Capitolo 5
Pregiudizi criminali
Capitolo 5
Carcere di Poggioreale, 15 settembre 2013 11 A.M.
Alberto
batteva ritmicamente un piede contro il muro della cella,
quest’era piccola ma né fredda e né umida e le
pareti erano di uno spiccato bianco candido, come se fossero state
ritinte di recente. Continuava a battere ritmicamente il piede perso
nei suoi pensieri e ,poco distante ,una guardia annoiata lo sorvegliava
svogliatamente mentre girava le pagine di un giornale.
Dalla sua
cella Alberto riusciva a vedere una sua foto in prima pagina e non
apparteneva di repertorio, di quelle che gli davano il fascino di un
ladro gentiluomo come Arsene Lupin, ma era ritratto di un carcerato che
tentava di esprimere una forzata di fierezza. Il piede continuava a
battere cullando i tristi pensieri di Alberto: non ce l'aveva fatta, la
missione di una vita era fallita e non era neanche riuscito a preparare
Giuditta come avrebbe sempre voluto. Avrebbe pianto se si fosse sentito
in grado di sopportare le probabili umiliazioni che sarebbero arrivate
appena qualcuno si fosse accorto del suo stato d'animo, non poteva
neanche mentire dicendo che provasse del dolore perché nessuno
era autorizzato a toccarlo per legge: la Repubblica Magna vietava
espressamente che un condannato a morte subisse torture, non c'era
nessuna logica in quella premura poiché il suo corpo sarebbe
stato presto martoriato dalle pallottole dei suoi boia.
Alberto
chiuse gli occhi stancamente quando udì il suo guardiano
scattare in piedi, il suo gesto fu talmente rumoroso che Alberto,
infastidito, fece una smorfia e riaprì gli occhi: il soldato era
in piedi e salutava militarmente qualcuno e una voce femminile gli
ordinò di lasciarla sola con il prigioniero. Incuriosito,
Alberto si sporse per confermare a chi appartenesse quella voce e non
fu poco stupito nel riconoscere la sagoma di Michela. La guardia se ne
andò lasciando il maresciallo e il ladro guardarsi negli occhi,
era la prima volta per Michela poterlo guardare così a lungo
senza che le fosse già fuggito e questo la rendeva
particolarmente felice, una felicità che sarebbe stata completa
una volta avvenuta la sua condanna. Anche per Alberto quella vicinanza
era sorprendente, conosceva bene il volto della sua nemica avendolo
memorizzato da anni attraverso fotografie, ma era tutta un'altra storia
vedere a quella distanza quel volto, che era così bello da poter
essere stato dipinto da Tiziano. Michela sembrava un angelo ma non
c'era nessun sentimento di misericordia nel suo volto... un angelo
della morte.
-Di che cosa vuoi parlare?-
domandò con finta allegria il piemontese mentre sul volto di
Michela comparve un’espressione d’autentica
curiosità.
- Parlarti e di cosa?- e, dopo
quella domanda così fuori tono per lei, specificò-Sono
venuta ad ammirare il mio lavoro- sorrise sornionamente mentre un
brivido di raccapriccio attraversò la schiena del ladro. Ci fu
attimo di silenzio Alberto rispose con laconico "capisco" e poi
alzandosi dalla brandina, in cui era stato seduto fino a quel momento,
si avvicinò alle sbarre e fissò Michela e le disse che
lui voleva invece parlarle: la donna reagì compostamente a
quella dichiarazione assumendo la posizione di riposo dei soldati e
altrettanto laconicamente accettò la richiesta.
-Sei soddisfatta?- le
domandò Alberto accusatore mentre il maresciallo lo
guardò per un attimo allibita, per poi scoppiare una risata
grassa e liberatoria.
-Alberto, spero che non ti sei
troppo impegnato a pensare per questa domanda perché conosci la
risposta-, dichiarò con finta accondiscendenza, il ladro sorrise
a quella reazione che aveva già previsto e combattuto
così tante volte nella sua mente.
-Ogni discorso ha bisogno di
un'introduzione Michela, per quanto stupida e ovvia possa essere. So
benissimo che sei soddisfatta, ma quello che non capisco è
perché impegnarsi in una causa a cui non si crede per niente...-
il ladro si avvicinò ancora di più alla donna e
sussurrò suadente -Perché entrambi sappiamo che non credi
alla Repubblica Magna e non sei entrata nell'esercito per servirla-.
Michela ascoltò tranquilla la dichiarazione del ladro, era
ancora nella posizione di riposo dei soldati, evidentemente la
posizione più rilassata che riuscisse ad assumere, e
guardò silenziosa e con interesse il volto del suo nemico, con
un freddo sorriso di circostanza.
- Sei una donna in gamba,
avresti potuto combattere per la mia causa ... con me addirittura-
Alberto pronunciò piano e scadendo bene tutte le parole e
aspettò con impazienza la risata denigratoria di Michela che
invece non arrivò; la donna lo guardò per la prima volta
con vago sentimento d'umanità che lo sorprese, eppure le parole
del maresciallo furono proprio come le aveva sempre immaginate.
- Non sono mai importanti le
cause ma che cosa puoi ottenere da esse e dalla tua avrei ottenuto una
cella, Alberto - enfatizzò le sue parole indicando le sbarre e a
quel gesto Alberto rispose con un’indifferente scrollata di
spalle.
- Con la mia ho ottenuto quello che è più importante a questo mondo, il Potere-
Troppo e
nulla voleva dire quella frase e, infatti, ci fu un silenzio
indescrivibile, Alberto si allontanò da Michela e la
osservò a distanza e poi , con la voce insinuante e
giocherellona che lo contraddistingueva, le domandò se avesse
diritto un ultimo desiderio.
- Ovvio, che cosa vuoi?-
rispose serena mentre il ladro continuava a fissarla intensamente, era
uno strano gioco di sguardi che qualche persona più ingenua
avrebbe potuto vederci l'intesa di due amanti ma non era così,
il gioco assomigliava all'istinto di un gatto di catturare una
lucertola e di molestarla e torturarla a proprio piacere.
- La tua storia o meglio sentirla pronunciata da te-.
- È noiosa, Alberto, e non ci troverai nulla da usare contro di me- fu la risposta tagliente di Michela.
- È il mio desiderio da
condannato a morte- specificò Alberto ridacchiando un po’,
aveva sempre pensato che la donna fosse un'egocentrica e invece la
trovava piuttosto riservata o inviperita da quella domanda così
personale.
Michela
sciolse la sua posizione e si appoggiò leggermente alle sbarre,
molti avrebbero considerato stupido e imprudente quel gesto ma lei non
aveva paura di Alberto e, in ogni caso, la sua preparazione fisica
l'avrebbe liberata da qualsiasi impiccio.
-Va bene, mettiti comodo-,
ordinò la donna con uno strano sorriso e Alberto e si sedette
tranquillo sulla brandina mentre la donna lo studiava con una strana
espressione, forse incuriosita da quella stupida curiosità che
era certa che il ladro già conoscesse.
- La bellezza è un'arma
a doppio taglio, soprattutto in una donna. Ti mette in posizione
strana, gli uomini ti adorano ma non ti considerano nient'altro che un
premio da mostrare in giro mentre le donne ti detestano perché
esiste l'istintiva competizione animale per cui l'accompagnamento con
il maschio è la cosa più importante del mondo. La
dignità, l'amicizia, la sorellanza sono concetti sconosciuti
alla maggior parte delle donne e quando vedono un maschio, appetibile o
meno, sono concetti inesistenti. Una donna bella è sfortunata
perché, se è intelligente, è condannata a una vita
fatta di lotte contro i pregiudizi di essere solo una bella bambola per
gli uomini o una puttana, in qualsiasi caso, per le donne. Ho passato
un'intera vita a subire tentativi di molestie o molestie vere proprie
dagli uomini e merda dalle donne.- Alberto rimase in silenzio
scioccato, era incredibile come Michela fosse distaccata mentre parlava
di sé, anche se utilizzava un linguaggio colorito.
- Ai suoi inizi la Repubblica
Magna doveva mostrare di essere più efficiente e moderna del
regno Padano. Era risaputo che i dati ufficiale della Repubblica
Italiana parlavano di maggior disoccupazione femminile nel sud
dell’Italia, dando enfasi al pregiudizio che le donne del sud
fossero più remissive e per cui preferissero rimanere a casa ad
accudire ai figli, queste statistiche ignoravano fattori come il lavoro
a nero o che, logisticamente, fosse più conveniente, dato la
mancanza di asili nido, che le donne si occupassero dell'educazione dei
figli poiché uno stipendio era sufficiente alla dignità
economica di una famiglia. La Repubblica iniziò ad aprire i
concorsi a ambedue sessi con pari opportunità: per legge i
concorrenti dovevano essere metà uomini e metà donne
però una volta entrati, soprattutto nell'esercito, dovevi
dimostrare di esser in grado di fare qualunque lavoro senza nessun
favoritismo e senza trattare le donne come se fossero delle
handicappate, incapaci di ottenere un lavoro se non aiutate dal Papino
Stato. Fu l'inizio della meritocrazia perfetta. Quando indossai per la
prima volta la divisa dell'esercito non ero più la bella donna
da odiare ma un rappresentante ufficiale che poteva distruggerti-
spiegò concisa Michela mentre un sorriso freddo appariva sul suo
volto- E ho scoperto che il Potere mi piaceva-.
Alberto la guardò tubato
e replicò con enfasi- Sei pazza a credere che il potere sia
tutto e che farà la tua felicità!-
- Il Potere è tutto e ne
sei ossessionato anche tu. Non negarlo!-ordinò la donna
fissandolo con un’espressione di condiscendenza, - Amavi farmi
sentire in tuo potere, di poter rubar qualunque cosa e umiliarmi ogni
volta! Ami pensare di poter cambiare le sorti di questo territorio
però non sei nessuno Alberto. Nessuno è così
importante da poter permettersi di credere che un suo contributo possa
cambiare il mondo: perché credere a degli ideali quando non
potremmo mai ottenerli? Meglio vivere la propria vita con egoismo,
è un atteggiamento che dà molti più risultati-.
- Ma questo non ci rende degli
esseri pensanti, così nemmeno gli animali ragionano
-puntualizzò Alberto sentendosi confuso, lui non aveva dedicato
la sua vita al Potere ,credeva a un'ideale e aveva provato a fare il
possibile per renderlo reale. Era vero che nessuno valeva qualcosa in
questo mondo, però non era forse come decidiamo di vivere la
nostra vita che ci rende almeno esseri passivi o attivi nella storia
dell'umanità? Avere dei sogni e tentare di realizzarli non era
quello che rendeva gli esseri umani tali? Un uomo molto saggio una
volta disse " I have a dream" e a quella frase Alberto ci credeva. Era
anche vero che forse si era divertito a umiliare quella donna, ma
Alberto non aveva mai pensato di sé come una persona buona: era
un uomo con degli obiettivi che intendeva raggiungerli, una persona con
degli ideali non coincide sempre con un eroe.
- Forse mi sottovaluti Michela,
pensi che sia un’intellettuale pieno di sé che vuole
educare la gente, ma sono una persona pratica, uno storico, se te ne
fossi dimenticata, e ci sono solo due cose che possono cambiare un
popolo: una rivoluzione e una guerra, fai caso che entrambe pretendono
sangue-.
- Non ti spaventa, che una volta ottenuto la tua adorata guerra, non cambierà nulla? Sacrificheresti delle vite-.
Alberto guardò negli
occhi la sua nemica e sorrise dolcemente- Sacrificherò anche la
mia, quando scoppierà la guerra parteciperò-. Michela lo
guardò per un attimo con un'espressione attonita e poi,
lentamente, iniziò a ridere piano per poi scoppiare in una
risata fragorosa e ,con la voce ancora ridente, disse sarcasticamente -
Avevo ragione a definirti un terrorista, sei un kamikaze! Il peggiore
della tua specie-.
Alberto
sorrideva tranquillo e non affatto ferito della reazione della donna,
lei aveva rinunciato agli ideali e alla fiducia dell'umanità
mentre lui credeva in entrambe le cose, ciò lo faceva sentire
vivo e un essere umano ancora capace di sognare e non di
sopravvivere come un animale. Non erano uguali, per niente, erano i due
lati di una generazione privata degli ideali con due modi differenti di
affrontare quella perdita, nessuno dei due lati poteva definirsi quello
giusto perché entrambi erano chiusi nelle proprie convinzioni e
guidati da estremismi: Alberto era per il suo credo e l'avrebbe seguito.
Capirono che non avevano
più nulla da dirsi e rimasero in silenzio, Michela e Alberto si
guardarono con accondiscendenza e lei si allontanò dalla cella,
non senza dimenticare di dire al ladro delle sprezzanti parole- Buona
notte Alberto, spero che la passerai tranquilla perché
sarà tra le ultime -.
Alberto rispose cinico-
Passerò qualche notte qui però... preparati alla tua
prossima umiliazione-. Lo sguardo di Michela s’indurì e
una risata cattiva uscì dalla sua bocca- Alberto , sei un uomo
morto e lo sai- e lo fissò un'ultima volta e poi uscì,
poco dopo un’altra guardia tornò a sorvegliarlo e aveva lo
sguardo attento e vigile di un'aquila. Alberto iniziò a
fischiettare una melodia triste con occhi determinati, Michela e suoi
non lo stavano sottovalutando ma non si preoccupavano di chi lui aveva
attorno, e questo sarebbe stata la loro rovina.
C'era un
gran fermento nella città di Napoli, il più famoso
criminale della penisola era stato catturato e attendeva la sua
condanna nel carcere di Poggioreale, sembrava che tutti fossero
d'accordo ad augurare il peggio al ladro e qualcuno ricordava con
battute spiritose di poco spirito sulla poca distanza tra il
carcere e il cimitero.
L'esecuzione era stata
programmata dopo pochi giorni dalla cattura e si era in attesa
dell'arrivo di uno spettabile dignitario del norde, così
ironicamente chiamato, e, addirittura ,dello stesso Generale, ma erano
in molti a credere che quella notizia fosse fasulla e che fosse stata
messa in giro da qualcuno un po' toccato di testa. Quel clima di
pettegolezzo e gioia non era stato il riflesso dell'umore di Michela:
per lei quei giorni erano stati d'angoscia e di doveri ed era stata
contattata dal Generale, molto soddisfatto di lei ma ,finché
Alberto Giordano non fosse stato dichiarato morto da un medico legale,
lei non avrebbe avuto quello che le spettava. Le dichiarazioni
sospettose del Generale avevano scosso il duro e insensibile cuore di
Michela ... la paura, quel sentimento che credeva d'aver dimenticato
l'aveva presa di spalle in un agguato: se Alberto scappava, lei avrebbe
perso tutto e per questo aumentò la sorveglianza.
Carcere di Poggioreale 16 settembre 2013 10 P.M.
Alberto chiese come ultimo
pasto della polenta e le guardie storsero il naso alla sua richiesta ma
acconsentirono, in un secondo Alberto li sentì dire, in dialetto
napoletano che lui aveva imparato dalla sua protettrice, che era un
polentone ignorante in cucina. Alberto rise al commento, avevano
ragione loro a dire che non capiva nulla di cucina , era sempre stato
un uomo dai gusti semplici, a volte grossolani, sul cibo.
-Va bu’, andiamo a far
preparare questa polenta- fu l'ennesimo commento ironico, detto per
provocare il ladro il quale sorrise pazientemente innervosendo la
guardia spiritosa, che si allontanò a grandi passi mentre
l’altra rimaneva accanto alla cella.
La polenta
fu portata dopo almeno due ore, a quasi mezzanotte e Alberto era
rimasto in silenzio tutto tempo aspettando il suo ultimo pasto, che gli
fu consegnato violentemente e fu incitato a mangiare velocemente.
-Oltre il danno, la beffa: se
mi dovessero condannare a morte preferire di notte- commentò la
guardia che aveva portato la polenta al collega che si limitò a
tenere sott’occhio il prigioniero.
-Come sei silenzioso Ciro - sbottò la guardia improvvisamente- Cosa è ?Hai litigato con tua moglie?-
Ciro rispose che era
così e per questo era un po’ distratto, Alberto si
limitò a osservava i due con interesse e in silenzio,
soprattutto Ciro.
-Sì, sarà ma non
puoi farti buttare giù da lei -,Ciro annuì ancora
più enigmatico e Alberto ebbe l’intuizione che ci fosse
qualcosa che non andava . La guardia chiacchierona si voltò a
fare lo stronzetto con lui e Alberto si godette la scena.
Ciro fu
molto rapido nei movimenti, si spostò dietro il collega e con un
movimento simultaneo gli bloccò bocca e gli applicò una
presa sul collo: Alberto vide gli occhi stupiti della guardia e poi
perdere la luce della coscienza, Ciro tenne a sé la guardia e
aprì la cella del detenuto. Il ladro lo guardò colpito
mentre la guardia gli sussurrava e lo ammanettava a sé - Fai il
pazzo, chiedi di un prete-.
Alberto non se lo fece ripetere
due volte, con la massima potenza nella sua voce iniziò a urlare
che voleva un prete e Ciro lo trascinò fuori dalla cella,
tenendo ancora tra le braccia l’altra guardia rispondendo a
eventuali reclami in dialetto napoletano.
- Che sfaccima, fallo stare
zitto- lo invitò ,senza tanti preamboli, una guardia che era
dalla parte opposta del lungo corridoio e poi guardando Ciro
domandò perché il collega fosse tra le sua braccia.
-Perché non tengo un
culo! Questo qui fa il pazzo e Rocco si è sentito male- a
quell'affermazione l’altro secondino gli ripose di farsi benedire
da un prete ricchione e se volesse il suo aiuto mentre Alberto
continuava a mormorare e a lanciare improvvisamente strilli , Ciro lo
colpì in volto.
L’altra guardia lo avvisò che si sarebbe messo nei guai se
sarebbe comparso un livido sul condannato a morte ma Ciro sminuì
la raccomandazione e iniziò a camminare con quel groviglio
formato da una guardia svenuta e un pazzo piemontese: il quadretto era
inquietante. Indispettito dal comportamento di Ciro, l'altra guardia
preferì non aiutarlo più perché non voleva essere
accusato di aver maltrattato il prigioniero e lasciò a
sbrigarsela da solo..
Appena
Alberto e Ciro furono lontani dalla zona delle celle il primo
mormorò sottovoce - Mauro?-, Ciro, o meglio Mauro, sorrise e
disse che aveva un piano e se andava tutto bene non avrebbero fatto la
fine di un fuoco d’artificio illegale. Mauro portò Alberto
in una piccola stanzetta e gli disse di rubare velocemente i vestiti
della guardia e di seguirlo senza fiatare, Alberto fu rapido e con la
coda dell’occhio studiava la stanzetta, soddisfatto della
situazione: Mauro era proprio stato un complice della sua maestra.
Nonostante ciò Alberto era nervoso perché non erano stati
in molti a essere in grado di fuggire dal carcere di Poggioreale,
perché si trovava in piena città e diventare invisibili
era complicato, per cui, per quanto fiducioso in Mauro, si domandava
quale fosse il piano.
La guardia
svenuta fu ammanettata mani e piedi, con una stretta benda a cucirgli
la bocca e Alberto, con un sospiro indignato, sistemò la pistola
di servizio, affrettandosi a seguire Mauro quando fu invitato a
muoversi.
-Che cosa hai intenzione di
fare, non crederai che camuffati così, riusciremmo a scappare?-
domandò legittimante Alberto e Mauro, gli rivolse un sorriso
complice continuando a camminare speditamente verso il basamento.
Alberto era confuso, non potevano di certo scavalcare il grande muro di
pietra attorno al carcere ma andare verso la fredda terra sembrava solo
voler anticipare la loro fine.
Arrivarono
davanti a un muro scarno e freddo, Mauro lo tastò a lungo e con
una mano pulì una piccola zona in cui apparì una fessura
simile a una toppa di una porta, Alberto stava di guardia domandandosi
dove diamine fossero finiti. Quella cosa che assomigliava alla toppa di
una porta si rivelò essere tale e Mauro con le mani portò
allo scoperto il perimetro di una piccola porta e iniziò a
trafficare con la serratura con gli attrezzi del mestiere, estratti
dalla sua giacca da secondino finché la forzò: la piccola
porta si aprì e mostrò un corridoio scavato nella terra.
-Muoviti!- esortò il
ladro più anziano e Alberto lo seguì chiudendo la porta
dietro di sé e rendendola inutilizzabile per gli inseguitori,
che prima o poi sarebbero spuntati.
Mauro iniziò a
illuminare il percorso davanti a sé con una piccola torcia, era
talmente buio che Alberto fu costretto a mettere un braccio sulla sua
spalla per non cadere e gli chiese delle spiegazioni.
- La ditta che costruì
questo carcere si chiamava “Cacciapuoti fu Salvatore”-,il
nome era talmente altisonante che Alberto si sentì costretto a
sdrammatizzarlo con una risata.
-C’è una leggenda
attorno a questo carcere, si dice che fu progettato in modo da essere
inespugnabile e che il costruttore fosse così fiero da
vantarsene costantemente finché, un giorno, suo figlio
finì dentro-. Mauro continuò percependo la confusione di
Alberto.
-Però c’è
un’altra leggenda, meno conosciuta, si dice che il carcere sia
collegato con una scuola dei dintorni e posso confermarti che è
vera- Mauro indicò il lungo corridoio scavato nella terra.
Alberto
guardò intorno a sé, respirò forte e una
sensazione di freddo arrivò ai polmoni, notò che Mauro
riusciva a camminare abbastanza spedito come se avesse fatto quel
percorso tante volte ma quest'ultimo confutò la teoria di
Alberto.
-No, l’ho fatto una sola
volta quando ero bambino e come altri ricordi belli della mia infanzia,
ne ho fatto particolare tesoro. A sentire parlare d’infanzia
Alberto s’incuriosì e domandò di dirgli di
più.
-Hai mai sentito parlare del
terremoto dell’ottanta?- rispose con una domanda Mauro che
continuava a camminare così spedito che Alberto tendeva a
perdere la presa sulla sua spalla.
-Ne ho sentito parlare-.
-Allora non esisteva la
Repubblica Magna, Napoli era la città emblema dell'inefficienza
dello Stato della Repubblica Italiana. Quando successe, come al solito
, furono promessi mari e monti … tutti sarebbero tornati quanto
prima a casa ,ma ovviamente non fu così. Le persone vissero per
molto tempo nelle scuole che non erano crollate, tra cui io con
la mia famiglia-.
Alberto pensò a quella
mostruosa scena, dei civili costretti a vivere come degli affollati in
uno spazio come quello di una scuola. La vecchia Repubblica Italiana ne
aveva di peccati d’inefficienza ma la peggiore era
l'incapacità di reagire alle calamità naturali.
-Mentre vivevo
nell’istituto Tecnico Leonardo da Vinci venni a sapere di questa
leggenda. La scuola avrebbe dovuta essere collegata al carcere: indagai
e scoprii che i sotterranei della scuola portavano effettivamente al
basamento del carcere-.
Con un sorriso allegro, Mauro
si voltò a guardare Alberto e disse- Oggi stiamo percorrendo
questo collegamento e dubito fortemente che qualcun altro lo conosca-.
Rimassero in silenzio, forse a
causa del peso del racconto, e nonostante la dichiarazione della
segretezza del luogo entrambi i ladri erano ben concentrati a percepire
ogni rumore che fosse estraneo a loro passi.
-Fai attenzione, ci sono dei
gradini- ammonì Mauro che iniziò a salire lentamente
delle scale in pietra, permettendo a Alberto di attanagliarsi al suo
braccio, la torcia aveva una luce troppo debole che permettesse a due
di camminare spediti.
Quando
iniziarono a percorre le scale, di appena ventina di gradini, si
iniziò a percepire una traccia di aria fresca sotto il
penetrante odore d'umido che li aveva accompagnati fino in quel
momento. Prima d’uscire definitivamente dalla galleria, Mauro si
liberò della giacca della divisa e disse ad Alberto di fare
altrettanto per rendere anonimo il loro abbigliamento. I due si
trovarono in un cortile deserto e davanti a loro si ergeva
l’edificio della scuola, un esempio di architettura imperiale
fascista circondata da un uno spesso muro. Alberto sorpreso da quel
particolare, si dimenticò di respirare l’aria fresca di
cui era stato privato in quei giorni, e domandò a Mauro- Questa
scuola è un carcere per caso? Come mai il muro, hanno paura che
gli studenti fuggano?-.
-Credimi, se vedessi i ceffi
che girano qui potresti capire l’uso delle mura-. Alberto si
voltò, erano usciti da una specie di guardiola per nulla
nascosta, com’era possibile che nessun studente avesse avuto la
curiosità di esplorarla?Mauro lo condusse al portone principale,
che era in legno, e lo aprì con una chiave universale
evitando di far rumore.
-È rischioso, ma se
proviamo a scavalcare i muri della scuola ci vedranno le guardie dal
carcere. Distiamo da lì solo a trecentocinquanta metri e il
carcere ha un'altezza superiore.-
Alberto per
la prima volta capì che l’arte dell’arrangiarsi
rendeva i napoletani pazzi, forse addirittura più sprezzanti del
pericolo di quello che si credeva. Mauro chiuse scherzosamente la porta
della scuola dicendo- Ciao, ciao. Casettina mia-. La loro fuga non era
ovviamente finita lì. La scuola si trovava in una strada
chiamata Via Foggia e di fronte a essa c’erano una serie di
palazzotti in cui abitavano persone. Mauro condusse Alberto alla sua
auto che si trovava in una traversa a destra della scuola. L'auto di
Mauro era una vecchia Fiat che aveva addirittura la targa bianca e non
ancora quella gialla voluta dall’Unione Europa. Alberto sorrise
involontariamente a vederla, era da secoli che non vedeva un’auto
italiana e sembrò che anche Mauro, per un attimo, ricambiasse la
sua nostalgia con il suo sguardo pensieroso, Alberto aprì la
bocca per dire qualcosa ma fu fermato dall’amico con dura
occhiata.
-Non ringraziarmi ancora, fallo quando sarai al sicuro-.
Eppure Alberto non riuscì a star zitto e domandò della sua Giuditta.
-Sta bene, l’ho
recuperata in quel posto dimenticato da Dio dove hai fatto lo scambio
con quella stronza. Per fortuna che mi hai avvertito-, Alberto
lasciò andare un sospiro di sollievo, era così
preoccupato per Giuditta che pensava di morire per quello, piuttosto
che per la scarica di pallottole che avrebbe dovuto ricevere la mattina
di quel giorno. Mauro gli disse che lo stava portando al porto,
lì avrebbe avuto un passaggio da una nave merce diretta per
Cagliari. Alberto ricordava vagamente il porto napoletano, sapeva che
era uno dei più importanti d'Europa, occupava l’insenatura
naturale più a nord del Golfo di Napoli e s'estendeva per alcuni
chilometri dal centro della città verso la sua parte orientale.
Mauro guidava veloce e il
paesaggio scorreva davanti agli occhi di Alberto come i fotogrammi di
una pizza cinematografica: attraversarono l’ex piazza Garibaldi,
la piazza che ospitava la stazione ferroviaria e, un tempo, la statua
del suddetto eroe: era stata distrutta e sostituta con una costruzione
rettangolare che mostrava delle pubblicità. Alberto si
sentì disgustato, come si poteva cancellare con quello sfregio
il periodo del Risorgimento? Guardò infastidito la strada
formata dai san pietrini per non guardare la mancata raffigurazione del
glorioso eroe dei due mondi. Nonostante che fosse passato del tempo,
Alberto la ricordava la statua, rappresentava l’eroe con uno
sguardo basso, vigile e paterno sulla città come volesse
difenderla.
Mauro percepì il
malumore del piemontese, ma non disse nulla e attraversò uno dei
rami dell’incrocio della piazza per percorrere Via Marina, era il
modo più veloce di raggiungere il porto.
Via Marina
era una delle poche strade che poteva essere considerata larga in
città ed era quasi un rettilineo per tutta la sua lunghezza e
Mauro poté accelerare drasticamente, passarono davanti
rapidamente vicino a due torri diroccate che facevano parte della
chiesa della Madonna del Carmine, una chiesa molto antica e la cui
santa era molto venerata dal popolo napoletano. Infine l’auto
imboccò la strada via Agostino Depretis, che nonostante fosse
nominata come un politico del periodo del post risorgimento, non era
stato reputato importante cambiare il nome:Alberto immaginò che
fosse stato molto più facile e significativo distruggere un
simbolo come Garibaldi che l’ennesimo politico corrotto.
La via
Agostino Depretis sbucava dietro il castello Maschio Angioino , il
ladro piemontese riconobbe uno dei più importanti simboli della
città: un enorme castello dall’aspetto squadrato di colore
ocra che maestoso si imponeva sulla città. Iniziò a
scorgere le banchine del porto e rimase sorpreso che non gli fosse
rimasto impresso nella memoria, un particolare importante come quello
che stava vedendo: il porto di Napoli si trovava a ridosso della
città, le banchine e le navi sembravano parte del marciapiede e
l’enorme piazzale, occupato da un grande parcheggio
all’aperto, aumentava quella sensazione d’apertura quasi
come volesse mostrare l’apertura al mondo della città.
Eppure Alberto sapeva che i napoletani potevano essere incredibilmente
freddi e austeri se era necessario.
Davanti al parcheggio, vi era
una costruzione dall’architettura tipica del fascismo, che
fungeva da stazione marittima, in cui le persone potevano attendere
l’orario d'imbarco. Quanto sarebbe piaciuto ad Alberto osservare
i particolari di quella struttura! Ma quando Mauro frenò
l’auto, fu consapevole che non c’era tempo per simili
sciocchezze e che per lui Napoli sarebbe stata zona proibita per
parecchio tempo. Sempre se fosse riuscito a sopravvivere grazie a
quella fuga di cui non sapeva nessun dettaglio,costretto a fidarsi
completamente della capacità di qualcun altro.
Mauro
consegnò ad Alberto una busta per lettere contenente frusciante
denaro in euro, che scricchiolò tra le dita di Alberto, e una
piccola pistola, inutile tra le sue mani , che il ladro nascose in una
scarpa.
-Mi sono accordato già
con il capitano, ma possono essere molto avari-, spiegò Mauro
mentre consegnava l’ultima cosa: una maschera che Albero
indossò con il suo aiuto. Con una stretta di mano e un sorriso e
i due si salutarono, Alberto attraversò il piazzale
prudentemente e raggiungesse la banchina, dove una nave merci
dall’aspetto vissuto attendeva che la sirena desse il via libera
per abbandonare del porto.
Il capitano stava attendendo
l’ospite, era un uomo dall’aspetto piacente che
scoccò una lunga occhiata a Alberto e senza neanche aprire la
bocca, con un gesto imperioso si fece consegnare la busta contente il
denaro.
-Ti chiamerò Tonio-,
disse perentorio e Alberto non protestò , sperò solo,
guardando dietro di sé mentre saliva sulla nave il porto vuoto e
spettrale, che Mauro avesse scelto un avaro onesto e di non essere il
consegnato alla polizia padana, una volta arrivato a Cagliari.
Sperò di poter riabbracciare Giuditta ancora una volta.
Carcere di Poggioreale, 16 Settembre 2013 11 A.M.
La fuga di Alberto
Giordano aveva fatto molto discutere: il mattino seguente
l’intera popolazione mormorava, ma se il popolo parlava,
dall’altra parte, chi aveva il potere prendeva decisioni. Michela
Neri era mortificata, delusa, sconfitta e il suo disprezzo per Alberto
era stato sostituito momentaneamente da quello per se stessa. Si
trovava in una della base militari della città e partecipava
alla riunione più difficile di tutta la sua vita.
Il
Generale,seduto, la fissava con occhi severi e implacabili, accanto a
lui c’era il Ministro degli Esteri, l'uomo che Michela aveva
incontrato durante il caso di Varese. Era ferma nella sua ostinata
posizione di riposo in cui si sentiva più protetta, ben sapeva
che la sua carriera sarebbe terminata a lì a poco.
-Primo Maresciallo Neri-, disse
il Generale con voce inflessile- Avevamo un accordo-, mentre i suoi
occhi si posavano sulle spalle del soldato, Michela Neri
tentennò ma strappò dalla distintivo e consegnò il
suo grado nelle mani del Generale, che continuava a fissarla
implacabile e commentò quasi dispiaciuto.
-Sembrava così sicura-, e Michela Neri mantenne il suo sguardo, ma a che cosa serviva?
-È congedata Sergente
Maggiore Neri- quest’ultima chiuse la porta dietro di sé,
lasciando il Generale e il Ministro in un silenzio che durò solo
pochi instanti, per essere interrotto dalla preoccupazione tangibile di
quest'ultimo.
-Che cosa faremmo Generale?-
domandò e questo non rispose, si alzò e osservò il
paesaggio dalla finestra dalla stanza. Vide dall'alto l’ex
maresciallo camminare caparbiamente eretta per la sua strada e
pensò che quell'atteggiamento era la risposta.
- Sanciremo un ultimatum, se non ci consegnano Alberto Giordano ci sarà la guerra-
- Prima di ciò, la metto
in contatto anche con il Presidente americano?- domandò un
po’ timoroso il Ministro degli esteri e il suo capo annuì.
Doveva essere sicuro d’aver come alleato l’America,
convincere l'intero mondo che quella fosse una missione
antiterroristica importante e necessaria, altrimenti l’Europa
avrebbe tentato di occupare la penisola e il Generale non aveva nessuna
intenzione di farla diventare,per l’ennesima volta
,un’espressione geografica. La repubblica Magna doveva
sopravvivere.
5 Gennaio 2014 Benighton 2 P.M.
Erano passati quattro mesi
di grande fermento politico che avevano attanagliato il cuore di
Giuditta, costretta a vivere non più nella sua bella casetta con
il suo amorevole patrigno ma da un amico di famiglia in Inghilterra.
Giuditta leggeva i giornali,
ogni singola notizia faceva presagire l’inizio della guerra. I
primi mesi c’era stato un gran polverone sulla fuga di Alberto
Giordano con teorie piuttosto fantasiose, se si considerava che in
realtà una volta in Sardegna il ladro si fosse semplicemente
imbarcato per la Spagna per incontrarsi infine con la figliaccia
lì.
L’incontro aveva ridotto alle lacrime entrambi, Giuditta aveva
sempre saputo che prima o poi il momento dell'addio sarebbe
arrivato,Alberto avrebbe continuato a inseguire la sua strada non
curandosi di quello che avrebbe dovuto lasciare dietro di sé.
L'aveva abbracciata a lungo mentre le chiedeva di fare la brava e di
perdonarlo d’averla trascinata in quell’assurda storia
mentre lei lo rassicurava- Senza di te, a quest’ora starei
morendo per qualche malattia sessuale. Ti devo tanto però ce
l'ho con te! Perché preferisci l'Italia a me-, aveva dichiarato
, rossa in viso per quella imbarazzante e infantile dichiarazione ma il
patrigno le aveva baciato la fronte e accarezzato i capelli e,
cullandola dolcemente tra braccia, le disse-Sono un pessimo padre
però spero di tornare per poter aggiustare le cose-.
Giuditta
aveva tirato su con il naso incapace di smettere di piangere mentre
già con il cuore pregava che il suo patrigno tornasse vivo e
adesso, dopo quei quattro mesi dal loro ultimo incontro, pregava ancora
con tutta se stessa. La guerra scoppiò dopo che i vari tentativi
di rappacificamento fallirono e ogni possibilità di pace
scartata per sempre: Alberto Giordano era pronto a combattere per un
ideale cui aveva dedicato un'intera vita.
2 Giugno 2023 Roma 10 A.M.
Dieci anni erano passati e
con non poco rancore Michela Neri pensava che Alberto Giordano aveva
vinto:la penisola italiana era stata unificata dal ferro e fuoco della
Repubblica Magna. La guerra era durata all'incirca due anni ed era
stata brutale,la stessa Michela aveva subito la sua potenza e portava
segni visibili che avevano sfigurato in parte la sua bellezza, forse
l'unica cosa positiva che le era capitata in quei anni, in cui con la
reputazione danneggiata non aveva potuto avanzare granché nella
scala militare. Come le pesava quell’insulso grado di sergente
maggiore capo, per ovvi motivi ma soprattutto perché non le
permetteva di sapere che fine avesse fatto Alberto Giordano e lei
sperava con tutta se stessa che fosse stato ucciso dopo mille torture.
Portava
rancore, nonostante che l'unificazione aveva dimostrato la sua
validità perché lentamente il Governo della Repubblica
Magna stava perdendo il suo carattere militare a favore di uno
più civile. Michela, con disappunto, pensava che Giordano non
era mai stato l'unico pazzo che voleva quella penisola unificata: muti
per troppo tempo le persone favorevoli avevano trovato il modo di fare
qualcosa per quella nazione, anche una minuscola cosa. Si domandava
quando avrebbero infine richiamato quella strana terra" Italia" e
sperava che Giordano fosse morto così da essere incapace di
gioire della vittoria della sua lunga missione.
Nota dell'autore: Salve a tutti.E' finirà la storia di Alberto,
fatemi sapere che ne pensate qui su efp oppure ne discutiamo insieme
sulla mia pagina facebook!
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