Pene
d’amor perduto
Con
l'Istituto, per
quel giorno, aveva terminato. Non aveva altri appuntamenti –
aveva evitato di
prenderli di proposito – e il giro di visite ai ragazzi si
era concluso poco
dopo l'ora di pranzo. Le sorveglianti lo avevano informato con
accuratezza dei
progressi degli ultimi arrivati, una coppia di gemelli recuperata dalla
strada
a una settimana dalla morte della loro madre, e il Dottore se ne era
rallegrato. Quei piccoli – un bimbo e una bimba di appena
quattro anni –
avrebbero potuto crescere sani e forti, continuando a vivere nel suo
Istituto.
Per quanto si fossero già scontrati con la durezza e la
violenza del mondo
degli adulti, erano ancora abbastanza piccoli da poter dimenticare, da
lasciarsi alle spalle tutto come ci si scorda di un brutto sogno. Era
molto
fiducioso e sperava con tutto il cuore che presto una coppia di
possibili
genitori si facesse avanti per adottarli.
Non c'era altro da
fare, quindi. Era riuscito a ottenere un pomeriggio libero, proprio
come aveva
desiderato. Sarebbe tornato a casa, si sarebbe rinfrescato e poi
sarebbe uscito
di nuovo, come da programma. Perciò, riepilogato mentalmente
il da farsi,
recuperò alcuni documenti dalla scrivania dello studio, li
ripose nella borsa
di cuoio e strinse la cinghia della valigetta con forza, attraversando
la
stanza a grandi passi e chiudendosi con uno scatto la porta alle spalle.
Quando si trovò
all'aria aperta, la luce abbacinante del sole lo investì con
violenza,
costringendolo a schermarsi gli occhi con la mano. Sentì il
braccio destro
dolere a causa del movimento brusco, ma resistette e lasciò
vagare lo sguardo
lungo la strada, che lo accecava ulteriormente riflettendo la luce del
giorno.
Aspettò per un paio di minuti, poi, da dietro un angolo,
comparve Cyrus
Montrose.
«Perdonate l'attesa,
Dottore», gli disse l'uomo dopo aver accostato la carrozza al
marciapiede.
Lasciò le redini e si affrettò ad aprire lo
sportello del mezzo.
«Non preoccuparti,
Cyrus», lo rassicurò lui. Poi, perplesso,
domandò: «Dov'è Stevie?»
«L'ho lasciato a
casa, Dottore. Credo che stesse studiando».
La bocca di Laszlo si
tirò in un sorriso scettico: «Sarebbe un miracolo,
se fosse davvero così.
Andiamo».
Sbatté lo sportello e
Cyrus si impadronì di nuovo delle redini. La carrozza
girò verso la direzione
di provenienza e pian piano scivolò lungo la strada,
addentrandosi nel cuore
cittadino.
L'aria era quasi
irrespirabile. Il caldo del pomeriggio non lasciava scampo e non era
neppure
ancora finita la primavera! Chissà come si sarebbe tramutata
New York entro la
fine dell'estate: Laszlo immaginò che la cappa di calore
l'avrebbe resa una
vera fornace infernale.
Immerso in queste
considerazioni e sventolandosi il viso con la mano sinistra, si
abbandonò allo
schienale compatto del sedile e chiuse gli occhi. Non si sentiva
stanco, ma il pensiero
di ciò che doveva ancora fare lo rese malinconico. Di colpo
sentì il peso degli
anni gravargli sulle spalle, come se ne avesse avuti molti di
più di quelli che
gli corrispondevano davvero. Il ricordo di quella mattina lo
assorbì.
La fine di maggio
aveva lasciato il posto ai primi, tiepidi giorni di giugno. La luce del
sole,
trapelata come una lama dallo spiraglio delle persiane accostate, aveva
pian
piano attraversato la stanza, correndo sulle coperte del letto fino a
sfiorargli il viso. Quando quell'aura dorata gli aveva solleticato le
palpebre,
sfumando i sogni che lo tenevano ancora prigioniero, il Dottore aveva
socchiuso
gli occhi con attenzione, sentendoli pesanti nelle orbite.
Aveva indugiato
parecchi minuti prima di trovare il coraggio di affrontare il nuovo
giorno. Si
era voltato su un fianco, affondando il volto nel cuscino, quasi a
voler
recuperare le immagini sfuggenti del sogno che ormai si era diradato,
poi era
tornato a stendersi sulla schiena e la luce lo aveva schiaffeggiato di
nuovo. A
quel punto, sicuro di non poter riprendere sonno, aveva strizzato gli
occhi
verso l'orologio da taschino abbandonato la sera prima sul comodino e
aveva
sbirciato l'orario. Erano appena le sette, ma il sole sembrava
già alto.
Laszlo si era messo a
sedere, le gambe ancora avvolte nelle lenzuola, e aveva sospirato.
Aveva
lasciato che lo sguardo si abituasse alla fievole luminosità
che ammantava la
camera e infine, scostate le coperte, aveva inforcato le pantofole,
ciabattando
fino all'armadio.
Era rimasto a
fissare il guardaroba a lungo, indeciso sul da farsi. La consapevolezza
che
quello appena iniziato non fosse un giorno qualunque gli aveva annodato
lo
stomaco e già prima di scendere al piano inferiore aveva
capito che provare a
fare colazione sarebbe stato del tutto inutile. Perciò, dopo
aver afferrato uno
dei completi più leggeri che possedeva, lo aveva poggiato
sul letto e con molta
calma aveva iniziato a vestirsi. Aveva faticato come al solito
nell'indossare
la camicia: non era riuscito a far scorrere la stoffa sul braccio
destro e gli
ci erano voluti alcuni tentativi prima di riuscire nell'impresa, con il
risultato di aver sudato come un operaio in un cantiere quando il sole
picchia
forte sulla testa. La situazione lo aveva innervosito e quando le
stesse
difficoltà si erano ripresentate per la giacca, l'aveva
strattonata via e
appallottolata sulle coperte sgualcite, emettendo un sordo grugnito
esasperato.
Era crollato a sedere sul bordo del letto e prima ancora che se ne
accorgesse
aveva preso a singhiozzare, la testa piena di ricordi e gli occhi che
prudevano
a causa di lacrime che si era sforzato di ricacciare indietro.
Solo dopo essersi
calmato, inspirando ed espirando per regolarizzare il battito, aveva
recuperato
la giacca. L'aveva tesa davanti a sé, cercando di eliminare
qualche piega, e
infine ce l'aveva fatta. Neppure per un secondo aveva pensato di
chiedere aiuto
a Cyrus o Stevie: non dovevano vederlo in quello stato, per nessun
motivo al
mondo. E poi, quello della vestizione era un rituale che era
appartenuto – e lo
sarebbe sempre stato – solo a lui e a lei.
Aveva finito di
prepararsi quando mancavano circa venti minuti alle otto. Aveva
sostituito le
ciabatte con dei mocassini – e li aveva benedetti tra
sé e sé: l'unico
vantaggio che trovava nell'estate ormai prossima era mettere da parte i
maledetti stivali con i bottoni in stoffa che gli causavano tanto
fastidio –
poi, uscendo dalla stanza, aveva imboccato le scale e aveva raggiunto
la
cucina, dove aveva trovato Stevie intento a sorseggiare una tazza di
caffè. Il
ragazzo si era immediatamente alzato per lasciare spazio al Dottore, ma
Laszlo
lo aveva tranquillizzato con un cenno della mano, spiegandogli che
avrebbe
saltato la colazione per dirigersi subito all'Istituto. A quel punto
Stevie,
anticipando qualsiasi ordine, aveva abbandonato il proprio
caffè sul tavolo ed
era corso a chiamare Cyrus per chiedergli di preparare la carrozza.
Una volta a lavoro,
Laszlo aveva avuto una mattinata densa di impegni. Innanzitutto un
appuntamento
con una coppia più che benestante dell'Upper East Side, che
era venuta per
consultarsi con lui in merito ad alcune stranezze del loro figlio
maggiore; in
seguito aveva ricevuto un signore di Hell's Kitchen che, tremante,
aveva fatto
irruzione nell'edificio per avere notizie di una certa Millie, una
ragazza che,
il Dottore gli aveva spiegato, non era ospite dell'Istituto
né aveva mai
incrociato la sua strada. L'uomo quindi, seppur non del tutto convinto,
se ne
era andato con gli occhi stralunati e l'espressione preoccupata,
tormentando
tra le mani la coppola che si era tolto al suo arrivo.
Accertatosi che non
ci fossero altre interruzioni indesiderate, Laszlo aveva cominciato la
solita
visita dei suoi piccoli pazienti, decidendo di pranzare in loro
compagnia per
osservare meglio le relazioni tra loro. Si era ritenuto
complessivamente
soddisfatto, soprattutto dopo aver ricevuto dettagli più
precisi in merito ai
gemellini Paulson, e ora eccolo lì, di nuovo in carrozza, a
cercare di
distrarsi dal futuro incombente ripassando mentalmente ciò
che era stata la
giornata.
Riaprì gli occhi,
resistette alla tentazione di allentarsi il colletto della camicia e
sbirciò
fuori dal finestrino con aria distratta. Gli fu impossibile
concentrarsi sulle
strade che Cyrus stava percorrendo, così come non
riuscì a focalizzare nessuno
dei pochi volti che osavano sfidare il caldo pomeridiano. Nella sua
testa si
sdoppiava una sola immagine, protagonista di ricordi che non desiderava
far
riemergere. Tentò di scacciarla pensando ad altro, al suo
lavoro, ma niente era
più potente e luminoso di quella memoria liquida. Il cuore
gli si accartocciò,
proprio come accaduto quella mattina al momento di vestirsi.
Presto il rumore
degli zoccoli del cavallo scemò e la carrozza si
arrestò. Laszlo aprì lo
sportello anticipando la cortesia di Cyrus e si trascinò
dietro la borsa con i
documenti e i fascicoli sui suoi pazienti. Entrò in casa e
senza dire una
parola filò nella propria camera, oltrepassando quella in
cui ora dormiva
abitualmente Stevie. Per un attimo lo sfiorò il pensiero di
bussare per
verificare che il giovane stesse davvero studiando, ma
cambiò subito idea: con
quel caldo, probabilmente il ragazzo stava riposando. Non lo avrebbe
disturbato.
Giunto nella sua
stanza, Laszlo poggiò la borsa di cuoio su una poltroncina e
si sfilò la
giacca, strattonandola con forza per liberarsene il prima possibile.
Sbottonò
finalmente la camicia e sbirciò con astio il proprio
riflesso nello specchio.
«Patetico», sibilò a
denti stretti, osservando il torace incurvato leggermente in avanti. Si
vide
flaccido, impotente, inutile. Decisamente non amabile. Un peso per se
stesso e
per gli altri. Eppure, lei aveva
visto qualcosa di bello, oltre quel guscio di carne inerme. Cosa, avrebbe voluto chiederle? Certo,
non sarebbe riuscita ad articolare una risposta: non poteva.
Però forse, con
pazienza e devozione, Laszlo alla fine avrebbe saputo la
verità. Una verità
che, adesso, lei non gli avrebbe più potuto svelare a
prescindere da tutto. Non
era più lì. Non era più con
lui.
Si passò una mano sul
viso, lasciando il braccio destro molle lungo il fianco.
Osservò ancora per un
istante il riflesso e poi si spogliò della camicia, aprendo
l'armadio per
tirarne fuori una pulita. Liberatosi del resto dell'abbigliamento,
andò in
bagno e si riempì la vasca con acqua gelata, sperando che il
freddo potesse
farlo concentrare sul dolore provocato dal passaggio da una temperatura
elevata
– circa trenta gradi, aveva sentito dire da una delle
sorveglianti
dell'Istituto – a una decisamente inferiore. In parte le sue
aspettative furono
soddisfatte: al momento dell'immersione sentì il respiro
mozzarglisi in gola e
per un paio di minuti la sua mente fu sgombra di qualsiasi altro
pensiero che
non fosse il freddo pungente. Ma non appena si fu abituato, seppur a
fatica,
l'ossessione tornò a bussare ai confini del suo cervello e
le immagini che con
tanta difficoltà aveva provato a seppellire riemersero
più nitide che mai,
dolorose più dell'acqua gelata contro la pelle.
Si asciugò dopo una
manciata di minuti, frizionando vigorosamente il braccio destro quasi a
voler
farlo sanguinare. Recuperò della biancheria da un ampio
cassetto del comò e
cominciò a vestirsi, deciso a indossare gli stessi pantaloni
che si era tolto
poco prima. Prima di metterli, però, prese un'altra giacca,
la più scura del
suo repertorio, e la camicia già scelta in precedenza,
sicuro che avrebbe
impiegato mezz'ora prima di riuscire a coprirsi le spalle.
Una volta sistemata
la manica sinistra, inspirò profondamente, pronto a far
fronte alle solite difficoltà;
con sorpresa, invece, la stoffa stavolta non fece resistenza,
accarezzandogli
il braccio come un soffio di vento primaverile. Tirò i bordi
della camicia
verso il basso, per stirarla bene, e passò a chiudere i
bottoni dei polsini.
Solo allora si accorse che, sul destro, c'era un alone ingrigito,
marchio di
una macchia lontana. Lo accarezzò con due dita e
sentì il cuore sprofondare: di
lei, di loro, non restava che un
ricordo sbiadito.
«Dannazione»,
imprecò, mentre distoglieva lo sguardo. Quasi non riusciva a
crederci: sembrava
che tutto, quel giorno, dovesse irrimediabilmente portarlo a lei, al
passato,
al futuro che era stato loro negato. D'accordo, allora; avrebbe
abbracciato
l'avvenire così come tutto, in quella casa, gli suggeriva di
fare. Terminò di
vestirsi e fu di nuovo nel corridoio. Stava per scendere al piano di
sotto
quando un'idea lo fulminò: doveva recuperare quel
libro. Ma dove poteva essere? Non ricordava di averlo spostato
nella libreria né di averlo portato all'Istituto per
lasciarlo alle bambine sue
pazienti. Forse era ancora...?
Si voltò sulla cima
delle scale e fissò la porta della stanza di Stevie. Si
avvicinò cautamente,
attese fuori per qualche secondo come ad assicurarsi che dall'interno
non
provenisse nemmeno un sospiro e poi bussò. Non ottenendo
risposta, bussò
un'altra volta: il silenzio rimbombò muto. Certo di essere
solo, Laszlo abbassò
pian piano la maniglia ed entrò.
La camera era piena
di luce. Il sole sarebbe tramontato di lì a un paio di ore,
ma aveva già
iniziato a spostarsi nel cielo, illuminando il retro della casa e
conferendo
un'aura dorata alla stanza spaziosa in cui il Dottore aveva appena
fatto
capolino. Laszlo socchiuse la porta dietro di sé e si
guardò attorno. Come era
prevedibile, il libro che stava cercando non era più sul
comodino, altrimenti
lo avrebbe trovato ricoperto da due dita di polvere. Forse Stevie lo
aveva
messo via, non essendo di certo un appassionato di romanzi –
non del tipo a cui
stava pensando lui, comunque. Il Dottore si avvicinò a uno
scaffale addossato
sulla parete destra e scrutò i titoli dei volumi riposti
sulle mensole. In
primo piano c'erano i testi di Jules Verne, che aveva comprato
appositamente
per far avvicinare Stevie alla lettura, seguiti da qualche saggio di
psicologia
che Laszlo si domandò come avesse fatto a finire in quella
stanza. Non c'erano
solo libri, però: il nuovo padrone della camera vi teneva
custoditi anche i
quaderni che usava per fare esercizi e il Dottore trovò
perfino dei vecchi
numeri del New York Herald in cui
in
prima pagina, nei box d'approfondimento, figuravano brevi articoli
dedicati ai
furti perpetrati da Stevie durante la sua precedente carriera da
piccolo
criminale di strada. Laszlo restò seriamente colpito dalla
scoperta e si
insinuò in lui la paura che il suo protetto potesse
imboccare di nuovo la
strada sbagliata: la presenza di quegli articoli, tra l'altro tanto ben
conservati, non era forse una specie di trofeo delle imprese passate? O
magari,
si disse, era una sorta di memento, non dimenticare per evitare di
ricascarci...
Mentre si
scervellava, proseguì la sua ricerca finché,
quando ormai aveva quasi perso le
speranze, non si trovò tra le mani il titolo che desiderava:
Rose in fiore, di Louisa May Alcott.
Rimirò la copertina e il titolo a caratteri dorati per
minuti che gli parvero
un'eternità; era passato più di un anno da
quando, per puro caso, era venuto a
conoscenza della curiosità di Mary per quel libro. Ricordava
di essere entrato
quasi come un ladro nella stanza, sicuro che vi avrebbe trovato la
ragazza, che
invece era fuori per una passeggiata insieme al suo amico, John. In
altre
circostanze sarebbe uscito immediatamente, come per paura di invadere
uno
spazio che considerava sacro, ma allora aveva prima indugiato sulla
soglia, poi
si era avvicinato al letto, scorgendo il romanzo sul comodino e
raccogliendo da
terra una sottoveste abbandonata che sapeva in tutto di lei. Sembrava
passato
un secolo e quante cose erano cambiate, nel frattempo!
Laszlo si strinse al
petto il libro, poi lo infilò sotto la giacca per evitare
che qualcuno lo
vedesse. Uscì dalla camera con circospezione e chiuse la
porta, scendendo
finalmente al piano di sotto.
Nell'atrio non
incrociò né Cyrus né Stevie. "Tanto
meglio", pensò, aprendo la porta
di casa e immergendosi nella luce bollente, "non voglio essere
accompagnato. Camminare mi farà bene".
Così, con la meta ben
delineata nella sua testa, si diresse verso Brooklyn. Sarebbe andato a
piedi
fin quasi alla baia e lì avrebbe preso una carrozza per
essere scortato a destinazione.
Avrebbe impiegato circa un'ora per completare il viaggio di andata, ma
il tempo
era l'ultima cosa a cui pensava: d'altra parte erano settimane che
stava
pianificando quella giornata e, malinconia a parte, tutto era andato
secondo i
piani. Sperava solo di non incontrare nessuna faccia conosciuta durante
il
tragitto. Non che avrebbe faticato a inventare una storia, anzi; ma
l'idea di
poter essere trattenuto da qualcuno lo irritava terribilmente.
La lunga passeggiata
sotto il sole non lo distrasse dai soliti, tristi pensieri.
Continuò a
rimuginare su quanto era accaduto nel corso dell'ultimo anno,
rendendolo sempre
più scuro in volto. Il suo stato d'animo sarebbe stato
più consono a una
piovosa giornata invernale e non a un afoso pomeriggio di fine
primavera.
D'altra parte, però, non aveva la più pallida
idea di come riuscire a superare
quel momento così difficile. Aveva letto saggi su saggi in
merito alla gestione
del dolore e del lutto, ma le parole di grandi studiosi europei gli
erano parse
vane, vuote, insignificanti. Parlavano di quei concetti con distacco,
quasi con
indifferenza, come se non avessero mai provato nulla del genere e
Laszlo alla
fine era stato tentato dal gettarli tutti fuori dalla finestra del suo
studio.
Non c'era nulla, in quegli scritti, che potesse davvero alleviare la
sua
sofferenza, niente che riuscisse a persuaderlo che la morte di Mary non
era
stata colpa sua. "E di chi altri?", continuava a ripetersi,
torturandosi l'animo. Così, malgrado fosse passato poco
più di un anno dalla
scomparsa della ragazza, non era riuscito ad appigliarsi a niente che
lo avesse
fatto riemergere da quel dannato dolore.
Poi c'erano i sogni.
Affollavano la sua mente come l'eco di promesse non mantenute,
plasmando
davanti ai suoi occhi i bei lineamenti e le labbra carnose che solo una
volta
aveva saggiato. La risata muta di Mary lo tormentava nelle notti
più buie,
rendendo impossibile rimarginare quella ferita; i suoi occhi scuri lo
invitavano a seguirla lungo sentieri di terra battuta e Laszlo, pur
desiderando
farsi strada dietro di lei, non riusciva mai a raggiungerla, mai a
restare al
suo fianco. L'oscurità la inghiottiva e miscelava il
paesaggio in un tutt'uno
di colori smorti. Così si svegliava di soprassalto, madido
di sudore, e fissava
il buio senza fondo della propria stanza in attesa che il battito del
suo cuore
tornasse a essere regolare.
Dei sogni – degli incubi
– aveva letto pochissimo, per non
dire nulla. Sapeva che il Dottor Freud se ne stava occupando, nella
vecchia
Europa, ma evidentemente i suoi studi andavano a rilento. Se non fosse
stato
così occupato con il suo Istituto, probabilmente Laszlo
avrebbe preso il primo
transatlantico e sarebbe tornato in Germania e da lì in
Austria per un
aggiornamento che potesse aiutare non solo i suoi pazienti, ma anche se
stesso.
Non potendolo fare, però, non gli restava che aspettare
pazientemente notizie,
magari discutendone con il suo vecchio professore di Harvard.
Tornò per un momento
alla realtà. Qualcosa aveva catturato la sua attenzione,
distogliendolo da quei
pensieri agitati. Si fermò lungo il margine della strada e
fissò un punto poco
più avanti.
Una signora di mezza
età stava trafficando dietro un piccolo banco montato su
rotelle. In alto,
spiovente verso la via quasi deserta, una sorta di telo a strisce
bianche e
verdi la riparava – per quanto possibile – dal
forte sole pomeridiano. Gli
occhi di Laszlo si mossero veloci per indagare con due semplici battiti
di
ciglia cosa stava facendo: la donna, infatti, si chinava ritmicamente
ogni
manciata di secondi, prendendo da dietro il banco piccoli vasi colmi di
terra e
fiori variopinti da esporre sul ripiano davanti a sé.
«Martha, fai
attenzione con quello», la sentì dire, rivolta al
niente. «Pesa troppo per te.
Aiutami con le gerbere, da brava».
Fu allora che una
bimbetta di non più di cinque anni sbucò da
dietro la signora, i capelli
castani divisi in due codini ai lati del viso. Laszlo la
trovò fisicamente
molto piccola per la sua età; non era solo magrissima, ma
anche bassa. Sembrava
quasi un miracolo che riuscisse a tenersi in piedi, tanto appariva
fragile ai
suoi occhi. Eppure, nonostante fosse un fuscello, si dava da fare per
aiutare
l'adulta che accompagnava, spostando vasi e contenitori d'acqua
smisuratamente
grandi rispetto a lei. Malgrado lo sforzo che impiegava per riuscire a
sollevare i contenitori più pesanti, un grande sorriso le
rischiarava il
visetto, mentre il sudore le imperlava la fronte candida.
«Nonna, posso
metterle qui?», chiese, tenendo tra le braccia un bel mazzo
di margherite arancioni.
«Poggiale davanti al
bancone, ma mettile nell'acqua, altrimenti appassiranno». Poi
Laszlo la udì
bisbigliare: «Ci mancava solo questo caldo, oggi!»
Restò a guardare il
loro operato per qualche minuto e un lieve sorriso gli
increspò le labbra quando
sentì la piccola domandare alla nonna quando avrebbe fatto
merenda.
«Se mi aiuti a
vendere i fiori, ti comprerò una bella crema d'uovo al
cioccolato, va bene?»
Quella prospettiva
sembrò rinvigorire la bambina, che si impegnò
ancor di più a sistemare i
restanti vasi che la nonna aveva cercato di tenere all'ombra. Laszlo ci
pensò
su per un'altra manciata di secondi, prima di avvicinarsi al banco. Si
schiarì
la voce e parlò: «Buon pomeriggio,
signora».
La donna drizzò
immediatamente la schiena con espressione sorpresa. Evidentemente non
si
aspettava che qualcuno acquistasse davvero qualcosa da lei con quel
caldo
tremendo.
«Buon pomeriggio a
voi, signore», lo salutò di rimando. Dopo una
piccola pausa sorrise: «Come vi
posso servire? Volete del mughetto o tulipani o...?»
«Non vedo esposte le
rose», notò Laszlo. «In questo periodo
dovrebbero abbondare, se non ricordo
male».
«Non sbagliate,
signore», si affrettò a dire la donna.
«Ecco, vedete, stavo allestendo proprio
adesso il banco e non ho ancora sistemato tutti i fiori... Martha,
svelta,
prendi le rose per il signore».
La bambina era
rimasta a squadrare Laszlo con curiosità. Aveva finito di
mettere a posto le
gerbere, curandosi di aver messo tanta acqua da far traboccare il vaso
di
coccio, e quando uno sconosciuto come lui si era fatto avanti aveva
smesso di
aiutare la nonna, concentrandosi solo su di lui. Anche adesso lo
fissava, la
testa appena piegata di lato; Laszlo poteva notarla con la coda
dell'occhio.
«Martha, mi hai
sentito?»
La piccola si
riscosse. Senza annuire, fece il giro del banco e si
inginocchiò ai piedi della
donna, trafficando tra fiori che il Dottore non poteva vedere.
«La mia nipotina»,
gli disse quella per intrattenerlo nell'attesa. «Un tesoro,
anche se a volte si
comporta da birbante».
Laszlo non commentò.
Studiò le piante in vaso che erano state esposte davanti al
banco e lasciò
vagare lo sguardo dai fiori alla donna.
«Se posso permettermi»,
riprese la signora, «volete regalarne un mazzo per
un'occasione speciale?»
«Più o meno», rispose
lui senza scomporsi. Avrebbe voluto concedersi una risata ironica, ma
si
trattenne. D'altra parte, l'anziana fioraia non poteva sapere che
quella
semplice domanda lo aveva appena trafitto come una freccia dritta nello
stomaco.
«Posso prepararvi una
bella confezione, allora», proseguì la donna.
«Martha, dammi le rose... Ecco,
bravissima. Prendi altra acqua dalla fontanella
laggiù», ordinò alla piccola,
prendendole dalle braccia l'involucro di carta che proteggeva i fiori.
La bimba
si allontanò con una grossa brocca e Laszlo seguì
la sua corsa voltandosi verso
il marciapiede opposto.
«Lavora sempre con
voi?», si azzardò a domandarle, senza togliere gli
occhi dalla bambina.
«Oh, be'», prese tempo
l'anziana, «lavorare... Mi aiuta come può una
ragazzina della sua età. Mi fa
compagnia, più che altro, e intanto impara un mestiere
onesto».
Il fatto che avesse
calcato su quell'ultimo aggettivo lo insospettì non poco.
Avrebbe voluto
chiederle della madre, ma Martha era già di ritorno, la
brocca stretta tra le
braccine e l'acqua che traboccava così da bagnarle il
vestitino di lino.
«Brava», le disse
ancora la nonna, «sistema anche i tulipani. Attenta a non far
cadere troppa
acqua. Dunque», si rivolse di nuovo a Laszlo, «come
vedete ho rose di tante
tonalità. Che ne dite di queste gialle? Anche bianche non
sono... MARTHA!»
Ci fu del trambusto.
La piccola, spostando un vaso particolarmente grande, aveva urtato
quello delle
gerbere, che si erano sparpagliate sulla strada polverosa. Inoltre,
l'acqua che
si era riversata era finita in parte sui mocassini di Laszlo, quasi del
tutto
zuppi.
La donna girò attorno
al bancone e venne avanti, il viso contratto: «Martha, che ti
ha detto nonna?
Devi fare attenzione!»
La bimba abbassò la
testa, sinceramente dispiaciuta, e la signora si avvicinò a
Laszlo, costernata:
«Signore, mi rincresce molto. Le vostre scarpe, io...
È piccola, ha solo cinque
anni... Perdonatela, non era mai successo. Martha, chiedi subito scusa
al...»
Lui la interruppe.
Stava guardando la piccina, ancora imbarazzata per l'accaduto, e senza
dire una
parola alla nonna le andò incontro, accovacciandosi
così da ritrovarsi faccia a
faccia con lei.
«Era molto pesante
quel vaso, non è vero?»
La bambina annuì in
silenzio, ma non alzò lo sguardo su di lui. Non era solo
imbarazzata, pensò
Laszlo, ma anche molto timida.
«Ti sei fatta male?»
Scosse la testa. «No»,
esalò. Aveva una vocina rammaricata.
«Molto bene. Che ne
dici se raccogliamo i fiori che sono caduti? Posso aiutarti a
rimetterli a
posto, vuoi?»
La piccola annuì di
nuovo e radunarono insieme le gerbere sotto lo sguardo attonito
dell'anziana
fioraia.
«Ora poggiamo le
margherite nel vaso più piccolo, questo qui»,
Laszlo la guidò con calma, «e
aggiungiamo un po' d'acqua. Molto brava, Martha». Si
rialzò, mentre la bambina
finalmente sorrideva di nuovo, e aggiunse: «Quando vai a
riempire la brocca,
non colmarla del tutto, altrimenti sarà troppo pesante per
te e difficile da portare.
Rischieresti di farti male, se cadessi».
La bambina assentì
ancora, stavolta con aria giudiziosa, ma di colpo il sorriso le
sparì dalle
labbra. I suoi occhi erano finiti sui mocassini di Laszlo e il Dottore
percepì
il senso di colpa venarle l'animo. «Scusate per le
scarpe», sussurrò. «Come riuscirete
a camminare, adesso?»
«Si asciugheranno
presto. Oggi il sole scotta... Anzi, devo ringraziarti: adesso mi sento
molto
meglio, poco fa avevo davvero caldo».
Le sorrise e lei lo
ricambiò, tornando intanto dietro al banco. La nonna, sempre
più sorpresa per
la piega presa dagli eventi, domandò: «Siete
sicuro di stare bene, signore?
Volete che...»
«Mi stava dicendo
delle rose», Laszlo troncò il discorso.
«Oh, sì,
certamente... Allora... Vedete», anche la donna riprese posto
accanto alla
nipote, «ce ne sono di diversi colori. A seconda
dell'occasione, è meglio
sceglierne uno invece di un altro. La scelta dipende anche dalla
persona a cui
si vogliono regalare i fiori e...»
«Vorrei solo rose
rosse. Venticinque, se possibile. Ne avete?»
La fioraia fece un
cenno alla piccola Martha e la bambina prese un altro grosso involucro
sotto al
banco.
«Ecco
qui»,
disse la donna, mostrandogli una decina di boccioli. «Questi
sbocceranno entro
un paio di giorni, mentre queste», e prese altre quindici
rose già in
esposizione, «sono nel pieno della loro bellezza. Vanno
bene?»
«Sono
perfette, sì».
«Allora lasciate che
ve le incarti. Martha, le forbici e il nastro, per favore».
La piccola obbedì e
intanto la nonna recuperò della carta bianca che, al sole,
splendeva come seta.
Poi prese gli oggetti che la nipote le stava porgendo e si
dedicò al
confezionamento del mazzo, a cui aggiunse del mughetto.
«Le piace questa
disposizione?», gli domandò, tenendo le rose per i
lunghi gambi recisi.
«Non sono un
intenditore, signora», si schermì lui,
«ma credo che sia molto bella».
La donna assentì in
silenzio e chiuse il mazzo con del nastro dorato. Glielo porse:
«Venti dollari»,
lo informò.
Laszlo infilò una
mano nella tasca interna della giacca. Fece attenzione a non lasciar
cadere il
libro, ancora al riparo all'altezza del suo cuore, ed estrasse il
portafogli,
da cui tirò fuori tre banconote.
«Tenete», le disse. Tese il braccio per
consegnarle il denaro, ma la donna, una volta preso, se lo
rigirò tra le mani.
«Signore, state
sbagliando. Questi sono trenta, c'è una banconota in
più...»
«Martha si è meritata
più di una crema d'uovo, non è vero?»,
replicò lui e schioccò un leggero
sorriso alla bambina. Per tutta risposta, gli occhi della piccola si
illuminarono di nuovo, vispi e allegri, e Laszlo ebbe l'impressione che
sulle
sue guance un po' scavate fosse apparsa una spruzzata di colore.
«Vi ringrazio»,
balbettò la fioraia, del tutto spiazzata. Poi,
riprendendosi, invitò la nipote
a ringraziare a sua volta. Martha seguì il consiglio della
nonna e la sua
vocetta solleticò le orecchie del Dottore.
«Arrivederci», le
salutò Laszlo. Sollevò il cappello e se lo
risistemò sulla testa, strinse tra
le braccia il grosso bouquet di rose e riprese la sua camminata
sentendosi un
po' più leggero.
I mocassini umidi
producevano un fastidioso rumore a ogni passo, ma non se ne
curò più di tanto.
In fondo, prima di uscire di casa si era volontariamente immerso in una
vasca
d'acqua gelata; non aveva niente da temere da quel paio di calzature
fradice.
L'unica preoccupazione emerse al pensiero che, una volta asciutta, la
pelle
delle scarpe si sarebbe seccata al punto da rendere doloroso camminare.
Pazienza,
si disse, ci avrebbe pensato più tardi. Ora non poteva
perdere tempo.
Impiegò poco più di
dieci minuti per giungere nei pressi della baia. Scorse un calesse
libero e si
avvicinò, i fiori protetti dal braccio sinistro che gli
sfioravano la barba.
Alla guida, un uomo leggeva distrattamente il New
York Times, sfogliandolo con aria annoiata.
«Buon pomeriggio,
signore», lo salutò Laszlo. Quello
scostò gli occhi dalle pagine del quotidiano
al suo viso, lo squadrò per un secondo e rimase in ascolto.
«Potete darmi un
passaggio fino a Brooklyn?», continuò il Dottore.
Il tono rude del
cocchiere lo infastidì: «Dove,
esattamente?»
«Green-Wood, per
favore».
L'uomo lo fissò
ancora e chiuse il giornale. Si alzò e lo poggiò
con poca grazia sul sedile,
così da potercisi accomodare sopra. «Salite,
allora», comandò sgarbato e
Laszlo, seppur innervosito, prese posto sul calesse.
Il cavallo che
trainava il mezzo nitrì sonoramente nel sentire le redini
schioccare e partì a
velocità contenuta. Il padrone lo indirizzò verso
il ponte che collegava
Manhattan al quartiere di Brooklyn e presto fu invitato a correre.
Laszlo si
domandò se non avesse scelto il peggior cocchiere della
zona: guidava come un
folle, frustando il cavallo senza pietà non appena lo
sentiva rallentare. Anche
Stevie, a volte, si faceva strada nel centro cittadino in quella
maniera, ma
solo per questioni urgenti e non come abitudine. L'uomo in questione,
invece,
sembrava quasi godere nell'infliggere dolore al povero animale, che
nitriva
sofferente a ogni colpo ricevuto.
Si lasciarono il
ponte alle spalle e sfrecciarono dall'altra parte di New York. Laszlo
si sentì
sballottato ora a destra ora a sinistra, a seconda degli angoli di
svolta, e fu
quasi tentato di urlargli di fermarsi. Temeva che le rose, con quella
velocità,
potessero sciuparsi e sarebbe stato davvero un peccato, oltre che una
sconfitta
personale. In più, la guida tremenda dell'uomo gli stava
mettendo lo stomaco in
subbuglio e ci mancava solo che, una volta sceso, vomitasse.
Dovette farsi forza
per altri due isolati, prima di sentire il calesse rallentare. Quando
fu fermo,
Laszlo scese con passo instabile, sentendo la testa girare. Chiuse per
un
istante gli occhi, giusto il tempo di riprendersi, e scoccò
un'occhiata truce
al cocchiere, che solo in quel momento sembrò ricordare di
doverlo informare
che erano giunti a destinazione.
«Quanto vi devo?»,
gli chiese il Dottore a denti stretti. Non lo degnò di un
altro sguardo.
L'uomo gli rivolse un
sorriso sghembo. «Venti dollari», sibilò.
Laszlo non contrattò
sul prezzo. Era un furto, visto che la corsa era stata breve e
burrascosa, ma
non aveva alcuna intenzione di perdere altro tempo con quel tipo.
Perciò tirò
fuori il portafogli e pagò per il tragitto. Gli tese una
banconota e gli diede
le spalle sussurrando un Arrivederci
carico di rabbia, ma fu richiamato indietro.
«Ehi, signore», disse
l'uomo, «non volete che vi aspetti?»
In altre circostanze
Laszlo avrebbe chiesto di essere atteso, certo. Ma l'esperienza appena
avuta e
il tipo di persona con cui aveva avuto il piacere di interagire gli
fecero
scuotere la testa. Avrebbe preso un'altra carrozza una volta fatto
ciò che
doveva.
«No, vi ringrazio»,
gli rispose. Si voltò solo per educazione e lo vide
stropicciare la banconota
che gli aveva appena dato, un sorriso malevolo a stendergli le labbra.
Il cocchiere non
replicò. Si limitò a girare il calesse e con un
forte schiocco costrinse il
cavallo a ripartire, lasciando Laszlo di fronte a un grosso cancello in
ferro
battuto. Il Dottore lo vide allontanarsi e svoltare al primo angolo,
poi diede
la schiena alla strada e fronteggiò il sentiero di terra
polverosa che gli si
apriva davanti. Attese un lungo minuto e infine varcò il
cancello.
Green-Wood era
bellissimo in quel periodo dell'anno. L'erba cresceva rigogliosa e gli
alberi
gettavano lunghe ombre a terra, creando ampie chiazze scure sul manto
verde. Il
sole del pomeriggio avvolgeva tutto in un pulviscolo dorato, facendo
risplendere le lastre bianche che spuntavano dal terreno. Laszlo
strinse più
forte le rose e sentì il libro premere contro il torace: la
quiete del cimitero
e la sua bellezza rendevano quella visita ancor più dolorosa
di quanto non
fosse già.
Camminò lungo un
sentiero che si inerpicava verso una bassa collinetta erbosa. Le lapidi
scorrevano ai suoi fianchi a ogni passo, vegliando silenti su di lui:
sembrava
che lo sospingessero fino alla meta con un incoraggiamento muto che
Laszlo non
poteva far proprio. Più si addentrava nel cimitero,
più sentiva il cuore farsi
piccolo, i battiti cadenzati secondo una lentezza esasperante. Erano
settimane
che pensava a quel giorno, a come si sarebbe sentito, e finalmente lo
sapeva;
sarebbero potuti passare altri dieci, venti, trent'anni, ma in lui non
sarebbe
mai cambiato nulla. Il dolore era troppo forte, il ricordo della
perdita vivido
come non mai, scolpito nella sua mente come se il tempo non fosse mai
trascorso.
Mentre continuava a
camminare, gettò uno sguardo alle lapidi che sorgevano lungo
il sentiero. Il
marmo di alcune riluceva, pulito dalla cura di sconosciuti cari; in
altri casi,
l'incuria aveva avuto la meglio e sulle lastre erano spuntati muschi e
macchie
di muffa. Forse i parenti di quei defunti si erano estinti, si
domandò Laszlo?
Forse i morti erano stati dimenticati? Ma come si poteva dimenticare,
se
l'affetto era profondo, se l'amore era stato assoluto?
Per un attimo ebbe
paura. Sarebbe potuto capitare anche a lui di lasciarsi alle spalle il
passato?
La vecchiaia o una malattia avrebbero soverchiato l'immagine di Mary,
ancora
fluttuante davanti ai suoi occhi? Il tempo gli avrebbe sottratto anche
i
ricordi, gli unici che ancora la tenevano in vita?
Scosse la testa e
accelerò il passo. Le lapidi diventarono solo macchie
bianche e grigie che si
confondevano ai margini del suo sguardo, fisso sul sentiero. Non doveva
farsi
prendere dal panico, cercò di calmarsi. Forse l'ingiustizia
della vita gli
aveva portato via Mary, ma niente e nessuno sarebbe riuscito a
cancellarla dalla
sua mente. Nei suoi sogni – e perfino negli incubi
– lei avrebbe continuato a
esistere. E lì, forse, con un po' di sforzo, avrebbe potuto
rifugiarsi anche
lui.
Lasciò quei pensieri
e si focalizzò di nuovo sulla realtà. Le rose
emanavano un profumo intenso, che
inspirò a pieni polmoni. Sapevano di momenti passati, di
gioia appena
accarezzata, di labbra carnose che toccavano le sue. Dai boccioli,
invece, si
levava una fragranza leggiadra. Si chiese se l'amore, quando nasceva,
odorasse
così nella sua tenerezza. Ah, che sciocco! Se John avesse
saputo quali riflessioni
lo tenevano occupato, probabilmente avrebbe riso di lui,
rinfacciandogli di
aver avuto sempre ragione a proposito dell'origine dell'amore. "Risiede
nel cuore", gli aveva detto mesi prima, in una giornata di sole molto
simile a quella. E Laszlo ricordava bene di aver scosso la testa,
protestando
che era solo un prodotto di reazioni chimiche nel cervello. Discorsi
vani. Non
importava più quale fosse la fonte di quel sentimento. Ormai
sapeva che a far
male erano entrambi gli organi.
Mentre il sentiero si
faceva più ripido, scomparendo oltre la cima della collina,
le lapidi
iniziarono a diradarsi. Ce n'erano poche lungo quel tratto, quasi la
morte
avesse voluto dar sollievo alla pesantezza dei cuori degli avventori.
Era una
sorta di pausa, un preludio a ciò che si stendeva oltre la
collina. I cipressi,
però, abbondavano. Si ergevano come sentinelle di guardia e
quando le loro cime
appuntite si piegavano sotto l'alito caldo del vento, sembrava che si
inchinassero al passaggio dei vivi, partecipi del loro dolore.
I passi di Laszlo
divennero più lenti e pesanti. Si domandò in che
percentuale fosse colpa dei
mocassini bagnati e quanto, invece, la propria velocità non
dipendesse
dall'affanno che gli opprimeva il cuore. Doveva tentare di calmarsi, di
respirare a fondo per liberarsi, poi, di tutti i pensieri che gli
affollavano
la mente. Ma ecco, aveva quasi raggiunto la sommità del
colle, e di lì a pochi
minuti i suoi occhi si riempirono di centinaia di lapidi, tutte
ordinate in
file parallele, scintillanti come neve al sole. Fu costretto a
fermarsi:
laggiù, tra i morti senza nome che riposavano sotto terra,
dormiva anche Mary.
Cercò di non pensare allo stato del suo corpo, alla
decomposizione avanzata che
le aveva di sicuro stravolto i bei tratti del viso, consumandole gli
occhi
dolci e le membra delicate. Provò, ma non ci
riuscì. L'avrebbe sognata anche
quella notte, ne era certo, e lei sarebbe andata a trovarlo pallida nel
suo
vestito mortale, costringendolo a un risveglio improvviso e doloroso.
Basta. Abbassò lo
sguardo sulle punte delle proprie scarpe, ricacciò indietro
le lacrime e si
morse le labbra. Si accostò i boccioli di rosa al naso, ne
inspirò ancora una
volta il profumo e quando si sentì rassicurato riprese a
camminare.
Il sentiero scivolava
gradatamente verso il basso. Era una tortura: chiunque avesse
progettato il
cimitero, lo aveva fatto così che i parenti e gli amici dei
defunti, scendendo
lungo quel lato della collina, avessero sempre davanti agli occhi
almeno una
lapide bianca. Se pure qualcuno avesse voluto dimenticare la propria
sofferenza, Green-Wood la teneva sempre viva con le lastre che
spuntavano
ovunque dall'erba.
Giunto in fondo,
Laszlo si allontanò dalla strada principale per immettersi
in una secondaria
che portava quasi ai confini del cimitero. Si trattava di una zona per
lo più
adibita alla sepoltura di cittadini comuni, quella che un tempo qualche
pezzo
grosso dell'aristocrazia locale avrebbe definito plebaglia. In
realtà, in
quegli ultimi anni, avevano trovato posto in quel tratto di terreno
anche
personalità di spicco che si erano contraddistinte nel
panorama culturale
statunitense ed europeo e Laszlo era riuscito ad acquistarne una zolla
non
molto distante dalla tomba di Lorenzo da Ponte, il celebre librettista
italiano
che aveva collaborato con Mozart. Mary aveva amato la lirica, o almeno
era ciò
che lui immaginava, perciò aveva fatto di tutto
affinché le spoglie della
giovane donna riposassero accanto a quelle dell'autore di Le nozze di Figaro.
Camminò ancora per
lunghi, silenziosi minuti. Le lapidi si susseguivano di nuovo senza
sosta,
occhieggiando dai margini del minuscolo sentiero polveroso. Laszlo si
strinse
un po' di più contro le rose, come se queste avessero potuto
infondergli
coraggio, e infine raggiunse la propria destinazione.
La lastra che aveva
fatto apporre era più lucente di quanto non si aspettasse. I
caratteri incisi
nel marmo recavano il nome tanto amato; al contrario della pietra,
bianca quasi
in maniera innaturale, essi si erano scuriti a causa della polvere
sollevata
dal vento. Poco più sotto, poggiati a terra, c'erano dei
fiori secchi che non
avrebbero dovuto trovarsi lì.
Laszlo si guardò
attorno con fare circospetto. Non c'era nessuno a parte lui nei
dintorni né
aveva incrociato anima viva lungo il cammino. E quei fiori, allora?
Cosa
significavano? Non era stato lui a deporli ai piedi della lapide:
d'altronde,
erano passate settimane dall'ultima volta che aveva fatto visita a
Mary. Chi poteva
essere stato? Forse Cyrus e Stevie, durante una delle loro ore libere,
avevano
fatto tappa a Green-Wood? Perché non dirglielo? Magari
credevano di ferirlo,
raccontandoglielo. Come se ci fosse stato qualcosa che avrebbe potuto
addolorarlo più del pensiero di non poter più
stringere tra le proprie braccia
la donna che avrebbe voluto sposare!
Malgrado quelle
riflessioni e la sorpresa provata di fronte a quel bouquet ormai
smorto, Laszlo
si avvicinò e sedette sull'erba, proprio accanto alla
lapide. Ne accarezzò con
riverenza i bordi, seguì il profilo delle lettere scolpite
nel marmo e poi,
dopo essersi baciato la punta delle dita, poggiò la mano
contro la pietra.
Lasciò aderire il palmo e sentì il freddo cozzare
contro il proprio calore,
come se le labbra gelide di Mary lo avessero sfiorato.
Ritirò il braccio dopo
qualche secondo e tolse i fiori vecchi dal terreno, sostituendoli con
il mazzo
comprato poco prima.
«Venticinque rose»,
disse a denti stretti, sussurrando nel vento che si era levato.
«Non un numero
casuale, Mary. Una per ogni tuo anno, una in più per gli
anni che avresti
compiuto oggi».
Sentì gli occhi
prudere e si passò la mano sinistra sul viso. Premette le
dita contro le
palpebre e nel buio immaginò la ragazza sorridere di fronte
a quel regalo
speciale. Se solo fosse stata ancora lì con lui...
«Spero che ti
piacciano», aggiunse, mentre sentiva un groppo annodargli la
gola. «Ma non ti
ho portato solo i fiori. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentir
leggere
qualcosa...»
Introdusse le dita
nella giacca e ne tirò fuori il libro che aveva fatto tanta
fatica a trovare.
Se lo poggiò sulle ginocchia, lo soppesò con lo
sguardo e poi parlò di nuovo: «Chissà
se avevi finito di leggerlo o se invece ormai lo conoscevi a memoria.
Purtroppo
non l'ho mai saputo e immagino che non ne avrò mai
più la certezza».
Fissò la lapide al
proprio fianco e sembrò restare in attesa che da questa si
levassero parole di
conforto. Il marmo, però, non avrebbe mai potuto proferire
una sola sillaba.
Laszlo deglutì a vuoto e aprì il libro. Ne
sfogliò qualche pagina, immaginando
Mary seduta sul suo letto, in pieno giorno, o stesa tra le lenzuola, la
sera
prima di prendere sonno, tutta intenta a far scorrere lo sguardo sulle
stesse
frasi che stava percorrendo lui in quel momento. Capitolo uno, capitolo
due,
capitolo tre... Qualche pagina mostrava i segni di una lettura
composta, fatta
di piccole pieghe nell'angolo alto della pagina stessa, ma non c'erano
altre
tracce attribuibili al passaggio di Mary, non visibili, almeno. Laszlo
sfogliò
più velocemente, facendo scorrere tra pollice e indice
decine di fogli
straripanti di parole, poi...
Un grosso petalo
secco catturò la sua attenzione. Cercò smanioso
la pagina in cui lo aveva visto
affiorare e quando l'ebbe trovata lo prese con delicatezza,
sollevandolo contro
la luce del sole.
Doveva essere un
petalo di rosa, non dissimile da quelli che componevano le corolle che
aveva
appena deposto davanti alla lapide. Per quanto fosse stato schiacciato
dal peso
del romanzo e reso opaco dal trascorrere del tempo, sulla sua
superficie erano
ancora ben visibili le venature rossastre che una volta erano state
colme di
linfa bianca. Non profumava più, naturalmente, ma la morte
sembrava aver
bloccato il tempo catturando l'istante in cui il petalo aveva espresso
il massimo
della sua bellezza. Un po’ come era accaduto a Mary.
Laszlo lo adagiò di
nuovo sulla pagina e nel farlo il suo cuore perse un battito. Si era
appena
accorto che alcune frasi erano state sottolineate: la traccia sottile
della
punta di una matita si sviluppava lungo una manciata di righe, come se
quel passo
avesse avuto una straordinaria importanza agli occhi della lettrice. Il
Dottore
non perse altro tempo: si sistemò meglio sull'erba,
accostò il libro alla
lapide e cominciò a bisbigliare ciò che i suoi
occhi leggevano.
"So
che dovrei essere felice, ma
non lo sono. La mia vita è davvero confortevole, ma
così silenziosa e priva di
eventi che me ne stanco e vorrei lanciarmi fuori come fanno gli altri,
e fare
qualcosa, o almeno provare... Mi piacerebbe sapere qual è il
mio dono",
disse Rose.
"L'arte
di vivere per gli altri con
una tale pazienza e dolcezza che noi apprezziamo proprio come il sole,
e non
siamo comunque grati abbastanza per questa grande benedizione", disse
Zio
Alec.
Laszlo
fissò ancora
per qualche momento quello stralcio evidenziato. Lo lesse e lo rilesse
fino a
sentirlo marchiato nel proprio cervello e allora capì.
Quelle due frasi
dovevano aver significato tanto per Mary perché era Mary
stessa quella
descritta nella pagina del romanzo. Una giovane donna che, dopo aver
passato
un'infanzia travagliata, finalmente si ritrovava a condurre
un'esistenza
tranquilla, ma non per questo felice. Come avrebbe potuto esserlo? Lo
diceva
anche lo zio della protagonista: non era stata apprezzata abbastanza,
la sua
presenza non era stata considerata una benedizione finché
non era scomparsa.
Lui non le aveva mai manifestato apertamente la propria gratitudine, se
non due
giorni prima di vedersela scivolare via dalle mani.
Quanto era stato
sciocco? Quanto era stato stupido nel non averle rivelato i propri
sentimenti,
nell'avere avuto paura che fosse tutto nella sua testa e non nella
realtà? E
ora? Cosa gli restava? Solo una lapide. La bianca lastra di marmo su
cui
avrebbe continuato a versare lacrime dense di rimorso.
«Dottor Kreizler?»
Una voce ben
conosciuta lo costrinse a voltarsi e a chiudere di scatto il libro. Non
fece in
tempo ad asciugare gli occhi arrossati e mentre si girava si
pentì di non aver
provato a mascherare la propria sofferenza.
Sara Howard era a un
paio di metri da lui e stringeva dei fiori tra le mani. Nel vederla,
Laszlo
scattò in piedi.
«Miss Howard», la
salutò. La sua voce sfuggì distorta dalla gola,
impastata com'era di dolore e
rimpianto. «Siete l'ultima persona che mi sarei aspettato di
incontrare venendo
qui, oggi».
«Perdonatemi, se vi
ho disturbato», si scusò lei in fretta.
«Nemmeno io credevo che vi avrei
trovato».
Laszlo tirò fuori da
una tasca della giacca un fazzoletto di stoffa. Si girò
verso la lapide,
scacciò le lacrime e si soffiò il naso, poi
tornò a rivolgersi alla ragazza.
«Come mai siete qui?
Pensavo che la tomba di vostro padre si trovasse nella zona recintata,
dietro
la collina».
Sara annuì. «Infatti.
Sono andata a fargli visita, ma il mio giro non è ancora
finito». Gli si
avvicinò di qualche passo, gli mostrò i fiori e
continuò: «Sono passata per
lasciare questi a Mary».
Ora che la giovane
segretaria del Dipartimento di Polizia si era fatta avanti, Laszlo ebbe
modo di
studiare meglio la composizione floreale che aveva tra le mani. Si
trattava di
un corona dai colori sgargianti: c'erano boccioli gialli e arancioni,
margherite bianche e tulipani screziati di rosa. Era un tripudio
gioioso che
Mary avrebbe sicuramente apprezzato, se solo fosse stata ancora in vita.
«Le porto sempre
qualcosa, quando vengo a salutare mio padre», aggiunse ancora
Sara. «È
un'abitudine, ormai».
«Quindi i fiori
secchi che ho trovato...?»
«Li ho presi la
settimana scorsa, sì».
Il viso della ragazza
era illuminato da un sorriso incoraggiante che Laszlo
apprezzò molto. «Grazie,
Sara», le disse sincero. «Avete avuto un pensiero
molto bello».
Restarono in silenzio
a guardarsi, poi Miss Howard lo superò e andò a
inginocchiarsi accanto alla
lapide. Depose di fronte alla lastra la corona, congiunse le mani e
pregò a
occhi chiusi sotto lo sguardo di Laszlo, che restò in piedi
a osservare la
scena.
Quando Sara ebbe
finito, si rialzò e si lisciò la gonna.
«Vi ho sentito leggere», gli disse.
«Posso
chiedervi cos'era, se non sono troppo indiscreta?»
Il Dottore si mostrò
reticente in merito. Aveva l'impressione che pronunciare ad alta voce
il titolo
del romanzo equivalesse a profanare i pensieri intimi che avevano
agitato la
mente e il cuore di Mary. Perciò si limitò a
mostrarle di sfuggita la copertina:
«Un romanzo. Era il suo preferito».
Sara assentì con un
cenno della testa. Laszlo si sarebbe aspettato un commento da parte
sua, ma la
ragazza non disse nulla. «Oggi avrebbe
compiuto venticinque anni», le disse. Non sapeva neanche lui
perché glielo
aveva rivelato, ma in fondo che importanza aveva? Miss Howard si era
sempre
comportata gentilmente con Mary e anche dopo la sua morte, facendole
visita di
tanto in tanto, continuava a dimostrarle affetto.
«Non lo sapevo»,
rispose la ragazza. «Grazie per avermelo detto,
Dottore».
Laszlo fece
spallucce. «Venticinque... La conoscevo da quando ne aveva
solo quattordici. È
stata tra i miei primi pazienti, speravo che...»
Si interruppe. Il
nodo alla gola si era stretto ancor di più.
«Speravo che un giorno sarei
riuscito a guarirla del tutto. Che sarebbe tornata a parlare».
Sara si pose al suo
fianco e lo osservò abbassare lo sguardo, di nuovo
inumidito. «Vi era devota,
Dottor Kreizler. Avete fatto per lei tutto quanto era in vostro
potere».
«Non abbastanza, non abbastanza».
«Ascoltatemi, Laszlo».
Rialzò lo sguardo su
di lei, stupito. Era la prima volta che Sara lo chiamava per nome,
rinunciando
a qualsiasi formalismo. Vide nei suoi occhi un fuoco fatto di
risoluzione, una
fiamma ben diversa dall'alone spaurito che le aveva velato le iridi
quando si
erano confrontati e avevano parlato ciascuno del proprio passato, e
ciò lo
spinse ad ascoltare le sue successive parole con grande attenzione.
«Voi avete reso Mary
felice come mai avrebbe potuto immaginare. Le avete dato una casa, una
nuova
vita, l'amore che meritava. E lei, allo stesso modo, vi ha donato tutta
se
stessa. Non lasciate che il passato vi travolga, non permettete che il
dolore
offuschi la gioia che vi siete regalati. Anche se la
felicità vi dimentica un
po', voi non dimenticatela mai del tutto. Non avete nulla da
rimproverarvi né
da perdonarvi: vivete nel presente e accettatelo. Mary non
sarà più fisicamente
con voi, ma resterà per sempre nel posto più
importante, nell'unica casa che le
spetta: il vostro cuore».
Laszlo la vide
arrossire; Sara doveva aver sicuramente pensato di aver parlato con
impudenza,
ma lui non era dello stesso avviso. Le sue parole avevano
voluto
conferirgli forza, avevano desiderato consolarlo come nessuno fino ad
allora
era ancora riuscito a fare.
«Vi amava
incondizionatamente. Lo dimostrava con ogni singolo gesto, con lo
sguardo, nel
modo di camminare e di occuparsi delle faccende di casa. Quella mattina
in cui
ci ha preparato la colazione, il suo sorriso felice mi ha colpita.
Doveva
essersi alzata prestissimo per poter essere al quartiere generale con i
manicaretti ancora caldi: quello non era forse un atto di
amore?»
«Lo era, è vero», le
confermò. «Ma anche allora sono stato
così cieco... Volevo solo proteggerla,
tenerla lontano dal male che stavamo affrontando, invece è
precipitata
nell'abisso proprio a causa...»
«Ha difeso la vostra
casa senza alcun timore di ciò che sarebbe potuto
accadere», lo interruppe
Sara. «Si è sacrificata per voi. Per tutti noi. Ed
è anche per questo che il
suo ricordo non morirà mai».
Si studiarono per
alcuni secondi, poi lasciarono vagare lo sguardo sulla lapide bianca
che li
osservava, muta proprio come la donna che voleva commemorare. I petali
dei
fiori vibrarono sotto il soffio leggero del vento e Laszlo ebbe
l'impressione
che a farli muovere fosse stato un sospiro di Mary.
«Per quanto non
voglia dimenticare la felicità, la pena che provo per questo
amore mai vissuto
non mi abbandona, Sara», esalò. «Il
senso di colpa, il rimpianto... Nessuno può
capirmi più di voi».
«Ed è proprio per
questo che vi dico di farvi forza e di guardare avanti»,
insistette la ragazza.
«Usate questo dolore per fare del bene, Dottore. Continuate
ad aiutare il
prossimo come state già facendo; Mary non avrebbe mai voluto
che la sua morte
mettesse fine anche alla vostra vita».
Miss Howard non
aggiunse altro. Salutò la lapide con un inchino appena
accennato e si congedò
da lui dopo avergli stretto la mano. Lo sguardo del Dottore la
seguì mentre si
allontanava e quando fu scomparsa dietro una curva del sentiero
tornò verso il
marmo scolpito.
Laszlo si asciugò
un'ultima lacrima che stava per traboccare dalle sue ciglia. La
raccolse con un
dito, la studiò e poi la lasciò cadere a terra.
La vide scivolare sui fili
d'erba e penetrare nel suolo duro: avrebbe raggiunto la sua amata, ne
era
certo. Si accovacciò, poggiò ancora una volta le
labbra contro le dita della mano
e accarezzò il terreno. «Buon compleanno,
Mary», sussurrò commosso. E mentre si
rialzava, deciso a tornare a casa, sperò intensamente che
quella lacrima potesse
portare via con sé anche le pene alimentate dal suo amore
perduto.
Note
dell’Autrice
Il testo in corsivo
è
realmente tratto dal romanzo Rose in
fiore.
Quella che ho usato nella fiction è una traduzione libera
dall’originale
inglese.
Il titolo della
storia si rifà alle celebri Pene d’amor
perdute
di Shakespeare, ma è stato stravolto di proposito in quanto
la
sofferenza del protagonista, ancora viva in lui, è causata
dal suo amore
perduto.
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