Ed io?

di Cladzky
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Verso l’ora più buia della notte aveva cominciato a piovere. Da quando era iniziata a cadere, la pioggia si era fatta via via più scrosciante e forte abbattendosi sulle strade come colpi di frusta, ed in una tale quantità che ormai il bollettino meteorologico aveva sconsigliato di uscire di casa se sprovvisti di canoa. A completare il tutto si alzò un forte vento gelido da fare invidia alla Bora di Trieste che faceva sbattere le ante, rovesciava i bidoni e sradicava le panchine con annessi irriducibili anziani che mentre spiccavano il volo si lamentavano che quando c’era Lui il vento era più tranquillo, i treni arrivavano in orario e non ci sono più le mezze stagioni.

Questo e molto altro era possibile constatarlo semplicemente alzando lo sguardo dal proprio bicchierino di Martini ed osservando la sommità della cupola protettiva, dove ogni tanto là fuori si vedeva una Station Wagon passare a mezz’aria. Ovviamente gli invitati non avevano alcun motivo di preoccuparsi, tanto loro avevano il parcheggio coperto.

Stare sotto la cupola significava essere praticamente tagliati fuori dal mondo, e stando all’opuscolo in allegato al biglietto d’invito, la barriera era praticamente indistruttibile. Almeno così era stato scritto nel documento personalmente curato da Gyber, che si era fra l’altro preoccupato di specificare l’irrevocabile divieto d’accesso a tutti coloro che indossavano calzini coi sandali o scrivevano “buongiornissimo” su Facebook. Dopotutto casa sua regole sue. E poi ci teneva che i pirla rimanessero a debita distanza dalla sua proprietà privata.

Quindi poco importava se là fuori accadeva il finimondo, finché la barriera era ancora in piedi e finché le scorte di patatine e salatini comprati al discount non erano finite, nessuno avrebbe avuto motivo di allarmarsi. La festa dunque continuava, per la gioia dei festanti, con la birra Peroni che ormai sgorgava più dell’acqua là fuori, accompagnata poi dal famigerato gioco del giro intorno bastone, eseguito categoricamente da ubriachi, che inevitabilmente fece più strage della Peste Nera.

Insomma, un delirio meraviglioso di gioia e festa che influenzava tutti a proprio modo. Eppure da qualche parte, in mezzo a quella folla, qualcuno non pareva trovarsi a proprio agio. Appoggiato alla ringhiera di un terrazzo coperto di giardini pensili, stava ritta un’austera e scura figura, immancabilmente mantellata.

-Avverto un disturbo nella forza – Mormorò Darth Vader.

-Ah, beato te che ti preoccupi di ‘ste cazzate – Rispose Kishin Shruikan comparendogli accanto –Io invece non riesco a trovare il wifi di questa baracca.

Il corvino continuava ad armeggiare col proprio smartphone, puntandolo in giro come un contatore Geiger, ma senza sortire alcun effetto.

-Ragazzo – lo richiamò l’Oscuro Signore. Kishin si voltò corrucciato.

-Cosa vuoi?

-Riconosco in te un portamento da vero Sith e l’aria truce di un essere capace di assoggettare l’intera galassia.

-Se è un insulto è certamente il più fantasioso che abbia mai sentito in tutto il Multiverso – rispose il ragazzo inarcando un sopracciglio e pronto a digitare sul telefono il numero del Gotham Asylum. Sempre i tipi più strani finiva per incontrare.

-Vuoi essere mio figlio?

Ecco appunto.
L’espressione di Kishin mutò disgustata, deformandosi al punto che si sarebbe potuto dire che ogni sua particella di sangue nero in quel momento stesse urlando.

-Diavolo, no, razza di pervertito! – E con questo si congedò scavalcando di gran carriera il parapetto e buttandosi nella piazzola sottostante, deciso a non rimanere un minuto in più con quel tipo che pareva avere una bruttissima passione per i Daft Punk. Vader sospirò sconsolato, guardando la Luna pallida.

-Perché nessuno vuole essere mio figlio?

-E che ci vuoi fare? – gracchiò un nonnetto là fuori che cavalcava la sua fedele panchina in balia dell’uragano – sono i giovani d’oggi!
 
***

 
Il nonnetto, vecchio militante di CasaPound (D’altronde lui ed il signor Ezra Pound avevano fatto le medie insieme), riprese quota e si allontanò in sella al suo fido velivolo in mezzo alla tempesta, ma si ritrovò ben presto in una corrente calda trasversale composta da stormi di Volkswagen selvatiche, che dovevano aver preso il volo tra le altre cose durante la peturbazione.

Quell’insieme di automobili crucche cominciò a ronzargli attorno pericolosamente, rischiando di mandare in pezzi la sua adorata panchina. Inizialmente tentò di aprirsi un varco fra le lamiere estraendo il suo cacciavite da nonnetto buca-palloni d’ordinanza sferrando fendenti, affondi e montanti a destra e manca, rigando portiere e forando gomme con un accanimento tale che neanche i peggiori pischelli delinquenti da rione.
Fu però in breve costretto a ritirarsi sotto l’incalzare dei beni di consumo germanici, vista la loro superiorità numerica. Non poteva rischiare di distruggere la amata cavalcatura, ci era affezionato: Aveva passato talmente tanto tempo seduto su quella panchina al parco ad insultare i giovani d’oggi che un giorno passò un agente del fisco a riscuotere la tassa sulla seconda casa.

Con abili manovre riuscì a portarsi fuori da quel cumulonembo di spinterogeni, non prima di aver insultato adeguatamente quelle automobili impudenti.

-Dannate mangia crauti! – esclamò tanto per schiarirsi la gola incatarrata –Se non avessi i reumatismi per questa stramaledettissima pioggia a questo punto invece della benzina stareste ciucciando olio di ricino!

Nello stesso istante in cui finì di sputare l’ultimo vocabolo del suo fiero sproloquio si rese conto che la sua fida panchina era stata tagliata in due da quella che pareva una cometa gialla canarino. L’oggetto volante non identificato gli passò talmente tanto velocemente davanti che il suo mezzo di locomozione aerea non convenzionale proseguì la sua traiettoria di volo per alcuni secondi prima di disassemblarsi in due tronconi. Persa la famosa forma aerodinamica tipica delle panchine, l’oggetto perse anche le sue capacità di volo e precipitò verso il suolo.

Il vegliardo, rimasto per un attimo a mezz’aria, con cinquecento metri d’atmosfera a separarlo dalla fine, rimuginò un istante su come terminare con dignità la sua esistenza ed optò di concludere il tutto facendo ciò che gli veniva meglio. Sparare cazzate.

-Quando c’era Lui si bonificavano le Paludi, i mangiabambini comunisti se ne stavano a congelarsi il culo in Siberia, gli immigrati rimanevano in negrolandia, i treni arrivavano in orario e gli orari arrivavano in treno!

Detto ciò, ei fu e cadde come corpo morto cadde, svanendo in mezzo alle nuvole, la nebbia ed il diossido di carbonio.

Poco dopo una navetta di pattuglia della polizia municipale locale fece capolino da dietro un ammasso di nubi, seguendo la scia dell’oggetto giallo.

 
***


-Centrale, qui volante numero 13, abbiamo perso le tracce di un astrodisco sospetto, il cui conducente è responsabile di vandalismo, guida senza targa e la creazione di un nuovo buco nell’ozono alla sua entrata nell’atmosfera.

-Maledizione, l’atmosfera no! Io la respiro l’atmosfera – rispose indignato l’operatore all’altro capo della radio –Bisogna fermarlo, attivate immediatamente la nuova procedura antiterrorismo testata con successo in America.

-Nuova misura antiterrorismo? E che roba è? – chiese il secondo agente della volante.

-Se non puoi fermarlo, abbattilo.

Detto fatto, un piccolo missile aria-aria a testata esplosiva e ricerca a infrarossi, venne sganciato dalla pancia della volante, indugiò un attimo nell’aria e poi partì spedito accendendo il suo propellente.


***


Quando Cladzky si rese conto di essere nella traiettoria autoguidata di un missile era ormai troppo tardi. Inizialmente aveva scambiato quel focolaio luminoso per i fanali della volante che lo stava inseguendo fino a poco fa, ma ora si rendeva conto di quanto fosse stato stupido pensarlo, visto che di norma i fanali di un auto sono due.

Doveva quindi concentrarsi a trovare una manovra per togliersi da quella situazione. Il problema era che, come suo solito, il suo cervello, quando si trattava di risolvere situazioni disperate, andava in pappa per lo stress e iniziava a stronzeggiare, cominciando a farsi venire in mente tutt’altro meno che la soluzione al problema.
Ad esempio, in questo momento, stava iniziando a chiedersi come una nottata iniziata col piede sbagliato, fosse degenerata in tal modo con lui inseguito da un missile. Cosa aveva fatto per meritarsi tutto ciò?
Dopotutto aveva solo cercato di intrufolarsi ad una festa a cui non era stato invitato, aveva disturbato il personale, aveva distrutto un furgoncino pieno di ananas, bestemmiato in pubblico, sparato con un fucile d’assalto a degli innocenti, fatto impazzire il cervello positronico del suo computer di bordo, superato i limiti di velocità dello spazio aereo della città e resistito al legittimo arresto per guida pericolosa da parte di una volante della polizia. Beh, vedendola in questo modo, forse non era poi così tanto una conseguenza tanto immeritata.

Era sorprendente osservare fino a quale punto la sua vita potesse arrivare a toccare il fondo. Ogni volta che era ormai sicuro di aver raggiunto il limite arrivano giornate come questa.
Era tornato sul suo pianeta natale con l’intenzione di sbattere in faccia a tutti quanto si fossero sbagliati a non invitarlo alla loro festa e non solo non c’era riuscito, ma nel giro di poche ore era stato saccagnato di botte da una creatura mitologica, truffato e derubato dall’antieroe per eccellenza, vandalizzato da dei ragazzi e abbandonato dal suo più fido compagno, le cui ultime parole erano un messaggio audio che rimarcava il suo disgusto per lui.

Ha pianto. Ha pianto come non piangeva da quella sera di tre anni fa. E sempre piangendo, esattamente come tre anni fa, aveva preso il disco, ovvero tutto ciò che gli era rimasto, e prese il volo per sollevare il pianeta della sua presenza una volta per tutte. Tornare sulla Terra non aveva fatto altro che dimostrare ancora di più quanto certe cose vadano lasciate alle spalle o rischi di annegare insieme a loro.

Era in viaggio da meno di dieci minuti e la mancanza di Mark0 già si faceva sentire. Fino ad allora si era sempre occupato lui dei decolli ed ultimamente aveva preso l’abitudine di lasciare che fosse il pilota automatico ad occuparsi dei viaggi. Praticamente non toccava la cloche da qualche mese e ricominciare a guidare manualmente il disco senza la supervisione di Mark nel bel mezzo di una tempesta, non era il miglior modo per riprenderci la mano. Dopo un paio di tentativi era riuscito a far decollare il mezzo, segando nel frattempo un paio di lampioni troppo vicini ai bordi del disco. Poi il suddetto velivolo, prima di prendere quota, oscillò pericolosamente vicino a dei palazzi, ma nulla di grave. Beh, almeno nulla di grave per quanto riguardava il disco, visto che una facciata si ritrovò con le vetrate in frantumi. Aveva poi avuto uno strano incidente con un anziano che cavalcava una panchina a mezz’aria (Quell’estathé di bassa qualità doveva avergli fatto più male di quanto pensasse se cominciava a vedere quelle cose) e da lì sentì alle sue spalle il rumore di un paio di sirene e l’indistinguibile sfolgorio di luci rosse e blu.

Ed ora si ritrovava con uno stracazzo di missile a ricerca alle calcagna. Anzi, non c’era più, visto che ora il missile aveva impattato col retro del disco.

Ci fu una botta sorda e violentissima che gli fece quasi uscire gli occhi dalle orbite. Le sue orecchie furono assordate da una deflagrazione improvvisa come quella di un grosso petardo. Ci fu per un attimo una luce bianca accecante che andò mano a mano dissolvendosi dalla sua vista, mentre un bruttissimo odore di carcassa metallica in fiamme si propagò per il velivolo.

Il motore non funzionava più. Si era improvvisamente acuita la consapevolezza del vuoto sotto di lui mentre sentiva il disco perdere la sua velocità dalla forza d’inerzia data dalla spinta in avanti dell’esplosione. Sentiva il suo disco avvicinarsi sempre di più al terreno. Gli pareva quasi di sentire lo schianto che avrebbe fatto la carcassa sull’asfalto e le foto sui giornali del suo viso insanguinato.

Che modo ridicolo per andarsene. L’incredulità nel capire che sarebbe morto aveva fatto spazio alla magra consolazione che quantomeno avrebbero parlato di lui. Almeno finché non si rese conto che avrebbero parlato di lui come un pazzo scatenato fermato dalla polizia dopo aver devastato un tranquillo quartiere. Inizialmente si irritò a questo pensiero per poi rendersi conto che, beh, era esattamente quello che era successo. Chissà che avrebbero detto i suoi genitori. Chissà che avrebbe detto suo fratello o sua sorella? Che avrebbero detto i suoi amici di EFP? Che avrebbero detto Kishin, Giuly, Gayber, Dante, Lelq, Everian, Lucas e tutti quanti di lui?
E’ proprio questa la parte peggiore della morte. Non sai mai come va a finire.

 
***

 
Quando Cladzky si risvegliò si ritrovò a cantare senza saperlo una melodia accattivante che proveniva dalle casse di bordo, con sopra registrata una vocina adorabile che ripeteva a raffica la stessa frase.

-Ding dong! Se potete ascoltare questo messaggio siamo lieti di comunicarvi che i nostri sistemi di sicurezza airbag e ammortizzatori a levitazione per atterraggi imprevisti hanno funzionato perfettamente e siete ancora vivi. Purtroppo siete in ritardo con il pagamento delle rate del disco, quindi non contate sul telefono di bordo per chiamare i soccorsi, sanguisughe che non siete altro. Grazie per aver scelto un disco marca Ford e passate una splendida giornata!

Cladzky si guardò un poco attorno. Era tutto scuro e non si riusciva a distinguere nulla. Aveva ancora la vista offuscata e faticava a distinguere le forme. Sopra di sé riusciva solo a vedere il parabrezza sfondato. L’immondizia del pavimento si era sparsa ovunque e circolava in giro un po’ di fumo residuo.

Ora aveva perso anche il disco. Bene così. Si portò la mano alla fronte, trovandola tutta insanguinata e ridotta peggio del solito. E ora cominciava a venirgli un maledettissimo mal di testa. Non poté poi fare a meno di biascicare debolmente un po’ di sane imprecazioni pensando a come tutto questo sarebbe potuto essere evitato. Se non si fosse orgogliosamente intestardito a rovinare un’innocente festicciola che dei suoi amici avevano preparato, non sarebbe innanzitutto tornato sulla terra, luogo per cui nutriva ben poca simpatia, non avrebbe perso Mark0 e non sarebbe stato abbattuto dalla municipale.
Se si fosse fermato un momento a ragionare sul serio si sarebbe potuto risparmiare tutto questo. Invece no. Ed era tutta colpa sua e della sua stupidità. Mark0 aveva ragione. Era un fallimento sotto ogni aspetto. Era uno spreco d’aria vivente. Aveva praticamente distrutto tutto quel poco che gli rimaneva della sua vita in una serata. Grandioso, semplicemente sublime: se la demenza fosse una virtù gli avrebbero dovuto erigere una statua dopo tutto questo.

Ed ora rimaneva lì, immobile come una mummia di un passato ormai svanito, fra i resti del suo disco che ancora puzzavano di fumo. Ormai non gli rimaneva più niente da fare. Era rimasto intrappolato nel suo peggior incubo catastrofico senza più la possibilità di tornare alla sua carissima e malinconica meditazione nello spazio. Senza più un disco, solo come un cane sul peggior pianeta dell’universo pieno di dolorosi ricordi, non riusciva assolutamente a pensare che la sua vita potesse continuare d’ora in poi.

Era assurdo. Perché non era ancora morto? Non sarebbe stato tutto più semplice se fosse già morto? Perché nonostante cazzotti e missili era ancora in vita ad assistere al suo marcio spettacolo di sconfitta?

Che razza di situazione tutt’altro che simpatica.

Fu richiamato poi da un suono. Un persistente strisciare di passi pesanti sull’erba. Venivano da quattro diverse direzioni e parevano tutti convergere verso di lui. Guardandosi in torno osservò il delimitarsi di piante e alberi di un giardino e, dalle ombre degli arbusti, iniziavano a delinearsi quattro figure.

Avevano un aspetto alto e mostruoso. Non avevano nulla di umano. Parevano dei grossi birilli alti due metri, con la testina sulla sommità di un fusto che dondolava ad ogni passo. Riconobbe immediatamente quei contorni mostruosi a suo dispiacere.

-Trifidi… - Mormorò, mentre le quattro piante iniziavano a sormontare coi loro petali la cabina di pilotaggio. Questa era
decisamente la fine. Una fine ancora più ridicola di quella che avrebbe avuto esplodendo in cielo insieme al razzo.
Umiliato, ferito, immobilizzato ed ora finito dalla sua peggiore paura che per pura coincidenza uno strano signora aveva deciso di coltivare nel suo orto.
Ora tutto gli parve meticolosamente chiaro. L’unico motivo per cui non era morto prima era solo perché a quanto pareva al Multiverso piaceva vedere fino a che punto potesse decadere e con perverso piacere osservare infine l’epilogo della sua esistenza nella maniera più ignobile possibile.

-Well, that’s all folks – bisbigliò mentre ormai i filamenti delle piante antropofaghe cominciavano a serrarsi intorno ai suoi polsi, al collo, al petto ed ogni parte del suo corpo. Presto sarebbe davvero finita.


Finita davvero una volta e per tutte.



 




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