0.0
Introduzione
Era una notte buia e tempestosa.
Non
dovrebbero iniziare così tutte le storie del terrore?
Già,
perché questa è davvero una storia del terrore,
un vero racconto dell’orrore, un tremendo resoconto degli
eventi più spaventosi e raccapriccianti mai accaduti.
Questa
è la storia di Tom Marvolo Riddle e a raccontarla non
saranno gli studiosi di Storia della Magia, né i giornalisti
del Profeta.
La storia
la scrivono sempre i vincitori, mentre agli sconfitti viene dato a mala
pena il beneficio del dubbio.
Io non sono
una vincitrice, ma neanche una perdente.
Questa
storia non è come le altre, perché
sarò io a raccontarla.
Io, Ophelia
Riddle, sorella gemella di chi, lo sapete già, no?
Non avete
mai sentito parlare di me?
Comprensibile,
ma ora, per una volta, lasciate che sia io a parlare.
* * *
1.1.1
Prologo
L’alba, quasi d’argento, era appena sorta e il sole
invernale stentava non poco a fare capolino tra le nubi, spesse e
bianche, per tentare di illuminare con i suoi freddi raggi
l’ultimo giorno dell’anno.
Alla periferia della grande città di Londra, circondato da alti
cancelli, un modesto edificio si erigeva grigio e silenzioso.
I passanti nemmeno lo notavano, troppo occupati nelle loro faccende
quotidiane per badare a quella piccola costruzione, dimora degli
esclusi, degli ultimi, dei più inutili e insignificanti membri
della società inglese.
Quel luogo cupo e dimesso era, infatti, un orfanotrofio, un luogo
squallido e tetro, dove una ventina di bambini aveva trovato
accoglienza.
La maggior parte delle persone pensava che quegli istituti fossero uno
spreco di denaro pubblico, ma credevano anche che fosse meglio
rinchiudere lì gli orfani, piuttosto che lasciarli in giro per
le strade, a mendicare e a rubare.
Se poi quei piccoli rifiuti della società non fossero proprio
esistiti, sarebbe stato ancora meglio, ma il fatto di non averli tra i
piedi ogni giorno era comunque qualcosa.
E così, la gente si limitava a ignorarne l'esistenza, come se
davvero non esistessero, rendendo quel luogo una sorta di mondo a
sé, appartato e sospeso nel tempo e nello spazio.
Bisognava però ammettere che gli ospiti di quel particolare
istituto erano, tutto sommato, più fortunati degli altri:
l'edificio era misero, la direttrice severa, il vitto essenziale, ma
nel complesso gli orfani erano in buona salute e probabilmente
conducevano un'esistenza migliore di quella che avrebbero avuto con le
loro vere famiglie.
Ma non tutti la pensavano nello stesso modo.
Il sole, intanto, era riuscito finalmente a emergere, e gettava una
luce bianca e opaca contro la facciata est dell'edificio, punteggiata
da molte, piccole finestrelle.
Una di quelle era il pertugio sul mondo di una coppia di orfani piuttosto speciale, anche se nessuno sapeva ancora quanto.
* * *
Capitolo I
31 dicembre 1937
«Tom! Tom!»
Con la mia vocina timida e infantile ruppi il silenzio, disteso e totale, che regnava nella piccola stanza.
Nessuna risposta.
Nella penombra sonnacchiosa, che ancora recava gli ultimi, tenebrosi residui della notte, qualcosa si mosse.
Scostando eccitata i miei capelli, lunghi e arruffati, che mi coprivano il volto, mi rizzai a sedere sul letto.
«Tom! Tom, svegliati!» riprovai, a voce più alta.
Dall’altro lato della piccola camera, la sagoma minuta e scura,
rannicchiata sul semplice letto di ferro, si agitò di nuovo tra
le ombre.
Un mugolio, poi, con voce rasposa, ancora impastata dal sonno, finalmente Tom si destò «Che succede?» chiese.
«Tom, è il nostro compleanno!» esclamai, cacciando
via le coperte e avvicinandomi al letto di mio fratello «Tanti
auguri!» aggiunsi radiosa.
Tom mi rivolse uno sguardo appannato, ma io lo conoscevo abbastanza
bene da sapere che non avrebbe mai ricambiato il mio entusiasmo.
In realtà, non lo faceva quasi mai: le cose che piacevano a me,
di solito annoiavano lui, e le cose che esaltavano lui, spesso
spaventavano me.
Era una cosa piuttosto strana, soprattutto dal momento che eravamo gemelli.
«Che ore sono?» chiese Tom, puntellandosi con i gomiti sul materasso per sollevarsi.
«Non lo so» risposi «Le otto più o meno»
Tom mi scoccò un’occhiata da
“non-posso-credere-che-tu-mi-abbia-svegliato-alle-otto-per-uno-stupido-compleanno”.
Francamente, era un po’ inquietante, ma lo ignorai e corsi verso l’armadio per cambiarmi.
Tom, invece, si ributtò sul cuscino, ma ormai era completamente sveglio e presto si sarebbe alzato anche lui.
Venti minuti più tardi, infatti, eravamo entrambi completamente vestiti e così scendemmo al piano di sotto.
Subito, ci imbattemmo nella direttrice, la signora Cole, che era
già in piedi e stava aiutando Martha ad apparecchiare la lunga
tavola per la colazione.
«Ophelia, Tom, buon compleanno bambini!» esclamò la direttrice quando ci vide varcare la soglia del salone.
Le rivolsi un ampio sorriso, mentre Tom si limitò a un ghigno,
infastidito da quello che lui doveva considerare una sgradevole
ingerenza da parte della donna.
Prendemmo posto e, dopo pochi minuti, anche gli altri bambini dell’orfanotrofio cominciarono ad affluire nella sala.
Alcuni erano, come noi, già vestiti di tutto punto, altri, invece, indossavano ancora il pigiama.
Amanda King, una bambina di un anno più piccola di me, si avvicinò a noi.
Amanda era la mia migliore amica e anche lei era cresciuta nell'orfanotrofio.
I suoi genitori erano morti quando aveva solo pochi mesi; non aveva
parenti, o comunque non aveva avuto nessuno che avesse potuto o voluto
prendersi cura di lei, così era stata portata in orfanotrofio.
Era una bambina molto allegra ed ero abbastanza sicura che le piacesse Tom.
Mi fece gli auguri e mi consegnò il suo regalo, quindi si sporse
timidamente verso Tom, che si limitò a ignorarla, con un
espressione cupa sul volto ossuto, mentre continuava a rimestare il suo
porridge con aria assente.
Alla fine, Amanda desistette e prese posto accanto a me.
«Hey Ophelia, buon compleanno!» esclamò Lewis, un
ragazzino di dodici o tredici anni, nessuno lo sapeva con precisione;
anche lui, dopo un timido sguardo verso Tom, cambiò idea e
si sedette al proprio posto, all’estremità opposta della
tavolata, accanto al suo migliore amico, Terence Young, un dodicenne
grassottello.
Lui era l’unico ad avere ancora i genitori, che però erano
molto poveri; dopo i primi quattro figli, era arrivato Terence, ma i
suoi non avevano abbastanza denaro per mantenerlo, così lo
avevano portato in orfanotrofio quando aveva quattro anni.
Ogni Natale, però, lo venivano a prendere e lo riportavano a
casa, per festeggiare, e tre o quattro domeniche all'anno lo venivano a
trovare.
La mattina dell'ultimo 25 dicembre, come sempre, i genitori di Terence
erano venuti a prenderlo e, quando l'avevano riportato indietro, verso
le sei di sera, il ragazzo teneva tra le grosse braccia un mucchio di
regali, la maggior parte per lui da parte dei genitori, gli altri per i
bambini dell’orfanotrofio.
Pareva, infatti, che suo padre avesse trovato un lavoro ben pagato
nella vicina fabbrica di automobili, perciò tra qualche mese
Terence avrebbe potuto finalmente fare ritorno definitivamente a casa
dalla sua famiglia.
«Dove vai?» chiesi a Tom, che si era appena alzato di colpo.
Tom non rispose.
Trangugiai in fretta le ultime cucchiaiate del mio porridge, quindi mi affrettai a seguire mio fratello.
«Tom, che succede?» chiesi, quando finalmente riuscii a raggiungerlo.
Tom mi ignorò di nuovo, continuando a percorrere a passo spedito
l’ultimo tratto del corridoio che portava alla nostra camera.
Quando anche io varcai la soglia, trovai Tom seduto sul sedile della
finestra, lo sguardo perso verso l'orizzonte nebuloso e bianco, carico
di neve.
Per un lungo momento restammo in silenzio.
«Come fa a piacerti questo posto?» chiese Tom, d’un tratto.
“Ci risiamo” pensai.
Avevamo spesso quel tipo di conversazioni: Tom detestava
l’orfanotrofio, non aveva fatto amicizia con nessuno, ma la cosa
non sembrava turbarlo particolarmente.
A dire la verità, la maggior parte dei bambini aveva sempre
avuto paura di lui, perché a volte Tom faceva cose strane.
Ad essere ancora più sinceri, le cose che Tom faceva non erano semplicemente strane: erano decisamente inquietanti.
«Non mi piace, lo sai» risposi alla fine «Ma siamo
qui e dobbiamo rimanerci ancora per un bel po', quindi, in un modo o
nell’altro, dobbiamo cercare di trovarci qualcosa di bello»
Tom fece una smorfia alle parole “qualcosa di bello”, ma non commentò.
«Tom, lo so che…» dissi piano, ma lui mi interruppe.
«No, non lo sai invece!» esclamò Tom. Aveva le
guance leggermente arrossate e i suoi occhi scintillavano sinistramente
nella luce bianca e compatta del mattino.
Una minuscola lacrima sfuggì al suo controllo, ma sapevo che non si trattava di tristezza: era rabbia.
Mi avvicinai ancora di più a lui, quindi lo strinsi in un abbraccio.
Lui mi lasciò fare, ma sapevo bene che sarebbe durato per poco:
Tom non amava il contatto fisico e men che meno sopportava di sentirsi
debole e vulnerabile.
Dopo pochi istanti, infatti, Tom ritrovò il pieno controllo di sé e mi allontanò.
Decisi di accomodarmi accanto a lui; eravamo talmente piccoli e magri che ci stavamo entrambi sullo stretto davanzale.
Restammo di nuovo in silenzio, tacendo così le parole mai pronunciate, reprimendo gli impulsi mai esauditi.
Restammo in silenzio e lasciammo che fosse proprio il silenzio a parlare per noi.
Quel silenzio che, tra di noi, voleva dire tutto, che parlava di cose incredibili e di azioni impossibili da spiegare.
Il primo fiocco di neve cadde leggero e lento, posandosi dolcemente sul
terreno brullo e freddo del cortile dell’orfanotrofio.
Ben presto, lo seguirono altri, bianchi e umidi e, in pochi minuti,
ogni cosa venne coperta da una sottile e soffice coltre candida, in
continua crescita.
Una figura avvolta in uno spesso mantello sgargiante comparve all’improvviso davanti al cancello.
Era un uomo, molto distinto anche se un po’ bizzarro, con una
lunga barba rossiccia imperlata di minuscoli puntini bianchi.
Quello varcò l'inferriata, percorse il vialetto e salì i
pochi gradini di pietra che conducevano al portone d'ingresso.
Scomparve alla vista, ma, poco dopo, dall’atrio giunse il suono
del campanello e udimmo la voce della signora Cole che lo invitava ad
entrare.
Tom ed io ci scambiammo uno sguardo perplesso.
Sarà il nuovo benefattore, pensai distrattamente; o forse si
trattava di qualche zio o parente lontano che era venuto a fare visita
a uno dei bambini.
Forse qualcuno sarebbe stato adottato e avrebbe iniziato il nuovo anno in una nuova casa.
Ma di certo non avrebbe voluto noi, pensai con amarezza.
Nessuno aveva mai voluto noi.
* * *
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