[H]appily
ever
[a]fter
Act.1
- Inizio
Pioveva in un modo
strano quel giorno.
Cadeva una pioggia
fitta e leggermente guidata dal vento. Non era forte, anche se la
rete di gocce creava una specie di muro davanti a me: leggere e
danzanti arrivavano al suolo, rendendomi la traversata veramente
piacevole.
Con il mio banale
completo di jeans e giubbotto, ed imbracciando lo sgargiante ombrello
azzurro, mi decisi a tornare a casa. Mi morsi il labbro
perché
quella pioggia era iniziata all'improvviso, ma mi resi subito conto
che non mi disturbata affatto. Amavo la pioggia, non al pari del
vento ovviamente.
Tra tutti i fenomeni
della natura, si può dire che il vento fosse il mio
preferito.
Quando da piccolo nel cortile dei miei zii materni vedevo volteggiare
le foglie cadute in brevi mulinelli, mi mettevo sempre a sognare.
Immaginavo di essere una foglia e di volare al vento. Crescendo,
questo fenomeno naturale, rimase nella mia mente perché era
il
simbolo del cambiamento. Le giornate ventose, infatti, mi istigavano
a fare qualcosa che rimandavo da tempo, o cambiare qualcosa.
Qualsiasi.
La pioggia invece mi
faceva riflettere. Erano come mille e mille frammenti del mio passato
che cadevano sul mondo; occorreva solo afferrare quelli giusti ed
evitare spiacevoli memorie.
Mentre con lo sguardo
perso nel vuoto pensavo a questo, attento comunque ad evitare le
pozze e tenendo l'ombrello nel verso giusto, sentii dei colpi di
tosse. Forti. Incredibilmente forti. Per un attimo ebbi paura che
l'uomo malato, ero sicuro fosse un uomo, tossisse così forte
da gettar fuori i suoi polmoni.
“Ha bisogno di
qualcosa?”
Per qualche strano
motivo quel giorno non andavo di fretta e avvicinandomi al signore
posi spontaneamente questa domanda.
L'uomo mi guardò
alzando lo sguardo e spostandosi quel candido fazzoletto dalla bocca.
Era sui sessanta anni, mi sentii di azzardare. Forse cinquantacinque,
mi corressi subito. Aveva uno sguardo scuro e desolato, allo stesso
tempo momentaneamente sorpreso per la mia domanda.
Avvolto in un soprabito
che non riuscirei a definire, con un bombetta appoggiata sul capo,
l'uomo mi rispose.
“Non si preoccupi”
scosse la mano. Per qualche attimo rimasi immobile sul fare di
andarmene. Ma vedendolo ancora tossire, mi preoccupai di averlo sulla
coscienza.
Accanto a lui aveva
delle borse, contenevano dei libri a quanto sembrava. Mi avvicinai ad
essi e porsi l'ombrello a quel tipo che ne era sprovvisto.
Ripensandoci adesso, forse non avrei agito con tanta
impulsività.
“Lo prenda,
l'accompagno a casa” Ci fu una pausa tra il tempo che finii
la
frase e quello con cui l'uomo prese quell'oggetto per ripararsi dalla
pioggia. Alzandomi il cappuccio continuai. “Le porto la
borsa”.
Fin da piccolo, avevo
appreso che le persone in difficoltà non andavano ignorate.
Mia madre si era sempre preoccupata molto di questi piccoli
insegnamenti, che alle volte facevano la differenza. Afferrando
quelle borse lo accompagnai a casa. Mi indicò la strada da
seguire e mi ringraziò più volte. Solo alla fine
iniziammo a presentarci.
“Sei stato veramente
gentile” iniziò così il discorso
fermandosi “Il mio
nome è Eduardo -il suo cognome non lo ricordo-, piacere di
aver incontrato un giovane tanto disponibile” porse la sua
mano con
vera classe. L'ombrello teso verticalmente sopra la sua testa lo
proteggeva dalla pioggia, ma a me, l'aveva fatto sembrare fino a quel
momento un'entità a sé. Con un filo di
esitazione,
dettato dalla timidezza, ricambiai il gesto creando una debole
stretta.
“Mi chiamo Isaac”
dissi. Come ogni volta, durante la presentazione, mi passarono
davanti agli occhi: data di nascita, indirizzo, nome ed altri dati
che non avrei condiviso.
“Mi dispiace averti
fatto disturbare tanto...”
“Non si preoccupi”
risposi io. Quelle borse erano abbastanza pesanti.
Solitamente un gesto
del genere l'avrei fatto poco volentieri. Casa sua a quanto pareva
era dalla parte opposta della mia, e portare quel peso non era
piacevolissimo. Ma il suo tono, il suo portamento e le sue continue
scuse mi costringevano, incantandomi, a compiere ogni azione
necessaria.
Abitava in un quartiere
molto grazioso. Le case disposte in fila e indipendenti tra loro,
rendevano l'aria più libera di quanto non fosse. I giardini
perfetti, le siepi tagliate, i muri appena dipinti.
Inizialmente ammaliato
da tutto ciò, tornai me stesso quando il primo pensiero
critico mi passò nella testa. Odiavo tutta quella ricerca
dell'esteriorità.
Mi resi conto della mia
incostanza quando, giunto alla sua abitazione, mi fermai a fissare i
fiori ordinati che, leggeri, dondolavano colpiti dalle gocce.
“Entra per favore. Mi
farebbe piacere sdebitarmi offrendoti qualcosa” la sua voce
mi fece
riprendere.
“Grazie ma non ce n'è
bisogno” anche se desideravo, le parole non vollero uscire.
Mi
persuase ad accettare e varcare l'ingresso di casa sua.
Non era molto luminosa,
ma piacevolmente calda. Mi invitò ad appendere la giacca
bagnata all'ingresso e così feci, trovandomi poi in un
silenzioso salotto. Quell'alone di semi oscurità, sembrava
abbracciare e preservare ogni cosa. Mi trovai alla fin fine in un
luogo non troppo estraneo. Era quasi come entrare in una casa
già
conosciuta. Sedendomi sul divano porpora, davanti a quel piccolo ed
ornato tavolino di legno mi accorsi della tristezza di quella casa.
Ogni oggetto sembrava esserne impregnato.
L'uomo tornò
subito con un vassoio dove erano posate due tazze da tè ed
una
brocca fumante. Non mancava neppure la zuccheriera ed i biscotti.
Presi la mia tazza e evitai di dire che a me il tè non
piaceva. Avevo paura di ferirlo e rendere la casa ancora più
triste. Credo che comunque si rese conto che certe pratiche io non le
avevo mai fatte, e mi guardò sorridente mentre tutto d'un
fiato mandavo giù quella bevanda.
Non avevo la più
pallida idea di cosa parlare. Davanti a un estraneo così,
che
avevo incrociato per strada, il numero degli argomenti che pensavo di
proporre erano pari a zero. Attendendo qualche minuto, ero convinto
di potermi alzare ed andarmene salutando cortesemente. Ma anche se il
tempo passava, scandito dal grande orologio appeso vicino alla cupa
libreria, non trovavo la forza di muovermi.
Fu in quel momento che
lo vidi.
Affacciandosi da un
corridoio buio, quel ragazzo si fece avanti con un passo deciso.
Arrivò accanto al padrone di casa a rimase in silenzio,
guardandomi. Mi costrinsi a ricambiare lo sguardo, come se fosse una
sfida. In quei secondi, dentro di me si era fatta una strana idea
della sua persona.
Chiuso nel suo corpo
perfetto, tra le spalle larghe ed il torace possente, e mascherato
dietro quel volto, liscio ed ornato da due castani occhi, scorsi un
baratro. Tremai nascondendolo alla vista dei due.
Capitava a volte, come
a tutti, che al primo sguardo si intuisse una particolarità
di
chi si aveva davanti. Un'emozione, uno stato d'animo. A me accadeva
abbastanza frequentemente con gli sconosciuti. L'immagine che quel
ragazzo mi trasmise: era quella di una bambola di porcellana. Una di
quelle appoggiate alle mensole, tenute a lucido, con cui i bambini
non possono giocare perché fragili. Forse lo giudicai
frettolosamente, ma al primo impatto fu l'unica cosa che notai.
Tremai nuovamente. Mi
metteva a disagio.
Non potevo negare
comunque, che quell'individuo aveva il suo fascino. Quasi
involontariamente, mi spostai verso di lui, strisciando sul morbido
divano.
“Ha bisogno di
qualcosa?” Chiese solennemente all'uomo che si era accomodato
sulla
poltrona a sorseggiare il tè. Lui rispose di no con la
testa,
ma poi lo invitò a presentarsi. Quasi con uno sguardo
penitente, quella creatura si avvicinò a me. Dovetti
alzarmi.
“Il mio nome è
Hito, piacere di conoscerti” avevo appena allungato la mia
mano
quando la prese e la strinse. Fu Freddo e delicato come la carezza di
un pupazzo. Da un uomo del genere mi sarei aspettato una presa forte.
Artefatto. Aveva un modo di parlare e agire artefatto.
“Isaac, piacere mio”
provai ad essere più formale possibile, ma quella sensazione
non riuscivo a togliermela di dosso. Finito quel momento, me ne
tornai a casa.
L'autunno procedeva
abbastanza bene. La scuola dava i suoi problemi, eppure nulla di
più
rispetto al solito. Quando sentii il campanello suonare stavo finendo
una ricerca. Rimasi qualche attimo ad aspettare, ma sentendo la casa
vuota mi mossi per aprire.
Era triste, eppure
quella casa era ancora vuota. Emanava nel suo insieme qualcosa di
poco differente dalla casa di quel signore che qualche tempo prima
avevo riaccompagnato a casa. Quell'appartamento era malinconico.
Mi incupii leggermente,
mentre afferravo la maniglia. Né chiesi nulla, né
guardai dallo spioncino. Aprii e basta. Fu quella la seconda volta.
Sul fare del
pomeriggio, quel ragazzo tanto apparentemente forte quanto
internamente fragile si era presentato alla mia soglia.
“Che succede?” ero
sul punto di dire. Non posso affermare che avesse un'espressione
sconvolta o trasmettesse qualcosa di particolare. Il suo volto era
impassibile, privo di informazioni da darmi. Mi comunicò un
immenso vuoto; un vuoto che finì per divorarmi.
Ogni volta che torno a
pensarci finisco con il domandarmi di che colore sia il vuoto. Non so
rispondermi. Ma in quel momento sono sicuro di averlo notato. Un
colore che non trasmette alcun sentimento. Esiste veramente?
Apatia.
Con un volto finto mi
porse una lettera. Io dovevo ancora riprendermi da quel vuoto. Non
ero mai entrato in contatto con una persona così. Senza
neppure conoscerlo, già sapevo che non era normale. Non era
un
pregiudizio o un pensiero di quelli che si fanno a volte. Lo sentivo
dentro di me, sentivo che quel vuoto era anormale. Mi fece paura per
un attimo continuare a pensare.
Presi la busta e
scoprii che conteneva una lettera scritta a mano.
“Vieni dentro”
facendolo accomodare in sala, sui miei vecchi divani, chiesi se aveva
bisogno di qualcosa. Il suo 'no' di risposta mi parve stranamente
forzato.
Era una lettera di
Eduardo. Quel signore mi stupì. Le cose che lessi
però,
mi colpirono in maniera maggiore. Stavo forse sognando? Uno di quei
sogni che si fanno durante il sonno profondo? Non me ne resi conto.
Piegandola risi
forzatamente. “E' uno scherzo?” chiesi. Frasi come
“te lo cedo”
o “forse riuscirà ad amarti” mi facevano
pensare ad uno
scherzo di pessimo gusto o alla lettera di un pazzo.
Seduto sul divano che
gli avevo indicato, Hito, mi rispose un 'No' secco.
“Non capisco”
“Il signor Eduardo,
mi ha riferito che d'ora in poi dovrò rendere conto a lei.
Ha
detto che è riuscito solo in metà del suo
esperimento e
che ha notato dentro di lei i colori che servirebbero”
Pensai fossero entrambi
pazzi. Mi balenò l'idea di fuggire, ma contro una persona
così
sarei andato poco lontano. Mi resi conto solo in fondo che mi aveva
dato del 'lei'.
“Colori? Rendere
conto?” chiesi ancora tentando di ragionare.
“Il signor Edward mi
aveva avvertito che forse lei sarebbe stato confuso. Così mi
ha ordinato di spiegarle tutto”
Tutto questo era solo
l'inizio di una lungo storia.
“Il signor Edward è
un alchimista” mentre iniziava a parlare, con un tono
completamente
insensibile, io mi convinsi che erano folli. L'alchimia non esisteva.
“Un giorno, decise di creare un essere umano perfetto. Prese
un
corpo e un'anima per compiere un rituale. Ci mise molto tempo e ci
vollero svariati esperimenti.”
Sicuramente ora dirà
che è nato così, mi dissi tra me e me.
“Io sono nato così”
Tremai, ormai lo facevo
spesso.
“Mi ha detto che dopo
di me si fermò, non aveva più le forze di andare
oltre.
Ma io sono imperfetto. Io non sono capace di provare
sentimenti”
Incredulo alle sue
parole, non riuscii a distogliere lo sguardo. Ignorando il suo
bell'aspetto, mi concentrai su una voce sommessa. Singhiozzi.
Qualcuno stava
piangendo. Se davvero non provava sentimenti di chi era quella voce?
Dalla bambola immobile che era, la mia mente lo inquadrò ora
solo come un bambino che aveva bisogno di aiuto. Mi fido troppo
facilmente, anche se tutto è sorretto da una inverosimile
storia. Quando quella sensazione svanì, mi resi conto che
era
calato il silenzio. Non solo. Mancava qualcosa.
“Cioè. Non ti
aspetterai che ti creda?”
“Il signor Edward ha
detto che lei avrebbe potuto aiutarmi”
“Non darmi del lei”
mi infastidiva quando lo diceva.
“Come volete”
“Neppure del Voi. Tu.
Semplicemente del tu.” Lo trovai veramente folle. Un turbine
di
emozioni contrastanti avvolse il mio cuore.
“Tu puoi aiutarmi.
Per favore” sembrava una macchina; non mi lasciò
neppure il
tempo di comprendere le sue parole “Il mio creatore mi ha
consigliato di dire 'per favore' o 'ti prego'. Perché era
più
probabile che tu accettassi”
Rimasi in silenzio. Era
davvero impedito in certe cose, o fingeva maledettamente bene.
“Non
devi dirmelo però” lo rimproverai. “Per
far si che
funzioni, devi dire semplicemente 'per favore' o cose così,
senza aggiungere che qualcuno te l'ha consigliato. Perde il suo
effetto”
Ci pensò un
pochino. Corrugò la fronte solamente un poco.
“Scusa”
passarono alcuni secondi. Nel silenzio ne contai cinque.
“Ti prego” Sospirò
poi. Come se si volesse correggere.
“Ma no. Non va bene.
Ormai che hai rivelato chi te l'ha consigliato, non fa più
lo
stesso effetto”
“C'è un modo
allora per convincere qualcuno?” tradussi in
curiosità il
bagliore che per pochi attimi pervase il suo sguardo.
“Potresti inchinarti
e dire 'sommo padrone la prego di aiutarmi' forse potresti
farcela”
Non lo prendevo sul serio. Stavo scherzando anche se improvvisai un
tono serio.
Persi ogni sicurezza,
quando si alzò e fece quello che gli avevo appena detto. Si
inchinò e pronunciò quella frase senza esitare.
Sollevandomi dal morbido schienale del divano mi spaventai. Per un
secondo ci credetti. Un secondo abbastanza lungo da far crollare
tutto il castello di certezza che mi ero creato attorno. Dov'erano le
mie ragioni ora?
“Alzati. Stavo
scherzando!” lo rimproverai ancora. Si scusò. Non
era vero
che non provava emozioni. Nei suoi 'scusa' c'era tristezza e nei suoi
'ti prego' c'era una specie di vera sottomissione. Quelle sfumature
apparentemente impercettibili io riuscivo a notarle. Erano piccole,
troppo leggere. Come un sasso gettato nell'oceano. Ma erano una base.
Ancora ora mi chiedo se
al posto mio ci fosse stato un altro. Cosa avrebbe fatto? Se uno al
posto mio non avesse scorto quell'anima disperata che cadeva nel
vuoto senza toccare mai il fondo, come si sarebbe comportato? Posso
dire, adesso, che fu una fortuna che io fossi io e non un altro.
“Dov'è il
signor Edward?” Chiesi.
“Ha detto se ne
sarebbe andato” rispose subito.
“Ho la casa
momentaneamente libera... puoi dormire da me” La casa era
veramente
libera e senza rendermene conto stavo facendo una cosa che tutti
avrebbero considerato una pazzia.
A quel tempo avevo una
vita piuttosto indipendente. Potevo fare, approssimativamente, quel
che volevo. Mio padre lavorava fuori, mia Madre era scappata quando
ero piccolo e mia sorella era morta. La casa piangeva al posto mio
ogni giorno. Con lui, pensai, mi sarebbe sembrato di vivere di nuovo
con qualcuno. Un modo egoistico per sentirmi vicino a una famiglia.
Lo accompagnai nella
camera di mio padre rimasta tale e quale a come l'aveva lasciata.
“Puoi dormire qui. Ma
non toccare o muovere nulla” sarebbe tornato nel weekend, e
per
giorno avrei inventato una scusa. Se Poi si lamentava del letto
sfatto potevo sempre dire che ci ero stato io. Tornando indietro,
lungo il corridoio, scorsi camera di Sarah. La rividi lì,
seduta a gambe incrociate sul letto a sfogliare un libro. Con il suo
fare diretto ma contenuto mi avrebbe detto di chiudere la porta.
Sentii il bisogno di farlo anche rendendomi conto che stavo sognando.
Non riuscivo ad abituarmici. Era sicuramente per quel motivo, che
volevo di nuovo qualcuno dentro la casa.
Quando mi voltai verso
di lui, avendo ancora nel campo visivo quella porta, sentii il mio
petto comprimersi e le lacrime salire agli occhi senza però
uscire. Quando accadono cose di una certa gravità,
ciò
che si prova all'inizio è come la punta di un iceberg. La
sofferenza reale arriva solo dopo, nelle piccole cose quotidiane. Il
senso di abbandono e mancanza; la consapevolezza di non poter tornare
indietro sono bestie che si rivelano in un secondo momento. A me
avvenne quel giorno a più di un anno di distanza.
In un drammatico
istante presi realmente coscienza della morte di mia sorella.
Non so come mi guardò
lui. Ero debole e indifeso dopo aver preso finalmente le redini della
situazione. Mi sentivo come dopo aver scoperchiato un tombino che
puzza. Dopo averlo aperto la vampata è veramente terribile,
ma
piano piano l'odore svanisce mischiandosi all'aria esterna.
Prendersi cura di una
persona è molto difficile. Hito era quasi auto sufficiente,
ma
in relazioni con la società aveva un 'non classificato'. Mi
chiedevo spesso, in quei giorni, come potessi sperare di aiutarlo. Io
che non riuscivo neppure a tenere viva una pianta.
I fine settimana dovevo
dormire con lui. Mio padre tornava la sera tardi e io la usavo come
scusa per nascondere Hito nel mio letto. Mio padre non sarebbe mai
entrato in camera mia nel cuore della notte a vedere, e poi era molto
stanco. Per questo motivo dovetti abituarmi al pensiero di
condividere il mio piccolo letto con un uomo. La Mattina poi, visto
che lui si alzava tardi, inventavo una scusa del tipo “Sai,
questo
amico è venuto stamani a chiamarmi”e ci credeva.
La Notte, però,
mi svegliavo parecchie volte. Ogni volta mi prendeva paura. Appurata
la sua inoffensività, e la sua completa obbedienza, non
riuscivo comunque a fare sogni tranquilli. Non avevo mai dormito con
un estraneo nello stesso letto.
Ah. Poi c'era la storia
che non aveva bisogno di dormire. Non dormiva mai, sembrava che
stesse nel letto solo per farmi un piacere e rimaneva tutta la notte
a guardarmi o guardare il soffitto. Mi metteva in soggezione.
Nell'intimità dei miei sogni temevo potesse rubarmi
qualcosa.
Non qualcosa di materiale, ma qualcosa di mio. Uno dei miei tanti
'colori'. E' stupido a pensarci bene. Ma non potevo fare a meno di
sospettarlo. Così, ogni volta che mi svegliavo di notte, mi
giravo verso di lui in modo serio.
“Hai bisogno di
qualcosa?” oppure “E' successo qualcosa?”
lo chiedeva sempre.
Violando il mio mondo
così era riuscito a toccarmi in profondità. Dopo
un
iniziale disagio tornavo a dormire vedendolo come un cane da guardia.
Era un essere umano al pari degli altri. Me ne convinsi nel
dormi-veglia di una sera. Appoggiato al cuscino, dandogli le spalle,
sentii il ritmo dei suoi battiti.
Faceva anche attività
fisica, o meglio, era portato a farla. Per questo motivo quando non
sapevo cosa fargli fare lo mandavo a compiere qualche lavoro manuale
per la casa o semplicemente a correre per il cortile. Lui non faceva
assolutamente nulla altrimenti. Attendeva solo una mia richiesta o un
mio ordine. Mi sentivo sempre un po' in colpa a fargli fare queste
cose.
Io non ero uno
psicologo o qualcuno che era esperto nel settore. Per aiutarlo feci
quel che potevo. Stargli dietro, mostrare a lui come funzionavano
alcune cose. Il Perché di alcuni comportamenti. Mi rubata
tempo. Tenermi occupato evitava di farmi pensare alla solitudine
della casa.
Una mattina uscii come
al solito per dirigermi a scuola. Era un freddo novembre. Tra le
persone che aspettavano il pullman incrociai una mia vecchia compagna
di scuola.
“Ciao Isaac!”
esclamò. Io Ricambiai.
Tra un discorso e
l'altro notavo che aveva una faccia pensosa, come se si tratteneva
nel dire qualcosa. Sputò fuori tutto in un momento di
silenzio
tra noi.
“Senti... ho saputo
di Sarah. Mi dispiace molto”
Non era il massimo.
Qualcuno aveva detto anche di meglio ma apprezzai il gesto. Anche se
era passato un anno, usciva sempre qualcuno che ne era appena venuto
a conoscenza. Mi chiese anche come stavo. Le risposi che era passata.
Giunto il periodo
natalizio, mi sentii soddisfatto di vedere Hito abbastanza
migliorato. La sua curiosità era crescente, e anche se non
provava nessuna soddisfazione nello scoprire le cose, continuava a
chiedere. Mi stancava ma allo stesso tempo mi rendeva fiero di me.
Le strade in quel
periodo sono sempre addobbate al massimo. Luci, suoni, persone che
passano. Tutto fa sembrare anche la mia piccola città un
luogo
caotico. Faceva buio presto e decisi che stare in casa era noioso.
Iniziò a muoversi dentro di me una strana idea e verso l'ora
di cena mi avvicinai alla sua figura di spalle.
“Hito. Che ne dici di
uscire?”
Lui mi guardò e
rispose “Come desideri”
Mettendomi una giacca e
vestendolo con qualcosa che durante quella convivenza eravamo
riusciti a comprare, scendemmo lungo il viale. L'atmosfera era
sognante e suggestiva, ma lui rimase lo stesso. Ci mettemmo uno di
fianco all'altro e camminammo a lungo. Era abbastanza noioso. Lui non
parlava molto e i suoi discorsi erano oggettivi. Non rideva, non si
offendeva, non aveva malizia. Era come portare a spasso una statua.
Mangiammo due pezzettini di pizza e io bevvi qualcosa.
Giacché
lui aveva un aspetto adulto, poteva anche comprare qualche alcolico.
A me non piacevano, ma feci un'eccezione. Sperai che bevendo un poco
l'uscita sarebbe diventata più sopportabile. Lui invece
rimase
sobrio.
Bevvi una cosa molto
leggera, quella meno costosa, e mi ripugnò a tal punto che
non
cambiò nulla.
Decisi a questo punto,
di ravvivare la serata in un altro modo. Volevo farmi una risata alle
spalle delle agente che c'era là attorno, che mi passava
vicino. Io sono sempre stato il tipo da queste cose. Avvicinandomi a
Hito, mi strinsi al suo grande e solido braccio. Posai il volto su di
lui e continuammo a passeggiare. Era un conforto, mi rilassava. Ma
fin da subito lo sguardo di tutti cadde su noi due. Lui impassibile
non si rese conto del perché e continuò a
camminare. Io
come una ragazzina, mi strusciavo al suo corpo. Trattenni le risate a
stento. Tutti quelli sguardi che mi cadevano addosso, anzi, ci
cadevano addosso. Avevo una gran voglia di ridere in mezzo a tutti.
Mi divertiva davvero vedere come bastava poco ad attirare la loro
attenzione. Lo feci solo perché eravamo arrivati in un
quartiere dove non conoscevo nessuno, e pregai di non incrociare
degli amici o parenti.
Passeggiando, lo portai
in una strada deserta. Il lampioni illuminavano discretamente i bordi
del marciapiede sul quale ci sedemmo. Io ero stanco, lui no. Avevo
voglia di dire qualcosa come “è stato divertente
no? Far
finta di stare assieme. La gente si scandalizza per poco.
Chissà
poi che discorsi faranno” ma non lo feci. Lui non si era
divertito,
lui non provava quel genere di emozioni.
“Perché ci
guardavano tutti?” domandò ad un certo punto,
interrompendo
il canto delle cicale.
Io mi voltai verso di
lui. “Perché eravamo due uomini”
“Non capisco. C'erano
tanti uomini assieme lungo la strada”
“Noi però
eravamo abbracciati”
Sembrò collegare
le cose, ma non era così. “E' una cosa
brutta?”
“C'è chi la
vede in questo modo”
“E tu?”
Mi Grattai la guancia
con un dito. “Non la trovo una cosa brutta, è una
cosa
diversa dalla norma” Non continuai. Sapevo perfettamente che
fare
dei moralismi con lui non aveva senso. Volevo dirgli che
l'intolleranza era una cosa brutta, che occorreva avere rispetto, ma
mi frenai. Non aveva una personalità con cui confrontarsi.
Riprese la parola.
“Perché due uomini dovrebbero
abbracciarsi?”
“Perché si
vogliono bene o si amano. Sia che venga inteso come un amore fraterno
tra amici o parenti, o un amore più classico come in una
coppia”
“E noi ci amiamo?”
Lo chiese senza un tono particolare, ma mi stupì lo stesso.
Non so in quale senso lo intendesse però.
“L'amore è
un'emozione” lo interruppi. Così, dopo averci
pensato
ripropose la domanda sotto un'altra forma.
“E tu mi ami?”
Arrossi leggermente, per
l'imbarazzo di una domanda del genere. “No. L'amore
è
un'emozione molto importante”
Forse, un individuo
normale si sarebbe offeso ad una risposta così. Lui, invece,
sembrò non preoccuparsene e continuò.
“Allora perché
andavamo abbracciati?”
“Era per vedere le
reazioni degli altri. Stavamo fingendo” Ripensandoci quella
frase
in quel contesto era nettamente sbagliata. Fingere presuppone l'avere
un 'sé stesso' da nascondere dietro una maschera momentanea.
Hito non aveva un 'sé stesso' quindi era impossibilitato a
fingere.
Parlammo ancora un po'.
Poi decisi che era giunto il momento di tornare a casa. Stando con
lui, quella sera la mia mente iniziò a muoversi. Mi
tornò
alla memoria un momento lontano, relativamente lontano.
Mia sorella aveva una
figura molto fragile e contenuta, uno sguardo trasparente e dei
lunghi capelli neri. Era veramente bella. Il mio nero, dei capelli,
non è paragonabile al suo corvino. I suoi occhi azzurri
valevano almeno il doppio dei miei tendenti al grigio.
La cosa veramente
toccante di lei, era quella grazia, quell'eleganza che accompagnava
ogni sua azione. Anche se, come ho già detto, aveva un
carattere schietto.
Con i ragazzi non ha
mai avuto problemi. Per la nostra casa passavano centinaia di
fidanzati. Erano tutti passeggeri, duravano pochissimo. Il
più
incostante dei due ero comunque io. Nessuno poteva battermi, e per
questo per me era ancora più difficile fidanzarmi,
giacché
cambiavo troppo rapidamente gusti.
Era sempre molto
gentile con me, si preoccupava sempre di ciò che mi
accadeva.
Ripensandoci, mi viene da piangere. La sua figura che come un'ombra
calava nella mia stanza di notte ed entrava nel mio letto
abbracciandomi forte, è qualcosa di indimenticabile. Aveva
un
sesto senso per i miei sentimenti. Ogni volta ero un po'
giù,
anche se non lo davo a vedere, la notte veniva a farmi visita. Poi
con calma mi stringeva a sé e tornavo felice qualsiasi cosa
era accaduta.
Un giorno di aprile
tornò a casa con delle buste. Naturalmente la casa era
vuota,
ed io con una t-shirt le chiesi cosa aveva comprato.
“Un regalo” rispose
con aria severa. “E' per te!” Posando sul tavolo
quelle borse di
plastica, estrasse vari oggetti. Lì guardai stupito.
“Allora: un libro
perché so che ti piace leggere”
“A me non piace
leggere!” la rimproverai.
“Fa bene, quindi ti
piacerà!” Rispose come se fosse un mio obbligo
“E Una
Piantina grassa”
Guardai quella piantina
minuscola e verde. Fu una splendida idea.
“Ti sfido, se riesci
a tenerla viva per almeno un anno, poi ti aiuto a convincere babbo
per un cane!” Era da tanto che ne volevo uno. A lei non
piacevano
molto, ma sarebbe disposta a tenerlo per accontentarmi. In quei
momenti la vedevo più come una madre che come una sorella.
Una
Madre che non avevo mai avuto veramente.
Una sfida eh? Pensai
subito che l'avrei vinta. Una Piantina non poteva creare
così
tanti problemi. Così mi misi a curarla in tutti i
particolari.
Aveva anche un nome. Cresceva benissimo, si gonfiava e ad un certo
punto mi preoccupai che non entrasse più nel vaso.
Fu il suo ultimo
regalo.
Con poca attenzione,
osservai i giorni passare e arrivò il natale. Quell'anno
andai
un paio di giorni a casa di parenti fuori città per
festeggiare. Facemmo un cenone e cose simili. Hito era a casa, da
solo.
Nel tempo che era
passato aveva anche lavorato un po'. Data la sua natura non poteva
certamente lavorare in modo normale, si sarebbe fatto scoprire. Per
questo fece un servizio di assistenza per le persone cieche. Erano
soprattutto anziani. Lui non doveva far altro che attendere una
chiamata, dove gli veniva data una lista di cose e andarle a
comprare. Faceva, quindi, la spesa per conto loro. Era un lavoro un
po' così. Non doveva però relazionarsi con
nessuno che
non fosse la commessa. Fu la prima idea che ebbi e racimolò
qualcosa. Nei momenti in cui non era a casa, e correndo andava verso
il supermercato, mi sentivo di nuovo oppresso dal silenzio.
Con quel poco che
guadagnava poteva comprarsi qualcosa, sotto mio consiglio ovviamente.
Al nostro ritorno a
casa, mio padre, scappò subito. Disse di avere un'importante
impegno lavorativo o una cosa così. Io dentro di me sapevo,
però, che anche lui si sentiva schiacciato dalla malinconia
della casa.
Stavo rimuginando sotto
le mie calde coperte da solo, mentre Hito era nell'altra camera.
Ragionavo su cosa fare a capodanno o cose frivole così. La
mia
mente era leggera. Mi girai un po' di volta, e quando andai a
lanciare un'occhiata alla porta socchiusa notai qualcosa di strano.
Da quando ero tornato, il pomeriggio, lui sembrava strano. Non volli
chiedere nulla, sapendo che non avrebbe saputo formulare una
risposta. In cuor mio speravo sentisse una qualche emozione.
Era lì, sul
limite della camera a guardarmi con aria sconfortata.
“Che succede?”
Chiesi alzandomi a sedere sul bordo del letto. Ero mezzo addormentato
e probabilmente tenevo anche un pessimo aspetto.
“Posso dormire con
te?” per una qualche strana ragione a quella domanda ripresi
perfettamente coscienza.
“Cosa?” avevo paura
di aver inteso male.
Lui abbassò lo
sguardo. Io sentii di nuovo quel pianto sommesso. “Non
è
importante”
“Per favore ripetilo”
Esitò ancora,
così con lo sguardo glielo imposi come se fosse un ordine.
“Chiedevo se...
potevo dormire con te” No. Non avevo sentito male.
Ero leggermente
perplesso, e vedendomi probabilmente si sentì di dover
spiegare questa mossa azzardata.
“Perché?”
“Da solo non riesco a
stare tranquillo”
Cos'era quella frase?
Forse un principio con cui lui avrebbe iniziato a sentire il mondo
dei colori. Forse un'illusione. Mi convinsi che la casa lo aveva
spaventato con i suoi lamenti. E feci spazio nel piccolo letto. Nel
silenzio che si andava a creare lui mi fece una domanda che ricordo
chiaramente.
“Non sono stato bene”
“Perché?”
Domandai quasi preoccupato.
“Quando mi hanno
chiamato per la spesa, era come se qualcuno mi ordinasse di non
uscire. Come se mi tirassero le gambe” Ascoltai in silenzio,
stringendomi involontariamente a lui per il freddo. “Ho avuto
una
malattia che non conosco. Ogni volta che sentivo una voce dalla
strada, o un rumore, mi affacciavo nella tua stanza sperando che eri
tu”
Ora comprendo meglio la
sua paura. Per una persona che non ha mai provato una cosa come la
solitudine, la tristezza o la paura, anche un semplice accenno
scatena un'enorme preoccupazione.
“Più volte
sentivo la tua voce che mi ordinava di venirti a trovare. Ma sapevo
che non era vero, anche se una volta arrivai fino in fondo alle
scale. Era un ordine molto forte, ma non veniva da te”
Una volta mia sorella
mi disse, che si sarebbe sentita realizzata quando fosse diventata
indispensabile per qualcuno. Lo disse anche a me. 'Quando per
qualcuno diventi importante, è la cosa più
bella'. In
quell'istante, nel letto d'inverno capii le sue parole. Con la mente
le rivolsi una frase commossa, sperando che potesse sentirmi. Sono
diventato abbastanza importante per qualcuno al punto tale da
risvegliarlo da un sonno privo di emozioni. Mi voltai verso quel
forte ragazzo che stava nel mio letto.
“Che malattia era,
Isaac?” Chiese con uno sguardo cupo.
“Nessuna malattia.
Hai provato la Solitudine” risposi, carezzandoli la testa.
Passando
la mano tra i suoi morbidissimi e corti capelli castani o biondi.
Non vorrei avere un
ricordo sbagliato, ma sono quasi certo che quella notte dormimmo
abbracciati. O, in ogni modo, molto vicini.
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