Alive, Alone
Salve
a tutti! Un immenso grazie a chiunque vorrà leggere questa
mia mini-long a cui tengo molto e che mi è entrata nel
cuore, momento dopo momento.
Avviso preventivamente
che ci sono importanti Spoilers, infatti il mio testo si colloca
idealmente dopo le vicende (traumatiche è dire poco) di
Avengers Infinity War. Per chi ha visto il film sa benissimo cosa
accade proprio nei primi dieci minuti.
Orbene la mia storia
è completamente un'opera di fantasia e non vuole in alcun
modo cercare di spiegare o immaginare eventi futuri del MCU e mi scuso
se ci saranno delle imprecisioni. Io non ho mai letto i fumetti quindi
ho sicuramente una visione personale e limitata del Mondo Marvel ma ho
rivisto tutti i film prima di scrivere questa mini-long quindi spero,
almeno su questo versante, di essere il più precisa
possibile. I miei più sentiti ringraziamenti a Jill Butler, per avermi dato la forza di pubblicare. Sei un tesoro immenso.
Spero davvero possa
piacervi!
A
MONSTER
There
is no Thor without Loki
-Tom
Hiddleston
Ever
since I could remember,
Everything
inside of me,
Just
wanted to fit in
I
was never one for pretenders,
Everything
I tried to be,
Just
wouldn't settle in
Monster,
Imagine Dragons
“Loki.
Loki, sono io. Torna a casa.”
No. No, sto bene.
Tra
l’intricato velo nero e il buio più profondo
dell’esistenza umana, nella disperazione più dolce
dei sentimenti freddi.
Al
ghiaccio, solo, con la pelle livida e tesa fino a non poter
più tremare.
Morto.
Sto bene qui.
“Loki.”
Morto.
“Loki”
Si
poteva morire con la neve negli occhi? Solo con un cielo squarciato e
caduto a terra.
Allora
sì. Allora si moriva con i fiocchi di neve tra i denti,
cantando l’oscurità più indecente.
“Sono
io, ti prego.”
Lasciami. Lasciami,
vattene via, lasciami qui.
“Ti
prego torna a casa.”
No.
“Ti
scongiuro. Ti scongiuro.”
Abbandonami. Sto bene
qui.
In
eterno su una lastra di ghiaccio, in bilico su un precipizio,
sotterrato da pezzi di stelle cadenti, con il collo ancora piegato in
una maniera innaturale.
Non sento nulla.
“Loki,
sono io e sono qui, non mi muovo. Sono qui. Sono qui, sono qui, sono
qui... Ti prego.”
Non
c’è odio. Alla fine ci sono solo i rimpianti e poi
il nulla, l’assenza.
Lampi
dissacranti sulle sue guance blu, dolore per i suoi occhi ancora
aperti.
Sta nevicando. Ecco
perché ho neve in bocca.
“Loki”
Ho freddo.
“Torna
a casa.”
E dove è
casa? Dove si trova?
“Ti
sto aspettando, non mi allontanerò. Mai
più.”
Le
promesse erano il peggior veleno, quello a cui non si era mai abituato
e a cui non era immune.
Si
cade una volta, si cade un’altra volta, si cade senza toccare
terra e non si smette mai di avere paura.
Anche
dopo mille volte, avrà ancora paura del vuoto e di quello
che era stato, di quello che è.
Morto.
“Loki...
torna.”
Mi sento solo.
“Torna
da me.”
*****
Non amava
l’oro.
Non gli era mai
particolarmente piaciuto.
Forse un tempo, molto
lontano, lo aveva tollerato e apprezzato, senza neppure volerlo.
Sì, non
ricordava come e quando, doveva essere successo anche questo.
Ma poi, un anno dopo
l’altro, aveva ripreso ad odiarlo.
Una follia,
perché ad Asgard tutto era un susseguirsi di gioielli
dorati, polvere magica e trionfi. Un tripudio di infelicità
ornata di giallo, con venature attorcigliate alle colonne e ai
mosaici del suo palazzo, di ogni casa, perfino delle strade
più povere e disagiate.
Era stata una tortura,
lunga e dolorosa, aprire ogni giorno gli occhi e trovare
l’oro perfino sui suoi vestiti, sul suo capo, in tutte le
ombre con bordature colorate.
Un male cieco inflitto
a lui, per tutti i secondi della sua vita ingloriosa.
Gli era sempre parso
uno scherzo di pessimo gusto comprendere come persino il trono non fosse niente di diverso, solo una sedia dorata.
Ma lui era il Re.
Quindi quello era,
forse, un male necessario. Ottenere ciò che si brama
con una tale disperazione doveva comportare necessariamente un sacrificio di
felicità, fosse anche la sua.
Che tutti si
inginocchiassero, si prostrassero alla sua grandezza, al suo potere.
Il Re di Asgard,
seduto sul trono dorato, nella stanza più immensa, con
l’oro che copriva anche le fughe tra le mattonelle del
pavimento a mosaico.
Così sia,
sia questa la volontà suprema.
Sofferenza nella
grandezza e dolore nel momento più acuto del piacere, echi
di disperazione in tutti i suoi sorrisi.
Convivere, nei secoli
dei secoli, con il colore che gli avrebbe sempre ricordato lui, lo splendore
onnipotente incapace di rendersi conto di che cosa si dimenticava negli
angoli neri, nel buio creato da se stesso.
Più luce
c’è, più oscurità
tornerà.
Alla
fine mi hai mai visto? Ero lì, mi hai visto?
L’aveva
attraversata a piedi lui, l’ombra cieca, l’aveva
vista e provata nelle vene, fin dentro le ossa piegate dal freddo e
levigate dalle antenne degli insetti.
Lui era morto in quel
posto.
Perché
allora era su un letto?
“Loki.”
Una mano gli
accarezzò il braccio per poi spostarsi sul volto e
racchiudere la guancia in un modo calmo e misurato. Gli
sfiorò lo zigomo e lui quasi non lo percepì, per
quanto era gentile.
“È
ora di svegliarsi.”
Lo vedeva
già, quel colore maledetto, e dietro le sue palpebre
abbassate percepiva la sua limpidezza, con un senso di fastidio
estenuante.
C’era un
indugiare nascosto in sentimenti che a lui non interessavano, che amava
distruggere con un’azione spregevole e crudele. Doveva essere
impazzito, ancora di più e sempre in maniera peggiore,
altrimenti non c’era motivo per cui non muoversi e pensare
solo a cose confuse, idee dimenticate un secondo dopo essere esplose
nella sua mente.
“Anche
quando eri un bambino facevi così. Stringevi le palpebre per
non svegliarti e per far credere a tutti che dormivi profondamente. Io
lo sapevo e non dicevo nulla a nostra madre.”
Vissuto da sempre come
una bestia affamata alla ricerca di qualcosa, qualcosa di profondo mai
trovato, in ginocchio nelle stanze dimenticate del suo palazzo, la
fronte premuta sulle ginocchia per soffocare i singhiozzi.
Certi ricordi era
meglio lasciarli in catene, erano lì solo per alimentare il
suo odio, per darsi la forza di possedere quel sogno metà
dorato e metà nero.
Non sapeva neppure lui
cosa lo rendesse così smanioso e insoddisfatto, cosa fosse,
cosa cercasse e sperasse di ottenere.
Era una bestia, un
animale cresciuto in cattività, un orfano abbandonato.
Un buon Re, magnifico
e venerato.
Morto.
“Ma ora
è tardi. Il sole è già alto.”
L’oro
avrebbe brillato come non mai e lui avrebbe ricominciato a provare un
senso di nausea, veloce a percorrergli lo stomaco, capace di
scorticarlo da dentro.
Tutta la sua intera
esistenza era stata marchiata dal male e dal dolore, ogni secondo un
chiodo su cui camminare a piedi scalzi.
Mai, non aveva mai
conosciuto cosa fosse la pace.
Thor spostò
la mano verso la sua mandibola, scese piano a toccargli il mento e poi
le ossa della gola, indugiando al livello della giugulare.
Gli bruciarono i palmi
e un pensiero solo si fece largo tra gli altri, una certezza che gli
strinse la pancia talmente forte da dare un sapore acido alla saliva,
un fastidio tra i denti e la lingua attaccata al palato.
Era
vivo.
Cominciò a
tossire e gli sembrò che i polmoni fossero contratti,
fossero stretti in un pugno, in un modo tale da impedirgli di
respirare. Aprì gli occhi e cercò confusamente un
appiglio, scostò il lenzuolo ma non riuscì a
sollevare il petto, pesante e duro.
Non riusciva a far
niente che non fosse cercare aria, aria, un respiro.
Gli occhi diversi di
suo fratello cercarono i suoi e poi le sue mani gli circondarono il
volto, bloccandolo, mentre lo pregava per qualcosa di cui lui non
riusciva a distinguere le parole.
Era solo un ronzio
fastidioso, uno spillo nel timpano.
Aiutami.
Prese aria dalla bocca
aperta ma vide dei lampi viola dinanzi alle sue pupille e
percepì di nuovo quel sapore acido e nauseante risalirgli la
gola.
Aria, aveva bisogno di aria.
Si aggrappò
alle braccia di Thor e strattonò la manica del suo abito,
tentò di rispondergli ma ricominciò a tossire e
sputare, ispirò altra aria e ancora gli uscirono dei rantoli
soffocati.
Aria.
“Loki,
guardami. Concentrati e guarda me.”
Thor scosse le sue
spalle e non lo lasciò andare, veloce gli
allontanò i capelli dal viso e dalle labbra, posò
un palmo sulla sua fronte e l’altro sul cuore, come a contare
i battiti, per accettarsi fosse tutto vero.
Perché lui
era un morto che aveva bisogno di aria.
“Respira.
Respira pianissimo.”
Passò una
mano fra i suoi capelli neri e poi la riportò sulla fronte,
quasi massaggiandogli le tempie.
I morti non respirano.
“C-cosa...”
“Respira.”
Avvicinò il
volto al suo, adagiato su un cuscino e distorto dagli sforzi di non
vomitare, e lo costrinse a guardare solo la sua espressione preoccupata.
Perché
erano a quel punto? Perché non poteva... aria, aveva bisogno
di aria. Aria.
Loki
inspirò dal naso e lentamente cominciò a lasciare
dei respiri, fiato contro la barba bionda dell’altro Re,
contro le sue labbra e il mento.
Continuò a
stringere forte i gomiti di Thor, senza accorgersi delle mani che
tremavano incontrollabili insieme al suo corpo.
“Respira
insieme a me. Va tutto bene, andrà tutto benissimo.”
Bugiardo,
da quando hai iniziato a mentire così sfacciatamente? E
ancora così male, ti sei esercitato ben poco.
Stupido
figlio di Odino, troppo nobile e giusto.
Stupido
e basta. Stupido.
“Thor”, sussurrò, e socchiuse per un momento gli occhi, non
comprendendo cosa ci fosse nello sguardo dell’uomo che aveva
tanto odiato, se fosse sollievo o qualcosa di diverso, di estraneo a
entrambi.
Perché i
morti non possono parlare.
Inspirò ed
espirò, alleviando il dolore al petto e la stretta allo
stomaco.
“Thor, che
cosa hai fatto?”, domandò, e lo sforzo gli
strappò una smorfia e lo costrinse a rannicchiarsi contro
l’ampio torace del fratello.
Stupido,
perché sono qui? Dove sono?
“Sei tornato
a casa. Questo è l’importante.”
A
quale prezzo?
Meraviglioso
e splendente oro della mia vita, adesso che cosa mi hai fatto?
L’odio
più profondo io l’ho imparato da te.
“Thor”, mormorò, e il suo tono era urgente, agitato.
“Conserva le
forze e riposa. Abbiamo tempo, fratello.”
E
da quando i morti hanno il tempo dei vivi?
Alzò il
viso e respirò male, troppo forte, quasi fosse una bestia
ferita, e per sbaglio gli graffiò la pelle
dell’avambraccio, nel tentativo di non cadere o scivolare.
Le gambe tremarono
ancora e lui vide le sue coperte dorate fasciargli il corpo, il
pavimento luminoso, le pareti brillanti.
Il suo incubo era
ovunque, fino a sovrastarlo con carne e sangue.
Specchi sul fondo
della sala e una finestra immensa, ogni cosa riflessa
nell’altra, in un gioco studiato.
C’era
davvero il sole alto nel cielo.
“Il Sole sta
morendo”, disse, e una certezza lo piegò fino a
spezzarlo e accartocciarlo.
Vogliono ucciderlo e
un crimine del genere è perverso, crudele e inimmaginabile
persino per un mostro come lui.
Fratello,
vogliono uccidere il Sole.
La vista si
appannò e si accorse tardi di alcune lacrime lungo le sue
guance, di gocce cadute leggere tra loro due.
Un respiro fu
più difficile, più graffiante, e poi il petto si
rilassò insieme ai nervi delle sue dita bianche.
Spostò lo
sguardo rapidamente per tutta la stanza e un pensiero si
spezzò in più parti nella sua mente, disgregando
la sua lucidità.
La finestra era troppo
grande, gli specchi gli restituivano un’immagine sfalsata,
impossibile, e poi il cielo... il cielo era bellissimo.
Ti
darò tutto ma ti prego salva il Sole, salva il Sole, salva
il Sole. Sta morendo.
Capì tardi
che i singhiozzi erano suoi e il formicolio alla nuca un messaggio di
avvertimento, un segnale da ricordare.
C’era il
male vicino a loro, perché le stelle muoiono mangiandosi
lentamente e qualcuno vuole ucciderle tutte, a qualsiasi costo.
Il
Sole sta morendo.
I singhiozzi erano
lamenti e le spalle sussultavano a scatti mentre un dolore alla fronte
gli impediva di capire quale fosse la realtà, cosa esistesse
davvero.
La luce lo
accarezzò e a lui sembrò volesse donargli un
ultimo sprazzo di vita.
Non
era morto? Perché era vivo?
“Il
Sole.”
Quale
mostro?
“Loki,
ascoltami.”
Quale
mostro ucciderebbe il Sole?
“Il Sole sta
morendo”, biascicò, mordendosi la lingua.
Thor gli fece posare
la testa sulla sua spalla e lo abbracciò, lo rinchiuse tra
il suo addome e il materasso senza permettergli di muoversi, di vedere
la stanza sempre più luminosa con le ombre rannicchiate ai
quattro angoli.
Fa
troppo male. Salvalo, salva il Sole.
Era come essere fuori
dal proprio corpo e allo stesso tempo troppo dentro. Sentiva tutto e
all’improvviso non sentiva niente.
Non era abituato, non
dopo la morte, a tutte quelle emozioni e sensazioni, a
quell’equilibrio precario che era la vita di ogni uomo.
E aveva ancora paura
di morire, dopotutto.
Quanto era patetico.
“Il Sole
morirà.”
Singhiozzò
contro il collo di suo fratello e il capo cominciò a
ciondolare senza forze mentre lui ripeteva, come una cantilena, sempre
le stesse parole.
Provò a
nascondersi dalla luce ma l’oro sembrava volerlo seguire,
vendicandosi e tormentandolo.
Con la voce pastosa
continuò a parlare, gli disse cose che non comprendeva e
non ricordava, prendeva poco fiato e muoveva le labbra così
vicine al suo orecchio da poter trascinare ogni sillaba delle sue frasi
folli.
Perché lui
era lì? Perché era vivo?
Il
Sole sta morendo, salva il Sole.
E chissà
perché a lui interessava tanto della salvezza di una stella
già morta e agonizzante.
È
una stella dorata, salvala.
Thor
continuò a proteggerlo, con le braccia intorno alle sue
spalle e le mani tra le scapole sporgenti, il mento tra i suoi capelli.
Loki gli strattonò la maglia rossa, percorrendogli tutta la
schiena.
Che sensazione strana.
“Il Sole
morirà ancora”, disse, e assaggiò le sue
lacrime.
Avrebbe dovuto
odiarlo, quell’oro regale, avrebbe dovuto desiderare la sua
morte.
Dove
sono? Che cosa è successo?
Avrebbe dovuto
fregarsene.
Sono
vivo?
Ma gli ricordava
qualcosa.
Morire
non era il mio solo diritto?
Qualcosa di bello.
“Non
permetterò a nessuno di far del male al Sole”, gli
promise Thor, fronte contro fronte.
E il buio lo accolse
come una benedizione.
*****
Non... non capisco.
La luce soffice delle
candele illuminava fiocamente la stanza e gli angoli avevano le
sembianze di buchi neri, profondi, da cui sarebbero potuti sgusciare i
suoi peggiori incubi, figure disumane con zanne e artigli macchiati di
liquido scuro e denso.
Non gli piaceva, lo
nauseava, quel nero poco chiaro, appena rischiarato da sottili lingue
gialle, perché gli ricordava l’oscurità
avvolgente delle tombe scavate nei sotterranei del palazzo.
Gli oggetti apparivano
talmente impalpabili da avere la consistenza di un sogno, di un incubo
lontano e distorto dalla febbre. L’aria stessa strisciava
gonfia e lattiginosa, come graffiata da gusci di noci rovinate.
Un’atmosfera
lugubre e decadente pesava sul suo capo, un odore di bruciato si alzava
verso l’alto, stordendo i suoi pensieri e le sue palpebre
stanche.
Ogni cosa assomigliava
ad una veglia funebre antica e l’idea lo divertiva e
disgustava al contempo.
Represse un sorriso
storto, mangiucchiandosi le labbra, e deglutì piano pensando
di poter acquietare la sua ansia.
I suoi respiri lenti
seguivano il ritmo dettato dal dito indice che ticchettava contro
l’unghia del pollice. Le braccia erano rigidamente stese
lungo il corpo mentre le gambe, ferme e troppo pesanti, erano
attraversate da un bruciore doloroso ai muscoli e ai tendini.
Non andava bene, no,
non andava affatto bene.
Eppure qualsiasi male
e fastidio sarebbero stati sempre preferibili all’assenza, al
vuoto, al mero niente da cui era tornato.
Sano e salvo,
finalmente a casa. No?
Agitato, una goccia
fredda di sudore gli strinse la nuca, avvolgendogli il mento come una
sciarpa di ghiaccio.
L’angoscia
gli attanagliò lo stomaco con un violento calcio e una
sensazione sgradevole camminò su tutto il suo corpo.
Certo, lui lo sapeva.
Lo aveva scoperto da
bambino e aveva accettato il compromesso della vita, si era piegato al
dazio ed era sceso a compromessi con la realtà dei fatti,
come ogni dio e sovrano esistente.
Sei
vivo solo se soffri.
E quindi lui aveva
vissuto più di chiunque altro, non era così?
Almeno, in quel modo,
la sofferenza avrebbe avuto un senso.
Tutto quello che aveva
patito e le bugie in cui aveva vissuto rigirandosi tra esse come un
corpo nudo tra le lenzuola, allora tutto avrebbe avuto un suo fine
ultimo.
No?
Gettò lo
sguardo verso destra e riuscì solo a intuire il buio oltre
le finestre, la notte nera calata a togliere colore al cielo.
Del pulviscolo pioveva
e danzava fra le pozze di ombre chiare, si depositava lento sulle
superfici di legno intarsiato con linee decorative.
Le fiamme delle
candele si prostravano sulla cera, in un inchino ironico alle sue
pupille offese dalla luce, a causa della prolungata
oscurità. Un cieco orrore da cui nessuno sarebbe dovuto
tornare, se non più folle di prima.
Lui si era svegliato
da poco o forse no, non era vero, forse osservava ogni angolo di quella
stanza da ore, procrastinando il momento della lucidità, del
capire perché aveva ricominciato a respirare e pensare.
Non si chiedeva da
dove derivasse quella paura, il terrore morboso di alzarsi e parlare
con qualcuno che, di
grazia, avesse il buon senso di riferirgli la
verità.
Quanti
secondi esistono nella fine eterna? Ci sono i secondi?
La sedia posta vicino
al suo letto era vuota e nessun rumore disturbava quella calma
innaturale, anche i suoi respiri erano silenziosi, a volte trattenuti.
Non c’era
nessuno oltre lui, non sotto quel soffitto decorato con le immagini
trionfanti delle prime campagne militari di Asgard.
Suo fratello alla
guida di un immenso esercito, le mani sporche di sangue e lo sguardo
spietato in nome della pace.
Risplendeva tra i suoi
fulmini, brillava da solo pur tra migliaia di altri uomini valorosi,
aveva l’aspetto di un Sole risorto dopo centinaia di anni di
prigionia.
Un’illusione
appagante.
Ancora
l’oro, di nuovo l’oro, sempre l’oro.
Cosa
era successo prima? Quanto tempo era trascorso?
Le finestre erano
chiuse e refoli di vento filtravano dalle fessure sottili, le tende
verdi coprivano i vetri e strisciavano fino a toccare il pavimento.
Non vedeva altro se
non pochi mobili, una specchiera in penombra, le immense porte di legno
scuro con i battenti di ferro.
Vivo e solo.
Nulla di diverso dal
solito, quindi.
Abbandonato, da quando
aveva modo di ricordare, in un’estenuante solitudine di anni e anni,
costretto a vedere solo se stesso nel riflesso di ogni specchio.
Un pugnale seghettato,
piantato costantemente al centro della sua schiena, tra le vertebre, a
imperitura memoria che i primi a tradire sono sempre i familiari
più devoti.
Lui, solo, lo era
stato dalla culla. Ad ogni pianto senza un abbraccio, ad ogni ferita
senza cura, ad ogni desiderio espresso mai realizzato.
Ogni giorno aveva
osservato se stesso in uno specchio, ore perdute della sua giovinezza,
e tutte le volte aveva trovato solo i suoi lineamenti più
induriti, affilati. Malvagi e cattivi nel momento esatto in cui aveva
deciso di seppellire qualsiasi buon sentimento.
Solo, da sempre e per
sempre.
Solo, con la sua
rabbia di orfano non voluto e destinato alla morte.
Solo e basta.
Il figlio bastardo
lasciato su una roccia di ghiaccio.
E nel suo tormentarsi
aveva ignorato l’esistenza di alcuni istanti, brevi e quasi
impossibili, in cui chiudendo gli occhi aveva visto il suo volto sorridergli.
Combatterò
per sempre al tuo fianco, Loki.
Una rabbia improvvisa,
un capriccio infantile, lo animò scorrendo nelle vene.
Lui poteva essere vivo
ma il ragazzino infelice e desideroso di essere guardato, apprezzato,
lo aveva ucciso e fatto a pezzi da tempo e con le sue mani.
Io
e te insieme, non è meraviglioso?
Con le braccia si fece
forza, strinse il materasso e il lenzuolo nei pugni,
digrignò i denti soffocando diverse maledizioni ma
sollevò il petto e si mise seduto, la schiena contro la
testiera.
Non
ho un desiderio più grande di questo, Loki.
Un coltello nel suo
addome avrebbe fatto meno male, perché non gli avrebbe
spezzato il fiato in quel modo, chiudendogli la gola secca e
contraendogli i muscoli del viso.
Lo aveva sempre
colpito a tradimento, una spirale infinita di ferite mai curate, aperte
dal sale e dall’aria.
Non
ci separeremo mai, Loki.
Vivo, solo e in
difficoltà. Davvero nulla di nuovo, una replica amareggiante
di tutta la sua vita.
Gettò le
coperte di lato e scoprì i suoi abiti aderenti blu, i
pantaloni fascianti che lo coprivano fino alle caviglie e le maniche
larghe della maglia che rendevano goffi i suoi movimenti.
Voleva alzarsi e
trovare un rifugio vicino, correre veloce e mettere tutta la distanza
possibile tra lui e il suo ingestibile fardello.
Ovunque ma non
lì, non più.
Perché
sotto pelle, tra le macerie nascoste del passato, c’erano
ancora le sue parole e
le sue frasi capaci di tagliare via ogni superflua
resistenza.
Mi
fido solo di te, fratello.
Toccò le
sue gambe e si rese conto che erano pesanti solo perché
addormentate, un sottile pungere di spilli lungo tutta la sua carne.
Una nuova fitta al
costato gli fece tremare i polsi, lo costrinse a serrare la mandibola
mentre allontanava alcuni cuscini, quelli posti ai lati del letto
affinché lui non cadesse.
Non era il momento di
stracciare i veli patetici degli anni passati, di svelare alcuni
segreti che aveva preferito mantenere anche con se stesso, pur di non
impazzire del tutto.
Doveva agire e, se
necessario, fuggire.
Doveva ritrovarsi distante da quella camera e poi dalla
città, pianeta, qualsiasi cosa fosse quel mondo su cui lui
ora aveva posato i piedi.
Si diede schiaffi alle
cosce e premette i talloni contro il pavimento, imprecò
contro le ginocchia che si rifiutavano di rimanere piegate e
afferrò il bordo del materasso, arrossandosi i palmi nel
tentativo di alzarsi e reggersi sulle sue gambe.
Provò una
volta, un’altra, un’altra ancora ma ricadde sempre
sul posto, con i capelli sudati che si attaccavano alle tempie.
“Maledizione.”
Un pugno contro il
femore, poi di nuovo uno schiaffo.
“Maledizione.
Maledizione!”
Neanche fosse una
bambola di pezza scucita in tanti batuffoli di cotone.
Si passò
rabbioso una mano tra i capelli e forzò i muscoli al limite,
sentendo degli strappi al livello di ogni giuntura.
Si morse le labbra e
deglutì sangue, respirò con affanno, stanco, e
quando scivolò a terra rise perché, cercando di
aggrapparsi al comodino, lo aveva trascinato a terra con sé
e gli oggetti lì sopra si erano rotti, in piccole schegge di
vetro riflettenti solo una parte del suo volto.
“Maledizione”, ripeté, e rise con la bocca chiusa, la lingua tra i denti.
Sono
fiero di te, Loki.
Davvero,
Thor? Sei sempre stato fiero di me? Sempre?
Accucciato sul
pavimento, come una bestia, un mostro ferito a morte.
La vita nella
sofferenza, l’unica realtà che aveva conosciuto
meglio di qualsiasi altro derelitto nell’universo.
Nulla di nuovo per il
Principe Bastardo, il mancato Re.
Tutto sempre uguale.
Quanti
secondi esistono nella morte?
Si mosse a tentoni e
si ferì i palmi per sbaglio ma all’ultimo
trattenne un lamento, sentendo dei rumori provenire dal corridoio
adiacente alla sua stanza: un ordine imperioso e delle chiavi girate
nella toppa, ingranaggi scattati in uno schiocco di dita.
Mai,
fratello, mai.
La porta si
aprì e dei passi lo raggiunsero velocemente, il rimbombo
delle scarpe sul pavimento fu come il rintocco di una campana lanciata
contro le pareti di un campanile. Il passo militare di un soldato
tornato dal fronte, di nuovo a casa.
Lui conosceva quei
passi.
Non
ti abbandonerò mai, fratello.
Loki guardò
tra le fughe delle mattonelle e sorrise aspirando la polvere, gli
stivali del Re sotto il suo naso.
Tossì,
trattenendo dei rantoli sottili, e poggiò le rotule a terra,
spostandosi con i gomiti.
“Sono in
ginocchio ai vostri piedi. Altezza.”
Sollevò gli
occhi e non abbassò lo sguardo, nonostante Thor lo
osservasse incredulo.
Non era poi cambiato
molto, no.
Era solo
più stanco, con le occhiaie viola a contornare i suoi tratti
e le rughe vicino agli angoli delle labbra.
“Vostra
Grazia, desidera altro?”
Parlò aspro
e l’amarezza delle sue parole la gustò sotto la
lingua e sul palato, infischiandosene del sapore pungente.
Lo guardò e
non poté trattenersi dal sorridergli più
sfacciatamente.
Oh, l’aveva
promesso.
Ed era suo fratello
quello che manteneva ogni giuramento, a qualsiasi costo, anche
massacrando parti del suo onore e di amor proprio, l’eroe
disposto a morire in nome della parola data.
Lui era lo spergiuro,
il menzognere, l’uomo che faceva promesse solo per non
mantenerne nessuna, con il gusto sadico di vedere la tristezza negli
occhi della persona tradita.
Era la loro natura
ciò che li aveva fatti arrivare a quel punto, fermi
lì a fissarsi.
L’uno in piedi e l’altro steso sul pavimento, a
vedere chi per primo avrebbe abbassato le armi.
“Vostra
Grazia, desidera di più? Per esempio la mia imperitura...
fedeltà?”
E alla fine suo
fratello aveva davvero attraversato l’Inferno pur di salvarlo.
Strisciò
sulle ginocchia e premette di nuovo le mani sui cocci di vetro, la
pelle livida e un pizzicore pungolante sotto le unghie.
Ogni promessa
è un debito da pagare con gocce di sangue, lacrime, sudore
sporco.
Loki schiuse le labbra
per dire qualcosa di dissacrante ma Thor cadde pesantemente dinanzi a
lui e si chinò a stringerlo fra le braccia, piegate intorno
alla sua schiena in una presa ferrea, disperata.
Non
li voleva i suoi abbracci, non se ne faceva niente, ora non servivano
più.
Cercò di
allontanarsi, colpendo le sue spalle e il petto, scostandosi dalle sue
carezze -invadenti, attente.
Con il naso affondato
nella curva del suo collo sentì Thor respirargli
nell’orecchio, a fatica.
Una strana
consapevolezza gli ruppe le costole, gli sciolse la lingua in una
domanda.
“Hai
pianto?”
Trasalì
quando il fratello gli afferrò il mento e lì si
accostò con le labbra, silenzioso.
“Hai
pianto?” ripeté.
Un gelo fin dentro le
sue ossa lo costrinse a poggiare un fianco quasi per terra, scivolando
all’indietro sulle mattonelle a mosaico. Tirò la
sua maglietta e poi anche la pelle e la barba mentre la tensione del
suo corpo vicino gli fece piegare il volto, arrossato per lo sforzo.
“Ho pianto.
Come tutte le altre volte”, gli rispose Thor, a bassa voce.
Una bellissima
disperazione sulle sue labbra.
“Quale
onore” lo schernì, girando il viso verso la
specchiera.
I dolori
più dolci li aveva sempre provati contro il suo petto.
L’equilibrio
perfetto sul ciglio di un abisso infinito, l’essenza del suo
cuore maledetto.
Aveva vissuto
così, ogni momento di ogni giorno di tutta la sua vita.
Il mostro solo e
disperato, cresciuto a pane senza sale e illusioni magnifiche.
Scalciò e
tentò di sgusciare via dal suo tocco, di aggrapparsi al
tessuto del tappeto verde poco distante da lui, di nascondersi
perché era troppo debole.
Aveva poche forze e
nessuna volontà di resistere a lungo, non con quella
sensazione di dite congelate avvolte intorno alla sua nuca.
“Sei solo
stanco e sei confuso.”
“Smettila di
toccarmi!”
Sbatté i
pugni e le ossa scricchiolarono dopo aver colpito il terreno duro
mentre i capelli gli coprivano le guance incavate, rosse nello sforzo
di non balbettare.
“Non
toccarmi e dimmi cosa hai fatto al mio viso. Cosa hai fatto a
me.”
Non
esiste fine al male che sei capace di infliggermi. Puoi solo
continuare, vero?
Thor non si scompose e
rafforzò la presa nell’incavo morbido tra le sue
braccia e il petto, lo aiutò a sollevarsi da terra
nonostante lui continuasse a dimenarsi e a maledirlo.
Si ritrovò
seduto tra le lenzuola arrotolate, le ginocchia scontratesi contro
l’angolo del materasso, i polpacci rigidi e i muscoli esausti.
Loki gli
lanciò contro tutti i cuscini, quei guanciali sgualciti
gettati prima ai piedi del letto, e con rabbia gli fermò i
polsi, affondando le unghie nella pelle calda.
“Come hai
fatto? Questa è l’opera di un disperato e, fidati,
io so riconoscere la disperazione. A chi ti sei venduto?”
Lo guardò
negli occhi e vide che il grande Re lo stava osservando in una maniera
infinitamente triste.
Aveva gli occhi ancora
rossi per il pianto.
“A chi mi
hai venduto?”, insistette, adirato.
Ma suo fratello
continuò a guardarlo e dietro il suo sguardo c’era
qualcos’altro, qualcosa di più pericoloso.
Un mostro lo stava
divorando dall’interno, consumandolo un pezzo alla volta,
lentamente.
Simile a una stella
senza punte, simile a un pensiero abbracciato al suo tallone destro.
Cosa
ti ha ferito più di me?
Thor si
avvicinò, attento a non toccargli il viso, ma dei fili
invisibili li incatenavano, li univano ancora. Come era sempre stato.
Che
cosa mi hai fatto?
“Mi sei
mancato, Loki.”
Con un pollice il Re
sfiorò da lontano la sua guancia e lui si ritrasse, mordendo
le labbra fino a spaccarle.
“Cosa
è successo?”
“Lo rifarei,
lo rifarei mille volte.”
E diceva il vero: lui
non era pentito.
Fu un ennesimo
schiaffo contro un volto già offeso, qualcosa che non si
sarebbe mai aspettato da un uomo tanto buono e giusto.
Un pugnale
più affilato che riapriva ferite di cui erano rimaste solo
cicatrici bianche.
“Vostra
Altezza allora dimostra un desiderio di vendetta mai appagato. Un odio
profondo, un appetito mostruoso.”
Gli lasciò
il polso e un senso di oppressione gli avvolse la testa, inducendolo a
chiudere gli occhi.
Ma vedeva il suo
volto, ancora, anche con le ciglia abbassate.
“Ora dovrei
ringraziarti, dunque? Pretende questo l’etichetta?”
“Devi
calmarti, Loki.”
“Io ero
morto”, sibilò, a denti stretti.
Sentì la
sua mano accarezzargli l’orecchio e lì rimanere,
immersa tra i suoi capelli.
Come una nuova
prigione, un luogo di disperazione da cui sarebbe stato difficile
fuggire.
Il pollice sulla sua
guancia era un piacere sottile di cui non aveva mai dimenticato il
sapore, una morte oscura che aveva ripudiato strappandosi il cuore dal
petto, scavando a mani nude.
Neppure le ceneri
erano rimaste di quel bambino sofferente, non c’era
più niente.
“Te lo
prometto, fratello. Andrà tutto bene.”
Le sue dita, di nuovo,
si spostarono a sfiorare le ossa della sua gola, nel punto esatto in
cui avrebbe dovuto esserci qualcosa di rotto.
Lui manteneva sempre
le promesse.
“Sei un
folle, Thor. Sei un folle.”
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