scambiavano da dietro al leggio, un tepore confortevole, un’armonia feconda incominciò a fluire tra le membra disseccate dei morti della Rupe. E tutti assaporavano quel frammento di vita, che era solo per loro.
            Gli unici che non si unirono alla folla che assisteva al concerto furono il soldato Ruhe e il Suicida per la vergogna.
            C’era stato un tempo in cui le madri della Rupe avevano dovuto tenere in braccio a lungo il piccolo tedesco, per riscaldare il suo corpo intirizzito: con la stessa pazienza, ora il soldato Ruhe teneva stretto a sé il Suicida per la vergogna e lo teneva con forza, anche se quello era grande il doppio di lui, e tra le sue braccia magre ci stava appena. 
            Sulla ghiaia del viale, al ritmo della musica si agitavano fragili le prime foglie autunnali.
 
 




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