Di spettri oscuri e di racconti sussurrati
Di spettri
oscuri e di
racconti sussurrati
“La soddisfazione non
è nella mia natura.”
(Loki Laufeyson, Thor: The Dark
World, 2013)
What if I’m wrong,
what if I’ve
lied
What
if I’ve dragged you here to my own dark
night
And
what if I know, what if I see
There
is a crack run right down the front of me
(What
if I’m wrong, Wolf Larsen, 2012)
Stati Uniti,
Boston 1902, un mondo
diverso
“Cos’ho
fatto per Asgard? Tutto. Ogni cosa.
Le ho dedicato le mie rune più potenti, ho combattuto
immerso fino alle
ginocchia nel sangue e nel fango, per lei, solo per lei,
affinché fosse sempre
più grande, il suo trono d’oro pronto ad
accogliermi come suo legittimo
sovrano. Un brivido d’eccitazione corre lungo la mia schiena
al pensiero di ciò
che è stato – del potere che scorreva nelle mie
mani, delle battaglie
combattute in prima linea. Nelle mie vene scorre il sangue di re
feroci, che
assoggettarono popoli interi, ma non quello di Bor o del dio delle
forche,
no. Colpa dell’inganno perpetrato da Odino, che ha chiamato figlio la sua reliquia rubata, una delle
molte che ha nascosto nel suo palazzo in attesa che potesse, un giorno,
tornargli
utile. Il mio cuore è fatto con il ghiaccio della gelida
Jotunheim, ma degli Æsir
mantengo l’aspetto,
perché sono entrambi e nessuno. Senti il suono della mia
voce? Ne avverti il
potere e la forza? È una delle mie armi più
terribili, distruttive e affilate, che
supera persino i pugnali: ho conquistato regni e popoli, catturato fin
troppe prede,
grazie alle reti tessute dai miei brillanti ragionamenti. Li hanno
chiamati inganni e di quelli mi
hanno fatto il
signore, il dio, anzi. Hai paura, adesso? Conosci il mio nome e la mia
natura, ma non sai ancora cosa voglio, cos’ho voluto, cosa
desidero ora. Con la
mia arguzia ho sedotto avversari, irretito guardiani, ottenuto il
perdono,
sfidato mostri che si facevano chiamare Titani.
Cos’ho
perso, per Asgard? Tutto, ogni cosa, ma
il regno di Odino prevede che si paghi un prezzo alto, per la gloria
delle sue
torri immense, che si affacciano su fiordi belli come non ne esistono
di più
incantevoli nell’universo. Da quanto tempo attendo che la mia
prigionia venga spezzata,
le catene infrante? Da troppo. Allora, ascolta la mia storia, sciogli i
nodi
che mi tengono ancorato tra il mondo dei vivi e quello dei morti, poni
fine a
ciò che hai iniziato!”
“Per
quante notti ancora tornerai a tormentarmi?”
Una
risata secca risuonò nel buio.
♦
Sophie
si svegliò di scatto. Lo aveva sognato ancora, di nuovo, ma,
come le era già
capitato le volte precedenti, non era in grado – o non voleva
– dire cosa, come,
chi. L’incubo, vividissimo
e reale, aveva
il potere di turbarla e scuoterla nel profondo, lasciandole addosso gli
strascichi di una necessità impellente, sempre diversa:
cercò a tentoni il
bicchiere d’acqua posto sul comodino, fortunatamente non lo
urtò, bevve. La
treccia, bionda e sfilacciata, pendeva sopra la camicia da notte
immacolata.
Lui aveva preso possesso dei suoi sogni, raccontandole storie scure
perdute e
lontane, ma si accorse di non ricordarne che vaghi frammenti
disordinati. Era
maggio inoltrato, ma la primavera sembrava non voler arrivare; oltre i
vetri
della finestra, l’accolse un cielo nero, ancora avvolto dal
mantello cupo della
notte. Rabbrividendo, s’infilò svelta una
vestaglia e, senza far rumore, si
diresse ai piani inferiori dell’abitazione. I domestici
dormivano ancora e non
si sarebbero accorti di lei che vagava, di nuovo insonne.
Aprì la porta dello
studio, accese un lume regolandone l’intensità,
affinché solo un fioco raggio
di luce illuminasse la scrivania. Il medaglione – si
corresse, l’amuleto – era
lì, posato su un fazzoletto di fine batista. Il lavoro di
pulizia non era
ancora terminato. Ne sfiorò i contorni con i polpastrelli
incerti, provando a
ravvisare i segni di quell’incisione tirata fuori dalla terra
e dal fango,
ultimo tesoro di un popolo perduto di pirati e di predoni che avevano
terrorizzato l’Europa intera, i cui dèi feroci
promettevano un paradiso pieno
di idromele ai guerrieri che morivano in battaglia, con in mano le armi
ancora
sporche di sangue.
Era
dalla notte del rito che il suo sonno era disturbato da innumerevoli
incubi tetri,
contorti, tutti intensissimi. Il medico l’aveva chiamata
suggestione e la
parola isteria aveva attraversato
il
salotto ben arredato dove suo zio si era premurato di offrirgli un
tè, suonando
implacabile come una sentenza. Sophie non riusciva ad accettare che, di
punto
in bianco, fosse diventata una di quelle signore dell’alta
società che si
mettevano a gridare e a svenire per chissà quale trauma
sopito legato
all’infanzia o alla loro femminilità soffocata.
Non provava disprezzo per quelle donne, né per la scienza
nuova che si
prefiggeva lo scopo di aiutarle, anzi: si era interessata molto agli
studi del
professor Sigmund Freud e aveva letto la sua recente e interessante
dissertazione su come si stesse prodigando per curare quel male, ma era
certa
di non esserne affetta perché ne conosceva la causa.
Lui
c’era: le faceva visita da troppo tempo, perché
non
fosse reale. Non badò al fatto di avere le punte delle dita
fredde – gelate,
addirittura – e prese in mano la reliquia fissando le rune
che vi erano incise
sopra. Formavano una maledizione, ora Sophie lo sapeva:
gliel’aveva sussurrato
lui con una risata bassa, malvagia, mentre una delle sue mani eleganti,
di
mago, le ghermiva la vita e un’altra scivolava sotto
l’orlo della camicia da
notte, esplorando la pelle sensibile sotto la stoffa.
Rabbrividì.
Non
era reale. Era un parto della sua fantasia, che si era fatta eccitabile
e
sensibile dopo che suo zio l’aveva portata nella brughiera,
di notte, a
recitare, sopra le sacre pietre millenarie di un altro popolo, un rito
antico
che era fallito, così avevano detto tutti. Il vecchio orbo
dal cappello floscio,
che aveva venduto loro l’amuleto spacciandolo per un tesoro
vichingo, era un
truffatore che doveva aver acquistato il medaglione in qualche mercato,
nulla
più.
Invece,
irretito dalle parole di quell’imbonitore
dall’aspetto di un mendicante, ma
dotato dell’eloquenza di un re, suo zio si era convinto di
avere tra le mani un
artefatto magico, capace di sollevare il velo che esisteva tra mito e
storia.
Alcuni di coloro che avevano assistito alla scena, non si erano fatti
scrupoli
nel definire il tentativo non un esperimento, ma un insulto alla
scienza; la
ragione, del resto, aveva già condannato da tempo teorie
prive di fondamento
come il mesmerismo e lo spiritismo, relegando la passione che taluni
nutrivano
per l’occulto e per i misteri che separavano i vivi dai morti
a superstizioni
da lavandaie, nient’altro. Quelle accuse non avevano scalfito
affatto la sete
di conoscenza di suo zio. La sua mente era corrosa dalla
possibilità, remota e
assurda, di evocare a sé legando alla propria
volontà spiriti potenti,
ultraterreni. E lei cosa aveva pensato allora, quando i suoi sonni
erano ancora
sereni e non abitati da una presenza costante, spaventosa,
irrinunciabile come
i racconti d’orrore e di guerra con cui la spaventava?
Un
brivido basso l’avvolse, turbandola. Era qualcosa di
difficile da descrivere:
un languore, una mollezza che le serrava le viscere, facendola sentire
donna al
solo pensiero dei vaghi sogni e della figura che li occupava tutte le
notti.
Che voleva? Perché, tra tutti coloro che avevano assistito
all’invocazione, era
stata scelta lei?
Un
impulso la spinse a indossare l’amuleto, a sentire la
sensazione di freddo
sulla pelle che le provocava il metallo antico e capì
– o meglio, ricordò – che
anche lui desiderava il medaglione.
Si
sforzò di rammentare tutti i dettagli dei suoi incontri
onirici, anche quelli
apparentemente più insignificanti che, in quel momento,
parevano decisi a
sfuggirle. Lottò contro se stessa per riafferrarli. Voleva
che lei facesse
qualcosa per suo conto. Doveva sciogliere
i nodi, sì, ma la frase non aveva del tutto senso.
Eppure era certa che
fosse quella la natura del suo tormento. Ecco cosa bramava, ecco
perché le
sussurrava storie meravigliose e oscure; doveva spezzare
un vincolo. Sophie aggrottò la fronte, in cerca
del giusto
ricordo in mezzo alla confusione provocata da quegli incubi strani, che
la
lasciavano spossata, vividi e, allo stesso tempo, incerti. Al risveglio
non
ricordava mai quasi nulla, ma a mano a mano che il tempo passava,
emergevano
frammenti di discorsi e di impressioni che, sommati insieme, formavano
un
quadro più completo e, in un certo senso, coerente.
Trattenne il respiro, sfiorando
di nuovo le rune incise sull’amuleto: lui
non si accontentava di niente e voleva tutto, ma non riusciva
a rammentare
se quella fosse stata una frase pronunciata dal visitatore beffardo o
una sua
riflessione. S’immobilizzò, perché il
suono di quella voce leggermente
arrochita era dentro di lei, sulla sua pelle, nelle sue vene. Strinse
il
medaglione, chiedendosi quale stregone o mago o divinità
scesa in terra lo avesse
creato, chi fosse stato così abile da riuscire a
imprigionarlo lì dentro.
Se
glielo avesse chiesto, le avrebbe
risposto?
Nel
silenzio irreale della notte, un soffio, gelido e leggero come una
carezza o un
sospiro, la fece sobbalzare. Alzò lo sguardo lentamente,
mentre sentiva
l’adrenalina scorrerle nelle vene, paralizzandola; che cosa
strana e terribile,
che la paura fosse capace di inchiodarla lì, in piedi,
dietro la lunga
scrivania in mogano di suo zio, bloccandole persino la lingua e
impedendole di
gridare. Il buio si era addensato, andando a formare la sagoma nota di
un uomo
visto troppe volte – uno che non era tale, ma
l’ombra di qualcosa senza
nome che era stato e, ora, non era più. Solo che il
confine tra l’irreale e il reale non può essere
varcato, né è possibile che vi
siano, tra i due mondi, commistioni di qualsivoglia natura.
Era
sveglia e vigile e presente e davanti a lei c’era
un’allucinazione,
nient’altro. Pregò che fosse così, ma
non fu in grado di dire a chi rivolse
quella richiesta, allo stesso tempo muta e accorata. Protetta dal
mobile, con
le dita ancora strette sull’incisione del medaglione,
parlò con un filo di voce
che ruppe il silenzio.
“Chi
sei tu?”
L’accolse
una risata breve, fredda, roca. Conosciuta, ma che non apparteneva alla
realtà
né al suo tempo.
“Oh, Sigyn, non deludermi con domande
inappropriate. Guardami: tu sai chi sono, ricordi cos’hai
fatto. Te l’ho
raccontato.”
Tentò
di fuggire, ma era come se i suoi piedi si fossero stati incollati al
pregiato
tappeto persiano. L’aveva chiamata di nuovo con quel nome
straniero, dolce e
amaro insieme, che, pronunciato dall’ombra, assumeva un tono
a metà strada tra
l’ammirato e il sarcastico.
Era
appartenuto a un’altra,
gliel’aveva già raccontato in uno dei loro
incontri passati.
La
figura nera si staccò dalla parete, avanzando verso una
poltrona e sedendovisi
come avrebbe fatto su un trono d’altri tempi, ma con
scomposta malagrazia.
La luce fioca della lampada ora lo illuminava, anche se solo
parzialmente,
rivelando un volto affilato e bello, un corpo agile e scattante, di
guerriero.
Si era mosso come se il mondo intero gli spettasse di diritto, con
esibita e
sfacciata arroganza, conscio di stupirla e di spaventarla al tempo
stesso.
Merito della corazza di pelle intrecciata dai colori cupi,
dell’armatura dorata
che gli proteggeva gli avambracci e le spalle, della bandoliera piena
di
pugnali.
“Sei
un’allucinazione, un sogno,” mormorò
lei. “Un fantasma. Niente di più.”
Le
rivolse un’occhiata lunga, rapace. “Conosci il mio
nome; pronuncialo, come hai
fatto durante il rito,” la incalzò freddamente
l’ospite non invitato.
Sophie
scosse la testa con forza. Era sicura di essere sveglia, eppure lui
fino ad
allora non era mai riuscito a uscire dalla sua testa; era sempre
rimasto confinato
nell’irreale, ragione per cui lei stava senz’altro
dormendo. Strinse le mani a
pugno conficcando le unghie nei palmi, per provare a destarsi, per
accertarsi
di sentire qualcosa: una fitta di dolore l’avvertì
che era sveglia, infrangendo
ogni sua speranza, confermando le sue paure più oscure.
“Il
rito è fallito. Erano solo vane parole. Sono
pazza,” ammise – decise. Quell’idea,
fino ad allora ricusata con forza, le sembrò consolante,
persino piacevole. Era
isterica. L’apparizione di fronte a lei non era reale, ma una
proiezione
incorporea di timori e di desideri, il risultato esecrabile che un rito
pagano
aveva avuto sul suo spirito evidentemente sensibile di donna. Si era
immaginata
che la cerimonia si fosse compiuta e l’essenza incorporea
evocata avesse deciso
di tormentare, tra tutti, proprio lei. Sorrise al buio e allo spettro
che
ghignava soddisfatto, perché, nel profondo del suo cuore,
non credeva a una
sola parola di quanto si era appena raccontata mentalmente. Lei non era una debole fanciulla esaltata,
dotata di un’immaginazione troppo viva. Era tutto
dannatamente,
spaventosamente, reale. Una lacrima calda le rigò la
guancia. La lasciò cadere
in silenzio, senza emettere un solo suono.
Lo
spirito assottigliò le palpebre, come se apprezzasse il suo
dolore contenuto,
per poi concederle un sospiro degno di un uomo in carne e ossa.
“Se
evocati, gli dèi appaiono: ecco perché si usano i
kennings e le formule atte a
pronunciare, nel giusto modo, i loro multipli
nomi,” spiegò, accompagnando le frasi con alcuni
gesti eloquenti delle sue
belle mani. “Tu conosci il mio nome.” Lo
ripeté sporgendosi verso di lei,
accarezzando con le dita il bracciolo della poltrona. “Lo hai
pronunciato.”
“Non
è vero.”
“Nei
tuoi sogni. Ti ho incontrata. Ti ho raccontato molte delle mie
storie,”
insistette. “E continuerò a farlo per tutte e
cento le notti che mi sono state
concesse,” promise.
“Sto
sognando. Anche adesso sto sognando,” ribatté lei,
ma si accorse che non era esattamente
la verità, quella che aveva pronunciato.
Lui
piegò le labbra in un sorriso sbieco e laterale, di lupo.
“Davvero?”
La
battuta ironica aveva la forza di un giudizio, di una verità
scritta nella sua
anima. Si chiese se lo spirito di fronte a lei, aristocraticamente
accomodato
sulla poltrona, potesse riflettersi nell’ovale di uno
specchio. Faceva freddo.
Un gelo innaturale aveva stretto lo studio in una morsa crudele,
contribuendo a
rendere l’atmosfera irreale. Non sentiva più la
punta delle dita, tanto da non
riuscire a comprendere se stesse stringendo ancora il talismano. Se ne
accertò
abbassando lo sguardo e seguendo l’ombra che, beffarda,
occhieggiava nella sua
direzione, soffermandosi sulla sua figura. La valutava.
“Cosa
vuoi da me?”
“Concludi
il rito. Avete risvegliato qualcosa, ma poi vi siete tirati indietro
con
codardia,” puntualizzò inarcando un sopracciglio.
“Dimostrami il tuo coraggio, Sigyn.”
“Mi
chiamo Sophie. Quel nome non è il mio,”
boccheggiò lei, tentando di sostenere
il suo sguardo.
Un’altra
secca risata avvolse la stanza sempre più fredda.
“Ma lo
è stato,” le rivelò inclinando il capo
da un lato, come per guardarla meglio o
per compiacersi della sua espressione smarrita.
“È
una bugia. Tu mi inganni.”
“Ti
piacerebbe, non è vero?” La voce
dell’uomo si fece più roca, suadente.
“Sarebbe
consolante sapere di essere una vittima dei miei sotterfugi, schiava
delle mie
parole, non è vero?”
“Tu
non sei reale.”
La
ragazza tentò nuovamente di andarsene, ma l’altro
la inchiodò dov’era, come se,
con la sua sola presenza, fosse capace di imprigionarla
all’interno di una
ragnatela invisibile.
“Esistono
cose che non possono essere né toccate né
viste,” puntualizzò tetro. “Non
sottovalutarle, commetteresti un errore fatale,” sorrise, ma
non c’era
divertimento alcuno nel ghigno che assunsero le sue labbra sottili e
ironiche. Si
alzò dalla poltrona per girare attorno alla scrivania e
raggiungerla. La
sovrastava in altezza e la sua figura nervosa suggeriva una forza
sottesa,
nascosta sotto le belle maniere e l’eloquio brillante, ma
pronta a esplodere. “Io
sono reale. Come te. Non è questo ciò che ci
rende diversi.”
Un’improvvisa
consapevolezza le attraversò la mente: era in trappola e
doveva stare al suo
gioco, come, talvolta, era riuscita a fare nei suoi incubi.
“Ma
sei prigioniero. Sei incatenato qui, legato a un medaglione. Sei
maledetto.”
Fece una pausa, emise un sospiro. Chiamarlo per nome era come liberare
definitivamente qualcosa che dimorava dentro di lei, in
profondità. “Sei
maledetto, Loki, dio degli inganni.”
“Anche
tu, anche voi tutti,” fu la fiera risposta, data con una
punta di dispetto. Il
dio degli Æsir era palesemente offeso dal fatto che gli
venisse rinfacciata una
prigionia ritenuta ingiusta.
Ma
cos’altro
dire allo sprezzante ingannatore di Asgard, che la chiamava col nome di
un’altra donna su cui lui aveva vantato un non ben
specificato possesso? Come
proteggersi dalla furia di una creatura che aveva più di
mille anni e aveva
visto ogni cosa? Loki le si avvicinò, sfiorandole con la
punta delle dita la
guancia ancora umida.
Sì,
era
reale.
Non
come lei o suo zio o le cameriere che dormivano nei loro letti o
chiunque altro
in città e altrove, ma in quel momento preciso era vivo e
aveva un corpo e
Sophie poteva sentire il suo tocco freddo sulla pelle, avvertire la
carezza
leggera che all’Ase servì per sollevarle il mento,
sfiorarle con i polpastrelli
le labbra.
“Conosci
le mie storie, Sigyn. Sai cosa devi fare,” le
suggerì perfido, quasi
ghermendole un bacio per il piacere insaziabile di avere
tutto, ogni cosa.
“Tormenti
i miei sogni perché ti servo, ti sono necessaria. Anche il
rito lo era,”
osservò la ragazza con una consapevolezza che la
stupì, ma che all’altro strappò
un altro dei suoi sorrisi sbiechi.
“Devi
volermi vedere libero, Sigyn, con ogni fibra del tuo essere; e alla
fine del
tempo che mi è stato dato, al termine della centesima notte,
lo vorrai, fidati
di me.”
♦
Le
raccontò chi fosse, come faceva ogni sera da quando,
incauta, stretta nel suo
mantello aveva partecipato per curiosità e gioco al rito
antico. Così Sophie, o
Sigyn, come lui la chiamava, grazie alle sue parole, visitò
di nuovo la
magnifica Asgard che non c’era più, la
città degli dèi fatta di torri d’oro
che
scintillavano alla luce del sole. Loki l’aveva amata, quella
terra non sua che
si affacciava sui fiordi. Aveva calpestato il legno pregiato di cui
erano fatti
i pavimenti della sua sontuosa reggia con la fierezza di un principe
cui era
stata fatta accarezzare l’ombra di un trono opulento, ricco,
fatto anch’esso
d’oro, su cui poteva sedere solo chi era degno. Le labbra
dell’Ase che non era
tale – anche questo le aveva detto – tremarono
appena al ricordo bruciante del
desiderio nero che gli aveva avvelenato il cuore, così come
le sue dita agili e
belle, di mago, si mossero con meno fluidità, nel loro
continuo accompagnare la
lingua svelta del dio degli inganni e degli scherzi. Per gli
Æsir aveva fatto
ogni cosa, ma non era bastato e, alla fine, era stato comunque
considerato
indegno. Sì, i racconti d’avventura e
d’astuzia di Loki lasciavano trapelare
sempre altro, anche quando erano brillanti e divertenti –
avventure passate,
lontane, vissute durante una giovinezza durata secoli interi.
Eppure
non c’era alcun tipo di rimpianto nella sua voce arrochita e
suadente. Spesso
il suo tono era amaro e sarcastico in una maniera quasi crudele,
soprattutto
quando si soffermava a ricordare Asgard e le battaglie che aveva
combattuto con
e contro suo fratello, ma era certa che, potendo scegliere, Loki
avrebbe
comunque fatto ogni cosa, replicato ogni azione, ripetuto ogni scelta,
perché
anche la più bassa nequizia era stata compiuta dopo una
lunga ponderazione.
Magari avrebbe corretto il tiro per evitare taluni sbagli che persino
lui, sebbene
fosse un dio, aveva commesso grazie al suo spirito troppo simile a
quello degli
uomini, ma, dal suo punto di vista, gli errori erano
opportunità, perché
concedevano il privilegio della conoscenza.
C’era grandezza, nelle sue frasi, intelligenza, nei
ragionamenti, forza nelle
sue parole, fierezza nelle idee che sosteneva con vigore. Forse, decise
Sophie
o Sigyn, quando il dio degli inganni era con lei quel nome le si
appiccicava
addosso legandosi alla sua anima, forse, se
l’avidità non lo avesse corrotto,
sarebbe stato davvero il principe illuminato degno di essere
l’erede di Odino.
Ma Loki era anche altro: lo diceva ciò che rimaneva sotteso
nei suoi discorsi
pervasi da una logica stringente, viziati dal suo punto di vista
arguto, spesso
esaltato da brame terribilmente terrene. Lo dominava il caos: per
questo, probabilmente,
si trovava a essere la vittima di un incantesimo che, per essere
sciolto,
necessitava il pagamento di un prezzo così alto come il
raccontarsi a lei. La
sua brama di desiderare sempre di più, la sua
incapacità di rinunciare a
qualsiasi cosa, lo spirito senz’altro appassionato, lo
avevano condotto a
sfidare l’incerta fortuna e a finire rinchiuso in una
prigionia orribile. Ma è impossibile
catturare il caos – così come sarebbe ingiusto e
inverosimile che Loki si
accontentasse, che si acquietasse crogiolandosi con ciò che
ha già, anziché
anelare a quello che potrebbe avere.
Eccola,
la vera punizione del dio degli inganni: la soddisfazione non era nella
sua
natura. Nessuna cosa avrebbe mai potuto sopire il fuoco che gli
bruciava
dentro. Nemmeno dell’Hliðskjálf, il
magnifico scranno di Odino, si sarebbe
accontentato, alla fine.
Quella
notte, l’Ase le narrò
dell’incoronazione mancata e del vuoto che gli aveva morso il
petto nel pensare
che sarebbe stato suo fratello Thor, e non lui, a essere insignito del
titolo
di re. Eppure non era solo per il trono che doveva essersi lasciato
cadere giù
dal Bifrost spezzato, quel ponte color arcobaleno che le aveva
descritto con
tanta cura e dovizia di particolari da farglielo sembrare reale; era
stata l’avidità,
a perderlo. Quella era la sua
colpa. Trapelava nell’ironia con cui Loki condiva certi
ragionamenti,
spiegandole la sua verità affascinante e certamente
parziale, distorta. Il dio
degli inganni era stato rinchiuso in un medaglione perché
non aveva saputo
accontentarsi di ciò che già possedeva. Il suo
difetto era nell’insoddisfazione
che definiva la sua natura scostante, volubile, irrequieta, nervosa,
secondo
taluni persino folle. Ecco perché si era perso
nell’abisso siderale, profondo e
tetro. Se non riusciva ad avere ciò che desiderava, allora
tanto valeva cercare
di ottenerlo in un altro modo – o ambire a un potere ancora
maggiore di quello
di Odino e della sua lancia incantata.
Ecco cosa lo aveva spinto a legarsi a creature oscure e ataviche, la
cui
descrizione rapida, ma accurata, aveva fatto sussultare per lo sgomento
Sophie.
Esseri d’inimmaginabile potenza che puntavano a stabilire
l’andamento
dell’universo in virtù di principî
malvagi, venefici.
Le
narrò
di quel periodo buio, passato a cercare artefatti perduti per conto di
un
signore severo e crudele che non si sarebbe fatto scrupolo alcuno di
strangolarlo o di staccargli la testa al minimo errore; lo disse
compiacendosi
del terrore che le ispirava, soffiandole contro tutte le
malvagità che non
aveva esitato a compiere, per il gusto di poter anche solo sfiorare
l’immenso
potere di quegli oggetti mistici, arrivando a rivelarle persino di una
sconfitta e del furto di una gemma capace di soddisfare, almeno in
parte, la
sua sete di libertà – il Tesseract.
“Perché
mi racconti le tue storie, dio degli inganni? Perché dovrei
credere che non
siano fiabe o menzogne?”
L’Ase
la fissò con un’attenzione lupesca e le
sfiorò di nuovo la guancia,
compiacendosi nel trovarla morbida, per poi avvicinarsi al suo
orecchio, tanto
che Sophie poté avvertire le sue labbra che le lambivano il
lobo. Un braccio le
ghermì la vita sottile, facendole comprendere
all’improvviso quanto leggere
fossero la camicia da notte e la vestaglia che la coprivano.
“Solo
la conoscenza offre la possibilità di una libera scelta. A
me questo serve. La
libertà.”
Si
svegliò nel suo letto, ansante, col cuore che le batteva
all’impazzata. La
parte superiore della camicia da notte era slacciata, esponendo la sua
pelle
delicata al freddo mattutino della stanza. Non era reale, non era assolutamente reale, ma allora
aveva davvero sognato che
Loki premesse la bocca sulla sua, strappandole con un ghigno
soddisfatto un
bacio?
♦
Era
una seduzione, quella del dio degli inganni, nient’altro che
questo. Le
settimane si erano susseguite rapide, tormentate dalle visite notturne
e dalle
storie antiche sussurrate nella notte dal beffardo Ase. Il ricordo
della sua
lingua che le accarezzava la pelle le provocava brividi bassi,
incontrollabili,
frutto di pensieri impuri. Loki amava giocare, indugiare, esasperare
– ecco
perché, risvegliandosi, lei si ritrovava con una mano tra le
gambe umide. L’ingannatore
era entrato nei suoi incubi impadronendosene, mormorando una storia
fatta di
mille altre che, a ogni alba, si interrompeva sempre sul più
bello, per poi
ricominciare la sera appresso. E lei, complice quanto Loki, aveva
desiderato
che lui continuasse, immaginato che potesse farlo, abbandonandosi
totalmente a
quella cosa oscura che alcuni chiamavano inconscio, altri follia.
Era
pazza o posseduta – stava permettendogli di farla cadere nel
baratro del caos.
La vergogna per il sospiro rapido e affannato con cui si era svegliata
si legò
ad altro: voleva liberarlo. Dopo
ogni
visita dell’Ase, la sua sincerità ingannevole e
affascinante e l’eloquio
appassionato la convincevano a cedere un po’ di
più. Merito anche dei modi
squisitamente cortesi, dei racconti spesso smaccatamente crudeli, dove
nessuna
malefatta veniva taciuta, era evidente – o, almeno,
così Sigyn voleva credere,
ma quella sincerità disarmante poteva essa
stessa essere l’inganno. Loki presentava spesso i
fatti dicendo di non
voler dare su di essi alcun tipo di giudizio, nella loro spietata
lucidità, ma
il modo neutrale con cui si sforzava di presentarli riusciva sempre a
far
sorgere, in lei, la stilla del dubbio, l’ombra di un sospetto
accentuato dalla
piega ironica delle labbra sottili dell’Ase, perennemente
arcuate in un ghigno.
Sotto il manierato e, talvolta,
cerimonioso sussiego che
le tributava, riusciva a intuire la ferocia del barbaro, del guerriero,
del dio
vichingo rinchiuso da troppo tempo, adorato e temuto, incapace di
saziarsi di
ciò che aveva, desideroso di possedere nuovamente anche
ciò che aveva perduto
in un tempo e in un luogo diversi, per via di un artefatto magico
dall’insondabile potere.
Sì,
le parole di Loki erano piene di garbo, la sua voce avvolgente, ma lo
sguardo,
buon Dio, era gelido come se fosse fatto del ghiaccio che avvolgeva le
cime
perennemente bianche delle montagne.
Quella
furia, solo tenuta a bada, ogni tanto si affacciava, rapida, comparendo
per un
istante nel modo compiaciuto con cui il dio degli inganni descriveva
una
colorita vendetta, nell’implacabile e sprezzante analisi di
certe valutazioni.
Era la sfacciata schiettezza di Loki il problema – di quello
spirito dall’aria
divertita che diceva di chiamarsi Loki e vantava ascendenze regali,
oltre che
divine. Sosteneva altero che non gli interessava mentire,
perché non ne aveva
alcun bisogno, ma la verità era leggermente più
complessa, meno netta. Lo
intuiva seguendo il brillio fugace che gli illuminava, talvolta, gli
occhi
verdi e attenti. Loki era un’ombra solo per
l’apparente inconsistenza del suo
corpo, perché il suo sguardo era vivo, reale, penetrante e
attento a ogni
sfumatura del terrore da lei spesso mostrato, capace persino di
guardare oltre.
Il
principe perduto degli Æsir aveva bisogno di convincerla
razionalmente a
sciogliere il nodo che lo teneva collegato all’amuleto e ci
stava riuscendo,
questo era il problema. Diceva che si trattava di un passaggio
necessario, lungamente
atteso. Non contento, insisteva per chiamarla con quel nome scaldico
che aveva
scelto chissà per quale dimenticata leggenda.
L’amabile conversatore, il dio
delle menzogne e dei sotterfugi, sapeva selezionare con infinita cura i
vari
argomenti delle sue storie.
Cosa
le rimaneva addosso, di quei racconti splendidi e terribili di cui non
riusciva
più a fare a meno? Il dio delle bugie e delle malefatte le
proponeva l’immagine
di un mondo diverso, di una storia dove ogni possibilità
poteva essere colta e
l’avidità piratesca si mescolava alla sete di
conoscenza. Loki narrava con
l’abilità consumata di un attore su un palco, di
un poeta, e lei non riusciva a
fare a meno di guardarlo e vedere come il suo spirito avido e ingordo
fosse, in
qualche modo, colmo di una magnificenza regale.
La
sua colpa più grande, cui doveva la reclusione forzata, non
era l’aver tradito
il proprio padre né combattuto il fratello adottivo e
nemmeno il fatto di aver
accettato, per necessità o volontà, di prestare
le sue abilità a delle entità
mortifere e oscure. Quelle erano state scelte necessarie, plausibili,
se si
osservava il mondo dalla prospettiva distorta del principe degli
Æsir che era
stato ingannato.
No,
il suo vizio
capitale era racchiuso e definito
dall’incapacità di accontentarsi, dalla
tensione che lo spingeva a ottenere un risultato e a volerlo superare
un
momento dopo. Un difetto che gli aveva infettato il cuore, lasciandolo
perennemente affamato di gloria e assetato di conoscenza, rendendo la
sua
esistenza divina simile all’instancabile ricerca dei
midgardiani di cui parlava
con tono tanto beffardo – di lei. Il destino di Loki era
tentare di spegnere un
fuoco che avrebbe bruciato per sempre e che, per questo, era ancora
più
splendido.
Il
giorno, per Sophie, si trascinò uguale a tutti gli altri,
nell’attesa di
un’altra notte fatta di storie e confessioni; la
novità fu una visita
imprevista del suo medico curante, il cui sguardo pietoso non
nascondeva una
certa curiosità nei suoi confronti, ma che nulla era
rispetto alle occhiate
feroci del dio degli inganni. Le prese una mano, la strinse tra le sue,
le
sussurrò parole che nascondevano un timido, velato,
sentimento, oltre alla
preoccupazione per il suo stato di salute. Sophie abbassò le
ciglia scure, si
disse lusingata dalla bella dichiarazione d’amicizia che, per
l’altro, certo
non era tale. Se gli avesse permesso di baciarle la mano, temeva che
Loki non
sarebbe tornato per finire di raccontarle le sue storie meravigliose e
terribili, che si arrotolavano l’una con l’altra
creando un’unica, perfetta,
rete. Per novantanove volte era tornato a farle visita.
Sophie
sapeva, per averlo appreso dalla sua voce arrochita, che
l’ingannatore non
amava condividere ciò che credeva gli appartenesse e lei,
sebbene non fosse
niente, in qualche modo era sua, non in virtù di qualche
sentimento
inesistente, ma del vincolo che le parole incantate del dio avevano
creato tra
loro – e del desiderio fisico, quello sì, che la
scuoteva, dannandola. In fondo,
era dolce lasciarsi andare all’impulso di cedere, facendosi
corrodere dalla
medesima sete che bruciava Loki Laufeyson.
Rifiutò
il pretendente, certa che lui avrebbe affrontato la sua scelta
dichiarandola
pazza, ma non le importò: la sua mente era già
persa nell’attesa del tramonto
quando, nel cuore della notte, un gelo innaturale avrebbe avvolto ogni
cosa e
Loki sarebbe apparso, in quella dimensione a metà tra sogno
e realtà in cui era
rimasto incastrato.
Inoltre,
aveva una domanda da porgli. Una che non avrebbe avuto alcuna risposta,
probabilmente, ma che doveva fargli a ogni costo.
No,
nemmeno lei riusciva ad
accontentarsi di ciò che aveva.
Era
stata Sigyn, ma in un altro tempo, in un altro mondo: in quel passato,
gli era
appartenuta in maniera totale, viscerale. Poteva essere stata una
schiava, una
moglie, un’amante. Tutte queste cose e nessuna. Loki,
talvolta, aveva accennato
al legame che li aveva uniti, ma con parole vaghe: la
libertà stava sopra
l’amore e lei non era che un mezzo per un fine. Ma il punto
era che l’avidità
del dio degli inganni non poteva limitarsi solo a un trono, anche se,
forse,
proprio nel suo nome, in passato, l’aveva sacrificata.
Pensò di essere entrata
nel novero di ciò che il fiero e insaziabile principe degli
Æsir riteneva gli
appartenesse e che desiderasse tenerla per sé, in qualche
modo che la terrorizzava
e l’attraeva a un tempo.
Sì,
Loki non voleva solo convincerla a spezzare il maleficio che lo
imprigionava, rendendolo
poco più di un’ombra fugace tra i mortali, ma
bramava che lei facesse parte a
pieno titolo di quella storia magnifica e terribile, raccontata con
occhi
brillanti e voce roca dal dio di un popolo di pirati abituato a
razziare le
terre più fertili e ricche, portandosi via tutto
ciò che era prezioso o poteva
rivelarsi utile. Sophie non aveva idea a quale delle due cose lei si
avvicinasse, ma sperava che la sua utilità si sarebbe
manifestata anche dopo
che il rito fosse stato ultimato – quando lei,
cioè, avrebbe desiderato con
tutto il cuore che Loki Laufeyson in persona fosse libero. Se ne era
resa conto
nel momento in cui aveva smesso di correggerlo quando lui la chiamava Sigyn, attendendo quasi con ansia che
lui arricciasse le labbra per pronunciare quel nome antico che le si
era
dipinto nell’anima. Voleva essere
lei.
Erano
passate cento sere da quando le aveva fatto visita la prima volta.
I
racconti delle gesta e delle avventure del dio degli inganni presto
sarebbero
giunti al termine, alla loro inevitabile conclusione.
Nell’ora più buia, come
sempre, il dio del caos apparve, portando con sé il gelo dei
ghiacci eterni
presso cui era nato.
“Dimmi
di lei, stanotte. Dimmi cos’era, per te.”
Loki
le girò attorno, lo sguardo mobile e verde perso in ricordi
lontani. Si
aspettava senz’altro la domanda, ma studiò con
attenzione la risposta da darle,
inumidendosi le labbra sottili, scegliendo con cura le parole adatte.
“Una
profezia. Una che si è realizzata un tempo e che si
realizzerà ancora, che
parla della distruzione di Asgard e di come il fuoco l’abbia
ridotta in cenere.”
La
ragazza rabbrividì, perché Loki la fissava, ma
vedeva altro – qualcosa che
aveva perso, ma avrebbe ritrovato, perché questa era
l’essenza della sua natura
smaniosa, incapace di acquietarsi. “E tu credi nelle
profezie?”
L’ingannatore
parve rifletterci. “Ad alcune,” ammise infine,
sollevando il mento fiero, segno
evidente di come avesse tentato, con ogni mezzo, di piegare al suo
volere il
destino, mutare gli eventi, anche a costo di seminare il caos che lo
animava e lo
definiva. I vaticini andavano ascoltati solo se favorevoli.
Avvicinandosi
ancora a lei, Loki prese a raccontarle, per l’ultima volta,
una delle sue
storie affascinanti e oscure, perché era giunto il momento
di spezzare la
maledizione. Desiderava essere libero e tornare definitivamente nel
mondo da
cui era venuto: un cumulo di macerie, forse, ma ancora abitato dagli
Æsir che,
secondo l’oracolo, avrebbero ricostruito Asgard.
Così,
Loki iniziò a raccontare e la ragazza si sedette e lo
ascoltò, vinta, come
sempre, dal terrore di avere un dio antico al suo cospetto, conquistata
dallo
sguardo verde e aguzzo con cui l’altro la scrutava e
l’esaminava, sconvolta
dall’acume con cui lui poteva guardare nel suo cuore
scovandone desideri e
rimpianti, impulsi e rancori, speranze e idee.
Era
stata avvinta da un incantesimo, era diventata folle e il suo spirito
aveva
scoperto di essere bramoso di vita e di altre storie, come quello di
lui, ma
ora tutto stava per concludersi. L’intricato racconto del dio
delle beffe e
degli inganni dal sorriso affilato stava giungendo al termine: erano
all’ultima
scena di uno spettacolo allestito solo per lei, affinché si
convincesse della
necessità di liberarlo totalmente, interamente,
completamente, con ogni fibra
del suo essere, non in virtù di qualche fugace sentimento
troppo facile da
suscitare, ma scientemente. Sigyn o Sophie, lei stessa non ricordava
più quale
fosse il suo nome, rimase ad ascoltare le storie di vittorie e di
battaglie, di
speranze e di sotterfugi, finché l’ultima delle
fiabe del dio delle bugie non
si concluse lì, nella stanza immersa nell’ombra e
sospesa nel tempo.
“Ora
dillo, Sigyn. È il momento,” la incalzò
l’Ase. “Ti prometto che, dopo, sarai
libera. Non desidero niente più di questo,” le
promise, ma lo disse stirando le
labbra sottili in un sorriso laterale e breve, di lupo. Forse mentiva,
decise
la ragazza.
“La
soddisfazione non è nella tua natura,” gli
soffiò in risposta. “Non ti
accontenterai di lasciarmi andare, perché ormai conosco le
tue fiabe, tutte.
Era necessario che tu me le raccontassi. Qual è il prezzo
per la tua libertà?
Quello vero, intendo.”
Il
dio degli inganni assottigliò gli occhi, compiaciuto dalla
risposta arguta. “Lo
conosci, Sigyn. Lo hai sempre saputo. Gli esseri umani devono rimanere
all’oscuro di ciò che accade dall’altra
parte, in quello che alcuni chiamano, a
volte, cielo. Io non sono come te.
Toccare un Æsir, ascoltare la sua voce, è qualcosa
che è stato proibito da
leggi più antiche persino di Odino, di Bor e di Ymir stesso,”
sentenziò implacabile. Era sincero. “Ogni tanto,
gli dèi, appaiono su Midgard,
come sto facendo io, in veste di spettri, o camminando sulla terra,
come ha
fatto Odino quando ha venduto a tuo zio l’amuleto
dov’ero rinchiuso,”
le rivelò perfido. “Allora, talvolta, raccontiamo
ai poeti le nostre storie. In
cambio, chiediamo la vista, la ragione, la vita,” concluse,
stirando le labbra
sottili in un ghigno furbo, divertito. La strinse a sé e
Sophie capì che il suo
nome d’ora in avanti sarebbe stato Sigyn.
Faceva
tutto parte di un piano, dall’inizio. Batté le
palpebre, mentre fuori dalla
finestra la notte iniziava a lasciare, lentamente, il posto a
un’alba che
sarebbe stata più livida e fredda delle altre.
“Ed
è
questo ciò che vuoi da me, Loki?”
“Io
sono il dio degli inganni, Sigyn. Io non so rinunciare a nessuna
cosa,” le
soffiò sulla bocca, sulle labbra.
♦
Il
sole invadeva con i suoi raggi la stanza, ma la cameriera che
aprì con
delicatezza la porta fu avvolta ugualmente da una folata innaturalmente
fredda.
La prima cosa che fece una volta entrata, fu gridare e correre a
chiamare
qualcuno, chiunque, immediatamente.
Il
corpo di Sophie, ormai freddo e privo di vita, era riverso sul letto,
abbandonato sulle coperte soffici e candide, in una posa, allo stesso
tempo,
caotica eppure perfetta. Sembrava l’immagine rubata di un
quadro. C’era, in
lei, un disordine particolare: le ciocche bionde, totalmente libere da
qualsivoglia vincolo, formavano una cornice d’oro sulle
coltri disfatte, la
camicia da notte, parzialmente slacciata, lasciava quasi intravedere la
dolce
curva di un seno con la sua areola scura. Le labbra schiuse,
leggermente
macchiate di una sostanza rossa che non era sangue, ma che si sarebbe
scoperto
essere vino mescolato al miele, erano cristallizzate in un sorriso,
mentre gli
occhi grigi, spalancati verso la porta, parevano essersi fissati
eternamente su
qualcosa di stupefacente e bello e inebriante. Era come se il suo
cuore,
all’improvviso, avesse cessato naturalmente di battere,
privandola della vita,
strappandola a un’esistenza che avrebbe potuto essere assai
più lunga. Stonava,
ma solo all’apparenza, il pugnale antico posato sulla
coperta, che sembrava
essere stato abbandonato da colui che aveva colto la vita della
ragazza.
Eppure, oltre quel goccio di vino rimasto sulle labbra, non
c’era alcun segno
sulla pelle chiara e perfetta di lei. L’affilato pugnale
vichingo scintillava
cupo vicino alle curve morbide e delicate, suggerendo come, forse,
qualcuno o
qualcosa si fosse davvero introdotto nella camera da letto per ghermire
la
scintilla di vita che l’animava, in nome della
necessità di predare anche
l’essenza di colei che, alla fine, si era convinta a fidarsi
tanto da spezzare
l’incanto, ma se lo aveva fatto, era riuscito a non lasciare
alcuna traccia del
misfatto.
Ci
furono grida, pianti, lacrime, visite, ispezioni, imprecazioni,
preghiere.
Sigyn
osservò tutta la scena col distacco proprio degli spiriti
che hanno perso il
loro corpo mortale. Non c’era rimpianto in lei, ma una
consapevolezza si faceva
strada nella sua mente: era stata Sophie e ora era tornata a essere
Sigyn, la
dea della fedeltà: tutto sembrava avere finalmente
più senso, anche le storie
di Loki Lingua d’Argento. Così lo chiamava,
quand’erano ancora nella magnifica
Asgard.
Ma chi
era Loki? Un bugiardo, un principe, un dio avido incapace di
accontentarsi, un
guerriero astuto e feroce, un bardo dalla voce suadente, un
incantatore, un
mago, un esperto di trucchi.
“Non
ti è mai servito il mio intervento, per spezzare la
maledizione, non è vero?
Solo, non tolleravi l’idea di lasciarmi qui,”
osservò placida, ma altera. Aveva
scelto il suo destino – tornare nel mondo cui, un tempo, era
appartenuta – e
non rimpiangeva la fine della sua breve esistenza mortale,
perché anche lei,
alla fine, si era scoperta a bramare qualcosa di più.
Cos’erano
cento sere, per un Ase che viveva migliaia di anni? Un battito di
ciglia, un
soffio del cuore. Desidero che tu sia
libero di tessere altre trame, raccontare altre storie, gli
aveva mormorato
con un fremito e allora aveva capito che il rito celebrato aveva avuto
effetto
fin da subito, perché, pur fallendo, aveva creato tra i
mondi una piega
abbastanza ampia perché Loki vi si infilasse,
approfittandone.
L’Ase,
accanto a lei, rise buttando il capo all’indietro.
“La
soddisfazione non è nella mia natura, mia cara
Sigyn.”
These empty days
are filling me with
pain
After I left it
seems my life is only
rain
My heart is
longing to the better
times
When everything
was still so fine
(4000 Rainy
Nights, Stratovarious)
Fine
Note Autore:
Cari
Lettori,
Anzitutto, come
sempre, grazie per essere arrivati fino a qui: spero tanto che la
storia vi sia
piaciuta! Il prompt che me l’ha fatta sviluppare è
stato dato dal Contest “Vizi
capitali”, indetto da
Ghostmaker sul forum di Efp: quando ho letto il pacchetto Avarizia, o più precisamente
l'etimologia
latina "avaritia", anziché l'avarizia nella sua accezione
moderna;
(cupidigia, avidità, costante senso di insoddisfazione per
ciò che si ha già e
bisogno sfrenato di ottenere sempre di più) … Beh,
non ho potuto fare a
meno di pensare a Loki. In verità c’erano molti
altri peccati capitali che lo
riguardavano, ma il suo essere costantemente affamato è un
canone che risente
anche di certe scelte fatte da Branagh per il primo Thor: come forse
molti
sapranno, Hiddleston si presentò per il ruolo del dio del
tuono e venne scelto,
invece, per Loki, ma gli fu chiesto di perdere parecchio peso per dare
l’idea
di un personaggio affamato.
Tale
interpretazione è
supportata dall’iconica e da me moltissimo amata battuta che
Loki pronuncia in
The Dark World, citata in apertura della shot.
L’elemento
che ho
legato al pacchetto è quello sovrannaturale. Loki, qui,
è qualcosa a metà
strada tra il fantasma e il demone – e
cosa c’è di più sovrannaturale di un
dio vichingo che ti appare in un sogno/non
sogno? Possiede la mente di Sophie/Sigyn, perché
desidera avere anche lei –
è troppo avido per rinunciarvi e lei, alla fine, sceglie di
liberare Loki – o
almeno così crede – perché non saziarsi
delle storie che le racconta. Il legame
tra i due esiste, ma non è di tipo romantico. Piuttosto, in
questo specifico
caso, volevo esprimere un’attrazione prevalentemente fisica e
mentale, un
rapporto che è il raggiro e la possessione di uno spirito
divino nei confronti
di una mortale che racchiude una scintilla di divinità.
Nelle mie storie
propongo sempre la grande storia d’amore tra questi due
personaggi, ma avevo
bisogno di scandagliare zone più oscure del loro rapporto. E
niente, lo spiegone è
finito, tutto il resto è
nelle note.
Come
al solito, se la storia vi è piaciuta e lo desiderate,
potete inserirla nelle liste: farete felice
un’Autrice – e lo stesso vale per i
graditissimi commenti ♥.
Shilyss
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