PROLOGO
Steve si svegliò in una stanza
dalle pareti bianche e pulite, alla finestra un leggero venticello agitava una
tenda grigio chiaro, una radio stava trasmettendo i commenti ad una partita che
credeva di aver già visto... forse. Doveva ammettere di essere un po’ confuso;
il suo ultimo ricordo era di se stesso su un aereo, la foto di Peggy dentro il
suo ciondolo poggiata sul posto di comando, come promemoria che aveva tanto,
troppo, da perdere. Ricordava che c’era un gigantesco e terrificante ghiacciaio
davanti a sé e ricordava che lui e Peggy stavano parlando di un ballo che lei
gli avrebbe insegnato. Dopo di quello solo buio, fino a quel momento.
Tirandosi su si mise a sedere
sul letto su cui era sdraiato, girò il capo per guardare fuori dalla finestra
ma non vide nulla, solo lo sfondo sbiadito di una città, o almeno credeva fosse
una città. Diede un’occhiata sospetta alla radio, ascoltò dubbioso la
radiocronaca di quella partita che era sicuro fosse già stata giocata. Ne era
certo perché lui ricordava di essere andato a vederla.
Il suo sguardo si spostò sulla
porta quando questa si aprì e una bella e giovane donna dai capelli rosso
scuro; indossava una divisa, gli fece tornare in mente Peggy per un istante.
“Buongiorno” gli disse con un
sorriso avvicinandosi piano al letto. “O forse dovrei dire buon pomeriggio”
specificò dando un’occhiata all’orologio.
Steve la guardò confuso; quel
senso di smarrimento che aveva provato appena aperti gli occhi cresceva di
minuto in minuto, insieme a un sottile panico. “Dove mi trovo?” domandò.
“Nella stanza di un ospedale di
New York.”
Gli occhi azzurri del Capitano
vagarono per la stanza, si fissò le mani, poi guardò di nuovo l’agente. “Dove
sono veramente?”
“Non capisco” scosse il capo
lei, ma si era innervosita, era chiaro dal modo in cui aveva steso le braccia
lungo i fianchi.
Lui si alzò per avvicinarsi a
lei. “Ho chiesto dove mi trovo veramente” ripeté. “La partita alla radio... ero
lì in persona il giorno che è stata giocata.”
La donna premette qualcosa su un
aggeggio che aveva in mano, ci fu un leggero suono e la porta si aprì di nuovo.
Due uomini vestiti di nero entrarono, stringevano in mano delle armi e i loro
occhi erano minacciosi. Steve scattò sulla difensiva e si disse che, dovunque
fosse, sarebbe scappato. Sperava di non dover fare del male a nessuno per
farlo, ci avrebbe provato.
“Capitano Rogers” gli disse uno
degli uomini. “Stia calmo.”
“E’ un po’ difficile se mi
puntate contro tutte quelle armi. Ditemi dove sono!” chiese duramente avanzando
verso di loro, fermandosi sui suoi passi quando una donna entrò nella stanza e
prese la parola.
“Mettete giù le armi” disse a
quei due. “Il Capitano non è una minaccia. Giusto?” chiese proprio a lui.
“Posso esserlo se necessario.”
La donna accennò un sorriso.
“Sì, ci credo” fece cenno ai due uomini e alla donna che era entrata per prima,
e quelli se ne andarono lasciandoli soli.
“Dove sono? Non lo chiederò di
nuovo” tuonò Steve guardandola.
“E’ davvero a New York, ma
questa non è una stanza d’ospedale. Posso chiamarti Steve?” gli chiese
sistemandosi il tutore che le teneva fermo il braccio sinistro. Chissà come si
era ferita.
“No!” esclamò lui. “Sono il
Capitano Rogers.”
Lei annuì avvicinandosi alla
radio per spegnerla. “Io sono Lidya. Ma può chiamarmi agente Abel” gli sorrise
appena ma più che un sorriso sembrava un ghigno. “Mi dispiace per questa
pagliacciata” disse guardandosi intorno. “Avevo detto che era una stupidaggine
e che l’avrebbe infastidita, ma le persone per cui lavoro hanno detto che era
meglio così. Che l’avrebbe aiutata a non sentirsi smarrito, non subito almeno.”
“Le persone per cui lavora?”
“Sì. Lei si trova in una stanza
al quartier generale dello S.H.I.E.L.D.”
“Che cos’è lo S.H.I.E.L.D.?”
“E’ una organizzazione
governativa che si occupa delle minacce globali che sono fuori dalla portata
dei... comuni mortali, per così dire. E’ stata fondata da Howard Stark, dal
Colonnello Chester Phillipse e dall’agente Peggy Carter” Lidya notò che gli
occhi di Steve si erano addolciti quando aveva sentito dell’agente Carter. Non
ne era sorpresa, considerando il ciondolo che avevano ripescato insieme al suo
corpo ghiacciato.
“Loro sono...” sussurrò.
“Il Colonnello è morto, Stark
anche. Lui è sua moglie sono morti in un incidente stradale. Hanno lasciato un
figlio. Si chiama Tony, ed è molto... beh diciamo che è proprio figlio di suo
padre. Probabilmente lo incontrerà presto o tardi.”
“E l’agente Carter?”
“L’agente Carter è ancora viva.”
“Dove si trova? Voglio vederla.”
“E’ un po’ più complicato di
così. Sicuramente potrà vederla, solo non adesso.”
“Perché no?” l’uomo le si piazzò
davanti con fare minaccioso, Lidya sapeva che era solo spaventato.
“Perché ci sono parecchie cose
che deve sapere prima.”
“Del tipo?”
La donna si avvicinò ad una
cassapanca sistemata accanto alla porta e la aprì. “Le dispiacerebbe darmi una
mano?” chiese all’uomo quando si rese conto che con una sola mano era
complicato.
Lui gliela diede, tenne la
cassapanca aperta mentre lei recuperava alcuni vestiti dentro. Un paio di
pantaloni color beige, una camicia a quadri, una giacca di pelle marrone.
“Indossi questi, andiamo a fare una passeggiata. Sarà più facile capire così.”
“Capire cosa?”
“Ogni cosa. La aspetto qui
fuori.”
Steve guardò la porta
richiudersi, si chiese se era il caso di trovare una via di fuga. Forse sì, ma
l’agente Abel sembrava sincera, sembrava qualcuno di cui potersi fidare. Decise
di seguire il suo istinto e dopo essersi cambiato raggiunse con lei l’esterno.
Sgranò gli occhi mentre un migliaio di suoni e colori diversi gli riempivano
occhi e orecchi. Quella non era New York, non era così che la ricordava.
“Credevo che avesse detto che
siamo a New York, ma questa non è la New York che ricordo.”
Lidya mise la mano nella tasca
del suo impermeabile. “Non è più il 1940, Capitano. Lei ha dormito per quasi
settant’anni... benvenuto nella New York del 2011.”