Era solo un
gioiello
I
Eterni vincoli
Resta soltanto tutto il rimpianto
perché ho peccato nel
desiderarti tanto
ora son solo a ricordare e vorrei
poterti dire
guarda che luna, guarda che mare!
(Guarda che luna, F. Buscaglione,
1959)
La grotta,
immensa e terribile, si apriva con la sua bocca nera fatta di
stalattiti che
incombevano come fossero i denti aguzzi di un drago. Loki Laufeyson
pensò che
una volta c’era finito davvero, dentro le fauci spalancate e
venefiche di un
simile mostro. Jormungander era il suo nome e si trattava di una bestia
spaventosa e, allo stesso tempo, affascinante. Thor era con lui e gli
diede la
colpa dell’increscioso incidente; per poco non morirono
entrambi, ma fu
divertente uscire – era sempre terribilmente
divertente combattere con lui, spalla contro spalla. Una
smorfia gli
increspò il viso affilato. S’inoltrò
oltre i denti di pietra, con un pugnale
affilato in mano e una bolla di luce evocata grazie al seiðr
nell’altra. In
breve, si distanziò dal drappello, che lo seguiva titubante
ed esitava a
lasciarsi avvolgere dall’oscurità umida della
grotta.
A
Loki non interessava che lo seguissero. Provava un disgusto evidente
per quella
soldatesca prezzolata che non sapeva tenere nemmeno in mano una lancia.
Gli
Æsir erano un popolo di guerrieri feroci e impavidi, che
imparavano a usare le
armi quand’erano ancora bambini: non temevano la morte
né l’oscurità, così come
non lasciavano che, a influenzarli, fossero dicerie, leggende o le
forme strane
e mostruose assunte, talvolta, dalla natura. Allungò il
passo, compiacendosi
della solitudine e dell’oscurità che lo
circondavano: l’unico che fosse mai
stato degno di camminargli di fianco era passato dall’essere
fratello a diventare
un estraneo, eppure c’era qualcosa di sbagliato nel modo in
cui si erano
separati: Thor aveva fatto di tutto per afferrargli la manica o un
lembo del
mantello e tirarlo sul Bifrost spezzato anche dopo averlo combattuto e
lui,
invece, si era lasciato cadere, preferendo l’oblio alla
sconfitta. Ma davvero era
andata così?
Loki
non lo ricordava
e, a dire il vero, non era sicuro di volerlo rammentare. Gli ultimi
istanti
della battaglia quasi fratricida che aveva combattuto contro Thor sul
ponte che
collegava i mondi erano ricordi confusi, che si mescolavano tra loro
generando
incubi. Aveva dimenticato parte di quello che era successo e non ci
teneva a rivangarlo.
Gli era rimasto addosso altro – le origini controverse,
l’inganno subìto,
l’ombra della grandezza di Thor che l’aveva
offuscato, nascondendo la sua luce.
Ecco perché la solitudine gli era cara, in quel particolare
frangente della sua
vita: aveva trascorso mille anni interi con un fratello che gli era
stato
rivale, alleato, amico, ma che, alla fine, aveva ricusato per
dimostrare di
splendere come e quanto lui, se non di più.
Alcuni dei
servitori di Thanos lo
chiamavano principe Loki con
deferenza affettata, chinando lo sguardo, tributandogli omaggi solo in
virtù
della sua crudele inclinazione a tirare scherzi cattivi, a ingannare
per il
gusto di farlo. Temevano lui, il seiðr e l’influenza
che sapeva esercitare, in
virtù della sua sagacia e della lingua affilata e arguta,
sui potenti, anche
quelli più vicini al Titano. Lo appellavano principe
Loki, ma ad Asgard quelle due parole avevano avuto un sapore
diverso, più
puro, e non era solo per il fatto che fuori dei Nove Regni il nome
della gente che lo
aveva cresciuto veniva storpiato in asgardiani,
né perché una parte della mente
dell’ingannatore sapeva bene che il trono degli
Jotnar gli spettava per diritto di sangue.
Suo era il braccio che aveva impugnato Gungnir, la lancia che aveva
trapassato
la schiena di Laufey. Avrebbe potuto reclamarlo, quello scranno,
sì.
Rivendicarne il possesso, vantarsi, presso i Giganti di Ghiaccio, di
come avesse
ucciso il loro sovrano colpendolo a tradimento, alle spalle. La giusta
vendetta
toccata a colui che lo aveva lasciato morire, perché troppo
debole, su un picco
di ghiaccio. Nient’altro.
Il ventre di
pietra della caverna
proseguiva per decine di miglia,
rivelando cripte, cunicoli e pitture rupestri conservate per un qualche
colpo
di fortuna dovuto alla particolare atmosfera del luogo. Gli occhi verdi
e
mobili dell’Ase si soffermarono sulle iscrizioni leggermente
sbiadite, sulle
figure abbozzate, per poi puntarsi più in basso, sui resti
terreni della
popolazione perduta che, si diceva, avesse posseduto il segreto delle
Gemme
forgiate prima del tempo e dello spazio, quando l’universo
non aveva ancora un
nome. Agli occhi del dio dell’inganno, però, la
catacomba sotterranea non
sembrava affatto il nascondiglio di un segreto antico quanto la
creazione di
ogni cosa; gli pareva di più l’eco pallida di un
popolo che aveva avuto una
rapida ascesa e poi, altrettanto velocemente, era caduto
nell’oblio della
memoria. Le ossa che spuntavano dalle varie cripte suggerivano
un’esistenza che
per alcuni era stata piacevolmente serena, per altri breve e tragica.
In
lontananza, l’Ase avvertì i passi rapidi del
drappello giunto, finalmente, alle
sue spalle. Lasciò che lo raggiungessero, diede qualche
breve, secco ordine.
Era qualcosa che gli si confaceva, comandare. Un onere di cui aveva
accettato
il peso fin da quando la barba non aveva iniziato a pungergli il viso,
anche se
l’epoca delle scorribande fatte con Thor per il solo gusto di
andare a caccia
di avversari e sconfiggerli non si era affatto sopita: così,
i giochi infantili
fatti con spade spuntate o di legno si erano trasformati in
qualcos’altro –
nella necessità di combattere e vincere sempre, ovunque.
Scacciò quel pensiero
e tornò a inoltrarsi, solo e altero, tra i cunicoli di
pietra. Arrivò in quella
che era la parte più antica della grotta; glielo
suggerì l’aria rarefatta, la
forma più rozza e ipnotica delle figure dipinte e incise
sulle pareti, la
difficoltà che iniziava a incontrare nell’avanzare
tra i detriti. Si domandò se
non fosse il caso di tornare indietro e concludere così
l’esplorazione, ma fu
trattenuto da una sensazione strisciante, dall’intuito di
mago che gli faceva
pizzicare i polpastrelli. Forse quello che cercava era davvero in fondo
al nero
corridoio che, tortuoso, si stagliava di fronte a lui. Attirato da
quest’eventualità remota, ma possibile,
stirò le labbra in un ghigno, alla scoperta
del segreto che l’attirava nelle viscere della terra. Una
lastra di pietra impediva
l’ingresso: la spostò individuando il meccanismo
antico che la bloccava, mentre
un ghigno furbo e compiaciuto gli si disegnava sulle labbra beffarde.
Senza
indugio alcuno, avanzò rischiarando il buio col passo sicuro
dell’esploratore,
del cacciatore, del predone,
persino.
Fu allora che la
vide. La luce che
teneva in mano aumentò d’intensità,
consentendogli di ammirare una camera
naturale scavata nella grotta e, soprattutto, ciò che si
trovava al suo centro.
All’interno di un grande cerchio, c’erano due
scheletri vicini: sembrava che la
morte li avesse colti nel sonno, ma non era così. Si
trattava di una sepoltura
rituale, come testimoniavano gli oggetti deposti accanto ai resti. Il
mancato
re, figlio d’un sovrano spietato come il più
glaciale degli inverni e cresciuto
da un pirata che aveva ricoperto d’oro la sua casa, non
avrebbe dovuto posare
ulteriormente lo sguardo su una simile tomba. La ragione imponeva che
si
voltasse per andarsene, o proseguisse senza alcun indugio. Qualcosa,
invece, lo
trattenne lì; cos’era? Il bisbiglio quasi
impercettibile di un fantasma
desideroso di raccontare la propria storia, il guizzare di
un’ombra immaginata
grazie ai nervi tesi e all’erta, una percezione del mondo
visibile e
dell’invisibile, accentuata dal seiðr, mera
curiosità? Perché fermarsi? Per
quale ragione chinarsi e rimuovere, con un’onda leggera
d’energia – guai a
toccare con le proprie dita eleganti la polvere millenaria che dimorava
in quel
luogo – i detriti finissimi lasciati dal tempo?
L’Ase
si ritrovò a osservare l’ultimo vessillo di un
amore antico, perduto. Abbassò
lo sguardo per valutare ognuno degli indizi che i due scheletri gli
offrivano.
Lui era un guerriero nel fiore degli anni, morto per via di una ferita
alla testa.
Piegò le labbra in una smorfia appena accennata, si
tirò su, girò attorno alla piccola
fossa per farsi raccontare i dettagli di quella tragica fine. Il
defunto era
stato un soldato, sì. Lo riconobbe dalle placche di metallo
all’altezza delle
giunture, da certi segni sulle ossa riconducibili a degli scontri
antichi. Al
suo fianco, quasi stretto contro il suo petto, c’era un altro
corpo, più
minuto. Una donna, decise il dio degli inganni. Giovane, dedusse dalla
dentatura perfetta, morta per ultima, rimasta a vegliare i resti
dell’amato
fino a che quello non aveva chiuso gli occhi per sempre. Il
ritrovamento non
avrebbe dovuto sorprenderlo né sconvolgerlo, in effetti. Era
un’usanza antica,
ma certo non rara, quella di seppellire insieme due coniugi, due amanti. Loki lo aveva appreso nei
libri di storia e dalla bocca dei sapienti, ma c’era un
dettaglio, in quella
scena d’amore e di morte, che lo costrinse a tenere gli occhi
incollati sui due
crani vicini. La donna indossava dei gioielli, al momento della
sepoltura. Tra
questi, c’erano degli orecchini con una pietra
verde, incredibilmente simili a quelli
che aveva visto brillare su un altro volto. Uno dimenticato da troppo
tempo,
forse.
Il
drappello che lo seguiva era ancora intento a cercare artefatti magici
che
potessero indicare dove fossero le Gemme, mentre lui era lì,
a fissare il sonno
eterno, ma non per questo meno dolce e lieve, della coppia forse non
così
sfortunata, dedusse. Inclinò il capo da un lato, cercando di
ricostruire meglio
gli ultimi istanti del guerriero e della sua sposa. Il loro abbraccio
perenne
li aveva uniti in un disegno dai contorni indefiniti: pareva,
però, che lei,
negli ultimi secondi passati nel buio del sepolcro, gli avesse
accarezzato con
le dita la guancia, avesse baciato le labbra senz’altro
già fredde del suo
amante per un’ultima, disperata, volta. Quali parole poteva
avergli sussurrato
sulla bocca chiusa? I due teschi vicini raccontavano l’esito
di una passione
che certo non fece accelerare i battiti del cuore del dio degli
inganni. Decise
che gli orecchini della donna non gli interessavano ed erano ben poca
cosa,
rispetto alle sepolture razziate dalla soldatesca di Thanos in quelle
ultime
settimane. Semplici monili di giada che era bene restassero
lì, con la loro
legittima proprietaria, ma un pensiero, aguzzo come una freccia, gli si
conficcò nella testa.
Lei
gli era stata fedele fino alla
fine del tempo.
Si
voltò per riunirsi alla sua squadra, le cui voci
echeggiavano chiassose e
sempre più nitide sotto le alte volte di pietra. Non
desiderava che vedessero
la tomba; era certo che, se l’avessero trovata,
senz’altro non si sarebbero
fatti scrupoli nel violarla, giocando con i resti dei misteriosi
amanti,
beffandosi della morte come già aveva visto loro fare in
altre occasioni.
Arricciò
le labbra sottili, segnate da una cicatrice antica. Gli Æsir
che lo avevano
cresciuto erano un popolo di predoni e di pirati. L’oro che
ricopriva Asgard
fino alla sommità delle sue guglie non si era trasportato da
solo nel fiordo di
Ásaheimr, ma era stato depredato e razziato quando Odino era
giovane e, prima
di lui, ai tempi di Bor il Grande. Conquistatori sagaci, dunque,
senz’altro
brutali, che, però, avevano sempre trattato con una sorta di
doveroso rispetto
i defunti. Mentre il rumore secco dei propri stivali echeggiava sotto
la volta della
caverna, Loki Laufeyson ripensò a certi sontuosi riti
funebri visti da bambino,
osservati con gli occhi asciutti e una serietà nel volto che
si specchiava in
quella di Thor. Per loro era impossibile, a quel tempo, capire la
pietà e la
tragedia che l’interruzione di una vita portava con
sé. La morte era qualcosa
di lontanissimo, vago, nebuloso, che certo non li riguardava
né li avrebbe
riguardati a lungo: erano ancora benedetti dall’illusione di
essere
intoccabili, invincibili, immortali come nemmeno nelle leggende di
Midgard
riuscivano a essere. Gli Æsir seppellivano i guerrieri
caricandoli di armature
e gioielli e preziosi: tesori occultati con le loro insegne per rendere
il
passaggio nel Regno di Hel più facile e agevole,
perché l’accesso alle sale del
Valhalla, forse, doveva essere persino pagato. Toccare reliquie di tal
fatta
era qualcosa che Odino in persona, spesso, non si era vergognato di
compiere
nei confronti dei suoi avversari più temibili; Loki non era
così ipocrita da
non ammetterlo a se stesso, eppure raggiunse il sentiero di fioca luce
solare
che lo avrebbe portato all’uscita con le sopracciglia
aggrottate e il volto
pensieroso. Quegli orecchini. Nient’altro che due pendenti di
giada, ma d’un
verde intenso, brillante.
Lei ne aveva un
paio simili, quasi uguali.
Li indossava una delle ultime volta in cui si erano visti, quando
l’aveva
fissato con quel suo sguardo altero solo all’apparenza, ma in
realtà grigio,
liquido e dolce, evidenziato dal trucco. Sarebbe stata
l’ultima volta in cui ne
avrebbe fatto sfoggio, ma questo Loki non poteva saperlo. Due trecce
laterali,
appuntate con grazia sul capo, lasciavano scoperto il collo sottile e i
monili
scintillanti, tenendo a bada la cascata d’oro dei suoi
capelli.
Non
era bella più di altre, Sigyn, affatto. Esile e minuta, si
muoveva per lo
studio svelta, cercando l’ingrediente giusto per una pozione.
Di cosa avevano
parlato, in quell’occasione? Di libri, di eventi politici, di
una guerra
imminente, di incantesimi, di loro.
Di ogni cosa e nessuna.
Lui era
rimasto poggiato contro lo stipite della porta, le braccia incrociate
sul
petto, l’aria divertita e sorniona, e lei aveva fatto di
tutto per non
incontrare il suo sguardo e mantenere intatto il proprio contegno,
sforzandosi
di mostrarsi occupata. Aveva pensato fosse bella, ma quella riflessione
limpida
e chiara non era nuova: aveva già attraversato la sua mente
una notte lontana,
quella in cui aveva lasciato che il caos lo travolgesse, in cui le sue
dita di
mago avevano slacciato, abili e impazienti, il corsetto
dell’abito di lei, che
indossava alle braccia gioielli tintinnanti ed era ancora accaldata per
aver
danzato con altre ragazze attorno a un falò.
Ricordò la curva dolce del seno
piccolo e bianco, la morbidezza della sua pelle, il profumo inebriante
che si
confondeva col tocco incerto delle sue dita sottili su di lui, a volte
timide,
altre audaci.
Canti
lontani li avvolgevano con le loro melodie d’amore e di morte
appassionate e
lei gli aveva offerto le labbra e se stessa; Loki l’aveva
avuta e gli era
piaciuto sentirla vibrare a ogni suo tocco, aveva goduto nel possedere,
anche
se per una notte, il cuore e il corpo dell’altrimenti
intoccabile Sigyn, che lo
guardava da sotto le ciglia scure e non cedeva quasi
mai al gusto di raccogliere le sue provocazioni argute né
alla sua corte sfacciata, ma non abbastanza serrata perché
il suo interesse
potesse essere scambiato per una cosa seria. Così avevano
creduto entrambi, e invece.
“Quanta
preoccupazione nella tua voce, mia cara Sigyn. Si direbbe che tu non
abbia
fiducia nelle mie capacità,” le aveva detto,
caustico e crudele. Presto sarebbe
dovuto partire per una campagna militare poi rivelatasi lunga e
spossante,
vinta dagli Æsir solo grazie a un espediente.
A
quella frase, lei finalmente si era fermata in mezzo alla stanza: era
rossa in
volto e stringeva tra le mani un’ampolla.
“Avere
fede nelle tue capacità di guerriero non significa ignorare
i pericoli cui
andrai incontro.” Aveva scosso la chioma bionda, delusa che
lui non capisse e
fosse così cieco e orgoglioso. Frase che lei gli ripeteva
spesso, nel letto in
cui finivano per trascorrere ore troppo brevi strappate alle notti
fredde di
Asgard o a quelle, più miti e rare, di Vanheim. A volte, il
suo tono era
divertito e scherzoso; con i capelli biondi sciolti sulla schiena, lo
fissava
da sotto le ciglia lunghe e nere sorridendogli appena, la voce
carezzevole come
quello di una gatta, il fine lenzuolo di seta stretto sulle curve dolci
del
seno. Altre, invece, il suo timbro era amaro, incrinato, desolato
persino. Non
gli aveva mai chiesto di essere altro da ciò che era, ma,
nel segreto della
notte, forse, la sua volontà talvolta aveva vacillato,
facendole maledire la
loro attrazione che, di questo anche Loki era cosciente, come
un vizio assurdo e dannoso li teneva avvinti, sì,
ma in cosa?
In
una storia che non poteva essere altro che quello: sesso consumato tra
una
battaglia e l’altra, puntellato dal tarlo della gelosia e dal
bisogno di
averla, di godere della sua preda, di osservarla mentre si perdeva nel
caos in
cui lui – solo lui
– la gettava, di
sentirla tendersi dopo averla imprigionata sotto di sé, di
avvertire le unghie
che gli graffiavano spasmodiche le spalle, di ascoltarne i sospiri
rotti, di
osservare la testa buttata all’indietro, di baciare fino a
farle perdere il
respiro le labbra schiuse. E poi, dopo averle assaggiato la bocca, far
scorrere
la lingua sulla pelle chiara e tremante, liscia e perfetta, sua, finalmente, e, di nuovo, perdersi
in lei e con lei, affondando nel desiderio che lo spingeva a cercarla
anche
quando era ragionevole che non lo facesse, ribadendo il suo possesso,
braccandola
dopo i banchetti e infilandosi nel suo letto nelle visite sempre
più lunghe che
lei faceva ad Asgard.
In
quel tempo, vivevano una relazione nascosta, segreta, consumata e
vissuta
dietro le ombre di un braciere tremolante, soffocata nel buio di
respiri
spezzati, come quella prima notte folle. L’aveva vista
danzare, libera e
allegra, con quei bracciali tintinnanti alle braccia e alle caviglie e
si era
messo in testa che dovesse diventare finalmente sua, ma poi,
poiché non era
capace di rinunciare a niente, a nessuna cosa, era stato incapace di
saziarsene, anzi.
Così
era iniziata la loro storia, per poi guastarsi e di nuovo aggiustarsi,
perché
bastavano uno sguardo troppo lungo e una battuta perché
tornassero a guardarsi
di sottecchi.
“Temi
per la mia vita, adesso!? Ne sono lusingato,” aveva ghignato
lui, scostandosi
finalmente dalla porta per braccarla, ghermirla, catturarla ancora una
volta,
per il solo gusto di farla infuriare. Con un gesto fluido
l’aveva stretta a sé
e lei si era irrigidita, perché le era impossibile non
sussultare quando erano
troppo vicini, anche se non dividevano più il letto
– se lei si ostinava a
rifiutarlo.
Le
mani di Loki, allora, avevano preso a carezzare il tessuto liscio e
serico
dell’abito che aderiva alle sue forme femminili e invitanti,
saggiandone la morbidezza.
A quel tocco, un sospiro era uscito dalle labbra di Sigyn: aveva
socchiuso un
momento le palpebre truccate, inebriata da quelle carezze audaci a
sfacciate,
per poi riprendere il controllo e fissarlo. Gli si negava, ma lo
voleva, lo
desiderava; doveva sforzarsi con ogni fibra del suo essere, per
resistergli. Il
dio degli inganni lo sentiva, lo sapeva. E gli piaceva che lei
continuasse a
essere sua pur non essendo più la sua amante.
“Cosa
vuoi da me, Loki? Devozione, fedeltà assoluta,
amore?”
I
suoi occhi brillavano carichi di sfida, ma nella sua voce troppo seria
c’era
una punta d’irritazione di cui l’Ase conosceva bene
la natura: aveva tentato di
dimenticarla per poi cercarla ancora e questo lei non riusciva a
perdonarglielo,
né poteva far finta che non fosse successo nulla.
L’aveva
stretta a sé con un movimento felino e fluido, infilando una
mano tra le sue
ciocche color dell’oro per ghermirle la nuca e lei lo aveva
lasciato fare,
vero, per poi sollevare il mento, fiera e decisa come la regina che
avrebbe
meritato di essere. Era stato allora che, scostandole parte della
chioma con
quella carezza leggera e possessiva a un tempo, si era soffermato sul
baluginio
verde degli orecchini.
“Dici
che mi detesti, ma indossi i miei pegni,” le aveva fatto
osservare in un
sussurro, indugiando con le dita sulla pelle morbida e profumata,
sfiorando uno
dei pendenti.
“Sono
belli.” Un guizzo d’orgoglio le aveva illuminato lo
sguardo grigio e liquido,
carico di dolcezza. “Sono tuoi, Loki,” aveva
aggiunto dopo una pausa breve,
esitante. “Fai attenzione e torna da me.”
“Sono
il figlio di Odino, il principe di Asgard,” era stata la sua
risposta fiera,
orgogliosa. “Fa parte dei miei compiti combattere per lei,
dare ogni cosa per
lei.”
Sigyn
si era rabbuiata, tentando invano di liberarsi dalla sua stretta.
“Farti
catturare volutamente allo scopo di raccogliere informazioni per Padre
Tutto è
pericoloso, troppo pericoloso.”
Un
ghigno vittorioso e soddisfatto gli aveva increspato le labbra beffarde
e
ironiche. Il cuore della dea della fedeltà era ancora suo. “Voglio che tu sia
mia, stanotte. E lo vuoi anche tu.”
♥
Loki
Laufeyson, comandante in capo di una delle squadre di Thanos impegnate
nella
ricerca di indizi circa le mitiche Gemme dell’Infinito,
riemerse dal buio della
grotta assieme al drappello che lo aveva seguito. Lui solo si era
inoltrato
fino alla parte più profonda della caverna tanto simile alla
bocca di uno
spaventoso drago, per poi annunciare, con voce asciutta, di non aver
trovato
nulla di rilevante. Si trattava di una mezza verità.
Qualcosa, nel buio della
terra, l’aveva scovata. L’immagine della sepoltura
duplice era ancora impressa
nella sua mente e, in tasca, sentiva il peso dell’orecchino
che aveva rubato –
uno solo, l’altro era rimasto ad abbellire i resti pietosi.
Un gesto indegno,
compiuto per assecondare il brivido che lo aveva pervaso quando si era
deciso a
violare un precetto antico quanto l’Yggdrasill,
sì, ma perché?
Raggiunse
a passo spedito l’imbocco della nave che lo avrebbe riportato
al quartier
generale, senza voltarsi verso l’apertura dentata
dell’antro, concedendo solo
uno sguardo di sufficienza ai soldati che gli era toccato in sorte di
comandare, offeso, una volta di più, dal fatto che non
avessero valore, che non
fossero alla sua altezza. Lo spettro
della caduta s’insinuò nuovamente nel suo spirito
fiero e irrequieto,
graffiando e mordendo, ma il ricordo di quell’orribile
momento si affastellò,
nella sua testa, con altre immagini e voci. Si rese conto di non aver
più
pensato a Sigyn per un tempo lunghissimo. Estrasse dalla tasca
l’orecchino
trafugato, ne sfiorò con i polpastrelli la pietra lavorata
con cura, pensò alle
sue labbra, ritrovò, nella memoria, il suono dei bracciali
tintinnanti che le
adornavano le braccia sottili. Strinse le dita attorno al gioiello. Nel
lungo
periodo che era trascorso da quando si erano visti per
l’ultima volta, era
riuscito a soffocare perfettamente il ricordo di lei, nascondendolo
dentro una
piega nascosta della sua anima, dov’era rimasto
all’ombra di pensieri, di considerazioni,
di desideri persino, in attesa di riemergere all’improvviso.
L’aveva
sacrificata all’altare del potere, della brama di conquista
che si era
impadronita del suo spirito, esasperata dalla continua sfida a senso
unico che
aveva intrapreso per essere degno di un trono che, in
verità, era sempre
spettato a un altro.
Riaprì
il palmo della mano con lentezza, lasciando scivolare di nuovo lo
sguardo acuto
e verde sulla pietra del medesimo colore, per poi increspare le labbra
sottili
in una smorfia carica di dispetto e non solo. Il monile non era uno dei
suoi orecchini, ma quello, solo
simile,
di un’altra donna, che di lei
aveva
avuto senz’altro lo spirito determinato.
Non
l’aveva dimenticata, ma persa.
Guarda che luna, guarda che mare,
da questa notte senza te
dovrò restare
folle d'amore vorrei morire
mentre la luna di lassù
mi sta a guardare.
(Fred Buscaglione, Guarda che luna)
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