Fly

di Tigre Rossa
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Fly

 

 


Hiccup era sempre stato un po’ strano, fin da quando era un bambino.

Crescendo le sue stranezze non avevano fatto che aumentare, ma già dai primissimi anni Stoick aveva iniziato a sospettare che il suo piccolo figlio dagli enormi occhioni verdi non fosse esattamente come tutti gli altri.

Certo, ogni bambino è diverso e ciascuno ha le proprie particolarità e piccole manie, ma il giovane genitore era certo che non esistesse nessun bambino strano come Stoick.

Gli altri bambini si appassionavano a cose comuni, semplici, da vichinghi, e anche i loro sogni più assurdi erano comunque nel limite del possibile. Magari sognavano di diventare i più grandi guerrieri del loro tempo, di guidare una tribù tutta loro o, se proprio erano di grandi sognatori, di uccidere il loro primo drago a dodici anni.

Ma tutto questo a Hiccup non interessava, per niente.

Hic non sognava grandi guerre, vittorie e scontri all’ultimo sangue, no. Lui sognava qualcosa di veramente impossibile.

Lui sognava . . .

“Papà, io voglio volare!”

Hiccup sognava di volare.

 

Aveva iniziato ad appassionarsi al cielo fin da quando gattonava. Passava ore con il nasino all’insù a guardare quella distesa azzurra, sempre la stessa eppure sempre diversa. Quando imparò a camminare, si mise ad inseguire i pochi uccellini che volavano tra le rocce di Berk, quasi nella speranza di imparare da loro come far parte di quel blu senza fine.

Ma fin qui, beh, tutto ok. Non era niente di troppo strano o grave, niente di cui Stoick pensava di doversi preoccupare.

Ma poi, all’età di tre anni, tutto iniziò a diventare un po’ troppo.

Hiccup aveva deciso che non gli bastava più restare a guardare quella distesa infinita. Ora si sentiva abbastanza grande da tentare di raggiungerla.

Cercava di imparare a volare lanciandosi da piccole e medie altezze, sbucciandosi puntualmente ginocchia e gomiti. Quando si rese conto che così non migliorava affatto, decise di cercarsi maestri migliori degli uccellini, altri insegnanti che gli mostrassero come raggiungere quel cielo che tanto lo affascinava.

E scelse i draghi.

Così, ogni volta che attaccavano il villaggio, invece di seguire i suoi ordini e di restare chiuso in casa, si affacciava alla finestra e li osservava volare nelle loro danze di morte e spiccare il volo, tentando di comprendere come riuscissero a farlo. A volte, incurante del pericolo, sgattaiolava fuori di casa e si metteva a seguirli per il villaggio, in modo da studiarli meglio. Non importava quante volte Stoick lo chiudesse a chiave in camera sua, trovava sempre il modo di sgattaiolare fuori e mettersi in pericolo. Ormai il povero genitore passava metà del combattimento a cercare le sue tracce nella speranza di prenderlo prima che qualche drago si accorgesse della sua imprudente presenza. 

Una volta fu addirittura quasi divorato in un sol boccone da un Incubo Orrendo. Stoick riuscì a trascinarlo via appena in tempo, ma il bambino mise il muso perché aveva interrotto il suo studio, senza rendersi conto di quanto avesse rischiato.

Quella sera, il padre lo rimproverò per quella che, almeno nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere l’ultima volta.

“Devi smetterla di fare queste cose.” lo sgridò, fasciandogli la lieve scottatura che aveva sul braccino sottile “Un giorno finirai per farti davvero male.”

“Ma papà, devo continuare a studiare i draghi!” obbiettò deciso il bambino, come se non potesse credere che non riuscisse davvero a capire “Solo così imparerò a volare.”.

Il vichingo sospirò e valutò per un momento le sue opzioni. Non poteva permettere che suo figlio, perseguendo in quell’assurda ossessione, continuasse a mettersi in pericolo. Stava diventando grande, era ora che dicesse addio a quei sogni così assurdi.

“Hic, se potessi imparare a volare saresti nato con le ali.” disse piano, scegliendo l’approccio più delicato che gli venne in mente “Hai le ali, figliolo?”.

Quelle parole parvero colpire il piccolino come un fulmine. Abbassò lo sguardo su si sé, allargò appena le braccia e le studiò attentamente, prima di rispondere con un concentrato “No.”.

Stoick annuì, certo che il bambino avesse finalmente capito “Ecco. Questo significa che devi finirla con questi giochi. Sono troppo pericolosi.”.

Il piccolo annuì piano, come sovrappensiero, continuando a fissarsi le braccia, e per una meravigliosa notte Stoick si illuse che quella follia del volo fosse finalmente finita.

Ma fu, appunto, solo una notte.

 

La mattina dopo, quando si svegliò, non lo trovò nel proprio lettino. Dopo averlo cercato in ogni angolo della casa, uscì fuori chiamandolo a gran voce, terribilmente preoccupato.

“Papà, sono qui!”

Stoick si girò nella direzione da cui proveniva la vocina e quello che vide lo fece restare immobile e senza fiato.

Hic era in piedi in cima al tetto e lo guardava dall’alto con un enorme sorriso vittorioso.

Dopo qualche secondo di shock, il padre inizio a gridare, terrorizzato che potesse cadere da quell’altezza non indifferente, soprattutto per un bimbo così piccolo “Hiccup! Cosa stai facendo lì sopra? Stai fermo, salgo a prenderti!”

Fece per avvicinarsi ed iniziare ad arrampicarsi, ma il figlioletto lo fermò con la voce più tranquilla del mondo “Non c’è bisogno, papà. Ho finalmente capito di cosa ho bisogno per volare. Mi servivano delle ali come quelle dei draghi, e le ho trovate.”.

Il piccolo vichingo spalancò le braccia, mostrando una larga fascia di tessuto stretta tra le sue manine e che seguiva la linea degli arti, come un’enorme ala fatta di lenzuola, e con un gigantesco sorriso esclamò “Ora anche io potrò volare!”.

Stoick capì quello che stava per fare un secondo troppo tardi.

Gridò il suo nome e si lanciò in avanti, ma Hiccup si era già buttato nel vuoto con un urlo di gioia tenendo le braccia spalancate, certo che le sue ali fai-da-te l’avrebbero sostenuto.

La sua fu la più assurda e allo stesso tempo la più spaventosa caduta di tutta la storia di Berk.

 

Ovviamente, non ne uscì del tutto indenne. Si ruppe una gamba, e secondo l’anziana se l’era cavata veramente con poco. Con un volo del genere avrebbe potuto spaccarsi la testa e morire sul colpo. Era stato davvero fortunato.

Ma ora Stoick aveva esaurito la pazienza.

Quando finalmente il bambino tornò a casa coperto di graffi e con la gamba steccata, Stroick si sedette ai bordi del letto ed gli intimò severamente, le braccia incrociate e lo sguardo truce “Ascoltami bene, Hiccup. Questa storia deve finire. Devi smetterla di fare queste cose assurde.”.

Hic lo guardò come se fosse impazzito e si affrettò ad obbiettare, sicuro di sé “Ma papà, non sono assurde. C’ero quasi. Mi serviranno solo delle ali migliori la prossima volta.”.

Il padre scosse la testa ed affermò con forza, senza mai distogliere lo sguardo dal suo “Non ci sarà una prossima volta. Tu non proverai mai più a volare. Mai.”.

Il bambino impallidì e fece per ribattere, ma lui lo fermò subito, prima che potesse dire anche solo una parola, col tono più brusco e severo che avesse “E’ ora che tu cresca, Hic, e abbandoni questi sogni assurdi. I vichinghi non volano. I vichinghi camminano, corrono, navigano e combattono, ma non volano. E tu non farai mai eccezione.”.

Il piccolo esitò, preso del tutto in contropiede dalla forza e crudeltà di quell’affermazione. Alla fine, tutto quello che riuscì a sussurrare in una debole e timida protesta “Ma i draghi . . . loro possono volare.”.

“Sì, perché sono mostri della morte dotati di ali. Sono fatti per questo. Sono nati per volare.” concesse il capo villaggio, per poi chiedergli lentamente e con serietà “Tu sei un drago, Hiccup?”.

Hic strinse con decisione le labbra tra loro, prima di rispondere con un secco “Mi piacerebbe esserlo.”.

Stoick sospirò, si piegò in avanti in modo che il proprio viso fosse all’altezza di quello del figlio e insistette “Te lo ripeto un’altra volta. Sei un drago, Hiccup?”.

Il bambino sostenne il suo sguardo a lungo, prima di abbassarlo sulle proprie braccine prive di ali e sulla gamba immobilizzata.

“No.” ammise alla fine.

Il genitore annuì e continuò con lo stesso tono severo “Cosa sei, Hiccup?”.

Il piccolo strinse i pugni con forza, quasi non volesse rispondere, ma alla fine sussurrò a denti stretti e con amarezza “Un vichingo.”.

“Esatto.” annuì ancora una volta “Sei un vichingo e i vichinghi uccidono i draghi, non vogliono essere come loro.”.

A quelle parole, il bambino voltò la testa per non fargli vedere i suoi occhi lucidi, ma Stoick allungò una mano e gli prese delicatamente il mento, costringendolo a guardarlo nuovamente negli occhi.

“Tu sei un vichingo.” ripeté lentamente in modo che capisse davvero “Quindi togliti dalla testa questa folle mania del volo. Tu imparerai a uccidere i draghi, a combattere e ad essere un grande guerriero, ma non a volare. Quello no. Tu non volerai mai.”.

Le sue pupille si dilatarono a quella sentenza tanto cruda ed assolta e suo figlio tentò di sottrarsi alla sua presa, ma egli lo tenne fermo e continuò, imperterrito “Tu non volerai mai. È ora che tu lo capisca. Ripetilo. Tu non volerai mai.”

Hiccup esitò, sfidandolo quasi con i suoi enormi occhi verdi, ma alla fine dovette cedere e, con la voce spezzata di chi non può credere davvero alle parole pronunciate dalla sua stessa bocca, sussurrò lentamente “Io non volerò mai.”.

Stoick annuì e solo allora lo lasciò andare, osservandolo col cuore pesante mentre si voltava di scatto e si nascondeva sotto le coperte per non far vedere le lacrime che minacciavano di rigargli le guance.

Sapeva che l’aveva ferito, ma era ora che lasciasse andare quei sogni infantili e diventasse un vero vichingo, il futuro capo che era destinato a diventare. E sapeva che, grazie a quella parole tanto crude ma veritiere, finalmente avrebbe abbandonato per sempre quel folle sogno di volare.

 

Oh, quanto si sbagliava.

 

Stoick non ripensò a quell’episodio per anni, preso com’era dalle stramberie sempre maggiori del figlio.

La prima volta che gli tornò in mente, dopo tanto tempo, fu quando vide Hiccup salire sul dorso della Furia Buia e salire nel cielo, in alto, volando con quella bestia come se fossero una cosa sola.

Quando Hiccup e Sdentato volarono di fronte ai suoi occhi come se fossero un drago solo.

 

Rimase senza parole a seguire la sua danza pericolosa e mortale nel cielo, non riuscendo a credere a quello che vedeva.

Suo figlio, quel piccolo scricciolo che tante volte aveva creduto non abbastanza coraggioso, non abbastanza forte, non abbastanza vichingo, semplicemente non abbastanza, stava volando sul dorso di una Furia Buia.

E lì, in groppa a quella bestia mortale che lui aveva protetto con tutte le sue forze andando contro al suo stesso popolo, sembrava davvero se stesso per la prima volta in tutta la sua vita.

Non era più il ragazzino tremante, fragile e insicuro che per tutti quegli anni si era ostinato a vedere in lui. Era un altro, o forse era solo lui che riusciva a vederlo davvero per la prima volta.

Era sicuro di sé, là sopra, con la propria vita appesa ad un filo e il vento tra i capelli. Non c’era incertezza nei suoi gesti, timore sul suo volto o paura nei suoi occhi. Era forte, deciso, sicuro. Come se per tutta la vita non avesse aspettato altro.

Lì, in groppo a quella Furia Buia, Hiccup era davvero l’Hiccup che era destinato ad essere e che lui non era mai riuscito a vedere.

Sembrava che lì, in mezzo al cielo e guidato dai venti, avesse trovato il suo posto, il posto a cui era destinato ad appartenere.

Sembrava che fosse nato per quello, nato per cavalcare il più pericoloso dei draghi e volare con lui più in alto del vento.

E fu in quel momento che gli tornarono in mente quei primi segnali che lui non era riuscito a cogliere.

La sua passione per il cielo, la sua mancanza di paura e il suo quasi fascino nei confronti dei draghi, la sua ostinazione in quei tentativi folli, quella caduta dal tetto . . . tutto adesso aveva finalmente un senso.

Hiccup era davvero nato per volare.

Il cielo lo chiamava da sempre a sé e lui, per quanto avesse lottato pur di non deluderlo per non ascoltare il suo richiamo, alla fine aveva ceduto ed era riuscito nell’unica cosa che un vichingo reputava impossibile.

L’unica cosa che Stoick reputava impossibile, il suo bambino dai sogni folli era riuscito a renderla possibile.

 

Ma poi lo vide precipitare in mezzo alle fiamme, e tutto il mondo per un attimo si fermò.

Stoick corse verso di lui, chiamandolo disperatamente come aveva fatto in quel lontano giorno di tanti anni prima, quando l’aveva visto cadere per la prima volta, ma anche quel giorno fu troppo tardi.

Quando trovò il drago, da solo, il suo cuore si fermò e per la prima volta da quando l’amore della sua vita era stata portata via, il più forte dei vichinghi crollò.

Lì, di fronte ad un drago che avrebbe potuto ucciderlo in qualsiasi momento per quello che gli aveva fatto e in mezzo alle ceneri del fuoco che gli aveva portato via il suo unico tesoro, crollò.

Con il cuore spezzato, sussurrò tutto il suo rimorso al vento che aveva cullato suo figlio nei propri ultimi momenti, il rimpianto per una vita in cui, nel tentativo di proteggerlo, non aveva fatto altro che ferirlo innumerevoli volte, tanto in profondità da impedirgli di guarire davvero.

Sussurrò al cielo ed a quel drago che il suo bambino aveva tanto amato quelle parole che avrebbe così tanto voluto rivolgergli un’ultima volta e che mai più avrebbe potuto farlo.

Affidò le proprie scuse al vento, nella speranza che le portasse a quel figlio che non avrebbe più avuto la possibilità di imparare a conoscere davvero ed ad amare nel modo giusto.

E poi, proprio quando pensava che tutto fosse finito, quello che lui aveva chiamato mostro infinite volte aprì le ali e rivelò, stretto al sicuro contro di sé, il suo piccolo Hiccup.

Stoick lo prese tra le sue braccia come aveva fatto anni prima, quando l’aveva raccolto da terra dopo quella terribile caduta, e il battito debole ma reale del suo cuoricino era ancora lì, a ridargli speranza.

Era vivo.

Quella che lui credeva solo una bestia senza cuore glielo aveva riportato vivo, dandogli una seconda, immeritata possibilità.

Una possibilità che però era costata molto cara, e del cui costo si rese conto solo quando abbassò lo sguardo su quella stessa gamba che, tanti anni prima, si era rotto nel tentativo di volare.

 

L’ultima volta che l’aveva visto tentare di volare, si era rotto una gamba.

Ed ora, la prima volta che l’aveva visto volare davvero, la sua gamba non c’era più.

 

Ma questa volta, Stoick aveva capito cosa doveva fare.

 

Riportò suo figlio a casa, cullandolo tra le sue braccia come non faceva da tempo, e permise alla Furia Buia di restare al suo fianco. Lasciò che l’anziana lo curasse, tagliando quello che doveva essere tagliato e salvando ciò che poteva essere salvato. Chiese a Skaracchio di costruirgli una gamba di ferro che gli permettesse di camminare come qualsiasi altro vichingo e poi andò nel suo piccolo studio in cui era entrato davvero pochissime volte.

Lì trovò un intero mondo che ignorava. Fogli, schizzi, idee e progetti ricoprivano ogni singolo angolo di quella stanzetta minuscola, ogni singolo dettaglio nato dalla mente sveglia e fantasiosa di quel figlio che aveva dato troppo per scontato troppo a lungo.

Scoprì che la maggior parte dei suoi lavori avevano un solo scopo, ovvero restituire a quella Furia Buia, a cui aveva rubato la possibilità di volare, il cielo che anche lui aveva desiderato per tutta la vita. Brutte, schizzi, modellini e progetti; tutto, per permettere ad un’altra creatura spezzata come lui di avere quello che non aveva mai potuto ottenere.

Stoick raccolse tutti i progetti più recenti che riuscì a trovare e si mise a lavoro. Con l’aiuto di Skaracchio, costruì per Sdentato –non poteva continuare a chiamarlo drago, dopo quello che aveva fatto per lui- una nuova ala artificiale, più resistente della precedente.

E per Hiccup, lui e Skaracchio idearono una nuova sella che avrebbe potuto usare anche con la sua nuova gamba, senza alcun pericolo.

Stoick l’aveva tenuto lontano dal cielo troppo a lungo; era giusto che il suo strano figlio avesse la possibilità di tornare lassù, dove aveva trovato se stesso.

Glielo doveva, dopotutto.

E il sorriso che Hic gli regalò quando salì in sella a Sdentato per la prima volta dopo la sua caduta e si sollevò così in alto da poter toccare il cielo gli assicurò che, per una volta, aveva fatto la scelta giusta.

 

Da allora Hiccup non ha mai smesso di volare, e Stoick ha smesso di considerarlo strano per questo.

Strano lo è ancora; lo è sempre stato e sempre lo sarà, e lui ha capito che è inutile cercare di cambiarlo. Non vuole nemmeno più provarci.

È orgoglioso di lui così com’è, quel giovane vichingo che ha seguito il suo cuore nonostante tutto ed è riuscito a volare più in alto di chiunque altro.

 

Hiccup è cresciuto e con lui la sua fame di cielo, ma lui ha smesso di sopprimerla.

Entrambi sanno che il suo vero posto è là sopra, con Sdentato, a giocare con il vento e i propri limiti.

A volte si spinge un po’ oltre, almeno secondo lui, proprio come faceva da bambino. Si è creato addirittura delle ali tutte per sé, in modo da volare accanto al suo drago come ha sempre sognato.

Quando gliel’ha visto fare per la prima volta, sinceramente, ha avuto davvero paura. L’ha rivisto piccolissimo buttarsi con quel lenzuolo minuscolo, e ha reagito proprio come allora, urlandogli di fermarsi e di lasciare stare quella pazzia.

Hic, ovviamente, non gli ha dato ascolto, e ha volteggiato nel cielo come ha sempre desiderato, fino a quando qualcosa è andato storto e ha iniziato a precipitare.

Ma, prima che Stoick potesse fare qualcosa, Sdentato è intervenuto, proprio come quel giorno in cui era riuscito a guadagnarsi la sua eterna fiducia. Lo ha preso al volo, proteggendolo mentre cadevano a terra, per poi colpirlo con la coda sulla testa, in un lieve ma serio rimprovero per quella piccola pazzia incosciente.

Ed è stato in quel momento che Stoick ha smesso di aver paura quando vede Hiccup volare.

 

Lo segue sempre con lo sguardo, quando lo vede lassù in alto, libero come l’aria.

È così felice, come un bambino che ha finalmente trovato il luogo a cui appartiene, e lui sente sempre il vecchio cuore riempirsi di gioia nel vedere nei suoi occhioni verdi quella luce che pensava perduta tanto tempo prima.

Sa che quello è il suo posto e che lo è sempre stato, anche se lui non riusciva a vederlo.

Sa che è al sicuro, fino a quando resterà lassù. Niente può ferirlo, fino a quando resta nel suo regno in cui è l’unico ed indiscusso signore.

Non ha più paura di vederlo cadere.

Hiccup non avrà delle vere ali, ma è nato per volare, e nessuna creatura appartenente al cielo può cadere.

E, se anche qualcosa dovesse mai andare storto lassù, sa per certo che Sdentato sarà lì, per proteggerlo con tutto se stesso, come sempre.

Niente potrà mai toccarlo, fino a quando quella Furia Buia volerà con lui.

Loro due sono un’unica cosa, e ormai lui n’è consapevole più di chiunque altro.

 

Ormai Stoick non ha più paura di vederlo in cielo.

È quando è a terra che ha paura per lui.

 

Perché un drago che non può volare è un drago indifeso, e lui, il migliore tra gli uccisori di draghi, questo lo sa fin troppo bene.

E Hiccup, per quanto lui abbia sempre sostenuto il contrario, è davvero un drago imprigionato nel corpo di un vichingo.

Intoccabile in cielo, fragile sulla terra ferma.

Per questo, ogni volta che Stoick vede Hiccup a terra, è sempre lì, al suo fianco, pronto a proteggerlo come ha sempre fatto e continuerà a fare fino al suo ultimo momento.

Perché lui è Stoick l’Immenso e, per quanti sbagli possa aver fatto, continuerà a difendere suo figlio come il padre coraggioso e protettivo che è sempre stato.

Perché Hiccup è il suo pezzo di cielo, e non permetterà a niente su questa terra di portarglielo via.

Perché lui non permetterà mai a nessun altro di impedire a suo figlio di continuare a volare.

Nemmeno se dovesse costargli la sua stessa vita.

Costo che, alla fine, ha dovuto davvero pagare.

Ma è un costo che non gli importa di aver pagato, non fino a quando il suo Hiccup potrà continuare a volare.

 

 

 

 


La tana dell’autrice


Non so se nella serie tv sia mai stata mostrata l’infanzia di Hiccup – non ho mai avuto modo di guardarla-, ma io me la sono immaginata un po’ così, stramba e folle, con lui affascinato dai draghi e dal cielo e Stoick che tentava letteralmente di tenerlo con i piedi per terra. Sì, essenzialmente mi faceva ridere l'idea che Hiccup potesse buttarsi giù da un tetto per cercare di volare. Da questa folle idea è nata questa storia, che è nata come una cosa molto leggera e forse anche un po’ stupida e si è trasformata in altro.

Spero che vi abbia strappato un sorriso.

T.r.





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