1 Inevitabile follia
INEVITABILE
FOLLIA*
Parigi,
16 luglio 1789
Mi
guardo le mani. Le mie belle, abili mani.
Sangue.
Vermiglio, viscido, nauseante.
Ne
sono ricoperte, quasi impregnate. Le immergo nel bacile e
l’acqua diviene immediatamente rossa.
Questo
fa parte della quotidianità del mio lavoro, ma oggi ne sono
inorridito più che mai e, nonostante il caldo torrido di
luglio, un brivido di gelo mi invade.
Fare
il medico non è un mestiere, ma una vocazione.
È
un cammino in salita, logorante, sia per il corpo che per
l’anima. Una sequenza infinita di dolori, orrori e pene. Una
consacrazione ad una missione, la dedizione ad uno scopo, che per
quanto ci si impegni, sfugge sempre al suo completamento. Una
necessità ad adempiere, che non si domanda quale
sarà il tornaconto, se ci sarà un tornaconto.
Sì,
una vocazione, la risposta ad una chiamata interiore. Almeno
così dovrebbe essere per tutti coloro che intraprendono
questa professione. Così è stato per me. Anche se
non da subito. Potrei dire da sempre, ma non sarebbe completamente
vero. Certo, ho sempre saputo cosa avrei voluto essere nella vita e,
grazie ad un’ anima buona che ha creduto in me e mi ha pagato
gli studi, lo sono diventato. Ho potuto seguire quella voce che mi
chiamava, rispondere alla esigenza di fare. Fare qualcosa, fare di
più, fare meglio. Ho potuto realizzare il mio sogno. Sia
chiaro: non sono un santo. Ho sempre avuto a cuore coloro che soffrono
ed il desiderio di arrecare sollievo alle pene umane, ma anche la
volontà egoista, seppur umana, di migliorare la mia
condizione, uscire dalla mediocrità sociale ed economica.
…
Il mio sogno...
L’eco
di questo mio pensiero si spande nella mente, come un grido che
rimbalza tra le pareti dei monti e ritorna più forte e
distorto, e pare l’urlo di un folle.
Sogno?
Mi chiedo incredulo.
Mi
sembra d’udire ancora le grida incessanti dei feriti, in
parte, ma solo in parte, coperte dai colpi dei fucili e dal rombo
spaventoso dei cannoni: un incubo, non un sogno!
Ora
gran parte di quelle grida sono cessate. Per sempre. Stroncate dalla
follia umana, in primis, ed anche dalla mia incapacità a
porvi rimedio.
So
che non è colpa mia, solo un limite della conoscenza umana,
della scienza che in questi anni sta muovendo i primi passi dopo secoli
di oscurantismo, ignoranza e paura; ma se qualcuno mi offrisse ora di
ricominciare tutto daccapo, se potessi scegliere di nuovo quale
carriera intraprendere, farei il fruttivendolo, così
getterei via solo frutta marcia anziché vite umane.
Sfrego
le mani col sapone, aiutandomi con una spazzola; strofino le setole
sulla pelle, con energia, quasi con rabbia, eppure mi sembra che questo
sangue non se ne voglia andare. Si infila sotto le unghie, nel reticolo
della pelle e lì continuo a vederlo, anche quando
più non c'è.
Dio
mio, quanti arti ho segato in questi due giorni? Quante ferite ho
ricucito e quante vite ho lasciato scivolare via perché la
mia medicina era impotente, perché nulla potevo fare per
riparare alla pazzia degli uomini?
Che
follia. Sì. La guerra è niente altro che follia
per chi, come me, le vite vorrebbe salvarle.
Per
altri, invece, imbracciar le armi è stata una scelta
obbligata. E mi perdo a riflettere su come sarebbe potuta andare
diversamente.
Una
follia inevitabile, penso. Il sollevarsi di moltitudini,
forse a ragione, forse a torto, forse entrambe le cose. Come un rivolo
dapprima silenzioso che, ignorato, diventa ruscello gorgogliante e si
ingrossa, alza la voce, scava tra rocce millenarie, apparentemente
salde, finché rompe gli argini e nulla più lo
trattiene. Non la ragione degli uomini, non la parola di Dio, non il
semplice buonsenso né la pietà.
E
allora, come una valanga, irrompe a valle e travolge tutto e tutti,
senza risparmiare chi, più a monte, si crede in salvo,
erodendogli la terra sotto i piedi e portandoselo via.
Perché
è così: siamo tutti provvisori su questa terra.
Nessuno è eterno, nessuno intoccabile, nessuno eletto da
dio: non un re e neppure un rappresentante all’Assemblea. Mi
domando se ne siano coscienti, tutti loro.
-
Dottore?
Mi
volgo a guardare la giovane donna bionda che si è affacciata
alla porta del mio studio. Ha l’aria distrutta, forse
più di me; d’altronde mi ha assistito senza sosta,
pur avendo appena patito la perdita di due carissimi amici.
-
Sì, Rosalie?
-
Il carro è pronto, dottore. Quando vuole possiamo partire.
Annuisco
e lei si allontana senza aggiungere altro, raddrizzando un poco la
schiena nell’avviarsi.
Forza
e coraggio, Rosalie, un passo avanti all'altro perché
diversamente non puoi fare, se non camminare la tua vita, per il poco o
tanto che ti verrà concesso.
Estraggo
le mani dall’acqua rossa e le sciacquo con quella limpida di
una brocca. So che sono pulite eppure io quel sangue me lo sento ancora
addosso.
Mi
rassegno a tamponarle con la salvietta, velocemente, non potendo far di
più per questo mio malessere.
Prendo
i miei ferri, lavati ed asciugati diligentemente; li metto nella borsa,
la mia inseparabile borsa, ed esco per apprestarmi a fare
ciò che normalmente non è mio compito, ma del
prete e del becchino.
E
stavolta sarò sincero, io abituato a mentire.
Rosalie
mi sta già aspettando a cassetta mentre suo marito Bernard
le rinnova raccomandazioni che qualunque buon consorte ripeterebbe fino
allo stremo.
-
Ti prego, ripensaci. – la supplica stringendo con la mano
quelle di lei strette sulle briglia.
-
No, Bernard, te l’ho detto: sono la mia famiglia ed hanno
diritto a riposare in pace e non in una fossa comune.
-
Almeno lascia che venga con te o mandi qualcuno: le strade sono
pericolose. – Insiste il giovane passando da un tono
imperativo, adatto al ruolo autoritario che si è trovato a
vestire in questi giorni, ad uno più confidente e
preoccupato di un marito innamorato.
-
Non devi stare in ansia. – Mormora Rosalie, deponendo i
finimenti e ricambiando la stretta.
-
E se lui non volesse …
-
Lui deve vederli. – Afferma perentoria.
Era
diventata forte Rosalie, forse lo era sempre stata. Forte, anche
cocciuta, irremovibile pure nei momenti in cui la sua lacrima facile
avrebbe suggerito il contrario. Lacrime che, avevo imparato negli anni,
indicavano rabbia, dolore, mai debolezza.
Si
sentiva forte, Rosalie, sì. Come mai prima.
E
con lui, con quell’uomo, sarebbe stata indicibilmente dura.
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