PRIMO
TEMPO
SCENA
I
Quando
c’erano i Draghi,
la foresta non aveva quell’aria così silenziosa.
C’era
rumore, sulla costa
e sui monti; le zolle tremavano, il vento ruggiva e strideva e il cielo
aperto si
riempiva di suoni così assordanti da invertire la rotta
delle nubi e formare
gigantesche voragini in mare.
Si
vedevano danzare, giù
oltre il dirupo, con quelle ali spiegate e lucenti come un corteggio di
migliaia di farfalle variopinte dalle code serpentesche.
Quando
c’erano i Draghi,
la vita era un’altra cosa.
Si
era in simbiosi con il
pericolo, il rischio era parte integrante di ogni giornata e
c’era sempre
qualcosa da fare, giù a Berk.
Chissà
cos’era rimasto,
dell’isola dagli alti picchi rocciosi dove gli Hooligan
avevano vissuto per
sette generazioni.
Soltanto rovine, deserte e traballanti; statue imponenti ripiene di
edera e
muschio. Sentieri velati di carbone, pavimenti polverosi, lucerne
spente e
scricchiolanti.
Forse qualche tribù vagabonda si era stanziata lì
e l’aveva rivendicata come
propria.
Forse il mare l’avrebbe corrosa nei secoli a venire e le
tempeste avrebbero
cancellato le orme dei vecchi abitanti lungo le piazze, i vicoli e le
pedane.
Quando
c’erano i Draghi,
eri solo un ragazzo.
A
quel tempo, la scala
della società era ripida e dura da sormontare per
raggiungere la vetta.
Uccidere un drago era tutto, per poter diventare grandi.
D’un tratto, poi, era divenuto necessario addestrarne uno e
tenerlo in casa per
potersi sentire davvero realizzati.
Un cambiamento radicale, si può dire.
A
quel tempo, erano altri
tempi: c’era tutta un’altra maniera di trovare
risposte a ogni domanda. Il
viaggio aveva assunto un significato diverso da come lo intendono i
comuni
esseri umani: non erano la partenza e l’arrivo a contare
davvero, ma ciò che
stava in mezzo. Vivere ogni singolo momento che portava alla meta e
godere
della sua unicità.
A
quel tempo l’orizzonte
non sembrava così lontano.
C’erano altre misure.
Adesso
è tutto diverso.
Ogni cosa è al suo posto e ogni cosa verge alla
normalità. Ognuno si trova nel
luogo a cui appartiene, come Natura vuole, e quei pochi uomini che
avevano
osato sfidare le sue leggi per la brama di andare oltre hanno imparato
la loro
lezione.
L’uomo
alla terra, il
drago alla leggenda.
È
così che stanno le cose.
Eppure
sembrava così duro
accettare che fosse giunta la fine di un sogno... Ti hanno strappato
via le ali
e tutti quei poteri che ti rendevano diverso e al di sopra della tua
specie.
Ti hanno detto che sei solo un uomo, esattamente come tutti gli altri,
e che
non sei nessuno per cambiare ciò che è stato
predisposto.
Ora,
finalmente, il mondo
gira allo stesso modo per tutti.
Eppure
sembrava che la
vita finisse lì, che nulla sarebbe più stato come
prima, che le cose avrebbero
perso il loro significato e che tu, piccolo grande uomo, saresti
rimasto senza
uno scopo.
Ed
è stato sorprendente
capire che no, la vita continua.
Prosegue
inesorabile, come
il respiro delle onde che si abbattono sulla scogliera che cade a
strapiombo,
lì, a pochi passi da te.
Il
tempo passa e cambia, e
cambi pure tu.
Cambi
sempre, persino
adesso che te ne stai seduto a gambe incrociate con l’aria di
chi aspetta
qualcosa e non riesci a smettere di guardare a ovest.
Là,
dove il mare finisce e
si precipita dentro il cuore della Terra. Là dove sei stato
una volta e dove,
forse, non rimetterai più piede.
Forse.
Forse
un giorno lo
troverai di nuovo, quel mondo nascosto.
Forse un giorno rivedrai lui. Basta solo
aspettare.
Aspettare
ancora.
E nel
frattempo la vita
continua, da questa parte del mondo.
«Un
giorno» disse bassa
voce, chiudendo gli occhi.
L’erba
si muoveva
scomposta tra le sue dita e i capelli seguivano il flusso del vento che
li
spingeva via dalla sua fronte.
Era
talmente immerso in
quello stato di meditazione, davanti al rosseggiare del tramonto, da
non essere
più capace di distinguere i rumori attorno a sé.
Qualcosa
stava strisciando
nell’erba, dietro di lui, ma neppure quel fruscio
riuscì a destare la sua
attenzione.
Finché
non scattò all’improvviso.
«Roarrrrr!»
Hiccup
sobbalzò un momento
prima che una spinta lo scuotesse e lo piegasse in avanti sotto un peso
scalciante.
«Aaaah!»
gridò, nel pieno
di un drammatico spavento. «Aiuto, un Gronkio!»
«Non
sono un Gronkio,»
rispose il misterioso assalitore, «sono il pirata
più cattivo di tutto il
mare!»
«Un
pirata?» domandò,
opponendo resistenza. «Allora non ho davvero
speranze!»
Il
pirata dalle grosse
trecce rotolò in avanti con una capriola e si
preparò a sferrare il colpo
finale: «Preparati a morire!»
«No,
no! Pietà!»
Il
colpo fatale fu
sferrato con una spada invisibile, e Hiccup non poté far
altro che spalancare
la bocca e toccarsi nel punto colpito, vicino al cuore.
«Il
capo di Berk...»
pronunciò, con tono basso e teatrale, «esala...
l’ultimo... respiro.»
Cadde
di peso
all’indietro, sull’erba, con gli occhi chiusi e le
braccia tese.
«Vittoria!»
gridò il
pirata dal volto dipinto, impastando le consonanti delle parole che
pronunciava. «Nemico affondato, missione compiuta!»
Alzò
le braccia, fece un
paio di salti e poi si fermò, notando che lui non si muoveva.
«Papà.»
Si
chinò in avanti e
sventolò la mano davanti alla sua faccia, parlando con una
vocina così dolce da
essere irresistibile: «Però se muori
così non vale!»
Lui
aprì un occhio: «E
come devo morire, allora?»
«Così!»
esclamò,
stringendosi il collo con le mani ed emettendo rantoli e singulti con
la lingua
penzoloni.
«Accidenti,
che morte
crudele» si alzò a sedere. «Ora
però tocca a me colpire.»
Lei
spalancò gli occhioni
azzurri, mentre lui portava le mani avanti. «La mia
è l’arma più potente, la
più temuta, la più devastante di
tutte...» agitò le dita come fossero
tentacoli. «Il solletico!»
Lei
cercò di scappare, ma
lui l’afferrò e la tirò indietro.
«No!»
gridò in preda alle
risate. «Il solletico no!»
«Non
scappi più, eh?»
Lei
continuò a ridere come
un’ossessa, ribaltandosi e cercando di proteggersi la pancia
e le ascelle.
«Aiutooo!»
«Ma
come aiuto? Non eri il
pirata più cattivo di tutti i mari, un attimo fa?»
si fermò, e lei restò
sdraiata di traverso sulle sue gambe.
«Non
vale» ripeté,
fiatando tra le risate.
«Non
vale» la
imitò, per poi guardare meglio le strisce nere che aveva
sulle guance. «Ma che
ti sei messa in faccia?»
Lei
balzò in piedi e fece
un salto, perché ferma non ci poteva stare, e si mise
impettita come le era
stato insegnato. «Prima regola degli scout
Thorston» pronunciò, inceppandosi da
sola con le sillabe. «La mi... mimizzazione.»
«La
cosa?»
Lei
s’impegnò nella
pronuncia: «Mitizzizzazione».
Lui
sorrise, per quanto
era buffa: «Mimetizzazione?»
«Sissignore!»
rispose, con
quello strano accento sulla esse.
Hiccup
scosse il capo. Le
lezioni di Testa di Tufo nella classe dei piccoli scout le avrebbero
dato alla
testa, prima o poi. «Vieni»
l’attirò a sé, si leccò il
pollice e cominciò a
passarglielo sulla guancia per rimuovere le strisce di pittura.
«Non va neanche
via, questa roba.»
«Ha
detto Tufo che la
prossima volta ci mettiamo tutti il fango dappertutto, per la mimitizzazione.»
«Mi-me-tiz-za-zio-ne.»
«Mimetizzazione.»
«Brava»
continuò a
strofinare sul colore, per poi arrendersi perché non si
toglieva. «Se Testa di
Tufo continua a farvi infangare tutti, glielo rovescio io un secchio di
fango
in testa.»
Lei
sghignazzò con aria
birichina e Hiccup si alzò in piedi. «Vi siete
divertiti?»
«Sì!»
«Sono
curioso di sapere
che avete combinato, ma prima andiamo a casa» le tese la
mano. «Vieni, Zeph.»
«Già
a casa?» mugugnò lei,
afferrando le sue dita.
«È
tardi, vedi?» indicò il
tramonto. «E poi in questi giorni saremo solo io e te,
perché la mamma è andata
a nord, ricordi?»
«A
comprare le cose per
noi.»
«Esatto.»
La
bimba guardò a ovest,
il sole che ormai si era nascosto dietro la soglia del mare.
«Quando torna, la
mamma?»
«Fra
qualche giorno» la
rassicurò. «Nel frattempo dobbiamo fare i bravi e
cercare di non distruggere
casa, ché sennò quando torna ci brontola a tutti
e due.»
Lei
si posò l’altra manina
sulla bocca: «Mamma che si arrabbia no...»
«Hai
capito bene.»
Si
avviarono lungo la
radura, in direzione del villaggio.
«Papà.»
«Hm?»
«La
posso fare anche in
casa, la mimetizzazione?»
SCENA
II
Un
lieve, incerto
fischiettare.
Comincia
un motivetto e
poi, acquisendone memoria, si avvicina di qualche passo e allunga la
mano per
attirare la sua attenzione.
«Ricordi
la nostra canzone,
Val?»
Nel
silenzio guardi tuo
padre, ma non hai capito quali siano le sue intenzioni. Le ha tolto di
mano il
recipiente dell’acqua e ora la sta guardando con aria di
sommessa preghiera.
Per
ogni
mar navigherò
ma
non avrò paura...
Valka
ha lo sguardo basso.
È indecisa, esitante.
Triste.
Le
onde io cavalcherò
se tu
mi sposerai.
Lei
è mia madre,
pensi. È così strano
poterlo dire davanti alla realtà delle cose...
L’avevi immaginata così tanto,
negli ultimi vent’anni, da esserti costruito
un’immagine tutta tua.
La
guardi e noti una donna
alta, forzuta, dai capelli lunghissimi, il naso piccolo e gli zigomi
tondi e
pronunciati.
L’avevi
immaginata così
tante volte che adesso le sue sembianze sembrano plasmate in una
materia
inafferrabile, come quella di un sogno.
Tuo padre le sta accarezzando la guancia col dorso delle dita e ti
sembra
un sogno.
E invece è qui, ora.
Né
il sole, sai
né
il freddo mai, m’im...
«M’impedirà
il ritorno!»
Skaracchio irrompe nella strofa con la grazia di un cinghiale. Gli
sguardi
severi che si ritrova puntati contro lo fanno sedere immediatamente e
chiedere
scusa.
Sdendato lo sta guardando con le orecchie dritte e persino Broncio si
è
svegliato.
Stoick
butta fuori un
sospiro così forte che la pazienza sa solo lui, dove
trovarla.
Si
volta e torna a
guardare la sua amata moglie per tentare ancora. Dunque le prende la
mano,
intrecciando le dita con le sue.
Se
mi prometterai il tuo cuor...
Le
stringe la mano sul
cuore, sopra quel ruvido manto di barba chiazzata dal bianco degli anni.
Lei
non si è mossa. Anzi,
ha lo sguardo perso e ancora più triste di prima.
E
amore...?
Desiste.
Forse è tutto perduto. Lei non ricorda, oppure ha
dimenticato, oppure non sente
più le stesse cose.
Chi ci riuscirebbe, dopo vent’anni di distacco, dopo
vent’anni di crescita
passati in mondi completamente diversi?
Eppure,
i suoi occhi
turchesi sembrano riprendere una pacata scintilla.
E
amore per l’eternità...
Stoick
solleva lo sguardo
con sorpresa e un’aria di dolcissimo sollievo. Lei si volta
e, ricordando le
parole, misura alcuni passi fino a superarlo.
Amato
mio, oh
mio tesor,
tu
cerchi di stupirmi...
Si
ferma e alza il pugno,
in memoria di una danza dimenticata.
...
parole non ti serviranno
ti
basterà abbracciarmi!
Nasce
il sorriso, sulle
sue labbra, mentre Stoick caccia una risata e dà inizio al
ballo.
Anelli d’or ti
porterò,
ti
canterò poesie,
da
tutto ti proteggerò,
se tu
vorrai sposarmi!
Si
tengono le mani,
incrociano i piedi, saltano, fanno giravolte e sbagliano, riscoprendo
il
ricordo di essere innamorati e giovani.
Anelli d’or non
servono,
non
voglio le poesie,
le
mani tue desidero...
Skaracchio
balza in piedi
come un forsennato.
...
da stringer tra le
mie!
Si
stanno divertendo come
matti, mentre il grande fabbro prende a scalciare l’aria fino
a colpire per
sbaglio il muso di Sdentato, che si ritrae immediatamente prima di
rimetterci
un occhio.
Ti
abbraccerò, ti bacerò
e danzerò per
sempre,
con
te felice io sarò
non
smettere di amarmi.
Li
guardi e sorridi,
finché lui non ti solleva da terra e ti fa girare in tondo
in quella danza
strampalata che si fa sempre più veloce.
Per
ogni
mar navigherò,
ma
non avrò paura,
le
onde io cavalcherò
se tu
mi sposerai!
Stoick
solleva sua moglie
da terra per il gran finale e Skaracchio dà prova delle sue
note lunghe con una
mano sul petto. Non sai se somiglia più a un gatto morente o
al cigolio di un
vecchio portone.
Sdentato
si strofina le
zampe sulla testa come a implorare di farlo smettere.
«Sto cantandoooooo!»
«Skaracchio»
lo richiami.
«D’accordo,
basta.»
Loro
si stanno
abbracciando, e ridono, e si guardano negli occhi.
Valka,
ovvero la donna che
dovresti chiamare mamma, ha un modo
così grazioso di muoversi e di
sorridere che ti rende davvero felice averla finalmente
conosciuta.
Ma nessuno in questo momento sembra essere felice come tuo padre, che
le parla,
con voce tremante: «Pensavo di morire, prima di poterla
danzare di nuovo
insieme».
Valka
sbarra gli occhi,
sorridendo: «Non c’è bisogno di
ricorrere a misure così drastiche!»
Lui
scuote la testa
ridacchiando e s’inginocchia. «Per te, mia
adorata... farei tutto.»
Lei
è quasi senza parole,
mentre le tiene le mani e la guarda dolcemente dal basso.
Il grande Stoick l’Immenso non è mai sembrato
così piccolo di fronte a
qualcuno.
«Tornerai
a casa, Val?» le
chiede, colmo di speranza. «Vuoi essere di nuovo mia
moglie?»
È
come ricominciare tutto
da capo. Riprovarci, nonostante tutto.
Lei
stringe le labbra e
non può che guardarlo con forte emozione.
Un’emozione che sembra persino averle
tolto la capacità di parlare.
Ci
pensa Sdentato, a
passarle dietro e a spingerla contro di lui.
Lei
è incerta, forse un
po’ impaurita di fronte alla possibilità di una
vita diversa da quella a cui si
era abituata nei vent’anni precedenti. Ma la consapevolezza
che lui l’avesse
perdonata e che fosse pronto a ricominciare la sta riempiendo di gioia.
«Possiamo
essere una
famiglia» le dice, mentre Sdentato la guarda con gli occhioni
dolci e tu ti unisci
a quel cerchio tanto bello da non sembrare vero. «Che ne
dici?»
Lei
lo guarda, e poi
guarda te, che le sorridi con aria gioviale, impaziente di una
risposta.
I suoi occhi sono lucidi, ma nel breve silenzio che segue si
può sentire tutta
la commozione che precede la sua risposta.
«Sì.»
*
«Capo?»
Una
voce lo strappò via ai
ricordi e lo fece atterrare nella realtà, proprio davanti
alla tavola rotonda
della Grande Sala dove la musica leggera di un’arpa aveva
cessato da poco quel
motivetto a lui caro.
«Eret»
Hiccup si voltò a
sinistra. «Che succede?»
«Non
è successo nulla»
rispose l’ex-cacciatore ormai trentenne. «Ho solo
una proposta da farti.»
Hiccup
notò che portava
tra le mani un grosso rotolo di pergamena, ma l’occhio cadde
subito sulle tre
figure alle sue spalle.
«Ho
solo una proposta
da farti» Moccicoso lo imitò muovendo le
dita della mano a mo’ di papera.
«Che tipo di proposta, eh Eret?
Sentiamo.»
Gambedipesce,
dietro di
lui, roteò gli occhi:
«Quand’è che crescerai,
Moccicoso?»
«Bella
domanda» rispose
Eret senza voltarsi. «A saperlo...»
Testa
di Tufo grugnì una
risata sommessa.
«Cosa
devi dirmi?» Hiccup
si mostrò curioso.
«Allora»
Eret aprì la
mappa e la guardò, aggrottando la fronte. «No,
aspetta. C’è un errore.» La
poggiò sul tavolo, prese il carboncino dalla scarsella e si
chinò per tracciare
la correzione.
Moccicoso
fece una smorfia
e Testa di Tufo, nel frattempo, non si fece mancare la domanda del
giorno:
«Come va la vita in assenza di Astrid, Hiccup?»
Hiccup
gli lanciò
un’occhiata e Gambedipesce si grattò i lunghi
baffi annodati.
«Immagino
bene» Moccicoso
si passò un’unghia tra i denti. «Ci
sarà sicuramente più silenzio.»
«Dubito
che ci sia
silenzio, con Zephyr in giro per casa» commentò
Gambedipesce.
«Quando
il gatto non c’è,
i topi ballano.»
Tufo
mostrò il palmo della
mano: «Se vuoi posso darti qualche consiglio su come fare...
la donna di casa».
«Hai
imparato da Testa
Bruta?» rispose Hiccup con un mezzo sorriso.
«Scherzi?
Mia sorella è
troppo stupida per sapere come badare a una casa e a dei
bambini.»
Gambedipesce
si batté la
mano sulla fronte e Hiccup fece un’espressione stranita:
«Se hai intenzione di
usare lo stesso metodo del consulente matrimoniale,
passo».
«Mio
caro, piccolo Hicky»
Tufo allargò un sorriso beffardo, grattandosi la
sua vera barba,
finalmente cresciuta ma non ancora abbastanza lunga. «Io sono
a tua completa
disposizione come consulente per qualsiasi cosa! Come sai, io ci so
fare anche
con i bambini...»
«Oh,
l’ho notato» rispose
ironicamente il Capo.
«Non
deve essere facile,
gestire tutto il lavoro nel villaggio, la bambina, e la
casa...»
«Hiccup
la casalinga»
Moccicoso si guardò le unghie sporche. «Ti ci
vedo, sai?»
Hiccup
sbuffò, ormai
abituato alle loro prese in giro. «Sinceramente sono un
po’ preoccupato. So che
dovrei stare calmo perché mia madre e le altre donne sono
andate ai Mercati del
Nord con lei, ma mandarla su una nave proprio adesso... mi fa stare in
ansia,
ecco.»
«Potevi
evitare di darle
il permesso» disse Tufo, credendo di avere la risposta a ogni
domanda.
«Permesso?»
Hiccup
lo guardò come se avesse raccontato una barzelletta.
«Puah!»
sputò Moccicoso.
«Astrid che chiede il permesso, questa è
buona!»
«Penso
che non la
fermeresti nemmeno legandola con le catene» sorrise Eret.
«Ormai,
conoscendola...» Dispiegò la mappa davanti a
Hiccup e fece un respiro. «Ecco la
mia proposta» enunciò. «Andare a
ovest.»
Nel
silenzio che seguì,
solo Tufo prese parola con aria un po’ spaesata: «A
fare cosa?»
«Beh,»
Eret parlò come se
fosse la risposta più ovvia del mondo, «a
esplorare, no?» Si rivolse poi a
Hiccup: «Molte tribù dell’Arcipelago
hanno già salpato in quella direzione. Ai
tempi in cui lavoravo per Bludvist ho avuto modo di viaggiare molto e
di
sentire racconti e testimonianze di esploratori che hanno trovato terre
fertili
e brulicanti di tesori».
«Oh,
certo,» disse
Moccicoso, «e tu credi alle leggende e alle chiacchiere di
qualche idiota?»
«Le
leggende non sono
soltanto frottole, ma hanno sempre un fondo di verità.
Questo ormai è palese.»
Hiccup
si limitò a
grattare il mento colorito di barba, senza aggiungere parola.
«Ma
ti ascolti?» Moccicoso
agitò l’elmo cornuto. «Ora noi dovremmo
impiegare risorse e salpare per andare
là fuori chissà dove solo perché
l’hai proposto tu?»
«Ehi»
Eret alzò un
sopracciglio. «Occhio a come parli.»
«Io
parlo come mi pare, e
tu sei un...»
«Basta»
lo interruppe
Hiccup, accigliato. «Eret, continua.»
«Stavo
dicendo che non ci
sono prove concrete, ma solo testimonianze orali. Anche il Mondo
Nascosto
sembrava una leggenda, ma abbiamo visto noi stessi che esiste per
davvero» fece
una pausa, allargando le braccia verso i suoi interlocutori.
«E poi, insomma,
siamo vichinghi! Non siamo fatti per restare fermi nello stesso posto!
Andiamo
a ovest, Hiccup. Andiamo a vedere cosa c’è al di
là di ciò che vedono i nostri
occhi» spostò la mappa per enfatizzare sul
discorso. «Tu non vuoi saperne di
più?»
«Non
dargli retta, Hiccup»
Moccicoso incrociò i piedi. «È un
novellino e crede di poter già parlare come
un Hooligan.»
«Io
mi fido di Eret»
rispose il giovane Capo. «È il mio braccio
destro.»
«Il
tuo bra-» Moccicoso si
portò una mano alla bocca, scandalizzato. «Ma se
non vale la metà di me!»
«Potrai
dirlo solo quando
sarai diventato più alto della mia cinta» rispose
Eret, alquanto seccato.
«Beh,
a te gli dèi hanno
donato l’altezza, a me il cervello»
affermò l’altro con la sua tipica punta di
superbia. «Me l’ha detto Valka.»
«E
quando, cinque anni
fa?»
«Seriamente
spera ancora
di abbordare la madre di Hiccup?» mormorò Tufo in
direzione del suo
quasi-cognato.
«Io
posso» rispose
fieramente Moccicoso, che aveva sentito ogni parola.
«Tranquillo,
è solo un po’
più grande di te» puntualizzò il
gemello dei Thorston.
«E
saggia» aggiunse
Gambedipesce.
«Bah!
Siete solo invidiosi
perché sono il suo favorito. Anzi, posso affermare con
certezza che preferisce
me alla sua stessa nipote, come futuro erede.»
«Ed
ecco che ci
risiamo...» Gambe poggiò i gomiti sul tavolo.
«Sentito?»
Tufo si rivolse
a Hiccup, puntando Moccicoso con il pollice. «Ce
l’ha con la tua prole.»
Moccicoso
mise il broncio
e difese le sue ragioni con ardore: «Ormai è
scritto. Lo sanno tutti che Hiccup
avrà una valanga di figli e che mi uccideranno per avere il
trono tutto per
loro. Mi spiace per voi, marmocchi, ma è il Grande Moccicoso
il prossimo nella
lista di successione».
«Perché
allora non mi
uccidi subito, Moccicoso?» gli chiese Hiccup, con un sorriso
bello sarcastico.
L’altro
restò zitto un
momento. «Troppo facile» rispose con aria da snob.
«Diventeresti un martire.»
«Se,
se...» fece
l’altro, tornando a consultare la mappa di Eret.
«Dunque, è interessante, come
proposta. Voi che ne pensate?»
Gambedipesce
rispose un
po’ titubante: «L’idea di per
sé è bella, ma... non è un
po’ pericolosa?»
«Più
che altro,» aggiunse
Tufo, stavolta deciso a riflettere, «non credo ci converrebbe
incontrare il
gemellino pazzo di Drago Bludvist o un altro Grimmel per la strada...
Capite
cosa intendo.»
«Come
abbiamo saputo,
Grimmel aveva tre acquirenti, tutti famosi condottieri di
tribù lontane» Eret
cominciò a passeggiare attorno al tavolo, riflettendoci su.
«Griselda la Grave
e l’altro, Chaghatai Khan, si sono ritirati dopo aver
subìto la sconfitta
nell’ultima battaglia coi Draghi.» Si
fermò. «Di Ragnar, invece, non abbiamo
più notizie.»
«Com’è
che conosci tutta
questa gente?» Moccicoso s’insospettì,
ed Eret invocò pazienza dall’alto:
«Dicevo solo che non dovremmo incontrare ostacoli di questo
genere, durante i
primi viaggi».
Hiccup
unì le punte delle
dita e ponderò la questione con un atteggiamento che lo
faceva sembrare più
grande dei suoi anni. «D’accordo, Eret. Ci
penserò su.»
Eret
annuì con risolutezza
e Moccicoso reagì come se avesse perso punti a una partita.
Testa
di Tufo invece
approfittò del silenzio per dare uno dei suoi numeri,
sbottando al massimo con
tutto il volume della sua voce:
«Io
ci sto! Chi ci sta?!»
SCENA
III
«Verso
ovest...»
Fece
scorrere le dita
della mano destra sulla mappa, dispiegata sul grande tavolo
dell’atrio davanti
alla cucina. I disegni delle isole e i loro nomi si articolavano lungo
la
superficie di pergamena, arricchiti di contorni a inchiostro e macchie
di
colore.
Continuò
sulla stessa
linea, fino a raggiungere il punto che coincideva perpendicolarmente
con il
tracciato di una cascata in mezzo al mare, sotto la dicitura
“Mondo Nascosto”.
Non
sapeva la precisa
collocazione della casa ancestrale dei Draghi, ma l’aveva
immaginata, ragionata
e abbozzata per avere un’idea di quale direzione prendere in
un giorno futuro.
La
bussola era l’occhio,
sempre rivolto a occidente.
Oltre il tramonto.
Fece
un sospiro e
proseguì, fino a portare i polpastrelli oltre i bordi del
foglio.
Le
parole di Eret
continuavano a risuonargli in testa come se provenissero da dentro. Non
dalla
memoria, ma dalla parte più profonda dell’animo.
“Siamo
Vichinghi!” gli
aveva detto. “Non siamo fatti per restare fermi nello stesso
posto! Andiamo a
ovest, Hiccup. Andiamo a vedere cosa c’è al di
là di ciò che vedono i nostri
occhi. Tu non vuoi saperne di più?”
Per
quanto cercasse di
essere ragionevole, realista, lungimirante, previdente... nel suo
sentire
sapeva che, prima o poi, sarebbe partito.
Voleva
andare per mare,
scoprire, apprendere di più sulle bellezze della
Terra.
Era come un bisogno inesauribile, una fame insaziabile. Dalla prima
esplorazione alla Riva del Drago all’ultimo trasloco sulla
Nuova Berk, non
aveva mai smesso di cercare.
Sì,
sarebbe partito.
Avrebbe lasciato casa per giorni, settimane o mesi interi, se
necessario.
Avrebbe sondato ogni costa, ogni marea, isole e oceani fino a
raggiungere l’ignoto...
E lei?
Un
pensiero s’insinuò
nella corrente dei suoi piani.
Come
farà, lei, senza di
te?
Alzò
gli occhi e portò lo
sguardo sull’altra parte del tavolo, verso destra.
Zephyr
stava disegnando,
tutta concentrata mentre tracciava linee col carboncino e intingeva le
dita nel
colore liquido per passarle sul foglio di pergamena. Sembrava immersa
nel suo
mondo.
Ma
soprattutto come farai
tu, senza di lei.
Aveva
già intuito cosa
stesse combinando, ma decise comunque di chiederglielo
perché adorava sentirla
parlare. «Che fai, amore?»
«Un
disegno» gli rispose,
senza staccare gli occhi dal suo lavoro.
No,
non ce l’avrebbe mai
fatta a starle lontano per così tanto tempo.
Lei
immerse la manina
nella ciotola piena di colore rosso, la fece gocciolare e poi
andò a schiacciare
il palmo sul foglio per completare la sua opera d’arte.
«E
cosa stai disegnando?»
le domandò, ormai preso dalla curiosità.
Lei
era dolcissima, nel
modo in cui contemplava soddisfatta la sua ultima creazione, con quelle
guanciotte da baci e quella frangetta color castagna lunga fin sopra
gli occhi.
«Ho
finito» dichiarò.
«Posso
vedere?»
Lei
acconsentì e gli passò
il foglio sopra il tavolo, così che potesse guardarlo nella
sua interezza.
Hiccup
osservò la
superficie ancora fresca con un sorriso di tenerezza. Le uniche cose
ben
riconoscibili erano tre figure umane stilizzate e un grande sole rosso
in alto
a destra.
«Questa
sei tu?» le
chiese, per avere chiarimenti.
«No,
quella è la mamma.
Quella lì, lì sono io... e quello sei
tu» si allungò un poco per indicare
meglio col ditino sporco di colore. «E quello è il
bambino che è nella pancia
della mamma.»
Hiccup
curvò un poco la
testa. «Ma è un maschietto.»
«Sì!»
«Come
sei sicura che sarà
un maschietto?»
«Perché...»
ci pensò. «Perché
io voglio un fratellino maschietto.»
«E
se invece fosse una
bambina?»
«Un
fratellino femmina?»
Hiccup
ridacchiò. «No, una
sorellina. Se fosse una sorellina ci rimarresti male?»
«No,
perché in realtà è un
fratellino maschietto, e io gli darò un nome mio.»
«Proprio
convinta, eh?»
Lei
intrecciò le dita
delle mani e si morse la bocca con gli incisivi.
«Mi
piace, la tua
convinzione» guardò ancora il foglio. «E
questi qui in cielo sono uccelli?»
«No,
no» rispose lei,
scuotendo la testa. «Sono draghi.»
Hiccup
la guardò, poi
sorrise e alzò l’opera con entrambe le mani.
«È bellissimo» le disse.
«Questo
lo appendiamo insieme agli altri, che ne dici?»
Lei
annuì e lui le fece
l’occhiolino. «Su» concluse.
«Lavati le mani, che è ora di cena.»
Zephyr
scese giù dallo
sgabello per recarsi al catino dell’acqua. Hiccup
guardò divertito quella
testolina muoversi di corsa dietro lo spigolo del tavolo e
andò al pentolone
che aveva messo a scaldare sul focolare acceso.
«Che
mangiamo, papà?»
Lui
tolse il coperchio per
scrutare nella bocca fumante del paiolo.
«C’è la zuppa di verdure della
mamma.»
Lei
si voltò a guardarlo
con un’espressione stizzita, lasciando le mani sospese a
gocciolare.
Come poteva, con tutte le cose buone che c’erano nel mondo,
darle proprio le
verdure?
«Che
c’è?» le chiese,
sentendola emettere un lieve grugnito.
«Non
mi piacciono le
verdure.»
«Come
no?»
«Bleah!»
«Ma
dai...»
«E
non mi piace la
minestra della mamma.»
Lui
prese il mestolo di
legno in mano. «Ma se l’hai sempre
mangiata.»
«Beh
certo, perché sennò
si arrabbia» rispose lei con fare ovvio. «Ma a me
non mi piace, è piena di cose
strane che galleggiano.»
Lui
trattenne una risata,
nel vedere che era vero. «Ma no» disse, cercando di
farle cambiare idea. «Non
senti? Questa qui ha un profumo delizioso.»
Allargò le narici e cercò di capire
a quale sostanza somigliasse quell’odore. Non essendone
certo, rimestò un poco
col cucchiaio e ne assaggiò una piccolissima
quantità, quasi una punta.
Era
un’esplosione di
sapori. Di quelli forti, però.
Un sentore salato dal retrogusto dolceamaro, e poi qualcosa che
somigliava a un
ibrido tra un broccolo e una carota.
Strinse
le labbra e cercò
di ingoiare senza farsi vedere dalla figlia.
Per
tutti i draghi, Astrid,
pensò, mentre il suo
palato lo implorava per dell’acqua. Ma che
cavolo hai messo in questa
minestra?
«È
cattiva?»
«No,
è buonissima»
dichiarò, cercando di bloccare la tosse. «La devi
assaggiare.»
Lei
aveva messo il
broncio. «No.»
Hiccup
si voltò e si
schiarì la gola per ribadire le sue imposizioni.
«La mamma ha detto che quando
torna vuole trovare la minestra finita. Quindi noi la
mangeremo. Tutta.»
«Non
l’hai assaggiata,
papà.»
«Sì,
invece.»
«Ti
ho visto. Ne hai presa
una puntina piccola così!» lo accusò,
mimando la quantità con il minimo spazio
tra pollice e indice.
«Non
è vero.»
«Sì
che è vero.»
«Numi
del cielo» roteò gli
occhi e si avviò al tavolo con due ciotole piene.
Lei
prese un bicchiere, si
arrampicò sullo sgabello di prima e si portò in
alto sulle ginocchia per
versarsi l’acqua da sola.
Lui
spostò da una parte
quel casino di oggetti che c’era sul tavolo (quel tanto che
bastava per
lasciare lo spazio per mangiare), poi mise le ciotole ai loro posti,
l’una di
fronte all’altra, e aggiunse il pane e la birra fresca per
sé.
«Allora?»
la richiamò,
visto che non accennava a prendere in mano il cucchiaio.
Lei
restò a braccia
incrociate a guardare la minestra nel piatto.
«Vuoi
andare a letto senza
cena?»
Lei
annuì.
«Mi
dispiace, ma devi
mettere qualcosa sotto i denti o ti rigirerai nel letto per tutta la
notte»
prese in mano la posata e gliela puntò contro.
«Mangia.»
«No.»
Hiccup
le lanciò uno
sguardo seccato. Come ci si comporta in questi casi?
«Ebbene?»
domandò severo.
«Chi è che comanda, qui?»
«Hm»
lei ci pensò un
attimo. «Mamma?»
Senti
un po’ questa. Mi
sono perso qualcosa, forse.
Ragionò
qualche istante, e
non gli venne in mente altra maniera per risolvere la questione che non
fosse
quella del metodo “alla Stoick”. Suo padre lo usava
sempre, quando lui era piccolo.
«In
qualità di capo,»
esordì con tono autoritario, «ti ordino di
mangiare quella minestra.»
Zephyr
cambiò l’intensità
dello sguardo e sciolse la presa delle braccia.
Per
Thor, sta funzionando?
«La
mangio se la mangi
pure tu» propose lei, come ultima offerta.
«Ma
io sto mangiando.»
«No,
papà. Non hai ancora
mangiato niente perché non ti piace.»
«Ho
detto che è deliziosa.
Adesso la mangiamo insieme, d’accordo?» raccolse
una cucchiaiata piena e lei lo
imitò. «Pronta?»
Zeph
annuì, non poco preoccupata,
e mise in bocca il cucchiaio solo quando poté accertarsi che
lui avesse fatto
la stessa cosa.
«Visto?»
le disse,
masticando lentamente. «Te l’ho detto che
è buoniss...» ti tappò la bocca con
una mano e poggiò il gomito sul tavolo per trattenere una
spinta proveniente
dallo stomaco, che si stava esplicitamente rifiutando di ingerire
quella roba.
Zephyr
si tappò la bocca
con le mani e strizzò gli occhi, e nel vederlo fare la
stessa cosa si mise a
ridere con le guance gonfie di brodo.
«Non
ridere!» la intimò,
ma ormai era troppo tardi: lei stava gemendo per le risate e la
situazione era
talmente critica che non poté più trattenersi.
Impiegò uno sforzo immane per
deglutire e, una volta compiuto l’atto, buttò
fuori la lingua e afferrò il
bicchiere per sciacquarsi la bocca.
Lei
stava ridendo così
forte, davanti a quella scena, che il liquido le uscì fuori
dal naso.
«Basta,
non ce la faccio»
dichiarò, cercando di riprendere fiato.
Zephyr
tossì e sputò la
quantità di minestra rimasta, un po’ alla cieca,
sia nella ciotola che sul
tavolo, e poi cercò di soffiarsi il naso con le dita.
Guardò la mano sporca di
muco e la pozza di minestra davanti a sé. «Che
disastro...» disse.
Hiccup
stava facendo i
gargarismi con la birra. «Oh, miei dèi»
anelò forte. «Questo brodo potrebbe
uccidere un Grugno Zoppo nel giro di un minuto!»
«Papà?»
Si
voltò e la vide, in
quella situazione critica, quindi andò a prendere uno
straccio pulito e l’aiutò
a rimuovere i residui dal viso. S’inginocchiò per
guardarla dal basso e
cominciò a ridere, nel rendersi conto che aveva ragione lei:
«Ti sei smoccicata
tutta».
«Anche
tu!» gli rispose,
prendendo il panno e passandoglielo intorno alla bocca, sui baffi corti
e sul
pizzetto. Lui si lasciò ripulire per bene e poi le sorrise
teneramente. «Mangiamo
qualcos’altro, che dici?»
«Hm-hm»
acconsentì. «Ma
cosa?»
«Tesoro,
questa è una
questione di sopravvivenza. Per cui», si alzò in
piedi, «cosa ti va?»
Lei
lo guardò da seduta e
rispose. Non usò né giri di parole, né
mezze misure, e andò dritta al punto: «I
dolcetti».
«I
dolcetti...» puntò la
dispensa. Forse non era proprio la cena ideale,
ma aveva troppa
fame per pensarci su. «Ci sto» disse.
Andò
a prenderli e tornò
con il vassoio di legno coperto da un panno di lino.
Non
è che la stai
viziando? gli
chiese una vocina interiore.
Può
darsi, si
rispose, ma in fondo
qualche volta ci voleva, uno strappo alle regole. Scoprì il
tagliere bello
pieno di panetti dolci e profumati: qualità garantita dal
fornaio del
villaggio.
Lei
si leccò i baffi e
allungò la manina verso la pietanza tanto desiderata.
«Ehi»
la fermò, prima che
potesse darsi alla consumazione più sfrenata. Lei lo
guardò con occhi attenti,
temendo qualche ammonizione, finché lui non
mostrò inaspettatamente uno sguardo
tenero, dando il primo morso.
«Mi
raccomando» masticò.
«Non dirlo alla mamma.»
*
Mettere
a letto Zephyr
Haddock era come cercare di ammansire un capretto
imbizzarrito.
Soprattutto perché i capretti, quando vanno di matto,
cominciano a correre e a saltellare
dappertutto. Anzi, ricordava di aver visto cuccioli di capra molto
più
tranquilli di lei.
Astrid
aveva rinunciato a
cantarle le ninne-nanne già da molto, molto tempo; Hiccup,
invece, che per
disperazione ci aveva provato di recente, una volta aveva finito per
addormentarsi prima di lei.
C’erano
solo due cose che
potevano farle venire sonno: leggere un capitolo del Libro dei Draghi,
oppure
ascoltare una storia. Poteva essere una storia qualunque, sia di un
episodio
della mitologia, sia del ricordo di una delle tante avventure che
avevano
vissuto mamma e papà quando erano giovani Cavalieri di
Draghi.
Lei
si buttò a sedere sul
letto che già indossava il camicione da notte, lungo fino
alle caviglie.
Afferrò il suo pupazzetto preferito, una sorta di Uncinato
Mortale a quattro
zampe che un tempo era appartenuto a Hiccup e che era poi passato a
lei. Valka
l’aveva dovuto rammendare in alcuni punti perché,
da quanto era vecchio, col
passare degli anni aveva subìto dei danneggiamenti.
«Dunque,
signorinella che
non dorme mai» cominciò Hiccup, sedendosi sul
letto. «Cosa potrei raccontarti,
prima di dormire?»
«Una
delle vostre
avventure nell’Arcipelago» esclamò con
un sorriso frizzante. «La più pericolosa
di tutte!»
«Uh,
sono state tutte pericolose,»
mise in chiaro, «dalla prima all’ultima. Vediamo,
fammi pensare...»
Lei
lo guardò riflettere,
incrociando le gambe e dondolandosi avanti e indietro.
«Ti
ho raccontato di
quando siamo finiti per la prima volta sull’Isola della
Melodia?»
«Hm...?»
«Sì,
quando siamo finiti
nella trappola di un Canto Letale e, dopo averla scampata in uno
scontro con un
Tamburo Furente, ne siamo usciti quasi del tutto sordi?»
Lei
sghignazzò. «Perché
sordi?»
«Perché
il Tamburo Furente
emette dei suoni fortissimi capaci di stordire, che dico, uccidere un
uomo a
poca distanza! Quel suono terribile entra nelle orecchie e danneggia
tutti i
timpani. Insomma, semplicemente, fa restare sordi per un bel
po’ di tempo.»
Lei
aveva messo le mani
sulle orecchie, impressionata da quella descrizione. «E
poi?»
«Insomma,
durante il
nostro primo viaggio oltre i confini di Berk ci capitò di
finire nella trappola
di un Canto Letale...»
«Che
cos’è un Canto
Letale?»
«È
un drago pericolosissimo!
Guarda, ti faccio vedere» si alzò per andare a
prendere il Libro dei Draghi
sullo scaffale e tornò a sedersi, sfogliandolo.
«Ecco qui.»
Glielo
passò e lei se lo
posò fra le ginocchia piegate per osservare meglio le
pagine. Portò l’indice
sul titolo e lesse, molto lentamente: «Can-to
Le-ta-le». Strinse i
denti, adocchiando il disegno. «Perché si chiama
così?»
«Lo
abbiamo chiamato così
perché questo drago aveva una sua tattica, per attirare le
prede. Praticamente
emetteva dei suoni particolari, simili a un canto, appunto, come quello
delle
sirene. In questo modo riusciva ad attirare gli altri draghi nel suo
territorio, e a quel punto... tack!»
Lei
sobbalzò.
«Li
colpiva con uno sputo
di ambra che li intrappolava in un bozzolo di pietra dura, impedendo
loro di
muoversi.»
«E
poi?»
«E
poi li lasciava lì e se
li pappava tutti quando aveva fame.»
Zeph
era inorridita e
curiosa allo stesso tempo. Guardò ancora il disegno che ne
riproduceva
accuratamente le sembianze, un po’ spaventata
dall’idea che fosse esistita
davvero una creatura simile.
«Vedi
che bel drago?»
«Sembra
una farfalla colorata»
disse stropicciandosi un occhio. «Però fa
paura...»
«Beh,
un po’ sì. Era
gigantesco.»
A lei
scappò uno
sbadiglio.
«Quando
il sonno arriva,
eh?»
«Non
ho sonno» ribatté
lei, contorcendosi con le braccia per non dare a vedere le palpebre
semichiuse.
«Come
no... Su, dai, a
nanna. Continueremo il racconto domani.»
Lei
si portò indietro per
raggiungere l’orlo della coperta e si fermò un
momento prima. «Papà?»
«Dimmi.»
«Tu»,
stropicciò il
pupazzetto, «vuoi fare altre avventure?»
Hiccup
restò un momento senza
parole: con tutte le domande che lei faceva ogni giorno avrebbe dovuto
aspettarsi, prima o poi, un dubbio sull’argomento.
«Beh»
cercò di essere
sincero, ma neppure troppo concreto nella risposta. L’ultima
cosa che voleva
era farla preoccupare o, ancor peggio, ferirla.
«Può
darsi» disse. «È
probabile che un giorno andrò via per un
po’.»
«E
io posso venire con
te?»
«Se
sarai abbastanza
grande, sì.»
Lei
guardò giù. «Andrai
sull’Isola della Melodia?»
«Non
proprio...» sorrise
appena. «Voglio andare a ovest.»
«È
lontano, ovest?»
Lui
prese fiato e rispose,
cautamente: «Un po’».
«E
cosa c’è, là?»
«Non
lo so ancora. Dovrò
scoprirlo.»
«Starai...
starai lontano
tanti anni?»
Hiccup
la guardò un
momento con il fiato sospeso. «Vieni qui» le disse
un momento dopo.
Lei
gattonò verso di lui e
si mise seduta sulle sue gambe, lasciandosi stringere nel suo
abbraccio. Lui le
lasciò un bacio sui capelli e disse: «Non
riuscirei mai a stare così tanto
tempo lontano da voi tre».
«Allora
pochi giorni?»
«Saranno
piccoli viaggi,
più o meno pericolosi, ma voglio che tu sappia una
cosa.»
«Che
cosa?» chiese, con la
sua voce piccola e carica di innocenza.
«Che
anche se qualche
volta staremo lontani e ci mancheremo, io e te staremo sempre
insieme.»
«Sempre
sempre?»
«Sempre»
poggiò la guancia
sulla sua testa. «Attaccati e appiccicati come una colla. Te
lo prometto.»
«Appiccicati
come
l’appiccicaticcio del Canto Letale.»
«Esatto.»
Benché
tutte quelle
coccole la stessero facendo addormentare, Zephy non si trattenne dal
dire
quello che sentiva: «Ti voglio bene,
papà».
Hiccup
sentì stringere il
cuore, ma non lo diede a vedere. Lo sguardo di quegli occhi blu e la
dolcezza
di quelle parole non avevano prezzo, per lui.
«Anch’io
ti voglio bene»
le rispose. «Ma solo un po’ di
più.»
Lei
gli lanciò un’occhiata
di sfida, seppur velata dal sonno: «No, io di
più».
«E
io ancora di più.»
«E
io più e più di te.»
«E
io allora cento più in
più dei tuoi.»
Lei
si stava confondendo,
ma diede la risposta finale: «E io centomiglia-migliardi in
più di te».
«Va
bene,» Hiccup scoppiò
a ridere, «hai vinto.»
Lei
assentì soddisfatta e
andò a coricarsi. Lui l’aiutò a
rimboccarsi le coperte e spense tutte le
candele, tranne quella che stava sul suo comodino. Le diede la
buonanotte con
un bacio sulla fronte e uscì dalla camera, socchiudendo la
porta.
Al
piano di sotto c’era
quell’atmosfera che lui amava tanto: il silenzio. Giusto lo
sfrigolio del
focolare e i rumori della notte ovattati dalle pareti di legno della
casa.
Amava
il silenzio e la
solitudine perché gli avevano sempre permesso di riflettere
e di liberare la
mente, sin da quando era bambino. Era una condizione di cui aveva
necessità, a
volte: doveva staccarsi dagli altri e ritirarsi in compagnia di se
stesso.
È
più facile tirare fuori
il meglio di noi e scendere alle conclusioni, quando si è da
soli.
È più facile guardarsi dentro.
Poi
ci sono quelli che
riescono a vedere oltre e che riescono a capirci anche nel mezzo del
silenzio
più assoluto.
Con lui era sempre
così: bastava uno sguardo per intendersi,
come se ci fosse una connessione invisibile e indivisibile.
Era semplicemente straordinario.
Ora
che aveva molto su cui
riflettere, più di quanto non facesse già per
rimettere a posto i ricordi
sparsi e ammassati nei cassetti della sua memoria, gli veniva spontaneo
chiedersi come si sarebbe comportato il vecchio Stoick. Che cosa
avrebbe detto.
Partire
o non
partire.
Quando farlo, come farlo e quanto aspettare.
Ne sarebbe davvero valsa la pena?
Il
suo sguardo assorto
slittò sulla parete.
*
«Stizzabifolco
ha
decisamente ragione» proferisce il Capo col suo vocione,
allargando le braccia.
«Questi sono stati i nostri migliori anni. Niente
è più importante della pace:
la pace tra di noi, la pace con i vicini e la pace con i
Draghi.»
Sospiri
amaramente e gli
volti le spalle. Sulla parete è proiettata la mappa luminosa
dell’Occhio di
Drago, l’antico oggetto che campeggia in mezzo al tavolo del
Consiglio nella
Grande Sala, attorniato da Skaracchio, Sven, Stizzabifolco, Mulch e
Bucket.
Sdentato è a capotavola, con le ali tese e le zampe ancorate
sugli spigoli come
attivo partecipante della riunione.
«Ma,
detto questo, lascia
che ti chieda una cosa» continua Stoick rivolto al padre di
Moccicoso, che a
quel punto è messo sull’attenti. «Quando
io e te quel giorno abbiamo avvistato
Alvin, e tutto il Consiglio ci ha detto di lasciar perdere, che abbiamo
fatto?»
«L’avete
distrutto alla
grande!»
«Grazie,
Skaracchio.»
«Piacere
mio» risponde il
fabbro, dandosi una botta in testa con la protesi a martello.
Stoick
poggia entrambe le
mani sul tavolaccio: «Quando rapirono Valka e io corsi a
cercarla, voi potevate
fermarmi?»
«Beh»
ribatte Skaracchio,
«tecnicamente sei il Capo, quindi no.»
Stoick
assottiglia gli
occhi: «Bravo. Giusta osservazione, ma sai che cosa
intendo».
Tu in
realtà non lo
capisci, che cosa intende. Forse. Continui a guardare le macchie
luminose
proiettate sul muro di pietra e sai che desideri andare là
fuori con tutto te
stesso.
È il loro permesso, che ti serve.
«Voglio
dire,» Stoick si
volta e ti raggiunge, «pensate alla cosa più
importante per voi. Chiedetevi
onestamente quanto siete disposti a viaggiare per ottenerla. Cosa
rischiereste?»
Eccolo
qui. Poggia la mano
sulla tua spalla e ti offre il suo sostegno. Ti giri e lo guardi, e
guardi il
suo sorriso.
«I
Draghi sono al centro
della vita del ragazzo» dice rivolto ai suoi consiglieri.
«Così è, e così
sarà
per sempre. Non potrei impedirgli di andare neanche se volessi.
Perciò»,
conclude, «sarà meglio appoggiarlo.»
Si
volta verso di te e ti
guarda, stringendoti le spalle con le sue grosse mani. Tu lo guardi
incredulo,
e sei talmente felice che non riesci a rispondere.
«Coraggio,»
ti dice, «vai
a vedere cos’è che ti sta chiamando. E quando lo
troverai, Berk sarà sempre
pronta ad accoglierti.»
SCENA
IV
Gli
capitava ancora di
sognarlo, il Mondo Nascosto.
Quelle
notti in cui la
mente si sentiva libera di riportare in superficie quei ricordi che
alla luce
del giorno sembravano svaniti.
E
invece erano ancora lì,
vividi e intatti.
Un
rumore assordante
d’acqua che precipita e vaporizza dentro il cratere che si
trova esattamente ai
confini del mondo.
Ribolle
il magma, sotto di
voi.
Tempestosa
annusa l’aria e
si lascia guidare dall’istinto.
Lei sa qual è la strada da prendere.
Scende
di quota ed entra
in una grotta bassa. Ti tieni saldo ad Astrid e, guardandoti intorno
nel buio,
noti una luce bluastra prendere vita da sotto.
Masse
luminescenti si
muovono fluide sotto il pavimento d’acqua che si estende in
quello spazio
sotterraneo.
Non
hai parole, non riesci
a realizzare in quale posto ti trovi.
Alzi
gli occhi, ed eccole:
altissime, innumerevoli torri rocciose ricoperte di funghi
bioluminescenti
azzurri e verdastri.
Le
squame di Tempestosa
riflettono quei colori, e improvvisamente si ricopre di luce.
Astrid
è attonita, e tu
non puoi fare a meno di ridere per lo stupore.
«Guarda»
dici indicando in
basso.
Creature
splendenti
nuotano sotto di voi come grandi mante, verso il limite dello stagno
che si
affaccia sul paesaggio della Foresta di Funghi.
Nessuno
prima è mai stato
lì. A nessuno è mai stato concesso di varcare
quel luogo proibito all’umanità.
Così vivo, caldo e ancestrale.
Una
rete di ampie cave,
innumerevoli stanze e tunnel in cui si alternano stalattiti e
stalagmiti
floride di piante acquatiche.
Guglie,
pinnacoli e
formazioni rocciose su cui si trovano nidi pieni di uova ed embrioni
che
palpitano di vita.
Poi
una costellazione
infuocata si mostra sopra le vostre teste. Si muove, scende verso il
basso.
Astrid
sorride e allunga
la mano per afferrare i piccoli Fiammalesta che volano e ronzano a
migliaia
attorno a voi. Alzi il braccio e ti illudi di toccarli,
finché Tempestosa non
scende ancora.
Vedi
centinaia di cascate
crollare dai cappelli piatti dei funghi millenari, cresciuti sulle
imponenti
colonne che si alternano nella stanza più grande, quella che
verge alla luce
dell’abitacolo centrale.
Vi
scostate per non farvi
vedere e atterrate in un punto nascosto dalla vegetazione. Tempestosa
vi lascia
e riprende il volo per unirsi ai suoi compagni di nascita.
«Esiste
davvero...»
mormori, muovendoti tra i diamanti e i coralli fino a raggiungere il
punto che
ti consente di avere una vista completa sull’Isola del Re, il
cuore del mondo.
Astrid
ti segue,
circospetta, mentre tu ti meravigli davanti a quella moltitudine di
rettili che
danzano all’unisono verso il soffitto di
quell’immensa caverna ricolma di luce.
Non
ne hai mai visti così
tanti in vita tua.
Soprattutto,
non ti
aspetti di riconoscerne uno, che si ferma a testa alta sul ciglio del
precipizio accanto alla sua compagna.
«Sdentato...»
Ti
alzi in piedi, ma la
mano di Astrid blocca la tua azione sul nascere.
E a
quel punto ti svegli.
*
«Sdentato...»
I
suoi occhi si aprirono e
focalizzarono sulle linee delle travi del soffitto.
Si
rese conto solo allora
di aver parlato nel sonno.
Non
che fosse la prima
volta – era già successo –, ma
l’idea lasciava comunque una sensazione strana;
come se avesse vissuto da un’altra parte per molto tempo e si
fosse risvegliato
dopo anni nella vita reale, colto impreparato e alla sprovvista nel
letto di
quella camera in cui dormiva da ormai cinque anni.
Quel
letto che era troppo
grande per una persona sola.
Si
girò su un fianco e si
avvolse nel rumore vellutato della coperta, per poi finire col naso
immerso nel
cuscino. Fu in quel momento che si accorse di aver dormito ancora dalla
parte
di Astrid.
Lo
faceva sempre, quando
lei non c’era: prima allungava una mano verso destra e poi ci
si portava sopra
fino ad abbandonarvisi completamente.
Non sapeva spiegare il perché, ma era come se quella parte
riservata a lei
trattenesse costantemente la sua presenza.
La
sua impronta invisibile
sulle assi di legno, la stoffa del lenzuolo di lino stropicciata,
l’odore dei
suoi capelli sul guanciale.
Quegli
strani unguenti dal
nome sconosciuto che lei si passava sulle ciocche ogni sera prima di
andare a
dormire erano una carezza per l’olfatto. Un profumo che era
diventato parte di
lei e che gli teneva compagnia quando ogni sera andava stanco a
coricarsi,
quando lei lo abbracciava e gli chiedeva com’era andata la
giornata, quando
discutevano a bassa voce sui più vari argomenti, dai
problemi del villaggio al
puro senso della vita, oppure quando facevano l’amore al
buio.
Di
quei momenti,
ricordava, una delle parti migliori era andare a cercare su di lei
quelle
essenze e indovinarle. Soprattutto quando si mescevano al sudore, alla
saliva,
al caldo e al rumore dei baci che prendevano vita nei successivi, brevi
istanti
di eternità.
Nessun
paragone con nulla.
Quei capelli che scorrevano come velluto e diventavano onde di torrenti
in
piena e...
Aprì
un occhio e guardò lo
sgabello e i mobili accostati alla parete.
Possibile
che appena
sveglio stesse già pensando ai capelli di sua
moglie?
Buon inizio: sempre meglio pensare alle cose belle, la mattina, e lui
lo sapeva
bene che forse, in quel posticino, anche morirci non gli avrebbe fatto
male.
Morirci.
Ma
che pensi a morire, tu,
che oggi ne hai da fare più di cento?
Aprì
entrambi gli occhi e
cacciò un sospiro.
Il
tempo di imbacuccarsi
era rimandato. Prima c’era qualcuno a cui pensare.
Mise
giù il piede e il
moncone che, sospeso a mezz’aria sotto la gamba sinistra dei
pantaloni, attese
di entrare nella protesi e di sentire il solito click della
montatura. Allacciò lo stivale, si alzò con un
andazzo che per un giovane di
ventisei anni era tutt’altro che energico e si
trascinò verso la porta,
sbadigliando come un Incubo Orrendo colpito dalle prime luci
dell’alba.
Si
stropicciò gli occhi e
si grattò la barba su tutta la lunghezza della mandibola,
prima di aprire la
porta e di dirigersi verso la camera adiacente.
«Zephy»
disse con voce
impastata, spingendo l’anta col palmo della mano.
«È ora di fare colazione.»
Sbadigliò
ancora ed entrò,
senza fare caso al silenzio che riempiva l’intera stanzetta.
Sembrava più un
sonnambulo, che un uomo appena alzato dal letto.
«Amore,
su» continuò. «Dai
una mano a tuo padre, che oggi dovrà sgobbare come montone
da carico...» si
rese conto solo in quel momento che il letto era vuoto.
La
coperta era disfatta e
il camicione buttato sul cuscino. La tunichetta del giorno prima e
calzoncini
non c’erano.
Biascicò
un poco e la
chiamò ancora, mentre i suoi sensi cominciavano a
svegliarsi. «Zephy?»
Niente.
«Ma
per tutti i draghi...»
si spalmò la mano sul viso, immaginandosi cosa stesse
combinando già di prima
mattina.
Andò
alle scale e le
scese, un gradino per volta, temendo che fosse uscita senza avvertire o
che
fosse successo qualcosa di funesto o terribile, e quando giunse
finalmente
nell’atrio si guardò intorno.
Vuoto.
«Hm»
grugnì, ascoltando
quell’aria così fastidiosamente tranquilla. La
chiamò di nuovo, facendo tre
passi verso il tavolo: «La signorina Zephyr Haddock
è richiamata in cucina a
fare colazione per volontà dell’ordine
costituito», pronunciò ad alta voce,
sentendosi uno stupido perché probabilmente lei non era
nemmeno in casa. «Ogni
atto di ribellione sarà punito»,
proseguì, «con il sequestro di
dolcetti per dieci anni interi!»
A
quel punto sentì uno
scricchiolio piccolo piccolo provenire dal gruppo di mobili e cesti al
di là
del focolare di pietra.
Hiccup
si versò il latte
fresco in tutta calma e poi bevve a sorsi, poggiando le dita robuste
sulla
tavola ancora sporca delle briciole della sera prima. «Dove
sarà finita, quella
bambina?» andò al focolare e bevve ancora,
distrattamente. «Ma se la trovo...
Uh, se la trovo!»
Un
lieve battito, in basso
a destra.
Guardò
in quella direzione
e abbozzò un sorriso, senza sapere che qualcosa –
o qualcuno – lo stesse osservando
in silenzio da sotto il mobile.
«Birbantella...»
Andò a
prendere la colazione nella dispensa: tortini ripieni di frutti di
bosco,
freschi di stagione, avvolti in pasta di pane morbida. «Si
sta perdendo una
colazione coi fiocchi,» prese la ciotola e
l’annusò, «perché questi,
ora, me li
pappo tutti io.»
Zephyr
poggiò le manine
sulla bocca e si rannicchiò ancora di più sotto
il mobile. «Oh, no...»
mormorò.
«Oh,
sì!» Hiccup ne
assaggiò uno, tornando indietro con una risata malevola.
«Sono tutti miei.»
Lei
non si lasciò
corrompere e si mosse furtiva, puntando i piedini avvolti dalle calze
di lana e
le maniche ingombranti della tunica con estremo silenzio.
Osservò
il piede e la
protesi di suo padre dirigersi ancora verso la dispensa, quindi
approfittò per
uscire allo scoperto e muoversi di corsa, svelta e agilissima, per
andare a
nascondersi dietro l’angolo che portava alle scale.
Si
appiattì contro la
parete, leccandosi il labbro con un sorriso birichino, poi prese a
salire i
gradini camminando all’indietro.
Hiccup
udì subito gli
scricchiolii provenienti dall’alto, e poi dal piano di sopra.
Ormai allettato
di giocare a nascondino, decise di fare la sua mossa.
Arrivò
in fondo alle scale
e, di fronte al silenzio totale, non poté non accorgersi del
suo miglioramento
nelle strategie furtive. «Sei furba, uhm?»
Arrivato
in cima, cominciò
a roteare l’indice per scegliere la stanza in cui
cercare. Sinistra,
ovviamente.
Varcò
la soglia e incrociò
le braccia, pronto a sferrare la sua arma senza muovere un dito.
«Zephy?» la
chiamò, senza ricevere risposta. «Ma dove si
sarà nascosta, io mi domando.
Certo che è proprio impossibile trovarla!»
Zeph
ridacchiò
silenziosamente, poggiando il mento sulle assi del pavimento sotto il
lettone
dei suoi. Era quasi completamente al buio, se non per lo spiraglio di
luce che
veniva dalla porta e che le permetteva di vedere la precisa posizione
di suo
padre.
«Beh,
se è davvero furba
come crede di essere, di certo non si è nascosta sotto il
letto di mamma e
papà» alzò il naso. «Lo sanno
tutti – ma proprio tutti! – che lo spazio sotto
il letto è il nascondiglio preferito dei troll...»
Zephyr
trasalì,
guardandosi intorno nell’oscurità, e le venne
paura.
«Si
nascondono sempre lì,
al buio. E appena sentono un bambino entrare nella loro
tana...»
Lei
schizzò fuori,
urlando. «Aiuto, aiuto!» fece due salti e
andò a nascondersi dietro le sue
gambe. «I troll!»
Hiccup
sogghignò, poi la
guardò mentre si aggrappava al suo ginocchio e puntava il
letto con occhi
spiritati.
«To’!
Guarda chi c’è» le
poggiò una mano sulla frangetta.
«Trovata.»
«Ma...
ma...» lei restò
confusa. «Tu mi avevi detto che i troll hanno le tane nella
foresta!»
«Infatti
è così. I troll
non entrano mai nelle case delle persone» le fece
l’occhiolino. «Era uno
scherzo.»
Lei
spalancò la bocca,
puntandogli il dito contro. «Barone!»
«Si
dice imbroglione,
mia cara.»
«Non
è giusto!»
«Lo
so, ho giocato sporco.
Ma ora dobbiamo scendere a mangiare, che io devo uscire presto, oggi.
Andiamo?»
Lei
incrociò le braccia e
s’impuntò. «Hmmm.»
«Hmmm...»
si abbassò e la
prese in braccio, indagando sul quel musino imbronciato. «Che
sei, arrabbiata?»
Lei
guardò dall’altra
parte e non rispose.
«Lo
sai, pulcino, che se
non avessi usato il metodo della furbizia non sarei mai riuscito a
trovarti?»
«Perché?»
«Perché
sei sempre più
brava a nasconderti. Di questo passo diventerai invisibile!»
Lei
trasformò quella
smorfietta in un piccolo sorriso. «Mi mimetizzo bene?»
«Assai»
le schioccò un
bacio sulla guancia e la rimise giù, e lei alzò
il dito in aria: «Quando sarò
più grande farò fuori tutti quanti i
troll!»
«Ah
sì?»
«Sì!»
rispose lei,
energica. «A cominciare da te!»
«Me?»
drammatizzò Hiccup.
«Mi stai dicendo che sono un essere peloso, brutto e
puzzolente?»
Lei
chiuse i pugni,
divertita. «Soprattutto puzzolente!»
«Oh,
beh, se le cose
stanno così» la prese sottobraccio e la
tirò su, facendola ciondolare a destra
e a sinistra. «Allora fatti sotto!»
Lei
si dimenò e cominciò a
ridere il doppio quando lui la trattenne per la pancia, a testa in
giù.
«Potere
della mimitizzazioneeee!»
«Ti
mimetizzo io, se non
vieni subito a fare colazione» scherzò, trascinato
dalle sue risate.
Lei
buttò giù le braccia,
come le scimmie appese agli alberi, mentre la frangetta e le trecce
sfatte
penzolavano sotto di lei. «Ho fame... tanta fame... fame
quanto un troll!»
«Sì,
ma... figliola,»
sbuffò lui, avvicinandosi alle scale, «come fai ad
avere tutta questa energia
di prima mattina?» Fece il primo scalino, mentre lei
continuava a ridere.
«Spiegamelo.»
*
Non
passò molto tempo,
prima che la colazione – o meglio dire abbuffata –
si concludesse. Hiccup
guardò il cestello delle tortine rimasto vuoto e
constatò che non era male,
considerando che le aveva comprate il giorno prima.
«Allora,»
disse iniziando
a sparecchiare, «cosa farai oggi, con gli altri
bambini?»
Lei
scolò tutto il latte
dal bicchiere e allargò le braccia: «Kaboom!»
«Kaboom,
eh?» lui
non seppe se ridere o preoccuparsi. «Mi
raccomando...»
«Mi
raccomando!» lo imitò
lei, con la sua tipica pronuncia bambinesca. «Non distruggete
il villaggio, non
rubate dalla bottega di Skaracchio, non date fuoco al sederino di Testa
di
Tufo...» ormai sapeva quelle raccomandazioni a memoria.
«Non
solo» aggiunse
Hiccup. «Non andate da soli nel bosco, non mettetevi in
situazioni pericolose e
tu non allontanarti dal villaggio senza dir nulla» le
puntò contro l’indice per
enfatizzare sull’ultima parola.
«Hmmm»
lei si stropicciò
gli occhi con le dita.
«Poi,
come sempre, fai la
brava, non fare a botte con gli altri bambini...»
Lei
storse la bocca: «Ma
la mamma dice che...»
«La
mamma intende dire che
si può arrivare alle mani, ma solo quando necessario per
difendersi.»
Lei
restò zitta. Non era
proprio quello che la mamma le aveva detto, in realtà.
«Nemmeno con i pugni?»
«No.»
«Con
l’ascia?»
«Tu
non hai un’ascia.»
«Mamma
ha detto che me la
regalerà una!»
Lui
si grattò dietro la
testa, pensando a cosa dire: «Sì, ma
l’ascia servirà per imparare a combattere,
non per rivoltarsi contro gli altri bambini».
«Aaaah»
rispose lei, che
ora aveva le idee più chiare.
Hiccup
non poté fare a
meno di ripensare a quella volta in cui, quando avevano quindici anni,
Gambedipesce aveva gridato contro Astrid dopo essersi beccato
l’ennesimo pugno
in piena pancia.
“Perché
devi sempre essere
così violenta?”
“Non
è violenza” gli aveva
risposto lei con grande stile. “È
comunicazione.”
«E
se qualcuno mi dice una
parolaccia, oppure mi spinge, oppure mi dà un
pugno?»
«Tu
devi cercare di ragionare
e restare nel giusto. Ricordatelo, Zeph: mai usare la violenza,
perché non
porta a niente, se non al peggio.»
Lei
ragionò sul senso di
quel discorso e lui le sorrise.
«Bisogna
cercare di essere
gentili, e questo vale con tutti» le disse. «Tranne
che con Moccicoso,
ovviamente...» scacciò l’aria con la
mano. «Lui è un caso a parte.»
CONTINUA…
Sintesi
illuminante | Zephyr
Haddock è la
primogenita di Hiccup e Astrid, comparsa per la prima volta
nell’epilogo del
terzo film. Durante questa vicenda, la sua età si aggira tra
i quattro e i
cinque anni.
L’idea
dei piccoli scout
Thorston è ripresa dall’episodio Loyal Order of Ingerman (sesta
stagione di Race to the Edge),
quando i gemelli si sono
prodigati nell’addestramento dei nipotini di Gambedipesce.
Griselda
la Grave (Griselda
the Grievous), Chaghatai Khan e Ragnar la Roccia (Ragnar
the Rock)
sono tre personaggi comparsi nel terzo film.
L’episodio
del Canto
Letale accennato nel racconto di Hiccup e l’ultima scena sono
ripresi da Imperfect Harmony,
terzo episodio della prima stagione di Race to
the Edge.
Il
piccolo episodio
ricordato da Hiccup è ripreso dalla serie I
cavalieri di Berk, undicesima puntata (Heather
Report, Part 2).
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